Global - Italcementi Group

Transcript

Global - Italcementi Group
Global
4
Per un buon governo dell’impresa
Proper Corporate Governance
di Luigi Spaventa*
by Luigi Spaventa*
La Corporate Social Responsability fra trasparenza, controllo e sanzioni
Corporate Social Responsibility: transparency, checks and balances
Luigi Spaventa
Gli scandali finanziari in USA
hanno incrinato valori capitali
per il sistema economico
internazionale, soprattutto
per quello anglosassone.
Una nuova incertezza ha
alimentato la volatilità
dei mercati.
Il sistema è alla ricerca di
nuovi equilibri per imprese
socialmente responsabili.
Financial scandals in the USA
have rocked the entire
international economic system,
notably in the Anglo-Saxon world.
A new form of uncertainty
has made the markets
even more volatile.
The system is now looking for
new balances for corporate
social responsibility.
D
ieci anni di eccessi di
Borsa hanno indebolito la
qualità dei controlli del
sistema finanziario. La stagione
della “New York da bere” ha
minato l’efficacia del sistema di
check and balances della
finanza americana e ha
riproposto con evidenza
dirompente il tema della
corporate social responsability.
La luce iridescente della gran
bolla dei mercati (quando ogni
anno gli utili dovevano crescere
a due cifre e a tre cifre le
quotazioni) aveva indotto un
sonno della ragione: negli
investitori; ma anche nei
regolatori e in alcuni studiosi del
governo d’impresa. Gli occhi si
sono riaperti su una realtà di
insospettato squallore. In
America, la reazione privata è
stata una diffidenza verso tutto
e tutti; quella pubblica un
subitaneo attivismo legislativo e
regolamentare. In attesa di
abbondante letteratura che
razionalizzerà, senza averlo
previsto, quanto è avvenuto,
azzardo qualche osservazione.
Cosa è cambiato dopo
il caso Enron?
Ha rappresentato “l’11
settembre delle Borse”, eppure
parlare del “caso Enron” è
riduttivo. Né si può parlare di
poche mele marce, tanti sono i
casi di raggiro degli investitori
ad opera di chi governava le
imprese. Le variegate patologie
interessano meno delle
disfunzioni fisiologiche che le
hanno consentite.
La prima, connessa per causa
ed effetto alla bolla speculativa,
si ravvisa nella progressiva
distorsione del sistema di
incentivi nella governance di
società a proprietà diffusa. Un
legittimo obiettivo di crescita
dell’impresa è spesso
degenerato in ambizione
sfrenata di imperialismo
manageriale. A questa è
funzionale un aumento
ininterrotto delle quotazioni,
che tacita domande
imbarazzanti, fa rivalutare le
stock options, agevola e fa
apparire più profittevole
l’allargamento dell’impero
(acquisition accounting): per
alimentarlo, e impedire che
risultati deludenti interferissero
con i progetti manageriali, si
ricorreva a trucchi di finanza e
di contabilità creativa. I presidi
interni non hanno funzionato:
gli interessi degli amministratori
indipendenti e dei revisori si
sono allineati con quelli del
manager, da cui dipendeva la
conferma dei primi e
l’assegnazione di lucrose
consulenze ai secondi. Le
banche sono divenute complici:
non più occhiute erogatrici di
credito, lucravano commissioni
per offrire i servizi di architettura
finanziaria per nascondere la
realtà industriale. Gli analisti
erano funzionari delle banche.
Si sono palesate lacune nel
sistema di regolazione. Le
regole contabili e di
trasparenza, per elenchi e non
per principi, non hanno tenuto
il passo con l’innovazione
finanziaria (trasferimenti fuori
bilancio, transazioni fuori
mercato, finanza strutturata):
non possono coprire tutti i
possibili casi; lasciano
scappatoie, facendo prevalere la
forma sulla sostanza. La stessa
categoria dei revisori vigilava
sulla revisione contabile: cane
non mangia cane. Mancava
una disciplina per gli analisti. I
noti ed eccellenti rimedi legali
(anti-director rights) non
bastano: garantiscono
l’espressione di voce in
assemblea, comunque rara, e il
ricorso giudiziale, che è rimedio
successivo e residuale.
La realtà europea
Il fatto che finora l’Europa sia
stata (quasi) immune da
scandali paragonabili a quelli
americani non può essere
motivo di eccessivo
compiacimento. L’Inghilterra, in
cui anche prevale la proprietà
diffusa, è rimasta relativamente
immune dalla sindrome Enron:
prova indiretta delle lacune
regolamentari americane. E così
pure (sinora) l’Europa
continentale, ove la proprietà è
concentrata. Perché? Certo, le
imprese sono più piccole,
operano in uno spazio più
angusto, sono meno
finanziarizzate. Ma conta
anche, e non poco, la struttura
proprietaria.
L’azionista di minoranza è
sempre esposto a un rischio di
taglieggiamento. Un socio
maggioritario ha modo di
espropriare la società: e su
questo la letteratura ha detto
circa tutto. Oggi riscopriamo i
rischi (difficilmente misurabili e
perciò trascurati) della proprietà
diffusa con manager
onnipotente: non tanto le
banalità degli aerei privati e dei
club di golf, quanto la possibile
subordinazione degli interessi
della società ai disegni di potere
del manager. Tali rischi, nella
dimensione che abbiamo
constatato, sono minori quando
vi sono azionisti di controllo;
così come l’estrazione di
benefici privati è meno
probabile se la proprietà è
diffusa.Una terza spiegazione
può rinvenirsi nella
regolamentazione. È vero, i
rimedi legali tradizionali, di cui
sempre si parla, sono superiori
in America. Ma in altri campi
l’Europa si è forse trovata un
passo avanti: i principi contabili
sono più generali, e perciò più
generalmente applicabili; le
regole di consolidamento
dettate dalla direttiva europea
sono più rigide; in molti Paesi i
regolatori esercitano un
controllo sui revisori; l’obbligo di
informazione continua è
formulato come principio
generale, e non per casi.
Presidi più forti di governo
societario e di controllo
Quanto è recentemente
successo, o più precisamente
quanto è venuto alla luce, tocca
direttamente o indirettamente i
temi della corporate
governance e della corporate
social responsability. Su questo
fronte, Stati Uniti ed Europa
hanno sinora fornito risposte
differenti.
Per restaurare la compromessa
reputazione, il legislatore
americano è intervenuto
prontamente e pesantemente
(legge Oxley-Sarbanes), e con
esso la SEC (dopo qualche
esitazione) e le borse. Si può
ironizzare (come ha fatto di
recente The Economist) sui
giuramenti chiesti ai manager,
ma non si può dubitare della
rilevanza (e della pervasività)
delle nuove prescrizioni:
aumento delle responsabilità e
limiti ai privilegi degli
amministratori; un pesante
regime sanzionatorio; aumento
degli obblighi informativi
continui e periodici; obbligo di
informazione immediata delle
transazioni degli insider; per i
revisori controllo pubblico, limiti
all’attività di consulenza e
rotazione obbligatoria; riesame
delle regole contabili; disciplina
degli analisti. La scommessa è
stata quella di usare la
deterrenza per raddrizzare gli
incentivi. Non si manifesta in
Europa un pari attivismo. È
mancata la spinta di una crisi;
persiste una frammentazione di
regole, che la Commissione non
riesce a superare; i problemi
sono in parte diversi.
In Italia, dopo il Testo unico, gli
obblighi di informazione
continua sono soddisfacenti e
sono stati da poco inaspriti per
le operazioni in conflitto di
interessi; il regolatore ha poteri
di controllo sui sindaci e sui
revisori e potere di
impugnazione dei bilanci; nei
ristretti limiti delle facoltà
regolamentari, la Consob è
intervenuta sugli analisti e
sull’attività di consulenza delle
società di revisione. Il
regolamento europeo imporrà
l’adozione degli International
Accounting Standards entro il
2005. Ma si potrebbe fare
ancora molto.
Esemplifico. Il regime
sanzionatorio, blando e
insufficiente, ha scarso potere di
deterrenza: non v’è bisogno di
contemplare un decennio di
galera per rinforzarlo. La
disciplina sulle transazioni in
conflitto d’interesse andrebbe
migliorata in sede legislativa: lo
esige una situazione di forte
concentrazione di proprietà e
massima presenza di gruppi
piramidali. Occorre disciplina
legislativa per una pronta
informazione sulle transazioni
degli insider in titoli della
società: le regole recentemente
introdotte dalla Borsa sono un
passo avanti, ma modesto. Nel
Testo unico l’analista non ha
cittadinanza. Dovrebbero essere
studiate misure, soprattutto
dalla Borsa, per ridurre la
separazione fra proprietà e
controllo.
Il legislatore ha almeno tre
occasioni per intervenire: le
conclusioni dell’indagine
conoscitiva della VI
Commissione della Camera
sull’attuazione del Testo unico
della finanza; il recepimento
della prossima direttiva
comunitaria sugli abusi di
mercato; in misura forse minore
la legge delegata di riforma del
diritto societario.
Sarebbe un gran peccato se il
“caso Enron” fosse solo motivo
di compiacimento dei mali altrui
e non si approfittasse di questo
momento, politicamente
propizio, per introdurre presidi
più forti di governo societario e
di trasparenza: anche per non
restare indietro (questa volta sì)
al nuovo regime di regole
americano. Questo è il
momento giusto per fare
appello a quanti sono convinti
che un buon governo
dell’impresa sia un bene
pubblico che porta benefici ai
mercati, alle società, agli
investitori e quindi allo sviluppo
economico.
* Luigi Spaventa è presidente della
Commissione Nazionale per le Società e la
Borsa (CONSOB) dal luglio 1998. È
professore di economia alla facoltà di
Scienze Statistiche presso l’Università La
Sapienza di Roma, Membro (research
fellow) del Centre for Economic Policy
Research di Londra, membro della
Commission Economique de la Nation di
Parigi e membro del Comité des Sages
nominato dal Consiglio Europeo ECOFIN
per la regolazione dei mercati finanziari in
Europa. È, infine, Cavaliere di Gran Croce
dell’Ordine al merito della Repubblica
Italiana.
■ ■ ■ ■ ■ ■
T
en years of booming stock
markets have resulted in
lower standards of control
for the financial system. The
decade of the “Swinging Big
Apple” has undermined the
effectiveness of the system of
checks and balances governing
American finance and brought
the question of corporate social
responsibility dramatically to the
fore. The bright light of the
great market bubble (when
profits had to have double-digit
growth while stock prices were
expected to increase threefold
every year) put reason to sleep
for investors and regulators, as
well as many experts in
corporate management.
Everyone awoke to a startlingly
squalid state of affairs. The
reaction in the private sector in
America has been suspicious of
everyone and everything, while
the public sector has produced
an unexpected surge of
legislation and regulation.
While we wait for all the
literature that will inevitably try
to explain what it failed to
predict, I would like to take this
opportunity to make a few
comments.
What has changed in the
wake of the Enron affair?
Even though it may have been
“the stock market’s September
11,” to speak of an “Enron
affair” is to oversimplify. The
blame cannot be borne by the
odd rotten apple, either. There
are lots of cases of investors
being swindled by business
managers. The various
pathologies are far less
interesting than the
physiological dysfunctions that
caused them.
The first dysfunction brought
about by the speculative bubble
was the gradual distortion of
the system of management
incentives for publicly traded
companies.
A legitimate objective for
business growth often
degenerates into the unbridled
corporate imperialism, which is
directly related to a constant
increase in stock prices to
silence any embarrassing
questions, raise the value of
stock options, and make the
extension of the empire seem
to be the most profitable
strategy (so-called acquisition
accounting). Financial
5
6
engineering and creative
accounting were used to feed
this process and prevent
disappointing results from
interfering with managerial
projects. Internal commissions
did not work since both
independent administrators and
auditors shared the same
interests as the managers, who
confirmed the appointment of
the former and attributed
lucrative consulting contracts to
the latter. The banks became
accomplices: from beady-eyed
credit allocators, they became
partners in setting up
commissions to provide
financial engineering services to
hide the real state of industrial
affairs. After all, the analysts
were on the banks’ payroll.
Holes began to appear in the
regulatory system. Accounting
and transparency rules, based
on the letter and not the spirit
of the law, failed to keep up
with financial innovation (offbalance sheet transfers, offbooks deals, structured
finance). A list of accounting
“do’s and don’ts” cannot cover
every possible scenario and the
loopholes gave form
precedence over substance. It
was the auditors themselves
who kept an eye on the
accounts: dog does not eat
dog. There were no regulations
for analysts. The familiar and
extremely valid legal remedies
(anti-director rights) were not
enough: they guarantee a (rare)
voice at general assemblies and
provide for legal action after
the fact, which treats the effect
and not the cause.
The Situation in Europe
The fact that Europe has so far
been (almost) immune to the
kinds of scandals that have hit
the United States is no reason
for excessive rejoicing. The
United Kingdom, where
ownership is as fragmented as
in the US, has been relatively
immune from the Enron
syndrome, which is indirect
evidence of certain holes in
American regulations. And the
same applies (so far) to
continental Europe, where
ownership is more
concentrated. Why? Of course,
companies are smaller, operate
in tighter conditions and are
less underwritten. But the
ownership structure also plays a
major part.
The minority shareholder is
always exposed to the risk of
being taken advantage of. A
majority partner can expropriate
the firm – and just about
everything has already been
said on this subject. We are
now rediscovering the risks
(which are hard to gauge and
therefore often overlooked) of
fragmented, minority
ownership in the face of allpowerful managers. And it’s
not just the private jets and golf
clubs which are at issue, but the
risk of subordinating the firm’s
interests to the manager’s
power-hungry objectives. These
risks seem to be smaller when
there are controlling
shareholders; similarly, private
gain is less likely when minority
ownership is widespread. A
third explanation lies in the
nature of regulations. Although
there are more conventional
legal remedies in America, in
other fields Europe is perhaps a
step ahead: the auditing
principles are more general, and
therefore more widely
applicable; the rules of
consolidation as dictated by the
European directives are more
strict; in many countries
regulators still control auditors;
finally, the obligation of making
information accessible to the
public is stated as a general
principle, and not in a case by
case inventory list.
Tighter corporate
governance and control
measures
What has recently happened or,
to be more precise, come to
light, directly and indirectly
touches on the issues of
corporate governance and
corporate social responsibility.
The United States and Europe
have so far come up with
different solutions to these
problems.
To restore its reputation,
American legislators acted
promptly and in a heavyhanded way (Oxley-Sarbanes
Act), as did the SEC (after some
hesitation) and the various
stock exchanges. It may be easy
to make light of the oaths
asked of managers (as The
Economist did in a recent issue),
but there can be no doubting
the relevance (and widespread
applicability) of the new rules
and regulations: an increase in
the responsibilities and a
reduction of the privileges of
administrators; a tough system
of sanctions; increased
responsibility in providing
information to the public on a
regular basis and the obligation
to provide instant information
concerning insider trading; a
review of auditing rules; and
careful control over analysts.
Deterrence was chosen as the
means of counterbalancing
incentives.
Europe was not so quick to
take action. There has been no
real crisis to speed matters up.
Rules still differ from country to
country and the European
Commission does not seem to
be able to overcome these
differences. Furthermore, the
issues are not quite the same.
In Italy, since the Consolidation
Act legislation was passed,
obligations for disclosure have
recently been strengthened and
are satisfactory in cases of
conflicts of interest; regulators
have authority over both boards
of directors and auditors, as
well as power of opposition on
a company’s accounts; within
the limits of the regulatory
body, the Consob has already
taken action with respect to
analysts and the activity of
auditing companies. Finally,
European regulations require
the adoption of International
Accounting Standards by 2005.
Of course, we could do much
more.
For example, the rather bland
and inadequate system of
sanctions hardly serves as a
deterrent; yet they do not
require ten years in prison to
make them tougher. The rules
governing conflicts of interest
need to be improved from a
legislative point of view, given
the considerable concentration
of ownership and excessive
presence of pyramid-style
groups. It takes strict legislation
to ensure prompt disclosure of
information about insider
trading: the rules and
regulations recently adopted by
the Italian Stock Exchange are a
small step in the right direction.
The Consolidation Act does not
take analysts into account. The
Italian Stock Exchange in
particular ought to study ways
of reducing the separation
between ownership and
control.
The legislator has at least three
opportunities to take action:
the conclusions of the inquiry of
the 6th House Commission for
implementing the Consolidation
Act on public finance; the
introduction of a forthcoming
EC directive on market abuse;
and, perhaps to a lesser extent,
legislation for reforming
corporate law.
It would be a real pity if the
“Enron affair” were nothing
more than an opportunity to
gloat over other people’s ills,
without seizing such a timely
political opportunity to
introduce stricter control over
corporate governance and
transparency: if only not to fall
behind (for in this case we
undoubtedly would) the new
system of American rules and
regulations. This is the right
time to appeal to all those who
believe that proper corporate
governance is a public asset
benefiting markets, firms,
investors and hence economic
growth.
* Luigi Spaventa has been Chairman of
the National Commission for Businesses
and the Stock Exchange (CONSOB) since
July 1998. He is Professor of Economics in
the Department of Statistical Sciences at
“La Sapienza” University in Rome,
Research Fellow at the Centre for
Economic Policy Research in London,
Member of the Economic Commission of
“La Nation” in Paris and Member of the
“Comité des Sages” appointed by the
ECOFIN European Council for controlling
European financial markets. Finally, he
has been awarded the order of merit
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al
merito by the Italian Republic.
Lezioni da un anno di scandali
Lessons From a Year of Scandals
di W. Michael Hoffman e Dawn-Marie Driscoll*
by W. Michael Hoffman and Dawn-Marie Driscoll*
Non confondere la Responsabilità Sociale di una Società con la Conduzione Etica di una Società
Don’t Confuse Corporate Social Responsibility and Ethical Corporate Governance
W. Michael Hoffman
Dawn-Marie Driscoll
Q
professionisti mascherati da
contabili. Le multe risultanti
dagli scandali contabili erano
prevedibili: Sunbeam (110
milioni di dollari), Waste
Management (75 milioni di
dollari), Boston Market (10
milioni di dollari), Baptist
Foundation of Arizona (217
milioni di dollari). Presso la
Enron, la Andersen aveva più
di 150 suoi impiegati,
confondendo così il confine tra
cliente e controllore poiché
essi partecipavano alle riunioni
della Enron e contribuivano
nella formazione di nuovi
affari. Aggiungiamo altri tre
clienti della Andersen: la
WorldCom ha gonfiato il
proprio fatturato di quasi 10
milioni di dollari; la Qwest
Communications e la Global
Crossing hanno venduto la
propria capacità nel campo
delle fibre ottiche in modo da
registrare vendite che in realtà
non erano mai avvenute – e
anche in questo caso i dirigenti
hanno incassato liquidi
esattamente negli stessi anni
che sono ora sotto controllo.
La Tyco ha perso 87 miliardi di
dollari in valore di mercato – e
ha fatto di espressioni come
“condono dei prestiti” e
“tende per la doccia da 6000
dollari” frasi di uso familiari. Il
suo ex amministratore
uesto è stato un anno
cruciale per il mondo
degli affari americano. Il
presidente della Morgan
Stanley, Philip Purcell, ha
dichiarato “non si ricorda un
periodo in cui il mondo degli
affari abbia avuto una
reputazione più bassa”. Altri
sono stati ancora più duri,
domandandosi se gli stessi
capitalisti non avessero ucciso
il capitalismo.
Questo anno di vergogna è
iniziato col crollo della Enron,
stigmatizzato dalla stampa
come “maremoto”,
“fulmine”, “balena arenata”.
Questo scandalo è diventato la
prima tessera di un effetto
domino che ha investito tutto
il mercato. La Enron ha perso
65 miliardi di dollari in valore
di mercato in nove mesi,
trasformandosi da società per
l’energia che produceva e
vendeva beni in una che
creava intricate truffe
finanziarie in modo che i
funzionari e i dirigenti
potessero incassare le proprie
azioni di Borsa.
Poi c’è la Arthur Andersen,
l’azienda contabile globale
recentemente scomparsa, che
ha dimenticato le proprie
origini di industria contabile ed
è scivolata in una cultura
contrassegnata da venditori
delegato, Dennis Kozlowski,
veniva pagato oltre 300 milioni
di dollari ma ha cercato di
evadere un milione di dollari di
tasse su dei quadri che aveva
comprato. Questa azione non
etica ha avviato la caduta della
Tyco. Più avanti è stato rivelato
che anche un direttore esterno
della Tyco aveva ricevuto un
bonus da 20 milioni di dollari
senza però dirlo ai suoi
colleghi membri del Consiglio
di amministrazione.
Alla Adelphia
Communications, la società
fungeva da banca per i suoi
fondatori, la famiglia Rigas,
anticipando oltre 3 miliardi di
dollari in prestiti e garanzie,
senza apparentemente
pensare che fosse importante
dirlo a qualcuno. Come non
bastasse, la società ha
acquistato 12 milioni di dollari
di beni da una società di cui
era proprietaria, e automobili
dalla propria rete vendita. Ha
acquistato un appartamento a
Manhattan per la figlia dei
Rigas, ha finanziato le sue
avventure come produttrice
cinematografica e pagato suo
marito oltre un milione di
dollari all’anno.
Che annata! Ci sono stati
giornalisti finanziari che
facevano gli investigatori,
gruppi di consumatori che
facevano i regolatori
governativi, i regolatori
governativi che facevano i
lobbisti, i membri del
Congresso che, come il
Capitano Renault in
Casablanca, si dichiaravano
“scioccati, scioccati” del fatto
che gli scandali finanziari
potessero essere il risultato di
scappatoie legislative accettate
alcuni anni prima. Per la
maggioranza della gente, la
storia è che troppi di quelli al
potere stanno mentendo,
rubando e imbrogliando a
spese di tutti noi, che
soffriamo le conseguenze nei
nostri portafogli e nei nostri
piani pensionistici.
Sull’onda di tutti questi
scandali nel mondo degli
affari, espressioni come
“responsabilità societaria”,
“governo societario” e “etica”
sono state sparse a piene mani
come vuote scialuppe di
salvataggio in un mare in
tempesta. Investitori e
regolatori oltraggiati hanno
reagito agli eccessivi compensi
delle dirigenze e alle
ingannevoli rivelazioni
finanziarie con la richiesta di
una riforma del mercato. Il
Presidente Bush è andato a
Wall Street per appellarsi a una
maggiore “responsabilità
societaria”. Il Congresso ha
risposto approvando il
Sarbanes-Oxley Act e molte
altre normative sono in attesa.
I sindacati, i fondi pensione, gli
investitori istituzionali e la
stampa finanziaria hanno
promesso maggiore attenzione
verso gli archivi, la condotta e
le decisioni delle società. Ma
pensiamo che ci dovrebbe
essere una pausa in questo
coro che chiede riforme per
vedere se stiamo tutti
cantando la stessa canzone.
Perché se gli individui
interessati all’integrità del
mercato stanno solo versando
parole a vanvera, non ci sarà
alcun cambiamento reale nel
comportamento delle società.
Una delle lezioni più
importanti di questo anno di
scandali è che le parole
“responsabilità sociale delle
società d’affari” non sono la
stessa cosa di “governo etico
delle società d’affari”.
Il governo etico si riferisce al
sistema di sorveglianza e
gestione delle istituzioni di
affari, compresi i loro Consigli
di amministrazione e dirigenti
senior. Il Consiglio deve avere i
più alti standard etici e anche
comprendere il proprio ruolo
nella sorveglianza dell’etica
dell’organizzazione, dei suoi
dirigenti e dei suoi programmi
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engineering and creative
accounting were used to feed
this process and prevent
disappointing results from
interfering with managerial
projects. Internal commissions
did not work since both
independent administrators and
auditors shared the same
interests as the managers, who
confirmed the appointment of
the former and attributed
lucrative consulting contracts to
the latter. The banks became
accomplices: from beady-eyed
credit allocators, they became
partners in setting up
commissions to provide
financial engineering services to
hide the real state of industrial
affairs. After all, the analysts
were on the banks’ payroll.
Holes began to appear in the
regulatory system. Accounting
and transparency rules, based
on the letter and not the spirit
of the law, failed to keep up
with financial innovation (offbalance sheet transfers, offbooks deals, structured
finance). A list of accounting
“do’s and don’ts” cannot cover
every possible scenario and the
loopholes gave form
precedence over substance. It
was the auditors themselves
who kept an eye on the
accounts: dog does not eat
dog. There were no regulations
for analysts. The familiar and
extremely valid legal remedies
(anti-director rights) were not
enough: they guarantee a (rare)
voice at general assemblies and
provide for legal action after
the fact, which treats the effect
and not the cause.
The Situation in Europe
The fact that Europe has so far
been (almost) immune to the
kinds of scandals that have hit
the United States is no reason
for excessive rejoicing. The
United Kingdom, where
ownership is as fragmented as
in the US, has been relatively
immune from the Enron
syndrome, which is indirect
evidence of certain holes in
American regulations. And the
same applies (so far) to
continental Europe, where
ownership is more
concentrated. Why? Of course,
companies are smaller, operate
in tighter conditions and are
less underwritten. But the
ownership structure also plays a
major part.
The minority shareholder is
always exposed to the risk of
being taken advantage of. A
majority partner can expropriate
the firm – and just about
everything has already been
said on this subject. We are
now rediscovering the risks
(which are hard to gauge and
therefore often overlooked) of
fragmented, minority
ownership in the face of allpowerful managers. And it’s
not just the private jets and golf
clubs which are at issue, but the
risk of subordinating the firm’s
interests to the manager’s
power-hungry objectives. These
risks seem to be smaller when
there are controlling
shareholders; similarly, private
gain is less likely when minority
ownership is widespread. A
third explanation lies in the
nature of regulations. Although
there are more conventional
legal remedies in America, in
other fields Europe is perhaps a
step ahead: the auditing
principles are more general, and
therefore more widely
applicable; the rules of
consolidation as dictated by the
European directives are more
strict; in many countries
regulators still control auditors;
finally, the obligation of making
information accessible to the
public is stated as a general
principle, and not in a case by
case inventory list.
Tighter corporate
governance and control
measures
What has recently happened or,
to be more precise, come to
light, directly and indirectly
touches on the issues of
corporate governance and
corporate social responsibility.
The United States and Europe
have so far come up with
different solutions to these
problems.
To restore its reputation,
American legislators acted
promptly and in a heavyhanded way (Oxley-Sarbanes
Act), as did the SEC (after some
hesitation) and the various
stock exchanges. It may be easy
to make light of the oaths
asked of managers (as The
Economist did in a recent issue),
but there can be no doubting
the relevance (and widespread
applicability) of the new rules
and regulations: an increase in
the responsibilities and a
reduction of the privileges of
administrators; a tough system
of sanctions; increased
responsibility in providing
information to the public on a
regular basis and the obligation
to provide instant information
concerning insider trading; a
review of auditing rules; and
careful control over analysts.
Deterrence was chosen as the
means of counterbalancing
incentives.
Europe was not so quick to
take action. There has been no
real crisis to speed matters up.
Rules still differ from country to
country and the European
Commission does not seem to
be able to overcome these
differences. Furthermore, the
issues are not quite the same.
In Italy, since the Consolidation
Act legislation was passed,
obligations for disclosure have
recently been strengthened and
are satisfactory in cases of
conflicts of interest; regulators
have authority over both boards
of directors and auditors, as
well as power of opposition on
a company’s accounts; within
the limits of the regulatory
body, the Consob has already
taken action with respect to
analysts and the activity of
auditing companies. Finally,
European regulations require
the adoption of International
Accounting Standards by 2005.
Of course, we could do much
more.
For example, the rather bland
and inadequate system of
sanctions hardly serves as a
deterrent; yet they do not
require ten years in prison to
make them tougher. The rules
governing conflicts of interest
need to be improved from a
legislative point of view, given
the considerable concentration
of ownership and excessive
presence of pyramid-style
groups. It takes strict legislation
to ensure prompt disclosure of
information about insider
trading: the rules and
regulations recently adopted by
the Italian Stock Exchange are a
small step in the right direction.
The Consolidation Act does not
take analysts into account. The
Italian Stock Exchange in
particular ought to study ways
of reducing the separation
between ownership and
control.
The legislator has at least three
opportunities to take action:
the conclusions of the inquiry of
the 6th House Commission for
implementing the Consolidation
Act on public finance; the
introduction of a forthcoming
EC directive on market abuse;
and, perhaps to a lesser extent,
legislation for reforming
corporate law.
It would be a real pity if the
“Enron affair” were nothing
more than an opportunity to
gloat over other people’s ills,
without seizing such a timely
political opportunity to
introduce stricter control over
corporate governance and
transparency: if only not to fall
behind (for in this case we
undoubtedly would) the new
system of American rules and
regulations. This is the right
time to appeal to all those who
believe that proper corporate
governance is a public asset
benefiting markets, firms,
investors and hence economic
growth.
* Luigi Spaventa has been Chairman of
the National Commission for Businesses
and the Stock Exchange (CONSOB) since
July 1998. He is Professor of Economics in
the Department of Statistical Sciences at
“La Sapienza” University in Rome,
Research Fellow at the Centre for
Economic Policy Research in London,
Member of the Economic Commission of
“La Nation” in Paris and Member of the
“Comité des Sages” appointed by the
ECOFIN European Council for controlling
European financial markets. Finally, he
has been awarded the order of merit
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al
merito by the Italian Republic.
Lezioni da un anno di scandali
Lessons From a Year of Scandals
di W. Michael Hoffman e Dawn-Marie Driscoll*
by W. Michael Hoffman and Dawn-Marie Driscoll*
Non confondere la Responsabilità Sociale di una Società con la Conduzione Etica di una Società
Don’t Confuse Corporate Social Responsibility and Ethical Corporate Governance
W. Michael Hoffman
Dawn-Marie Driscoll
Q
professionisti mascherati da
contabili. Le multe risultanti
dagli scandali contabili erano
prevedibili: Sunbeam (110
milioni di dollari), Waste
Management (75 milioni di
dollari), Boston Market (10
milioni di dollari), Baptist
Foundation of Arizona (217
milioni di dollari). Presso la
Enron, la Andersen aveva più
di 150 suoi impiegati,
confondendo così il confine tra
cliente e controllore poiché
essi partecipavano alle riunioni
della Enron e contribuivano
nella formazione di nuovi
affari. Aggiungiamo altri tre
clienti della Andersen: la
WorldCom ha gonfiato il
proprio fatturato di quasi 10
milioni di dollari; la Qwest
Communications e la Global
Crossing hanno venduto la
propria capacità nel campo
delle fibre ottiche in modo da
registrare vendite che in realtà
non erano mai avvenute – e
anche in questo caso i dirigenti
hanno incassato liquidi
esattamente negli stessi anni
che sono ora sotto controllo.
La Tyco ha perso 87 miliardi di
dollari in valore di mercato – e
ha fatto di espressioni come
“condono dei prestiti” e
“tende per la doccia da 6000
dollari” frasi di uso familiari. Il
suo ex amministratore
uesto è stato un anno
cruciale per il mondo
degli affari americano. Il
presidente della Morgan
Stanley, Philip Purcell, ha
dichiarato “non si ricorda un
periodo in cui il mondo degli
affari abbia avuto una
reputazione più bassa”. Altri
sono stati ancora più duri,
domandandosi se gli stessi
capitalisti non avessero ucciso
il capitalismo.
Questo anno di vergogna è
iniziato col crollo della Enron,
stigmatizzato dalla stampa
come “maremoto”,
“fulmine”, “balena arenata”.
Questo scandalo è diventato la
prima tessera di un effetto
domino che ha investito tutto
il mercato. La Enron ha perso
65 miliardi di dollari in valore
di mercato in nove mesi,
trasformandosi da società per
l’energia che produceva e
vendeva beni in una che
creava intricate truffe
finanziarie in modo che i
funzionari e i dirigenti
potessero incassare le proprie
azioni di Borsa.
Poi c’è la Arthur Andersen,
l’azienda contabile globale
recentemente scomparsa, che
ha dimenticato le proprie
origini di industria contabile ed
è scivolata in una cultura
contrassegnata da venditori
delegato, Dennis Kozlowski,
veniva pagato oltre 300 milioni
di dollari ma ha cercato di
evadere un milione di dollari di
tasse su dei quadri che aveva
comprato. Questa azione non
etica ha avviato la caduta della
Tyco. Più avanti è stato rivelato
che anche un direttore esterno
della Tyco aveva ricevuto un
bonus da 20 milioni di dollari
senza però dirlo ai suoi
colleghi membri del Consiglio
di amministrazione.
Alla Adelphia
Communications, la società
fungeva da banca per i suoi
fondatori, la famiglia Rigas,
anticipando oltre 3 miliardi di
dollari in prestiti e garanzie,
senza apparentemente
pensare che fosse importante
dirlo a qualcuno. Come non
bastasse, la società ha
acquistato 12 milioni di dollari
di beni da una società di cui
era proprietaria, e automobili
dalla propria rete vendita. Ha
acquistato un appartamento a
Manhattan per la figlia dei
Rigas, ha finanziato le sue
avventure come produttrice
cinematografica e pagato suo
marito oltre un milione di
dollari all’anno.
Che annata! Ci sono stati
giornalisti finanziari che
facevano gli investigatori,
gruppi di consumatori che
facevano i regolatori
governativi, i regolatori
governativi che facevano i
lobbisti, i membri del
Congresso che, come il
Capitano Renault in
Casablanca, si dichiaravano
“scioccati, scioccati” del fatto
che gli scandali finanziari
potessero essere il risultato di
scappatoie legislative accettate
alcuni anni prima. Per la
maggioranza della gente, la
storia è che troppi di quelli al
potere stanno mentendo,
rubando e imbrogliando a
spese di tutti noi, che
soffriamo le conseguenze nei
nostri portafogli e nei nostri
piani pensionistici.
Sull’onda di tutti questi
scandali nel mondo degli
affari, espressioni come
“responsabilità societaria”,
“governo societario” e “etica”
sono state sparse a piene mani
come vuote scialuppe di
salvataggio in un mare in
tempesta. Investitori e
regolatori oltraggiati hanno
reagito agli eccessivi compensi
delle dirigenze e alle
ingannevoli rivelazioni
finanziarie con la richiesta di
una riforma del mercato. Il
Presidente Bush è andato a
Wall Street per appellarsi a una
maggiore “responsabilità
societaria”. Il Congresso ha
risposto approvando il
Sarbanes-Oxley Act e molte
altre normative sono in attesa.
I sindacati, i fondi pensione, gli
investitori istituzionali e la
stampa finanziaria hanno
promesso maggiore attenzione
verso gli archivi, la condotta e
le decisioni delle società. Ma
pensiamo che ci dovrebbe
essere una pausa in questo
coro che chiede riforme per
vedere se stiamo tutti
cantando la stessa canzone.
Perché se gli individui
interessati all’integrità del
mercato stanno solo versando
parole a vanvera, non ci sarà
alcun cambiamento reale nel
comportamento delle società.
Una delle lezioni più
importanti di questo anno di
scandali è che le parole
“responsabilità sociale delle
società d’affari” non sono la
stessa cosa di “governo etico
delle società d’affari”.
Il governo etico si riferisce al
sistema di sorveglianza e
gestione delle istituzioni di
affari, compresi i loro Consigli
di amministrazione e dirigenti
senior. Il Consiglio deve avere i
più alti standard etici e anche
comprendere il proprio ruolo
nella sorveglianza dell’etica
dell’organizzazione, dei suoi
dirigenti e dei suoi programmi
7
8
di affari etici, cercando di
prevenire danni ed evitare
rischi all’interno della società. Il
governo della società è
imperniato sull’organizzazione
interna, e dedicato alla
supervisione e alla gestione
delle relazioni e
all’incoraggiamento delle
decisioni in armonia coi valori
dell’azienda. Efficaci
programmi d’affari etici
comprendono iniziative quali
training di etica, consigli o
comitati aziendali etici, risorse
per aiuti e per brevetti – in
altre parole, strutture e
strategie per sviluppare una
cultura etica interna che guidi
a pratiche etiche. Troppi
direttori, tuttavia, si
autocompiacciono per le
attività della propria azienda
che dimostrano “responsabilità
sociale” e ne concludono
quindi che l’azienda è etica.
Purtroppo, come gli investitori
hanno imparato, attività come
il sostegno a opere di
beneficenza, la protezione
dell’ambiente, l’interesse per i
diritti umani,
l’incoraggiamento del
volontariato non hanno nulla a
che fare con lo sviluppo di una
cultura in cui la gente farà
scelte etiche e metterà in
discussione le malefatte.
Sebbene gli sforzi delle
aziende, sia per l’etica degli
affari, sia per la responsabilità
aziendale siano importanti,
queste non dovrebbero essere
confuse. Come hanno fin
troppo chiaramente
dimostrato la Enron e altre
società, un’azienda può
portare avanti iniziative di
responsabilità sociale e allo
stesso tempo avere un
governo societario non etico.
Ci sono altre lezioni apprese
da questo anno di scandali.
Non confondere l’etica con la
conformità. Alcune aziende
dichiarano di avere programmi
di conformità e che
rispondono a tutti i requisiti
legali. La Arthur Andersen
disse alla Enron che il suo
programma di conformità era
sufficiente; dopo tutto, gli
impiegati firmavano ogni anno
di aver ricevuto il codice di
condotta d’affari della Enron.
Sebbene importanti, i
programmi di conformità da
soli non sono sufficienti. Il solo
conformarsi alle leggi e alle
regole è uno standard della
contabilità aziendale esistito
per decenni. La conformità
informa gli impiegati sulle
leggi e sulle politiche aziendali
e cerca di prevenire le
violazioni. Molte aziende si
sono concentrate
eccessivamente sulle regole,
promovendo una mentalità da
“controllo il mio orticello” e
conseguentemente una
reazione da “ti ho beccato”.
Troppo spesso i risultati si
scostano dal vero obiettivo
della conformità, scoraggiando
le persone dal porre domande
o dare suggerimenti. Uno dei
documenti favoriti nella storia
della Enron è una lettera
dell’Amministratore Delegato
Kenneth Lay inviata il 13
novembre 2001 ai fornitori
della società: “La Enron crede
in una condotta degli affari in
armonia con i più elevati
standard etici”. Inoltre, agli
impiegati è richiesto di
comportarsi in maniera “che
essi non apportino altri
guadagni se non come diretta
conseguenza del loro impiego
alla Enron. Inoltre, la Politica
Etica degli Affari della Enron
stabilisce che gli impiegati non
debbano dare o ricevere regali
o servizi per posizioni, premi o
privilegi particolari”. Forse
Kenneth Lay poteva dormire
sonni tranquilli avendo inviato
tale lettera: a nessun
impiegato Enron sarebbe stato
fatto un regalo di Natale. Ma
la lettera non ha prevenuto
tutti gli altri scandali avvenuti
alla Enron, soprattutto quelli
congegnati dai massimi
dirigenti.
La conformità non aiuta gli
impiegati a risolvere situazioni
che non sono contemplate dal
regolamento del tipo “Dovrei
aiutare a costruire questa finta
sala in cui si praticano
negoziazioni di borsa e sedere
al mio computer, apparendo
indaffarato, in modo da
ingannare gli analisti?” Quanti
alla Enron hanno fatto questo,
e quale politica lo proibiva?
Solo perché una certa azione
non è menzionata nel
regolamento non significa che
sia giusta o che sia conforme
ai valori aziendali. È per questo
che le aziende hanno bisogno
del programma di conformità
come minimo, ma devono poi
dotarsi di una più ampia
cultura basata su valori etici in
modo che gli impiegati che si
trovino di fronte a un
problema possano prendere
decisioni ragionate ed etiche.
Sviluppare una tale cultura è
alla base del governo etico
delle società.
Non confondere l’etica
individuale con l’etica
organizzativa. I dirigenti
possono pensare che se gli
individui sono etici, le aziende
saranno etiche. Non è vero.
Siamo tutti parte di un’impresa
comune. E queste imprese
comuni, incluse le grandi
società, sono culture sociali
con un distinto carattere –
carattere che può esercitare
influenze positive o negative
sugli individui, a seconda dei
valori, degli obiettivi, delle
politiche e delle direzioni
gestionali che modellano il
comportamento e le relazioni
all’interno dell’organizzazione.
Le aziende più etiche possono,
naturalmente, avere individui
che agiscono in modo non
etico e prendono decisioni
sbagliate. Le peggiori aziende
possono avere impiegati
eticamente responsabili. Ma gli
individui con dubbia integrità
etica possono essere
incoraggiati ad agire
eticamente da una cultura
gestionale che sostenga tale
comportamento e, al
contrario, individui etici
possono essere frustrati o
neutralizzati da una cultura
che scoraggi o prevenga una
gestione etica.
Consideriamo una persona: il
contabile della Arthur
Andersen responsabile per la
Enron. Guadagnava un milione
di dollari all’anno.
Probabilmente era un
individuo etico – sospettiamo
che si ritenesse tale. Ma è
umano che il nostro interesse
personale, naturalmente, ci
spinga a deviare il nostro
comportamento in
determinate direzioni. Avrà
pensato: “Merito il mio
stipendio. Lavoro sodo. Ho dei
bambini e una casa costosa.
Dono un sacco di soldi in
beneficenza. Ho altre persone
che lavorano per me che
devono essere pagate. Non
possiamo permetterci di
perdere un cliente importante
come la Enron”. Così non ha
messo in discussione le dubbie
pratiche finanziarie della
Enron.
Ma è a questo punto che
entra in gioco la forza
dell’etica organizzativa – o
governo etico di un’azienda.
Può incoraggiarci. Può rendere
chiari i valori
dell’organizzazione e fornire
risorse che ci aiutano a
prendere decisioni. Meglio
ancora, può offrire alleati alle
nostre decisioni. Se la Arthur
Andersen fosse stata molto
chiara e avesse insistito sul
fatto che, soprattutto, il nostro
valore etico principale è
l’integrità, nulla avrebbe
potuto scavalcarla e il
responsabile avrebbe potuto
assumere un altro
atteggiamento. Supponiamo
che i valori della Arthur
Andersen parlassero realmente
di integrità. E qui ci troviamo
di fronte al problema chiave
del reale significato delle
parole. Se tutti i suoi soci
avessero deciso che, in
qualunque struttura di
governo aziendale la Andersen
fosse chiamata a prendere tali
decisioni, avrebbero
guadagnato piuttosto 750.000
dollari all’anno invece di un
milione di dollari e non
avrebbero messo a rischio
l’integrità dell’azienda tenendo
clienti ad alto rischio come la
Enron, questa storia sarebbe
potuta finire in modo diverso.
Col senno di poi,
naturalmente, si può
concordare sul fatto che
l’azienda ne sarebbe uscita
meglio – avrebbe avuto un
futuro. Sospettiamo che molti
degli impiegati della Andersen
desidererebbero che l’azienda
avesse avuto un nucleo etico
più forte, tale da funzionare
anche nei casi più duri. Fare la
cosa giusta non è sempre
finanziariamente vantaggiosa,
specie nel breve termine, e se
il tuo guadagno è basato su
cosa fai in un trimestre o in un
anno, è ancora più difficile fare
la cosa giusta, sopportando le
conseguenze finanziarie del
momento in modo che i tuoi
successori possano godere dei
successivi guadagni. Ma
talvolta è necessario. Anche se
la Andersen avesse avuto una
più forte cultura etica il suo
socio avrebbe potuto
ugualmente non fare la voce
grossa con la Enron. Ma se i
suoi pari lo avessero
richiamato e gli avessero detto
che non aveva altra scelta e
che avrebbero protetto lui e
quelli che lavoravano per lui
prendendo tutti meno soldi
finché non ci fosse stata una
nuova occasione di lavoro,
allora forse l’avrebbe fatto.
Sono questi i casi in cui
emerge e conta l’etica
organizzativa. Questo bisogno
diventa ancora più chiaro
quando i risultati del controllo
dimostrano che metà degli
impiegati avvertono pressioni
per agire in modo non etico o
illegale e ammettono di
imbarcarsi in uno o più atti
non etici e/o illegali.
Non presumere che coloro che
governano siano fedeli alle
proprie dichiarazioni. Si noti
questo nobile discorso
proferito a una cerimonia di
laurea: “Procedendo nella vita,
diverrete capi di famiglia, di
comunità e anche di aziende.
Dovrete confrontarvi con
problemi che metteranno ogni
giorno alla prova la vostra
moralità. I problemi saranno
sempre più difficili e le
conseguenze sempre più
drastiche. Pensate con
attenzione, e per voi stessi,
fate la cosa giusta non la più
facile”. È sconcertante che
questo discorso sia stato fatto
da Dennis Kozlowski, ex
amministratore delegato della
Tyco – ipocrisia aziendale del
peggior livello. Erano parole
senza azioni. Kozlowski è stato
accusato di aver rubato 600
milioni di dollari alla Tyco, e gli
si prospettano venticinque
anni di carcere. Come
abbiamo visto anche per la
Enron e i suoi sbandierati
“quattro valori” –
comunicazione, integrità,
rispetto ed eccellenza – le
parole sono vuote senza una
cultura etica. Coloro che
guidano le grandi società
devono guardare oltre le
parole pronunciate dai
dirigenti e determinare se
stiano veramente agendo da
capi etici.
Abbiamo assistito a molte
scene di disperazione per il
crollo della Enron, della
Andersen, della Worldcom,
della Tyco e di altre aziende, e
siamo preoccupati che gli
investitori perdano la fiducia
nelle Borse, temendo che
coloro che tutelano i mercati
non lavorino per sorprendere i
dirigenti non etici. Se i dirigenti
delle aziende non fanno ciò
che dovrebbero, se i consigli di
amministrazione non li
sorvegliano, se i legali e i
revisori non provvedono a dare
a questi ultimi consigli
obiettivi, se gli analisti esterni
non fanno domande
imbarazzanti o non riescono a
immaginare cosa un’azienda
stia combinando e se i
regolatori ignorano tutto
questo, ciò non prova forse
che il nostro sistema
capitalistico è incrinato?
Incrinato, forse. Ma riteniamo
che il sistema funzioni
esattamente come dovrebbe. Il
fatto che queste aziende siano
invischiate in un
comportamento non etico e in
scandali pubblici, e che in
qualche caso siano crollate, è
la riprova della necessità di
una condotta d’affari etica – la
roccia su cui si fonda il
capitalismo.
La nostra struttura di mercato
capitalista – e in realtà la
nostra struttura sociale – è
principalmente fondata sulla
fiducia. I regolatori non
possono esaminare ogni
singolo libro contabile; devono
fidarsi di coloro che hanno
steso le relazioni finanziarie.
Gli investitori e i prestatori
devono affidarsi all’integrità
dei direttori e dei dirigenti
anziani. I direttori e i dirigenti
devono affidarsi all’esperienza
e all’onestà dei loro revisori e
legali. I revisori devono
affidarsi alla buona fede di ciò
che gli viene detto dalla
dirigenza. Gli impiegati, i
clienti, gli azionisti e la
comunità devono fidarsi di
tutti questi soggetti.
Quando ciascuna parte
immagina di non potersi fidare
dell’altra perché sta facendo
gli affari nel proprio interesse,
piuttosto che in quello degli
altri, allora le fondamenta di
un sistema di mercato
integrato crollano. Il risultato
catastrofico è preordinato.
Nessuno dà fiducia a istituzioni
turbate da scandali dovuti alla
loro mancanza di integrità.
Forse alcune di queste società
hanno ancora alcuni impiegati
che lavorano duro e forse
qualcuno sta ancora
guadagnando, ma non
importa, perché nella
maggioranza dei casi è troppo
tardi. Queste società devono
essere punite per la loro
mancanza di dedizione
all’etica. Robert Reich, ex
Segretario del Lavoro, disse
una volta: “Il più eloquente
appello morale non avrà gioco
con il più imparziale editto del
mercato”. Vale a dire, in una
partita tra etica e mercato, il
mercato dominerà. Ci è
sempre piaciuta molta questa
citazione perché siamo in
fermo disaccordo con essa.
Buona etica significa buoni
affari. Non si può avere l’uno
senza l’altro, come hanno
provato gli scandali dell’anno
scorso. Il mercato ha
cominciato a punire coloro che
sono senza etica.
Chi sarà il prossimo? Quali
dichiarazioni di valori e
missioni sono carenti di
significato? Chi sta giocando
sul filo del rasoio dell’etica?
Insomma, tutti noi
appartenenti alla società
controlleremo le nostre
istituzioni e decideremo chi
vive secondo principi etici e chi
no. Chi lo fa avrà vantaggi
competitivi grazie ai vantaggi
etici.
* W. Michael Hoffman è direttore
esecutivo fondatore del Centro per
l’Etica d’Affari (Center for Business
Ethics) al Bentley College di Waltham,
Massachusetts. Il CBE è da 26 anni un
Istituto di consulenza e ricerca e un
forum di educazione per lo scambio di
idee e informazioni sull’etica in affari.
* Dawn-Marie Driscoll è socio esecutivo
del Centro (www.bentley.edu/cbe).
Sono autori di Ethic Matters: How to
Implement Values-Driven Management,
2000.
■ ■ ■ ■ ■ ■
T
his has been quite a year
for American business.
Morgan Stanley’s
chairman, Philip Purcell, said he
“cannot think of a time when
business as whole had a worse
reputation.” Others have gone
so far as to wonder if capitalists
haven’t killed capitalism.
This year of shame began with
the collapse of Enron,
described by the press as a
“tidal wave,” a “thunderbolt,”
a “beached whale.” Enron
became the first domino in a
series of scandals that overran
the market. Enron lost $65
billion in market value in nine
months as it went from being
an energy company that made
and sold goods to one that
created an intricate sham of
financial transactions so that its
executives could cash in their
stock options.
Then there was Arthur
Andersen, the late global
accounting firm, which traded
its accounting firm origins in
favor of a culture of
professional salespeople
masquerading as accountants.
The resulting fines for
accounting scandals were
predictable: Sunbeam ($110
million), Waste Management
($75 million), Boston Market
($10 million), Baptist
Foundation of Arizona ($217
million). Andersen had over
9
10
150 people working on site for
Enron. In fact, the division
between client and auditor
became so blurred that
Andersen attended Enron
meetings and helped to shape
its new businesses. Add to this
three more Andersen clients:
WorldCom overstated its cash
flow by almost $10 billion;
Qwest Communications and
Global Crossing traded fiber
optic capacity in order to
record sales they never really
made – and once again, the
executives at the top happened
to cash out in precisely the
same years that are now being
analyzed.
Tyco lost $87 billion in market
value – and made “debt writeoff” and “$6000 shower
curtains” household words.
Although he had a salary of
over $300 million, Dennis
Kozlowski, its former CEO, still
tried to evade $1 million in
sales tax on paintings he
bought. That unethical act
started Tyco’s downfall. Later it
was revealed that even an
outside director of Tyco
received a $20 million bonus,
which he failed to report to his
fellow board members.
At Adelphia Communications,
the company acted as a bank
for its founder, the Rigas family,
advancing over $3 billion in
loans and loan guarantees.
And apparently without
thinking it important to tell
anyone about it. As if that
weren’t enough, the company
purchased $12 million in goods
from a company they owned,
and cars from their own
dealership. It also bought a
Manhattan apartment for the
Rigas’ daughter, financed her
film production ventures and
paid her husband over $1
million a year.
What a year it’s been! We ‘ve
had financial reporters acting
like detectives, consumer
groups acting like government
regulators, government
regulators acting like lobbyists,
and Congressmen, like Captain
Renault in the movie
Casablanca, acting “shocked,
shocked” that financial
scandals could have resulted
from legislative loopholes
passed a few years earlier. To
most people, the story boils
down to the fact that too
many of those in power are
lying, stealing and cheating at
the expense of the rest of us,
who suffer the consequences
in our wallets and retirement
plans.
In the wake of all these
business scandals, words like
“corporate responsibility,”
“corporate governance,” and
“ethics” have been tossed
around like so many empty
lifeboats on a stormy sea.
Outraged investors and
regulators are demanding
corporate reform in the face of
excessive executive
compensation and misleading
financial disclosures. President
Bush went to Wall Street to call
for increased “corporate
responsibility.” Congress
responded by passing the
Sarbanes-Oxley Act and more
regulations are pending.
Unions, pension funds,
institutional investors and the
financial press have promised
increased scrutiny of corporate
filings, practices and decisions.
But we believe there should be
a break in this overwhelming
chorus for reform to make sure
we are all singing to the same
tune. Because if those who say
they are concerned about the
integrity of our capital markets
are just spouting words
without a common meaning,
there will be no real change in
corporate behavior.
One of the chief lessons of this
year of scandals is that
“corporate social responsibility”
is not the same as “ethical
corporate governance.”
Ethical corporate governance
refers to business institutions’
system of control and
management, including its
board of directors and senior
management team. The board
must have the highest ethical
standards and also understand
its role in overseeing the ethics
of the organization, its
managers and its business
practices, with the goal of
preventing harm and
minimizing risk within the
corporation. Corporate
governance focuses on internal
organization, addressing how
to supervise and manage
relationships and encourage
decision-making in keeping
with company values. Effective
business ethics programs
include initiatives like ethics
training, company-wide ethics
councils or committees, and
resources for assistance and
registering concerns – in other
words, structures and strategies
for developing a corporate
ethical culture that will guide
ethical business activities. Too
many directors, however, pat
themselves on the back for
initiatives that demonstrate
their “corporate social
responsibility” and conclude
that the company is therefore
ethical.
Unfortunately, as investors have
learned, activities such as
supporting charities, protecting
the environment, considering
human rights and encouraging
employee volunteer work have
nothing to do with developing
a culture in which people will
make ethical choices and
question wrongdoing.
Although both business ethics
and social responsibility
initiatives are important for
corporations, they should not
be confused with each other.
As Enron and others have
shown all too clearly, a
company can take initiatives
that are socially responsible
although it has no ethical
governance.
There are a few other lessons
to be learned from this year of
scandals.
Don’t confuse ethics and
compliance. Some companies
say they have compliance
programs and that they are
meeting all their legal
requirements. Arthur Andersen
told Enron its compliance
program was sufficient; after
all, employees signed off every
year that they had received
Enron’s code of business
conduct. While important,
compliance programs alone are
insufficient. Merely complying
with laws and regulations is a
standard of corporate
accountability that has existed
for decades. Compliance tells
employees about the law and
company policies and tries to
prevent violations. Many
companies have focused too
heavily on rules, fostering a
“check the box” mentality and
a reactive “caught you” type
culture. The results all too
often defeat the very goal of
compliance, discouraging
people from asking questions
or making suggestions. One of
our favorite documents from
the Enron story is a letter CEO
Kenneth Lay sent out to the
company’s suppliers on
November 13, 2001: “Enron
believes in conducting its
business affairs in accordance
with the highest ethical
standards.” Furthermore,
employees are required to
behave in a manner “which
does not result in any personal
financial gain other than that
derived as a direct consequence
of their employment with
Enron. Enron’s Business Ethics
Policy further states that “no
entertainment or gifts are to be
given or received by Enron
employees for special position,
price or privilege.” Perhaps
Kenneth Lay could sleep
soundly at night knowing that
having sent that letter, no
Enron employee would receive
a Christmas gift that year. But
the letter certainly didn’t
prevent all the other scandals at
Enron from happening,
particularly those devised by
top executives.
Compliance does not help
employees address situations
that aren’t in the rulebook,
such as, “Should I help create
this false trading room and sit
at a computer, looking busy, so
we can fool the visiting
analysts?” How many people at
Enron did that, and what policy
prohibited that activity? Just
because a proposed action is
not mentioned in the rules
does not mean it is right or that
it conforms to company values.
This is why company
compliance programs are a
minimum, beyond which
companies must provide a
broader, values-based ethical
culture for employees to make
ethically reasoned decisions in
the face of complex situations
that do not appear in a
guidebook. Developing that
culture is the essence of ethical
corporate governance.
Don’t confuse individual ethics
and organizational ethics.
Managers might think that if
individuals are ethical,
companies will be too. This is
not true. We are all part of a
community. And this
community, like any
corporation, has a social culture
with a distinct character –
which can have a good or bad
influence on individuals,
depending on the values, goals,
policies, and management
objectives that define the
behavior and relationships
within the organization. The
most ethical companies may, of
course, have individuals who
act unethically and make
wrong decisions. The worst
companies may include
ethically responsible employees.
But individuals with
questionable ethical integrity
might be encouraged to act
ethically by a corporate culture
that supports such behavior,
while ethical individuals might
be discouraged or even
suppressed by a culture that
discourages or prevents ethical
leadership.
Let’s take an example: the
Arthur Andersen accountant
responsible for Enron. He
earned more than $1 million a
year. He probably was an
ethical individual – we suspect
he saw himself as such. But he
is human, as we all are, and
our self-interest naturally
pushes us to adapt our
behavior in certain ways. He
may have thought, “I deserve
that salary. I work hard. I have
children and an expensive
house. I give a lot of money to
charity. I have other people
who work for me who need
their paycheck. We can’t afford
to lose a big client like Enron.”
So he didn’t challenge Enron’s
questionable financial practices.
And this is where the strength
of organizational ethics – or
ethical corporate governance –
comes into play. It can support
and encourage us. It can make
the organization’s values clear
and provide us with the
resources to help us make
decisions. Better yet, it can
provide allies in the face of
difficult decisions. If Arthur
Andersen had been very clear
and insisted that, above all, our
chief ethical value is integrity,
nothing will supercede that –
then our accountant might
have taken a different course.
We should assume that Arthur
Andersen’s values did in fact
talk about integrity, then we
are faced with the issue of the
true meaning of words. If each
one of its partners had decided
that, in whatever corporate
governance structure, they
would rather make $750,000 a
year instead of $1 million and
not risk the integrity of the
whole company by keeping
high-risk clients like Enron, this
story might have had a
different ending. In retrospect,
of course, it’s easy to see that
the company would have been
better off – it would have had
a future. We suspect that many
of Andersen’s employees wish
that the firm had had a
stronger ethical core. One that
worked in the most difficult
situations. It’s not always
financially lucrative, especially in
the short term, to do the right
thing. Furthermore, if your
compensation is based on
quarterly or yearly
performance, it’s even harder
to do the right thing, bearing
the financial consequences
now so that your successors
can enjoy the financial rewards.
But sometimes it is necessary.
Even if Andersen had had a
stronger ethical culture, the
Anderson partner still might
not have made the tough calls
against Enron. But if his peers
had insisted and said you have
no choice and we’ll protect you
and everyone who works for
you and wÈll all just take less
money until we make it up
some other place, then he
might have done it. It is in
these situations that
organizational ethics come into
play and where they matter.
The need for organizational
ethics becomes even more
blatant when survey results
show that half of all workers
feel pressure to act unethically
or illegally and admit to
engaging in one or more
unethical and/or illegal acts.
Don’t assume that leaders do
as they say. Note this uplifting
quote from a graduation
address: “As you go forward in
life, you will become leaders of
families, communities and even
companies. Every day you will
be confronted with questions
that test your moral standards.
The questions will become
tougher and the consequences
will become more severe. Think
carefully, and for your sake, do
the right thing, not the easy
thing.” Amazingly this was
spoken by Dennis Kozlowski,
former CEO of Tyco – corporate
hypocrisy at its worst. They
were words without actions.
Kozlowski has been charged
with stealing over $600 million
from Tyco and faces twenty-five
years in prison. As we also saw
with Enron and its touted “four
values,” – communication,
integrity, respect and excellence
– words remain empty without
an ethical culture to back them.
Those who govern large
corporations need to look
beyond the words spoken by
executives and determine if
they are truly acting as ethical
leaders.
The collapse of Enron,
Andersen, Worldcom, Tyco and
the others we witnessed has
brought about much
desperation and concern that
investors might lose confidence
in the various stock markets,
fearing that market safeguards
are insufficient to stop
unethical leaders.
If company executives aren’t
doing what they should, if their
board of directors isn’t
supervising them, if lawyers
and auditors aren’t providing
the boards with objective
advice, if outside analysts aren’t
asking probing questions or
can’t figure out what a
company is doing and if
regulators are ignoring all this,
doesn’t that prove our capitalist
system is flawed? Flawed
perhaps, but nevertheless, we
believe the system worked
exactly as it should. The fact
that these companies were
embroiled in unethical behavior
and public scandal, and in
some cases collapsed, is further
proof of the necessity of
business ethics – the bedrock
upon which capitalism is
founded.
Our capital market structure –
indeed, our entire social
structure – is based on trust.
Regulators cannot examine
every company’s books; they
need to trust those who file
financial statements. Investors
and lenders have to rely on the
integrity of directors and senior
managers. Directors and
executives have to rely on the
expertise and honesty of their
auditors and lawyers. Auditors
have to rely on the good faith
of what they are told by
management. Employees,
customers, shareholders and
communities have to rely on all
of the above.
When everyone feels that they
cannot trust the other because
each party is operating in its
own best interest, rather than
in the community’s, then the
very foundation of an
integrated market system
collapses. The disastrous
outcome is preordained.
No one trusts institutions
rocked by scandal due to their
lack of integrity. Maybe some
of these businesses still have a
few employees working hard,
and maybe some really are
making money, but it doesn’t
matter, because in most cases
it’s too late. These
organizations must be
punished for their lack of
commitment to ethics.
Robert Reich, former U.S.
Secretary of Labor, once said,
“The most eloquent moral
appeal will be no match for the
dispassionate edict of the
market.” That is, in a match
between ethics and the market,
the market will win. We have
always liked that quote
because we totally disagree
with it. Good ethics is good
business. You can’t have one
without the other, as the
scandals of the past year have
shown. The market has in fact
begun to punish those without
ethics.
Who will be next? Whose
mission and values statements
are meaningless? Who is
walking the ethical tightrope?
Ultimately, all of us members of
society will judge our
institutions and decide who
lives according to ethical
principles and who does not.
And those who do will have a
competitive advantage because
of their ethical advantage.
* W. Michael Hoffman is the founding
executive director of the Center for
Business Ethics at Bentley College in
Waltham, Massachusetts. Founded 26
years ago, CBE is a research and
consulting institute and an educational
forum for the exchange of ideas and
information in business ethics.
* Dawn-Marie Driscoll is an executive
fellow at the Center
(www.bentley.edu/cbe). They are the
authors of Ethic Matters: How to
Implement Values-Driven Management
(2000).
11
Azione invisibile, effetto tangibile
Invisible Action, Tangible Result
di Lorenzo Sacconi*
by Lorenzo Sacconi*
Una governance consapevole arricchisce la reputazione dell’azienda
Conscientious governance enhances a company’s reputation
12
Lorenzo Sacconi
N
onostante ancor oggi
con l’etichetta
“responsabilità sociale
di impresa” (corporate social
responsibility, CSR in breve)
qualcuno intenda solo
le politiche aziendali di
“immagine” o, in casi migliori,
le attività filantropiche
dell’impresa verso il territorio
circostante, vi è ormai diffusa
consapevolezza – si veda ad
esempio il Green Paper sulla
CSR pubblicato dalla
Commissione europea nel
Luglio 2001 – che il termine
denoti qualcosa di ben altra
importanza.
In effetti con CSR qui intenderò
un modello di governance
allargata dell’impresa, in base
al quale chi la governa ha
responsabilità che si estendono
dall’osservanza dei doveri
fiduciari nei riguardi della
proprietà ad analoghi doveri
fiduciari nei riguardi in
generale di tutti gli stakeholder.
Per chiarire, con “stakeholder”
si intendono coloro che hanno
un interesse rilevante in gioco
nella conduzione dell’impresa
sia a causa degli investimenti
specifici che intraprendono
per effettuare transazioni
con l’impresa o nell’impresa,
sia a causa dei possibili effetti
esterni positivi o negativi delle
transazioni effettuate
dall’impresa, che ricadono su di
loro. Una lista ampia, ma forse
non esaustiva, comprende
i clienti/consumatori,
i collaboratori, gli investitori
(azionisti o creditori), i fornitori,
i partner commerciali,
i concorrenti, la comunità
circostante, la Pubblica
Amministrazione
e gli organismi di controllo
e le generazioni future
(con interessi ambientali).
La definizione di stakeholder
dunque precede
ed è indipendente
dall’identificazione di quella
particolare relazione privilegiata
che fa sì che uno particolare
tra gli stakeholder sia anche
il proprietario dell’impresa.
Insomma, per la CSR il governo
d’impresa ha doveri fiduciari
verso un qualsiasi stakeholder
non in quanto esso ha titolo
sulla proprietà sull’impresa,
ma per qualche altra ragione
che dovremo chiarire. Sempre
definendo il linguaggio, con
“doveri fiduciari” ci si riferisce
a quegli interessi in nome
e per conto dei quali l’impresa
è gestita. Essi rinviano
all’esistenza di una relazione
fiduciaria tra un’agente,
investito dell’autorità
di prendere le decisioni
discrezionali, e altri soggetti
la cui fiducia è costitutiva
dell’autorità del primo agente,
ove tali soggetti non sono però
in condizione di prendere
le decisioni discrezionali, ma
i cui interessi ciò nondimeno
costituiscono pretese legittime
nei confronti della conduzione
dell’impresa. Pretese che
chi gestisce effettivamente
l’impresa deve assumere come
fini ultimi della gestione e che
di conseguenza generano
doveri fiduciari in capo a lui.
L’idea di dovere fiduciario rinvia
al fatto che chi governa
o gestisce effettivamente
l’impresa non è colui che ha
l’interesse legittimo in nome
del quale l’impresa deve essere
gestita. La sua più nota
applicazione è ovviamente
al caso della separazione
tra proprietà e controllo,
e identifica i doveri che il
management ha nei confronti
dei proprietari dell’impresa,
che non esercitino il controllo
sulla condizione quotidiana.
In tale caso tuttavia il
proprietario o l’azionista
detengono sempre un diritto
su alcune decisioni residuali,
che non vengono previste
in nessun contratto e che
non vengono delegate
al management (ad esempio
le scelte sul cambiamento della
compagine societaria, fusioni,
acquisizioni ecc.). Con la CSR
questo concetto si estende
da una prospettiva monostakeholder (in cui l’unico
stakeholder rilevante ai fini
della identificazione dei doveri
fiduciari è lo shareholder)
a una prospettiva multistakeholder e non utilizza
quindi più la nozione di
proprietà come esclusiva base
per identificare le responsabilità
e i doveri fiduciari del governo
di impresa.
È bene perciò rimarcare
lo slittamento di significato
che tale prospettiva impone
al tema della governance:
in un senso, che resta
essenziale, il disegno della
governance coincide con
l’attribuzione a singoli
o categorie del diritto di
decisione residuale sulle risorse
fisiche dell’impresa, cioè
coincide con il problema
dell’attribuzione di autorità (tra
i proprietari e i manager, cui
essa viene in parte delegata)
su tutto ciò che non può e non
deve essere contrattato
ex-ante. Se ci si mette nella
prospettiva della CSR, tuttavia,
risulta evidente che,
se l’impresa ha una struttura
di proprietà tale da riconoscere
il diritto di decisione residuale
a una particolare categoria
di stakeholder (siano essi
i capitalisti, o nel caso delle
cooperative, i lavoratori o
i consumatori), allora esistono
interessi di soggetti che non
possono esser protetti
dall’esercizio dei suddetti diritti
e dall’autorità che ne promana.
Dunque, in modo ancora più
marcato che nel caso degli
azionisti non controllanti,
il disegno della governance
deve includere l’attribuzione
di doveri fiduciari, ovvero
vincoli all’esercizio dell’autorità
del proprietario o dell’autorità
delegata al management, tali
che l’esercizio di tale autorità
risulti vantaggioso per gli
interessi degli stakeholder non
controllanti. La governance
include in tal modo diritti
di decisione o sovranità, ma
anche doveri di responsabilità
verso interessi e pretese
legittime di soggetti non
controllanti. Ciò naturalmente
richiede una qualche gerarchia,
certi vincoli reciproci
tra gli interessi dei vari
stakeholder, qualche forma
di partecipazione o di
consultazione della voce dei
loro rappresentanti, in ultima
istanza richiede un
bilanciamento delle diverse
attese e pretese. Posta questa
definizione di CSR, qui mi
propongo di rispondere alle
seguenti domande:
• È giusto chiedere alle imprese
di adempiere a doveri di CSR?
• Quale è il contenuto di tale
responsabilità, cioè da quale
giustificazione dell’impresa
come istituzione economica
possiamo dedurre i contenuti
e le richieste della CSR?
• Perché chi dirige le imprese
dovrebbe attuare la CSR, quali
sono le convenienze a farlo?
• Quali strategie, sistemi
e strumenti di gestione
consentono di attuarla?
Imprese e manager
“socialmente
responsabili”?
Per cominciare, se è vera la tesi
della CSR allora deve essere
falsa l’altra, resa famosa oltre
30 anni fa da Milton Friedman,
secondo cui la sola
responsabilità dei manager
(e delle imprese da essi dirette)
è fare profitti per gli azionisti
(the only social responsibility
of business is to make profits).
Benché presentata
con un indubbio gusto per
il paradosso, anche questa
è una tesi etica. Essa consiste
nell’affermare che i manager
devono obbedire ad un “etica
speciale fortemente
differenziata in base al ruolo”.
I manager avrebbero un
obbligo verso i proprietari,
assunto per contratto, e tale
obbligo sarebbe soverchiante
verso altri doveri, almeno
finché sono nel ruolo. Ma che
il contratto si limiti a stabilire
queste le loro responsabilità
dipende dalle istituzioni e dalle
norme sociali e morali
accettate più in generale. Quali
sono perciò le ragioni di etica
generale grazie alle quali si può
accettare che una particolare
istituzione (l’impresa) e il ruolo
professionale del manager
debbano essere limitati a
questa particolare obbligazione
fiduciaria verso la proprietà?
La tesi, ben nota agli
economisti e ai filosofi sociali
liberali, è che in un mercato
perfettamente concorrenziale
la massimizzazione dei profitti
consente un esito socialmente
efficiente, e garantisce
l’imparzialità e l’autonomia
degli agenti. Quei valori etici
sono garantiti indirettamente,
per effetto della “mano
invisibile”, dal perseguimento
semplice e coerente di un
obbiettivo meramente
egoistico. Ciò per altro delimita
la validità della tesi sulla
limitata responsabilità sociale
dell’impresa:
solo nel caso di un mercato
perfettamente concorrenziale
si potrebbe sostenere che
l’impresa e il manager abbiano
come unica responsabilità
quella di fare profitto per
i proprietari. Sappiamo tuttavia
– e in buona parte proprio
grazie a economisti liberali
come Coase e von Hayek – che
di norma i mercati non sono
perfettamente concorrenziali
e che proprio per questo
l’efficienza sociale può essere
approssimata solo attraverso
la costituzione di molteplici
istituzioni (tra cui l’impresa)
e dalla diffusione di regole
e codici di condotta. Si può
suggerire allora che nella realtà
le responsabilità sociali
dell’impresa e del management
non possono essere limitate
alla ristretta etica speciale
di Friedman e che i manager,
entro i limiti del ruolo, devono
comunque prendersi cura
di principi etici più generali.
Anziché impegnarmi in una
più ampia confutazione
della tesi di Friedman
(già abbastanza criticata
in letteratura), mi limiterò qui
a due esemplificazioni che
attestano la nuova urgenza
con cui la CSR si è andata
imponendo negli ultimi tempi:
A) La critica alla globalizzazione:
molti di coloro che simpatizzano
con i movimenti di critica alla
“globalizzazione” non lo fanno
perché, come ciecamente
accade per alcuni attivisti, siano
13
contrari alla formazione
di un sistema di opportunità
di scambio e di relazioni
economiche a livello globale.
Piuttosto non credono che
mercati globali siano di per sé
condizione sufficiente per la
diffusione equa della ricchezza
e la massimizzazione del
benessere. A tale scopo
occorrono istituzioni, sia per
il funzionamento del mercato
(definizione dei diritti di
proprietà a tutela delle parti,
contratti abbastanza chiari
e articolati, informazione
e capacità contrattuale non
troppo diseguale, imposizione
dei contratti e dei diritti), sia,
come ha sottolineato Amartya
Sen, per l’accesso dei singoli
al mercato (istituzioni che
provvedano a “beni principali”
come istruzione, salute,
sicurezza, previdenza sociale
contro le carestie e la povertà,
protezione contro le calamità
naturali, in grado di garantire
alle persone le capacità senza
le quali non possono prendere
parte attivamente né alla
società, né al sistema degli
scambi). In mancanza di queste
istituzioni il mercato non
funziona adeguatamente come
meccanismo di allocazione
delle risorse e troppo pochi
sono coloro che hanno accesso
alla ricchezza (che quindi non
genera tanto benessere quanto
potrebbe). Inoltre si creano
disparità di potere che portano
all’abuso dei forti sui deboli,
al sovra-sfruttamento di alcune
risorse e alla distruzione
o sottoutilizzo di altre (specie
umane). Efficienza ed equità
devono essere
simultaneamente custodite
e garantite da un insieme
appropriato di istituzioni
se si vuole evitare che, come
è evidente nelle economie
in via di sviluppo, la “mano
invisibile” sia paralizzata da
crampi o deviata da tremori
che la portano a risultati ben
lontani da quelli predetti
da Adam Smith.
È vero che istituzioni globali
di questo tipo, in grado
di regolare le transazioni
internazionali e le economie in
via di sviluppo, a tutt’oggi non
esistono. D’altra parte è anche
vero che con ciò non si
intendono solo istituzioni
giuridiche (imposte con la forza
della legge), ma anche semplici
convenzioni sociali e regole di
condotta, che costituiscono la
trama istituzionale soggiacente
a un mercato che funzioni
appropriatamente (ed è proprio
perché il mercato opera
sulla base di queste regole
di sfondo, che noi non
ci accorgiamo della loro
esistenza). Ecco perché
si chiede alle imprese trans-
14
nazionali di assumersi la
responsabilità sociale di agire
“come se” queste istituzioni
esistessero. Esse dovrebbero
favorire nei vari contesti in cui
operano l’affermarsi di norme
sociali e regole di condotta (e
la loro trasformazione in norme
giuridiche) tali che chiunque
considerasse i comportamenti
tenuti nei processi di
delocalizzazione produttiva alla
luce di un ragionevole principio
di equità, e tenuto conto delle
diversità di contesto economico
e sociale, non dovrebbe mai
trovarsi a provare ripulsa
morale di fronte all’ingiustizia.
B) La crisi dei mercati finanziari:
fattori scatenanti e
amplificatori della crisi di
fiducia nella Borsa di New York
sono certamente stati la
scoperta che certi manager
(e il dubbio che tutti i manager)
sfruttassero sistematicamente
il loro vantaggio informativo
nei confronti degli azionisti
per truccare i bilanci, colludere
con gli auditor, con i revisori
dei conti e con i consulenti
finanziari.
Il tutto, come si dice,
in conflitto di interessi con
gli azionisti. Paradossalmente,
tuttavia, è solo col senno
di poi che si può dire che tali
manager non abbiano
obbedito alla massima di
Friedman (in realtà egli sapeva
benissimo che la massima
“l’unica responsabilità sociale
dei manager è fare profitti”
era valida all’interno di certi
vincoli). Essi in effetti
truccavano i bilanci,
colludevano con consulenti
e revisori allo scopo di creare
aspettative di guadagno tali
da tenere artificialmente alte
le quotazioni di borsa dei titoli,
il che in effetti consentiva agli
azionisti di moltiplicare
nell’immediato la profittabilità
degli investimenti (come
i manager di Enron hanno
saputo fare vendendo i loro
pacchetti azionari al momento
giusto), da cui dipendeva
il valore delle stock options
in possesso dei manager,
e il rafforzamento in generale
della loro autorità manageriale.
Essendo stato ipotizzato un
grado di perfezione dei mercati
finanziari superiore alla realtà
(razionalità e informazione
perfetta degli investitori,
aspettative razionali ecc.)
e avendo sottovalutato
il vantaggio informativo
dei manager, il loro potere
collusivo e la capacità di
suscitare aspettative che
nel breve si auto-confermano,
i manager sono stati incentivati
a valorizzare il titolo borsistico
(quale migliore proxy del
profitto degli azionisti che
la valorizzazione dei loro titoli?)
cui è associata la loro
remunerazione, e così essi
hanno gonfiato le aspettative
con false informazioni,
ottenendo alla fine l’opposto
di quello che si voleva. Oltre a
ricordare che i comportamenti
rispondono agli incentivi
in modo strategico, questo
paradosso mostra che la
“massimizzazione del profitto”
(via la sua proxy finanziaria)
smette di essere un non-senso
solo una volta che altri doveri
morali più generali siano stati
soddisfatti, come ad esempio
non mentire nella
rendicontazione contabile.
Ciò spinge a porre una
domanda più generale: se un
sistema di governance che
intende l’accountability di chi
governa l’impresa solo nei
termini di offrire l’informazione
strettamente necessaria
a determinare il valore di borsa
dei titoli, un’informazione sulla
quale manager e revisori,
avendo informazione riservata,
possono influire
strategicamente, non sia
un sistema che garantisce
insufficientemente gli azionisti
stessi. Ben altro significato
avrebbe l’informazione sulla
redditività del titolo, e ben più
credibile, qualora al contempo
gli azionisti sapessero quanto
l’impresa rispetta l’ambiente,
se non corrompe o collude
con gli amministratori pubblici,
se soddisfa effettivamente la
domanda dei consumatori in
tutte le sue attività, rispetta
equi contratti con i fornitori,
remunera equamente il lavoro,
e soprattutto se su queste
materie fossero legittimate a
parlare anche “voci” che non
possono, o possono con
maggiore difficoltà, essere
corrotte. Un’impresa che
conservi elevati profitti in
presenza di un profilo di
responsabilità sociale elevato,
cioè di relazioni positive
con tutti i suoi stakeholder,
e che renda conto in modo
trasparente su tutte queste
relazioni, è un’impresa
che produce effettivamente
un surplus elevato.
Un’accountability più ampia,
con l’attivazione di altri “cani
da guardia” (watch dogs), non
interessati a colludere con il
management per massimizzare
le quotazioni e le consulenze,
ma a verificare l’osservanza
dei doveri fiduciari verso tutti
gli altri stakeholder di cui
condividano gli interessi,
metterebbe in luce l’effettiva
bontà della gestione e sarebbe
una guida assai più affidabile
per investimenti oculati
da parte degli azionisti.
La CSR
e la teoria economica
dell’impresa
Torniamo ora alla moderna
teoria dell’impresa (il suo
ambito è quello della
cosiddetta “economia dei costi
di transazione” secondo
la definizione data da Oliver
Williamson). Molte transazioni,
che comportano investimenti
specifici (cioè tali da
promettere ad uno stakeholder
elevati benefici se la relazione
con altri stakeholder
va a buon fine) sono soggette
a opportunismo (cioè
all’espropriazione da parte
di alcuni del valore degli
investimenti fatti da altri
partecipanti alle transazioni).
Il motivo è semplicemente che
una volta entrati nella relazione
particolare, in presenza di
elevati switching costs nel caso
in cui si debba uscire da essa, si
crea la possibilità di rinegoziare
i contratti (espliciti o impliciti)
e vi è il rischio che alla fine
qualcuno risulti espropriato.
Ciò vale per l’investimento in
capitale finanziario, in capitale
umano, in tecnologie,
per l’investimento in fiducia
del consumatore, per gli
investimenti in forniture
dedicate a un particolare
cliente ecc. La mancanza
di fiducia associata a tali rischi
potrebbe deprimere gli scambi
e condurrebbe a non effettuare
molti degli investimenti che
li renderebbero mutuamente
vantaggiosi. Ovviamente
ciò non accadrebbe se le
informazioni fossero tali da
consentire di prevedere ogni
evidenzia in anticipo e stabilire
per contratto come si agirà
al suo presentarsi. La realtà
è però che i contratti non sono
mai completi in questo senso
e molti eventi sfuggono alla
capacità previsiva delle parti.
Ciò sottolinea l’importanza
delle decisioni discrezionali, che
non possono essere stabilite
ex ante contratti, cioè dei
cosiddetti diritti di controllo
residuale.
L’impresa nasce per far fronte
a tale problema: per
l’economia dei costi di
transazione l’impresa altro non
è che l’istituzione la quale
sottopone le scelte discrezionali
all’autorità di una parte,
mediante l’attribuzione di un
diritto di decisione residuale
(decisioni residuali nel senso
che non sono incluse nel
contratto) associato al diritto
di proprietà sulle risorse fisiche
dell’impresa. L’impresa
è un’istituzione efficiente
se l’allocazione del diritto
residuale di controllo
è in grado di proteggere gli
investimenti degli stakeholder
più a rischio, che cioè fanno
investimenti il cui valore è
maggiore ai fini della creazione
della ricchezza o utilità
eccedente i costi della
transazione. Come si capisce
subito questa spiegazione è
però parziale: si ammetta che
anche gli investimenti di altre
parti concorrano alla creazione
del sovrappiù associato
alle transazioni. Chi impedisce
al soggetto in posizione
di autorità di abusare?
Gli incentivi offerti a uno
stakeholder (trasformato
in proprietario e decisore
residuale) si traducono perciò
in depressione degli altri
investimenti. L’iniquità
nell’esercizio dell’autorità
si traduce in una perdita
di efficienza. Per sfuggire a
questa conclusione si può dire
che il proprietario compra tale
diritto in anticipo e compensa
gli interessi di tutti coloro che
lo subiranno in seguito, ma
- è facile rispondere - nessuno
è in grado di valutare ex ante il
valore di tale diritto in relazione
a ogni stato futuro del mondo.
Il lungo periodo, in cui
occorrerebbe prevedere
le conseguenze di un dato
assetto della proprietà al fine
si risarcire o compensare gli
altri stakeholder all’atto della
sua acquisizione, rende poi del
tutto futile tale argomento.
La CSR così risulta quale
naturale completamento della
giustificazione economica
dell’impresa, intesa come
istituzione di governo delle
transazioni. Siccome l’abuso
di autorità rende inefficiente
l’impresa e la sua aspettativa
rende instabili le sue relazioni
con gli altri stakeholder, una
giustificazione più completa
sarebbe che al diritto di
decisione residuale si
accompagnassero i doveri
fiduciari verso gli altri soggetti
a rischio di abuso, che non
detengono il diritto di controllo
residuale e che
conseguentemente non
possono basare le loro
transazioni su tale protezione
di ultima istanza. Così una
governance estesa dovrebbe
includere:
- il diritto di decisone residuale
allocato allo stakeholder che
ha investimenti più importanti
a rischio, e che è in grado di
esercitare il governo nel modo
meno costoso per sé e meno
rischioso per gli altri;
- i doveri fiduciari da parte di
chi governa l’impresa (sia esso
il titolare del diritto residuale
di controllo o un agente da lui
delegato) verso gli stakeholder
non controllanti, nel senso
della responsabilità di agire nel
corso della gestione in modo
da consentire loro di
appropriarsi di una equa parte
del surplus, proporzionale
al valore dei loro investimenti
specifici, cioè al loro contributo
al valore della transazione.
Nell’assieme sarebbero così
protetti più investimenti che
nel caso in cui l’unico dovere
fiduciario messo in atto
dal management fosse
quello verso il proprietario.
L’efficienza dell’impresa
dipende così dalla
responsabilità sociale
(e dall’equità) verso coloro che
non controllano l’impresa (un
esito abbastanza paradossale
per una spiegazione partita
dall’enfasi sull’allocazione della
proprietà e del controllo).
La CSR
e il contratto sociale
dell’impresa
Ma quale è il contenuto
normativo dei diritti fiduciari
verso gli stakeholder? Per
rispondere abbiamo bisogno di
un modello di impresa
moralmente legittima, dal
quale sia possibile procedere
per deduzione. Con
moralmente legittima
intendiamo un’istituzione che
riscuota il consenso di
chiunque nel valutarla adotti
ragioni imparziali, che fanno
appello a criteri come il
benessere generale, l’efficienza
allocativa o sociale, l’equità e il
rispetto uguale delle libertà.
Non dico ovviamente che da
sole tali ragioni imparziali siano
in grado di spingere ad agire i
manager o gli imprenditori (a
questo scopo dovremo
discutere anche la
“convenienza”), ma è chiaro
intanto che esse fanno appello
alla ragione di ciascuno di noi.
Chi sostiene la CSR condivide
in solido la metafora
dell’impresa come un “gioco
cooperativo” tra molteplici
stakeholder, gli interessi dei
quali sono coinvolti in quanto
ciascuno apporta contributi (chi
il capitale, chi il lavoro, chi le
decisioni di consumo, chi i
mezzi e i beni strumentali e
intermedi, chi le autorizzazioni
regolamentari ecc.), e che
subiscono effetti interni ed
esterni positivi o negativi e
possono influire sia pure in
modo diverso (via contratto, via
autorità, via negoziazione
nell’organizzazione, attraverso
la pressione esterna e la
regolazione ecc.).
Il gioco cooperativo consiste
nello stabilire una strategia
congiunta, cioè un piano in cui
siano descritte le azioni di
ciascuno stakeholder, dal quale
nasca un esito tale da
apportare un surplus di
ricchezza e benessere rispetto
ai costi che ogni stakeholder
sostiene cooperando.
Esso viene giocato dagli
stakeholder come un gioco
di contrattazione e quindi
l’esecuzione dell’accordo viene
delegata a un agente che si
incarica di fare valere quanto
stabilito. La gestione strategica
dell’impresa può essere vista
come l’attribuzione ad un
agente - di solito l’imprenditoredel compito di coordinare
i molteplici apporti a livello
efficiente in vista della
produzione di un surplus (tale
surplus può essere ricavato
dalla somma algebrica dei
vantaggi ricavati e dei costi
sostenuti nelle transazioni da
ciascuno stakeholder) in modo
da evitare i costi di una
contrattazione effettiva tra tutti
gli stakeholder. La parte
essenziale della strategia
è perciò raggiungere un
equilibrio di cooperazione,
grazie al quale ciascun
stakeholder sia disposto
a dare il proprio apporto
efficientemente.
La governance allargata
in questa prospettiva è il
bilanciamento tra gli interessi
dei vari stakeholder, da cui
discendono i doveri fiduciari
che chi stabilisce la strategia di
impresa assume nei confronti
degli stakeholder stessi, i quali
a loro volta decidono di
cooperare, accettando di fatto
l’autorità dell’imprenditore nel
prendere le decisioni circa
la combinazione degli apporti.
La domanda seguente è però
come bilanciare?
“Stakeholder” è un termine
descrittivo: molte classi
di individui hanno interessi
in gioco nella conduzione
dell’impresa a causa
di investimenti specifici, attese
di benefici o timore di subire
danni e le loro pretese possono
essere in conflitto.
Il termine “stakeholder” non
ci è di grande aiuto poiché
non è un concetto normativo:
non dice quali pretese diano
adito a un diritto, perciò non
dice come bilanciare le pretese
in conflitto. Quali pretese nei
confronti dell’impresa sono
perciò legittime e possono
essere considerate diritti che
impongono doveri fiduciari in
capo a chi governa l’impresa?
Per rispondere abbiamo
bisogno di un criterio etico che
sia in grado di identificare un
equilibrio giustificabile, cioè
accettabile ex ante da tutti gli
stakeholder come base per la
loro cooperazione, e che possa
essere rispettato ex post dagli
stakeholder e dall’impresa.
Sembra naturale proporre
quale criterio etico appropriato
quello del “contratto sociale”
tra gli stakeholder dell’impresa
(un’idea che, dopo essere stata
diversamente riproposta da
filosofi ed economisti come
Rawls, Gauthier, Buchanan
e Binmore, ho cercato insieme
ad altri di applicare anche
all’etica di impresa).
Con questa espressione si
intende non un contratto
qualsiasi della vita reale, ma
una “pietra di paragone”
(ragionamento ipotetico svolto
dall’imprenditore): l’accordo
che verrebbe sottoscritto
in una posizione ipotetica
di scelta unanime dai
rappresentanti di tutti gli
stakeholder. In questa
situazione contrattuale ideale,
forza, frode e manipolazione
vanno scartate. Ciascuno
si siede al tavolo della
contrattazione solo portando
con sé le proprie capacità di
contribuire, e una valutazione
dell’utilità di ciascuna ipotesi
di accordo e di non accordo.
Per giungere alla soluzione
ciascuno segue la procedura
di mettere se stesso nella
posizione di ogni altro a turno.
Si trovano allora i termini di
accordo che saremmo disposti
ad accettare dal punto di vista
di ciascuno e quindi dal punto
di vista di chiunque.
Così il contratto sociale
è l’accordo accettabile
da uno spettatore imparziale
(questo sarebbe il ruolo
dell’imprenditore) che giudica
dal punto di vista di ogni
stakeholder e identifica perciò
l’accordo mutuamente
vantaggioso tra i vari
stakeholder dell’impresa,
che potrebbe essere accettato
in modo invariante rispetto
alla permutazione dei loro
particolari punti di vista.
La domanda restante
è ovviamente se tale accordo
esista effettivamente.
Siccome l’impresa è un gioco
cooperativo, la teoria della
contrattazione (una branca
consolidata della teoria dei
giochi che fu iniziata dal
matematico John Nash, premio
Nobel dell’economia assieme a
Reinard Selten e John Harsanyi)
ci assicura che almeno un
equilibrio di mutuo vantaggio
esiste. In realtà un gioco
di contrattazione genera
un intero insieme di esiti cui
è associato un vantaggio
reciproco (un surplus)
e la teoria della contrattazione
ci offre alcune ragionevoli
soluzioni che consentono
di identificare una soluzione
univoca del problema
15
16
di distribuzione del surplus
efficiente, ad esempio
la distribuzione corrispondente
all’uguale concessione rispetto
alla massima pretesa
di ciascuno, oppure la
proporzionalità delle quote
distribuite rispetto alla
variazione marginale dell’utilità
relativa per gli esiti della
contrattazione (questa in effetti
equivale alla soluzione di Nash).
Qualunque sia l’esito suggerito
della “matematica della
contrattazione”, non è
comunque difficile riconoscere
la condotta equa (cioè
rispettosa del contratto sociale
con gli stakeholder) nelle
situazioni reali, ricostruendo
l’accordo che ipoteticamente
sarebbe accettato
unanimemente in assenza della
possibilità da parte di qualcuno
dei partecipanti di agire
opportunisticamente
nei confronti degli altri.
Si immaginino le molteplici
transazioni in cui si può
esercitare opportunismo
e abuso di autorità:
rinegoziazione dei contratti
con fornitori, offerte ai clienti
e quindi esecuzione delle
prestazioni, definizione
e ricontrattazione dei rapporti
di lavoro con i collaboratori
(inclusi i processi
di ristrutturazione), decisioni
con impatto ambientale
esterno delle attività
produttive, rapporti riservati
con rappresentanti della
Pubblica Amministrazione.
In ciascuna situazione si
“sospenda” il vantaggio di cui
una parte (spesso, ma non
necessariamente, l’impresa)
dispone a causa del fatto che
ha autorità o discrezionalità,
potere di minaccia, maggiore
conoscenza, informazione
riservata o nascosta, maggiore
disponibilità economica
e possibilità di indurre alla
collusione - e si ipotizzi che
le parti possano accordarsi alla
luce della conoscenza degli
eventi che accadranno
in seguito. Quello che resterà
è l’accordo (o l’insieme
di accordi) “ideale” tra le parti,
che in quanto è accettabile
razionalmente è anche equo.
Opportunismo è sempre
avvantaggiarsi iniquamente
rispetto all’esito che sarebbe
accettato in assenza
dei suddetti fattori
distorsivi (spesso legati
alla disuguaglianza
di informazione, potere
o autorità, oppure alla semplice
incompleta conoscenza del
futuro possibile), che ahimè
nella realtà sempre presenti.
La convenienza
della CSR: la reputazione
dell’impresa
Le ragioni morali per agire,
ammettiamolo, non
costituiscono sempre anche
un incentivo sufficiente ad
agire. L’homo oeconomicus
agisce in base alla prudenza
e alla ricerca del massimo utile
personale (in realtà questa
ipotesi può essere compatibile
con comportamenti non
meramente egoistici). Facciamo
qui l’ipotesi volutamente
riduttiva che l’imprenditore
e il manager non traggano
significativamente
soddisfazione diretta
dall’obbedienza al contratto
sociale dell’impresa (per
quanto lo possano ritenere
giustificato) e che invece
derivino la loro utilità dal
successo dell’impresa che
dirigono. In tal modo bisogna
cercare un sostegno
all’attuazione della CSR nella
sfera della razionalità
strumentale e degli incentivi.
Perché allora l’imprenditore
o il manager dovrebbero dare
attuazione alla CSR?
La risposta è perché essa
è la base per conservare
e accrescere uno degli asset più
preziosi, benché immateriali,
dell’impresa: la reputazione.
La reputazione dell’impresa
è ciò che consente ai suoi
stakeholder di fidarsi
e conseguentemente
di cooperare con essa, in modo
che le transazioni avvengono
con bassi costi di controllo
o di contrattazione. D’altra
parte dare fiducia è sempre
una decisione problematica,
poiché nell’idea stessa di una
relazione fiduciaria è implicita
la possibilità che la parte che
chiede fiducia possa poi
abusare di essa e trarre un
vantaggio venendo meno agli
impegni espliciti o impliciti.
D’altra parte la reputazione si
acquisisce se l’impresa dichiara
impegni inizialmente almeno
in parte credibili e se essi
vengono mantenuti attraverso
incontri ripetuti in cui
si genera l’evidenza di una
condotta che non abusa.
Tuttavia accumulare
reputazione può essere
un compito proibitivo per
l’impresa se l’unico modo
di dimostrare il mantenimento
degli impegni è fare in modo
che l’interlocutore osservi
le concrete azioni che vengono
compiute in varie aree.
Si considerino le seguenti
situazioni:
- contratti incompleti:
il contratto non prevede clausole
relative ad eventi inizialmente
non previsti, cosicché
non c’è un termine concreto
alla luce del quale valutare
la ricontrattazione;
- qualità non osservabile:
la qualità di un bene o servizio
non può essere appurata
dal cliente in base alla sua
informazione, talché egli deve
“fidarsi” dell’opinione di un
esperto (e di solito il produttore
è un esperto);
- autorità organizzativa:
il “capo” prende decisioni
genuinamente discrezionali
sui collaboratori in virtù
della flessibilità consentita
dai contratti di lavoro;
- collusione: nel rapporto
con rappresentati del cliente,
del fornitore o della Pubblica
Amministrazione, l’impresa
dispone di risorse per stringere
accordi e questi non sono
osservabili da chi non
è presente alla relazione,
cosicché si può sempre
sospettare che l’impresa
colluda ai danni dei terzi che
non assistono allo scambio
illecito.
Sono tutti ambiti in cui
l’informazione o la conoscenza
a proposito delle azioni
dell’impresa sono incomplete
o fortemente asimmetriche.
O gli impegni non sono definiti
in relazione ad eventi imprevisti
e quindi non possono essere
verificati, oppure la loro
attuazione non è osservabile.
È proprio in relazione a queste
situazioni che i doveri fiduciari
in cui si articola la CSR
mostrano la loro funzionalità
come base per accumulare
la reputazione. I doveri fiduciari
dell’impresa verso i suoi
stakeholder sono infatti principi
e regole di comportamento
preventivo che asseriscono
cosa bisogna aspettarsi
dall’impresa anche nei contesti
non previsti o in cui le azioni
concrete non sono osservabili,
e offrono una base verificabile
per la formazione di quei
giudizi e credenze che stanno
alla base della reputazione.
Le aspettative, come suggerito
dall’economista David Kreps,
si formano anziché in relazione
all’accadere di eventi particolari
(che non sono previsti)
o all’attuazione di particolari
azioni o esiti (non osservabili),
piuttosto in relazione
al rispetto di principi generali
e astratti, e quindi mai muti.
Di contro, la verifica della
conformità è assicurata
mediante l’attuazione
di procedure precauzionali
e preventive di condotta che
sostituiscono le azioni come
parametro di riferimento
per la reputazione. C’è dunque
(come ho sostenuto in altri
lavori) una funzione cognitiva
della CSR, che essa condivide
con ogni sistema di principi
e norme etiche, consistente
nel consentire la formazione
di aspettative reciproche nelle
situazioni in cui l’informazione
è vaga, incompleta o incerta,
il che permette di aggiornare
le aspettative fino a ottenere
un grado di fiducia sufficiente
al sostenere relazioni
cooperative. Per assolvere
a questa funzione occorre che
i sistemi di gestione della CSR
rispettino a una certa logica
(su questo si veda il prossimo
paragrafo).
Si potrebbe tuttavia insistere
che questa è una base ancora
troppo debole per dimostrare
la convenienza per l’impresa
di mantenere una condotta
conforme alla CSR. Un’impresa
che si facesse una reputazione
di soggetto che “abusa
ma non troppo” della fiducia
dei suoi stakeholder, potrebbe
comunque ottenere la loro
cooperazione, se la sua
incompleta osservanza offrisse
comunque un’aspettativa
positiva di benefici e se
l’alternativa fosse la rinuncia a
tutte le transazioni. Così stanti
le cose, sarebbe proprio
l’equità a soffrine, poiché
l’impresa si limiterebbe a far
fronte ai suoi doveri solo quel
tanto che basta a non indurre
gli stakeholder a interrompere
ogni cooperazione (benché
iniqua).
Per fortuna la CSR, avendo
a che fare con principi etici
e doveri di condotta, cioè
parlando il linguaggio della
deontologia, offre un appiglio
più efficace al meccanismo
della reputazione e all’ipotesi
che essa renda conveniente
la condotta conforme. Il fatto
è che molti stakeholder hanno
preferenze non puramente
auto-interessate o rivolte
ai vantaggi materiali
(conseguenze).
Essi attribuiscono importanza
anche al fatto che l’impresa
ottemperi a doveri derivanti
dal contratto sociale, specie
se l’impresa li enuncia in codici
di condotta e ne fa una
comunicazione esterna.
Così una deviazione dal profilo
di CSR, o degli impegni etici
assunti, viene punito anche più
di quanto il semplice interesse
materiale non indurrebbe
a fare. Il panico in Borsa
a seguito degli scandali
manageriali americani
potrebbe essere razionalizzato
come punizione per l’oltraggio
o la mancanza di conformità
dei manager rispetto ai principi
che essi dichiaravano
di accettare. Altri esempi sono
il boicottaggio inflitto dagli
“investitori etici” e dai
“consumatori responsabili”
a certe multinazionali che
operano nei Paesi in via di
sviluppo in flagrante contrasto
con norme etiche condivise
nei Paesi di origine.
Non occorre immaginare che,
da un lato, la razionalità
economica presieda ai
comportamenti dell’impresa
e dall’altra la pura ideologia
presieda alle scelte degli
stakeholder “etici”.
La razionalità economica, come
un recente filone di studi
sostiene, può essere estesa
a ricomprendere preferenze
definite non sulle conseguenze,
cui è associato un vantaggio
materiale, bensì sul grado di
conformità attesa delle azioni
a ideali accettati
razionalmente. In altre parole
le preferenze possono
incorporare, assieme
al desiderio delle conseguenze
migliori per sé o per chiunque
altro, anche il desiderio che
le azioni attese dagli altri
si conformino a principi
o ideali, se tali ideali sono
condivisi e accettati
ipoteticamente da entrambe
le parti della relazione
(ad esempio attraverso
l’esperimento ideale del
“contratto ipotetico” di cui
al paragrafo 4). In senso stretto
l’utilità dello stakeholder può
essere la combinazione
opportunamente pesata delle
utilità materiali e delle utilità
ideologiche, cioè di quelle
utilità che rappresentano
la preferenza conformista
che ricaviamo dall’aspettativa
di osservanza del contratto
sociale. In tal senso sarebbe
solo il frutto di un’ipersemplificazione l’aver ridotto
il concetto economico di utilità
a quello del guadagno
monetario o materiale.
Se questo è vero, allora ci
spieghiamo in modo del tutto
razionale perché imprese
i cui codici etici, per quanto
striminziti, affermavano
un impegno per l’integrità
aziendale, sono state
duramente punite in Borsa
dalla crisi di fiducia degli
investitori, forse in misura
eccedente il danno economico
direttamente prodotto
dalle malversazioni. Insomma
le preferenze conformiste
amplificano gli effetti di
reputazione positivi o negativi
e rendono meno spendibile la
scelta strategica delle imprese
che rispettano “solo un po’ ”
un sistema di valori condiviso.
I sistemi di gestione
per la CSR
Come suggerito, la CSR
affronta il problema di rendere
possibile assumere impegni, dai
quali dipendano le aspettative,
anche su materie che non
possono essere concretamente
previste o in cui i risultati
e le azioni concrete non sono
direttamente osservabili, e che
proprio per questo divengono
oggetto dei “doveri fiduciari”
verso gli stakeholder. Diventa
quindi essenziale il disegno dei
sistemi di gestione rivolti ad
assicurare la CSR. Nel dibattito
internazionale, in parte
riassunto ma anche rilanciato a
livello più alto dal Green Paper
della Commissione Europea,
stanno emergendo tentativi
di standardizzazione di un
sistema di qualità per la CSR.
In particolare, secondo lo
standard di qualità dei sistemi
di gestione per la
Responsabilità Etico Sociale
in corso di elaborazione in Italia
(progetto Q-RES), le fasi e gli
strumenti corrispondenti sono:
1) visione etica d’impresa:
non una semplice affermazione
della missione produttiva,
ma una visione del contratto
sociale che l’impresa offre
ai sui stakeholder cioè del
bilanciamento equo tra i loro
interessi;
2) codice etico:
- principi che definiscono
l’insieme bilanciato dei diritti
e dei doveri nei confronti
di ciascuna categoria
di stakeholder;
- norme di comportamento
etico per ogni area a rischio
nelle relazioni con ogni
stakeholder, contenenti i divieti
delle forme tipiche di
opportunismo e gli standard di
condotta preventivi
raccomandati;
3) formazione etica per
sviluppare la competenza
di interpretazione degli eventi
organizzativi alla luce della loro
rilevanza rispetto ai principi
etici e trasmettere il senso
di impegno (commitment) sui
principi e le norme di condotta;
4) sistemi organizzativi
di attuazione: comitato etico
in grado di rappresentare
in modo imparziale il punto
di vista dei vari stakeholder;
controllo top down (audit);
sviluppo di un dialogo bottom
up per integrare la CSR nei
compiti e obbiettivi di lavoro;
sistemi di valutazione
e incentivazione materiale
e immateriale del personale,
legati alla conformità
e ai risultati in ambito CSR;
5) rendicontazione sociale:
comunicazione esterna di
principi e standard per fornire
agli stakeholder nuovi
parametri su cui fondare
il giudizio; illustrazione
con un bilancio sociale
della comprensibile
relazione fra performance
e commitment, illustrando
i risultati ottenuti in relazione
a ciascuno stakeholder sotto
il riguardo sia del valore
economico distribuito,
sia di altri benefici ottenuti
o costi allocati dalla gestione;
inclusione del punto di vista
degli stakeholder in modo
da garantire credibilità alla
rendicontazione;
6) verifica e certificazione
esterna della CSR sulla base
di evidenze relative a ciascuno
strumento e ai risultati ottenuti
nei vari ambiti della gestione
(gestione delle risorse, qualità
dei prodotti e dei servizi ecc.).
Non è questa la sede per
entrare in dettaglio degli
strumenti suddetti. È invece
opportuno richiamare la logica
e la struttura generale ad essi
soggiacente, che si riconduce
al tema del ruolo cognitivo
dell’etica di impresa nel favorire
il giudizio degli stakeholder
sulla reputazione meritata
(o non meritata) dall’impresa.
Quanto alla visione e ai principi
generali, essi definiscono l’idea
di giustizia dell’impresa.
Sono quindi astratti e generali,
in quanto si applicano
a molteplici eventi, inclusi quelli
che non siamo in grado
dapprincipio di prevedere
o di descrivere. Per la loro
applicazione non è quindi
necessaria una descrizione
dettagliata della situazione.
È sufficiente il riconoscimento
della presenza di alcune
caratteristiche astratte. Inoltre,
al contrario che le regole di
dettaglio e i contratti, quando
mancano in essi le clausole
contingenti rispetto al
presentarsi di situazioni non
previste, i principi non sono
mai muti, poiché coprono
sia gli eventi previsti, sia quelli
imprevisti o ex ante non
prevedibili che presentino
semplicemente la struttura
o la caratteristica astratta
identificata dal principio.
Il loro ambito di applicazione
è necessariamente vago (resta
una certa ambiguità circa
l’appartenenza di situazioni
impreviste al dominio di un
principio). Ma la vaghezza può
però essere governata grazie
alla logica del ragionamento
morale, che permette
di ricondurre le situazioni
impreviste al dominio di
applicazione dei principi,
almeno entro certi limiti
di vaghezza (a questo fine
occorre sviluppare la capacità
di ragionamento morale nei
membri dell’organizzazione).
Quanto alle regole di condotta
precauzionali e preventive
del codice etico, esse non
richiedono di essere
condizionate a situazioni
concrete, ma semplicemente
si attuano quando il rischio
di violazione di un principio
eccede una soglia
preannunciata. In altre parole,
vengono applicate mediante
un ragionamento per default.
Il ragionamento per default
non richiede un’informazione
completa sulla situazione:
è sufficiente che l’appartenenza
di un evento al dominio
del principio superi una
determinata soglia di vaghezza
perché esse siano obbligatorie.
Così le condizioni di attuazione
possono essere stabilite ex ante
e su di esse lo stakeholder può
legittimamente formarsi
un’aspettativa. Le regole - non
le decisioni particolari
o le conseguenze - per altro
devono essere standardizzate,
osservabili e verificabili
esternamente, in quanto
la loro applicazione costituisce
l’evidenza che non è stato
infranto intenzionalmente
alcun principio.
Infine la comunicazione
a due vie e il dialogo con gli
stakeholder è parte essenziale
del sistema: principi, standard
e comportamenti devono
essere comunicati poiché
da essi dipende la reputazione.
Gli stakeholder baseranno
il loro giudizio sulla
corrispondenza fra
eventi/principi e procedure
annunciate ex ante/
comportamenti adottati, di
modo che la rendicontazione
sociale non potrà limitarsi a
evidenziare i “risultati sociali”
come un sottoprodotto non
intenzionale dell’attività
economica volta ad altri scopi
(ad esempio il profitto).
Gli stakeholder hanno una
“comune comprensione” del
rischio (meglio: della vaghezza)
con cui un evento mette
a rischio un dato principio.
Cosicché non c’è alcun
vantaggio nella manipolazione
di queste informazioni:
il rischio è perdere la propria
reputazione o addirittura
distruggere totalmente
17
18
la fiducia. Al contrario occorre
sviluppare la capacità di
giudicare come uno spettatore
imparziale, in grado di mettersi
nei panni di uno stakeholder
medio, né malevolente né
benevolente (ancora una volta
è importante la formazione
della capacità di ragionamento
morale). È chiaro che questa
capacità è facilitata
sviluppando il dialogo con
gli stakeholder (ad esempio
durante e alla fine del processo
di rendicontazione sociale,
ma prima ancora inserendo
membri indipendenti nel
comitato etico aziendale,
capaci di giudicare secondo
quella prospettiva imparziale).
Da ultimo la credibilità del
sistema può essere sostenuta
dalla verifica e certificazione
esterna, attuata da organi
effettivamente indipendenti,
che adottino effettivamente
il punto di vista dello
stakeholder medio suddetto
e che per il loro disegno
organizzativo non possano
essere sospettati neppure
lontanamente di agire
in “conflitto di interessi”.i
ideale che dispone
Conclusioni
Non ci spingeremo a dire che
le imprese siano naturalmente
portate ad ottemperare alla
CSR e tuttavia si può ritenere
che qui vi sia spazio per
l’autoregolazione,
opportunamente sostenuta
da un’intelligente sorveglianza
da parte delle istituzioni
pubbliche. Gli stakeholder
hanno possibilità di influire
sulla reputazione
e la reputazione è un asset
immateriale fondamentale per
le imprese, il che può costituire
un movente abbastanza forte
per spingerle ad adottare
la CSR tra i criteri del proprio
sistema di governance e della
propria strategia. D’altra parte
le motivazioni ideali
aumentano la reattività degli
stakeholder contro deviazioni
dal comportamento
responsabile, specie
se annunciato, poiché una
componente importante
dell’utilità degli stakeholder
(o almeno una parte di essi)
è ideale ed è legata
alla conformità. Dunque
ci possiamo aspettare che
aumenti il numero delle
imprese che cercheranno,
mediante una sistema
di gestione per la CSR, di
aumentare la loro reputazione.
Non è detto che questo sia
sufficiente a innescare un
processo evolutivo tale da fare
prevalere quelle imprese che
conformano il proprio sistema
di governance e di gestione
ai principi di CSR.
Qui le istituzioni pubbliche
potrebbero assolvere un ruolo
importante, come quello che la
Commissione europea sembra
adombrare nelle sue
indicazioni. Non tanto
una pesante regolazione
e imposizione esterna di doveri
aggiuntivi, ma un dialogo
sociale che spinge
all’autoregolazione, premiando
coloro che la intraprendono,
sostenendo e amplificando
la voce degli stakeholder e gli
effetti sulla reputazione delle
imprese derivante dalla loro
conformità o non conformità
a standard accettati di CSR.
E, se il caso, introducendo
tra i criteri non obbligatori,
ma meritori al fine di qualificare
le imprese per lo svolgimento
di compiti e funzioni
nell’ambito delle public utilities,
o nei contratti e concessioni
pubbliche, o per accedere
agli incentivi a sostegno dello
sviluppo, il possesso di un
sistema di gestione per la CSR
opportunamente verificato
e certificato.
* Lorenzo Sacconi è professore di
Economia delle Istituzioni, Dipartimento
di economia, Università di Trento e
Direttore del CELE-Centre for Ethics Law
& Economics, Università Cattaneo-LIUC,
Castellanza.
■ ■ ■ ■ ■ ■
A
lthough some people
still use the label
“corporate social
responsibility” (or CSR) to refer
to “image-related” business
policies and, in the best of
cases, philanthropic activities
aimed at the surrounding
environment, most understand
that the expression refers to
something of much greater
importance – as is made clear
by the European Commission’s
Green Paper on CSR published
in July 2001.
Indeed, I will use CSR to refer
to a broader concept of
corporate governance, which
includes the responsibility
of managers to meet their
fiduciary obligations toward
ownership, as well as those
related to stakeholders in
general. By “stakeholder”
I mean any party with some
real interest in the running
of a business, either through
specific investments made
to do business with/in
the company, or because
of potential external effects,
both positive and negative,
arising from the company’s
activities that may affect the
stakeholders in question. An
extensive but not exhaustive
list includes clients/consumers,
colleagues, investors
(shareholders or creditors),
suppliers, business partners,
competitors, the surrounding
community, public
administrators and control
bodies, and future generations
(with environmental concerns).
This definition of stakeholder
therefore is more basic and is
independent of the specific
and privileged relationship that
makes one particular
stakeholder also an owner of
the company. In other words,
for CSR, corporate governance
implies fiduciary obligations
toward any stakeholder; not
because they are part owners,
but for some other reason that
we will try to understand. To
further define our terminology,
by “fiduciary obligations” we
mean those interests in the
name of which and for whose
interest the business is run.
These obligations refer to the
relationship of trust between
an agent with discretionary
decision-making authority
and the subjects whose trust
constitutes the agent’s
authority. Even though these
subjects are not in a position to
make the discretional
decisions, their interests
constitute, nevertheless,
legitimate claims in the way
the company is run. These
claims represent the ultimate
objectives of those running the
business and therefore become
fiduciary obligations which
corporate management must
meet. The concept of fiduciary
obligation refers to the fact
that those in charge of actually
running or managing a
business are not those in
whose legitimate interests the
business ought to be run.
Its most obvious application
is of course the separation
of ownership and control,
and the definition of
management’s responsibilities
toward the owners, who
are not actually involved
in the day-to-day running
of the company. In this case,
however, the owner or
shareholder still retains some
control over certain decisions
not included in any contract
and not delegated to
management (e.g. decisions
about changes in company
structure, mergers,
acquisitions, etc.). From a CSR
perspective, this concept is
extended from a monostakeholder perspective (in
which the only relevant
stakeholder for identifying
fiduciary obligations is the
shareholder) to a multistakeholder perspective,
whereby the notion
of property is no longer the
exclusive basis for determining
the responsibilities
and fiduciary obligations
of corporate management.
It is therefore important
to understand the shift that
this implies in the notion of
governance: on one essential
level governance still means
assigning individuals or
categories of individuals certain
residual decision-making
authority over physical
corporate resources; i.e.,
it deals with the issue of
assigning authority (from
owners to managers, to whom
authority is in part delegated)
over anything that cannot
and must not be contracted
ex-ante. From a CSR point
of view, however, it is obvious
that any company with an
ownership structure based on
the right to residual decisionmaking of a given category
of stakeholders (whether
capitalists or, in the case
of cooperatives, workers
and consumers), there will be
certain categories of interests
that cannot be protected from
the exercise of the abovementioned rights and the
authority they confer.
Therefore, even more clearly
than in the case of minority
shareholders, governance must
include the allocation of
fiduciary obligations or place
limits on the exercise of the
owner’s authority
or the authority delegated
to management, so that
exercising this authority also
remains in the interest of noncontrolling stakeholders.
Governance must therefore
include decision-making
authority or sovereignty, as well
as responsibilities toward the
legitimate interests and claims
of non-controlling
stakeholders. Naturally, this
calls for some sort of hierarchy
and reciprocal constraints
on the interests of the various
stakeholders; it implies some
form of participation or means
to express their representative’s
opinions and, ultimately, a way
to balance the various
demands and expectations.
Having defined CSR in this
fashion, I will now try and
answer the following
questions:
• Is it right to ask companies
to meet CSR obligations?
• Just what do these
responsibilities entail; in other
words, based on what
definition of a company
as an economic entity can
we determine the contents and
demands of CSR?
• Why should managers
implement CSR? What is their
interest in doing so?
• What business strategies,
systems and tools are needed
to implement it?
“Socially responsible”
businesses
and managers?
First, if CSR is valid as a theory
then the conflicting theory
made famous 30 years ago
by Milton Friedman, whereby
“the only social responsibility
of business is to make profits,”
must be false. Despite its
apparent paradox, Friedman’s
is also an ethical theory
according to which managers
must abide by “specific ethics
differentiated according
to their role.” Managers have
a contractual responsibility
toward owners, which takes
precedence over other
obligations, at least as long as
they occupy a certain position.
But whether or not the
contract limits itself to
establishing their
responsibilities depends on the
institutions and the generally
accepted social/moral norms.
So what are the general ethical
principles in which
an institution or business
and its manager’s duties can
be confined to this particular
fiduciary obligation to
ownership?
The theory that is well-known
to liberal philosophers and
economists states that the
maximization of profits in
a perfectly competitive market
produces socially efficient
results and guarantees the
impartiality and independence
of its agents. The “invisible
hand” of the market
guarantees these ethical
principles indirectly, by simply
and coherently pursuing a
purely selfish goal. This also
defines the scope of the theory
of limited corporate social
responsibility: only in a
perfectly competitive market
can businesses and its
managers have “the
generation of profits for their
owners” as their sole
responsibility. However, we
know - thanks mainly to liberal
economists like Coase and von
Hayek - that markets tend not
to be perfectly competitive,
which is why social efficiency
can only be approximated by
setting up various institutions
(including businesses) and
establishing widely accepted
standards and codes of
behavior. This suggests that
in actual fact the social
responsibilities of a company
and its management cannot be
limited to Friedman’s restricted
ethics and that, within the
boundaries of their role,
managers must take into
account more general ethical
principles. Rather than try
to refute Friedman’s theory
in greater detail (which has
already been done), I will
simply give two examples
to show how quickly CSR
has advanced recently:
A) The Criticism of Globalization:
many people who sympathize
with movements “criticizing”
globalization are not, as certain
activists blindly believe, against
setting up a system of global
opportunities for economic
trade and relations. They simply
do not believe that global
markets alone are a sufficient
means of bringing about the
fair distribution of wealth and
the highest standards of living.
This calls for institutions to
regulate markets (through
clearly defined property rights
to protect the parties involved,
reasonably clear and carefully
drawn up contracts, access to
information and fairly unbiased
contractual powers, imposition
of contracts and rights) and, as
Amartya Sen has pointed out,
to allow individuals access to
markets (institutions providing
“key assets” like education,
health, safety, social insurance
against famine and poverty,
protection against natural
disasters; institutions giving
people the means without
which they cannot actively
participate in society or the
system of trade). In the absence
of these institutions, the
market cannot allocate
resources efficiently and not
enough people have access to
wealth (therefore, the highest
level of living standards is not
achieved).
This also leads to an imbalance
of power, where the strong
take advantage of the weak,
certain resources are overexploited, while others are
destroyed or under-utilized
(particularly human resources).
If we are to prevent (as is
obviously happening in
developing economies) the
“invisible hand” from being
paralyzed by cramps and
leading to results that are
anything but those predicted
by Adam Smith, efficiency and
equality must be
simultaneously safeguarded
and guaranteed by a
combination of institutions.
It is clear that institutions
capable of governing
international transactions and
developing economies still do
not exist. On the other hand,
this does not necessarily imply
legal institutions (enforced by
law), it is also the simple social
conventions and rules of
behavior that make up the
institutional fabric underlying
properly functioning markets
(and it is precisely because the
market works around these
basic rules that we do not
even notice they exist). This is
why international corporations
are asked to take on these
social responsibilities “as if”
these institutions existed. In
the various contexts in which
they operate, these
international corporations
should encourage the
implementation of social
norms and rules of conduct (as
well as their transformation
into legal regulations), so that
anyone examining the process
of relocating production, for
example, and taking into
account a reasonable principle
of equality, as well as bearing
in mind differences in the
socio-economic context,
would not feel moral
repugnance at the injustice of
the situation.
B) The crisis in the financial
markets: the awareness that
certain managers (and
therefore potentially all)
systematically took advantage
of their privileged access to
information in order to doctor
accounts and collude with
auditors, accountants and
financial consultants are all
factors that triggered and
amplified the loss of
confidence in the New York
Stock Exchange. All this, as
they say, in direct conflict with
the interests of shareholders.
Paradoxically, however, it is
only in hindsight that we
realize that these managers
failed to comply with
Friedman’s theory. In fact, he
was well aware that the
theory that “a manager’s only
social responsibility is to make
19
20
profits” only applied in certain
conditions. Top management
was indeed doctoring the
accounts, colluding with
consultants and auditors in
order to create potential
profits sufficient to keep share
prices artificially high, on
which the value of their own
stock options depended, and
instantly multiplying
shareholder’s return on
investment (precisely as Enron
managers did by selling their
shares at just the right time);
and, of course, simultaneously
increasing their managerial
authority and control. The
assumption that stock markets
are more perfect than they
actually are (investors guided
by reason and with perfectly
rational expectations, etc.) and
the underestimation of the
information to which
managers are privy, as well as
their powers of collusion and
their ability to create
expectations that they can
meet in the short term; all
these factors resulted in giving
managers every incentive to
raise the value of the
company’s shares (after all,
what better proxy for
shareholders’ profits is there
than raising the value of their
stock?), but on which their
own compensation also
depended. The result was that
they bolstered expectations
through false information,
leading to the opposite result
of what was expected of
them. Beyond showing that
behavior is strategically related
to incentives, this paradox
shows that “maximizing
profits” (their financial proxy)
only becomes logical once the
other, more general moral
obligations are met, like for
instance not doctoring
accounts.
This naturally leads to a more
general question: are the
interests of the shareholders
sufficiently protected by a
governance system whereby
the accountability of managers
is based solely on providing
the information necessary to
determine the value of the
shares on the market,
confidential information to
which only managers and
auditors are privy and that
they can therefore influence
strategically? Information
concerning the profitability of
a company would likely take
on a whole new meaning, and
be much more credible, if
shareholders also knew how
environmentally friendly it
was, that it does corrupt or
collude with public
administrators, that it
genuinely meets consumer
demand in all its activities,
respects fair deals with its
suppliers, pays fairly for labor
and, especially, if in all these
matters, “voices” that cannot
(or at least not so easily) be
influenced also have their say.
A company generating high
profits while displaying a
position of high social
responsibility, i.e. maintaining
good relations with all its
stakeholders and a policy of
transparency in all matters, is
truly a company generating a
significant surplus. Greater
accountability through other
“watch dog” institutions not
interested in colluding with
management to maximize
share prices and consulting
services, but actually involved
in verifying the degree to
which a company meets its
fiduciary obligations toward all
its stakeholders whose
interests it shares, would
highlight how good
management is and be a
much more reliable guide for
sensible investments by
shareholders.
CSR and Corporate
Economic Theory
We should now return to
modern business theory (the
so-called “economy of
transaction costs” as defined
by Oliver Williamson). Many
transactions involving specific
investments (i.e., investments
likely to generate significant
profits for one stakeholder, if
the transaction with other
stakeholders is concluded) are
likely to be subject to abuse
(i.e. expropriation by one party
of the value of the
investments made by other
parties in the transactions).
The reason for this is simply
that once a special relation
with high switching costs has
been established, it is possible
to renegotiate (explicit or
implicit) agreements, thereby
increasing the risk of one of
the parties being expropriated.
This applies to investments in
financial and human capital,
technology, consumer
confidence, and investments
in supplies for a specific
client… The lack of trust
associated with these risks
may limit trade and result in
the decision not to make
mutually beneficial
investments. Obviously, this
would not happen if there
were sufficient information
to anticipate all possible
scenarios in advance and
to contractually define what
the consequences of scenario
would be. The fact is,
however, that contracts are
never complete in this respect
and many events cannot be
foreseen by the parties
involved. This underlines the
importance of discretional
decision-making, or so-called
rights of residual control,
which cannot be established
in ex ante contracts.
A company exists precisely
to deal with this problem:
to reduce transaction costs,
a company is simply a means
of placing discretional
decision-making power under
the authority of a given party
by conferring residual
decision-making rights
(residual decisions are those
that are not directly stipulated
in the contract) that the
company derives from its
ownership of the physical
resources in use. A company
functions efficiently if the
allocation of residual control
protects the stakeholders most
at risk through investments
generating additional value
or generating utility in excess
of the transaction costs.
Of course this is only a partial
explanation: clearly
investments from other areas
contribute to the surplus of
a transaction. What prevents
those in a position of power to
abuse their authority? The fact
that incentives given to a
stakeholder (who becomes
owner and residual decisionmaker) end up depreciating
the other investments. The
unfair exercise of authority
translates into a loss of
efficiency. This conclusion can
be countered by claiming that
the owner buys this right in
advance, compensating
for the interests of all those
who will later suffer. However,
nobody can assess ex ante
the value of such a right in
relation to the undefined
future state of affairs. The
long period of time for which
we would have to take into
account the consequences
of a given ownership situation
in order to duly compensate
other stakeholders for their
future purchase makes this
a futile argument.
CSR therefore naturally
complements the financial
justification of a company,
understood as an institution
to control transactions. Since
the abuse of power makes
a company inefficient and its
expectation makes relations
with other stakeholders
unstable, a further justification
for CSR would be to
complement residual decisionmaking rights with fiduciary
obligations towards other
parties at risk who do not
have these rights and cannot,
therefore, base their
transaction decisions
on the protection they
provide. As a result, extended
governance ought to include:
- residual decision-making
rights allocated to the
stakeholder with the largest
investments at risk, and who
can exercise control at the
lowest cost for himself and
the lowest risk for others;
- fiduciary obligations of
management (whether with
direct residual control rights
or as an agent) toward noncontrolling stakeholders; in
other words, the responsibility
of management to ensure that
stakeholders reap a share of
the surplus that is
commensurate to their specific
investments, i.e., to their
contribution to the value
of the transaction.
Overall, this would protect
more investments than if
management’s only fiduciary
obligation was to the owner.
A company’s efficiency
depends on its social
responsibility (and fairness)
toward those who do not
control it (a rather ironic
conclusion for an explanation
that began by emphasizing
the allocation of ownership
and control).
CSR and the corporate
social contract
So just what are the normative
contents of the fiduciary rights
of stakeholders? To answer
this, we need a morally
legitimate model from which
we can make the appropriate
deductions. By morally
legitimate, we mean an
institution that would obtain
the approval of anyone
judging it objectively in terms
of general criteria such as
overall well-being, social
efficiency as well as the
allocation of resources,
equality and respect for
freedom. I am not saying that
these impartial reasons alone
are enough to force managers
or entrepreneurs to take
action (for this, we also need
to address the issue of
“convenience”), but at least
it is obvious that they appeal
to our common sense.
Supporters of CSR firmly
believe in the image of
business as a “cooperative
game” between multiple
stakeholders, whose interests
are involved because they all
contribute something to the
whole (capital, labor, user
choices, instrumental means
and goods, regulatory
authorizations, etc.), who are
subjected to the same positive
and negative internal/external
effects and who can exercise
different degrees of influence
(by contract, by authority,
by negotiations within the
organization, by external
pressure and through
regulations, etc.). Cooperation
involves developing a joint
strategy, that is, a plan
of action describing each
stakeholder’s responsibilities to
generate a surplus of wealth
and well-being as compared
to the costs incurred by each
stakeholder by cooperating.
Stakeholders play the
cooperative game like a form
of contracting and therefore
delegate the execution of the
agreement to an agent who
becomes responsible for
implementing what has been
decided. In order to avoid the
costs of establishing
contractual agreements
between all the stakeholders,
strategic business
management may be seen as
a way of assigning to an agent
- usually the company - the
task of efficiently coordinating
the various contributions
of each stakeholder to create
a surplus (this surplus is the
result of the algebraic sum
of the profits generated and
the transaction costs incurred
by each stakeholder). The
essential part of the strategy
involves achieving cooperative
balance, whereby each
stakeholder is willing to
provide his contribution
efficiently. This wider concept
of governance means
achieving a balance between
all the various stakeholders’
interests and determines the
fiduciary obligations of those
establishing the business
strategy toward the
stakeholders themselves, who
in turn decide to cooperate,
thereby accepting the
company’s authority to make
decisions concerning the
combination of the various
contributions.
The next question, of course,
is how to achieve this
balance? The term
“stakeholder” refers to many
different groups of individuals
with a stake in the way the
company is run and potentially
conflicting interests
due to each one’s specific
investments, profit
expectations or fear of
incurring damages. The term
“stakeholder” is not very
useful because it is not a
normative concept: it does not
tell us which claims constitute
a right, and therefore it does
not tell us how to deal with
conflicting claims. Therefore,
which claims on a company
are legitimate and must be
treated as rights imposing real
fiduciary obligations
on business managers?
To answer this question we
must find an ethical criterion
to identity a justifiable
balance, in other words,
a criterion acceptable ex ante
to all stakeholders as the basis
for their cooperation and
respected ex post by both the
stakeholders and the
company. The “social contract”
between the company’s
stakeholders seems like an
appropriate criterion. This is an
idea which has been put
forward by philosophers
and economists like Rawls,
Gauthier, Buchanan and
Binmore, and that I have tried,
along with others, to apply
to business ethics. This
expression does not refer
to any real contract; it
is meant as a “yardstick”
(manager’s hypothetical
reasoning): the agreement
that would be signed in
a hypothetical situation
of unanimous choice by the
representatives of all the
stakeholders. In this ideal
contractual state of affairs,
power, fraud and
manipulation are discarded.
Each party comes to the
negotiating table with their
own capacity to contribute
to the transaction and
an assessment of the value
of every agreement, or lack
thereof. To reach a solution,
each party must put itself in
everybody else’s shoes. This
method establishes the terms
of agreement that would be
acceptable from each party’s
point of view, and therefore
from everyone’s point of view.
As a result, the social contract
is the only acceptable
agreement from an unbiased
observer’s point of view
(in this case the manager’s
perspective), who can judge
the situation from each
stakeholder’s perspective
and can thereby forge an
agreement that is mutually
advantageous to all the
company’s stakeholders,
regardless of individual points
of view.
Naturally, the remaining
question is whether such an
agreement actually exists.
If the company is a
cooperative game, however,
contract theory (a wellestablished branch of the
Game Theory first developed
by the mathematician John
Nash, winner of the Nobel
Prize for Economics, together
with Reinard Selten and John
Harsanyi) demonstrates that
there is at least one solution of
mutual benefit. In actual fact,
the contractual game creates
a whole system of possible
outcomes producing reciprocal
benefits (surpluses) and
contract theory provides some
reasonable approaches
to identify a univocal solution
for the efficient distribution of
the surplus, for example,
distribution based on
comparable concessions in
relation to each party’s highest
claim, or proportional quotas
based on the relative utility
(or its marginal variation)
of the contractual outcome
(this is basically Nash’s
solution).
Whatever the suggested
outcome of “contract
mathematics,” in the absence
of opportunistic behavior
of any one party, it is easy to
identify fairness (i.e. behavior
that respects the social contract
between stakeholders) in reallife situations by creating
an agreement that would
be unanimously acceptable.
We should consider all the
transactions in which
opportunistic behavior and
abuse of authority are likely to
arise: renegotiating contracts
with suppliers, delivery of
services to clients and hence
the execution of these services,
defining and renegotiating
business relations with
employees (including the
restructuring process), decisions
with external environmental
repercussions of a company’s
production activities, privileged
relations with public
administrators. We should now
“suspend” the advantage that
one party (often, though not
always, the company) enjoys
21
22
due to its authority, powers
of discretion, threats, greater
know-how, confidential
or proprietary information,
greater financial resources and
the ability to force other parties
to collude. And we should now
imagine that the different
parties could reach an
agreement in light of future
events. What remains is the
“ideal” agreement (or set
of agreements) between the
parties, which will be both
rational and fair. Opportunistic
behavior always implies taking
unfair advantage of the above
mentioned distorting factors
(often connected with
differences in available
information, power and
authority or simply uncertainty
as to potential outcomes),
compared with what would
have been an acceptable
agreement in the absence
of these factors, which,
unfortunately, are always
present in real life.
The value of CSR:
a company’s reputation
Let’s be frank, morality is not
always a sufficient incentive
for action. Homo oeconomicus
acts cautiously and based
on the expectation
of maximum personal gain
(although this hypothesis can
in fact be compatible with
behavior that is not strictly
selfish). We should make the
deliberately oversimplified
assumption that the
entrepreneur and manager do
not draw significant satisfaction
from following the company’s
social contract (however
justified they might think it is),
but that they derive their
usefulness from the success
of the company they run. This
implies that we must find some
additional reasons for the
implementation of CSR in the
company’s instrumental
rationalization and incentives.
Otherwise, why should a
manager implement CSR? The
answer is because it is the basis
for maintaining and growing
one of the company’s most
precious, though intangible,
assets: its reputation. A
company’s reputation is what
allows its stakeholders to trust
and therefore cooperate with
the company, while keeping
the control and contracting
aspects of transaction costs
to a minimum. On the other
hand, trust is always a difficult
choice, since in the very
concept of a relationship built
on trust there is an implicit risk
that the party asking to be
trusted may take advantage
of this trust and fail to meet
its explicit or implicit
commitments. However,
a company gains a good
reputation by initially making
at least partially credible
commitments and meeting
them over time, thereby
gradually generating the proof
of trustworthy business
conduct.
Nevertheless, building a good
reputation can become
prohibitive for a company
if the only way of proving its
trustworthiness is to show
concrete evidence of its having
met its commitments in
various areas. Take the
following situations, for
example:
- incomplete contracts: the
contract contains no clauses
about initially unforeseen
events, so that there is actually
no real gauge for recontracting;
- non-measurable quality: the
quality of a product or service
cannot be assessed by the
client based on the
information available to him;
he must therefore “trust”
an expert’s opinion (and the
manufacturer is usually an
expert);
- organizational authority: the
“boss” makes truly discretional
decisions about his employees
based on the flexibility implicit
in workers’ contracts;
- collusion: the company has
resources that allow it to
influence agreements with
representatives of clients,
suppliers or public
administrators that cannot be
measured by third parties not
involved in the illicit
relationship; therefore, the
suspicion that a company may
be colluding at the expense of
the third party is always
present.
These are all situations in
which the degree of
information and/or the
knowledge concerning the
company’s actions is
incomplete or highly
asymmetrical; or the
commitments are not defined
in relation to unexpected
events and therefore cannot
be verified; or their completion
cannot be observed. It is
precisely in situations like
these that the fiduciary
obligations of CSR prove their
usefulness for building a solid
reputation. A firm’s fiduciary
obligations to its stakeholders
are, in fact, preventive
principles and rules of
behavior stipulating how the
company will behave in the
face of unexpected events or
when its concrete actions
cannot be verified by third
parties. They also provide a
verifiable basis for the beliefs
and judgments that underpin
a company’s reputation.
As the economist David Kreps
has pointed out, expectations
are not created based on
specific (and unplanned)
events or (invisible) outcomes,
but by respecting general,
abstract principles that are
always applicable. Of course,
conformity to these principles
is guaranteed by
implementing precautionary
and preventive procedures as
a means of gauging a
company’s reputation. This
implies, therefore, (as I have
claimed elsewhere) that CSR
has a cognitive function that it
shares with any system of
principles and ethical
standards, allowing for
reciprocal expectations to be
established in situations where
the degree of information is
insufficient or uncertain. These
expectations can then be
updated and strengthened
until a sufficient degree of
trust has been established to
create a true cooperative
relationship. To serve this
purpose, the management
processes for handling CSR
must follow a certain logic (cf.
the following paragraph).
One could still claim that this is
still not a sufficient reason for
a company to abide by CSR. A
company with the reputation
of “only slightly taking
advantage” of its stakeholders’
trust may still be able to
cooperate with them,
provided its partial observance
of CSR promised sufficiently
profitable results, while the
alternative would be to give
up any and all transactions
with the company. This
scenario, of course, is anything
by fair and equitable, in as
much as the company only
meets its expectations to the
degree necessary to keep its
stakeholders from breaking off
completely their (unequal)
cooperation.
Fortunately, since CSR deals
with ethical principles and
rules of behavior, i.e., it fits in
a deontological framework, it
provides a more solid
foundation for the mechanism
of building a company’s
reputation and for the notion
that it is in fact worth abiding
by its rules of conduct to
achieve a good reputation.
The fact is that many
stakeholders have preferences
that are not only selfinterested or aimed at material
benefits (consequences). They
also value the fact that a
company should meet the
obligations it derives from its
social contract, particularly if
these obligations are clearly
stated in official rules of
conduct and the company
makes them public. As a
result, failure to comply with
CSR, or any other ethical
commitment, is punished
more severely than if there
were just some material
interest at stake. The panic
attack of the stock markets in
the wake of the American
management scandals can be
explained, at least in part, as
punishment for managers’
failure to respect the principles
they had pledged to uphold.
Other examples are the
boycotting by “ethical
investors” and “responsible
consumers” of certain
multinational corporations
whose operations in
developing countries blatantly
violate the ethical standards of
the corporations’ home
countries.
This does not necessarily imply
that, on the one hand,
economic common sense
dictates business behavior
and, on the other hand, pure
ideology governs the choices of
“ethical” stakeholders. Recent
studies have shown that
economic common sense can
be extended to encompass
preferences determined not
only by material benefits, but
rather by the extent to which
certain actions conform
to rationally accepted ideals.
In other words, over and above
the desire for the best possible
outcome for oneself or others,
preferences may also include
that other parties’ actions
should conform to principles
and ideals that are shared
and accepted by both parties
in a relationship (e.g., the ideal
“hypothetical contract”
experiment in paragraph 4).
Strictly speaking, the benefit to
the stakeholder is the weighted
combination of material and
ideological benefits, that is,
the benefits represented by our
conformist preference derived
from the observation of the
social contract. In this respect,
reducing the concept of
economic benefits to merely
their monetary or material
expression would be a gross
over-simplification.
If this is the case, then we have
a rational explanation for the
harsh punishment, that at
times even exceeded the direct
economic prejudice suffered
by investors, meted out by
the stock market to companies
whose ethical codes of
behavior (however limited)
claimed to be committed
to integrity. In conclusion,
conformist preferences magnify
the effects of a positive or
negative reputation and make
the strategic decision of a
company to conform “only
partially” to a system of shared
values less viable.
CSR Management Systems
As we have seen, CSR
addresses the problem of
assuming commitments which
carry with them specific
expectations, even in situations
that cannot be concretely
planned or in which concrete
results and actions are not
directly observable, thereby
turning them into “fiduciary
obligations” toward the
stakeholders. It therefore
becomes vitally important to
design management systems
that support CSR. A number
of attempts to standardize
a quality control system for CSR
are emerging from the
international debate that has
been summed up but also
placed on a higher level by the
European Commission’s Green
Paper. Specifically, the phases
and instruments for quality
control of the Social Ethical
Responsibility project (Q-RES)
currently being drawn up in
Italy are the following:
1) Ethical vision of the
company: not just a simple
statement of the company’s
mission, but a vision of the
company’s social contract with
its stakeholders, i.e., the
equitable balancing
of their interests;
2) Code of ethics:
- the principles defining the
overall balance of rights and
obligations toward each
category of stakeholder;
- the standards of moral
behavior for each risk area
in relations with stakeholders,
proscribing the typical forms
of abuse and stipulating the
recommended preventive
standards of behavior;
3) Ethical training to develop
skills in understanding
organizational events in terms
of their relevance to ethical
principles and to instill a sense
of commitment to these
principles and rules of behavior;
4) Organizational means
of implementation: an ethical
committee capable of
objectively representing the
various stakeholders’ points of
view; top-down auditing;
bottom-up dialogue that
incorporates CSR in production
tasks and objectives;
assessment and motivation of
staff through tangible and
intangible systems of
assessment linked to CSR
conformity and results;
5) Social accountability: make
public the principles and
standards for supplying
stakeholders with new
parameters on which to judge
the company; illustration
through social reports of the
relation between performance
and commitment, showing the
results obtained in relation to
each stakeholder either in
terms of distributed economic
value, or of other benefits or
management costs; inclusion of
the stakeholders’ perspective to
lend credibility to
accountability;
6) External assessment and
certification of CSR based on
evidence from each instrument
and on results obtained in the
different areas of management
(resource management, quality
control of products and
services, etc.).
This is not the place to explore
these tools in greater detail.
However, it is appropriate to
reiterate the underlying logic
and structure, which is the
cognitive role a company’s
ethics plays in the stakeholders’
judgment concerning a
company’s well-earned
reputation (or lack thereof).
It is the vision and the basic
principles that define the
notion of corporate justice.
These are general and abstract
principles that can be applied
to multiple events, including
those that cannot be foreseen
in advance. They do not need a
detailed description of the
situation in order to be applied.
The presence of certain
abstract characteristics is
enough. Moreover, unlike
detailed rules and contracts,
when the appropriate clause
for an unforeseen contingency
is missing, general principles
are always applicable, because
they cover both events that
have been taken into account,
as well as any unforeseen and
unforeseeable contingencies
that feature the structure or
abstract characteristic covered
by the principle. Their range of
application is purposely vague
(a slight ambiguity remains as
to the categorization of
unforeseen situations in terms
of a governing principle). But
this vagueness can be
managed by using the logic of
moral reasoning, thereby
allowing the categorization of
unforeseen contingencies
under certain principles, at least
within certain limits of
vagueness (to this end, the
ability for moral reasoning of
members of the organization
must be developed).
Furthermore, the precautionary
and deterrent rules of a code of
ethics need not be based on
concrete situations; they simply
come into play when the risk of
violating a principle exceeds a
certain predetermined
threshold. In other words, they
are applied by default.
Reasoning by default does not
require full information about a
given situation. Whenever an
event governed by one of the
principles of ethics exceeds a
certain threshold of vagueness,
then the rules come into play.
Therefore, the conditions for
implementing them can in fact
be determined ex ante and
stakeholders can legitimately
base their expectations on
them. Moreover, it is the rules –
and not any special decisions or
consequences – that need to
be standardized, which are
observable and verifiable by an
external observer since their
application is the proof that no
principle has been intentionally
broken. Finally, two-way
communication and dialogue
with the stakeholders is an
essential part of the system:
principles, standards and codes
of conduct must be made
known, since the company’s
reputation depends on them.
The stakeholders will base their
judgment on the correlation
between events/principles and
procedures announced ex
ante/behavior, such that social
accountability will not be
limited to enhancing “social
results” as an unintentional
byproduct of economic activity
aimed at other objectives (e.g.
generating profits).
Stakeholders have a “common
understanding” of the risk (or
rather: vagueness) with which
certain events jeopardize a
given principle. As a result,
23
Come giudicare il globalismo
How to Judge Globalization
di Amartya Sen*
by Amartya Sen*
Confondere la globalizzazione con l’occidentalizzazione non solo è antistorico,
ma distrae l’attenzione dai molti benefici potenziali dell’integrazione globale
Confusing globalization with Westernization is not only ahistorical, it also diverts attention
from the many potential benefits of global integration
24
there is no advantage to be
gained in manipulating this
information: the risk is to ruin
one’s reputation or even to
totally destroy all trust. On the
contrary, the ability to judge
like an unbiased spectator must
be developed, to be able to put
oneself in the shoes of the
average stakeholder, who is
neither benevolent nor
malevolent (once again it is
important to develop the
capacity for moral reasoning).
Naturally, this ability is
developed by increasing the
dialogue with the stakeholders
(for example, during and after
the process of social
accountability, but even more
so by appointing independent
members, capable of unbiased
judgment, to the corporate
ethical committee). Lastly, the
system’s credibility can be
sustained by external
assessment and certification
carried out by truly
independent bodies, who
operate from the point of view
of the average stakeholder and
who are, thanks to their
organization, beyond the
suspicion of any “conflict
of interest.”
Conclusions
Although we will not go so far
as to say that companies are
naturally inclined to abide by
CSR, it can be said that in this
field there is much room for
self-regulation backed by the
intelligent supervision by public
institutions. Stakeholders can
influence a company’s
reputation, which is a key
intangible asset for any
business. This can indeed
constitute a sufficiently strong
motive to push a company to
adopt CSR as one of the criteria
of its own governance system
and business strategy. On the
other hand, motivations based
on ideals increase stakeholders’
reactivity in the face of
divergences from responsible
behavior, particularly if it is has
been publicized, given that an
important component of many
stakeholders’ benefits is
ideological and linked to
conformity. We may therefore
expect that more companies
will attempt to improve their
reputation through CSR
management systems.
Nevertheless, this is not
necessarily enough to trigger
an evolutionary process
favoring companies whose
own governance and
management systems are
geared to the principles of CSR.
This is where public institutions
could play an important role,
as the European Commission
seems to suggest in its
guidelines. Not so much
through heavy-handed
regulation and the imposition
of external obligations, but
rather by stimulating social
dialogue that encourages selfregulation; by rewarding
companies who adopt it; by
supporting and amplifying the
voice of stakeholders and the
effects on a company’s
reputation in its degree
of conformity to generally
accepted CSR standards. And,
if need be, by introducing the
need for a certified CSR
management system among
the non-compulsory, yet
meritorious criteria for
companies to qualify for public
utility functions and/or
contracts or leases/concessions,
or to gain access to
development incentives.
*Lorenzo Sacconi is Professor of
Institutional Economics in the Economics
Department of Trento University (Italy)
and Director of the CELE-Centre for
Ethics Law & Economics at Cattaneo-LIUC
University in Castellanza.
Amartya Sen
L
a globalizzazione è spesso
vista come
occidentalizzazione. Su
questo punto c’è un
sostanziale accordo tra i molti
sostenitori e oppositori.
Coloro che assumono un
punto di vista ottimista della
globalizzazione la vedono
come un meraviglioso
contributo della civiltà
occidentale al mondo. Si può
fare un riassunto stilizzato dei
grandi sviluppi avvenuti in
Europa: prima venne il
Rinascimento, poi
l’Illuminismo e la Rivoluzione
Industriale che portarono a un
miglioramento di massa degli
standard di vita in Occidente.
Ora, le grandi conquiste
dell’Occidente si stanno
diffondendo nel mondo. Da
questo punto di vista, la
globalizzazione non solo è un
bene, ma anche un dono
dell’Occidente al mondo. I
sostenitori di questa lettura
della storia tendono a irritarsi
non solo perché questo
enorme bene è visto come
una maledizione ma anche
perché è sottovalutato e
disprezzato da un mondo
ingrato.
Dalla prospettiva opposta, il
dominio occidentale – spesso
interpretato come
continuazione
dell’Imperialismo occidentale –
rappresenta il male. In tale
visione, il capitalismo
contemporaneo, guidato dalle
avide e rapaci nazioni
occidentali dell’Europa e del
Nord America, ha stabilito
regole di commercio e
relazioni d’affari che non
servono gli interessi dei poveri
del mondo. La celebrazione
delle varie identità nonoccidentali – definite da
religioni (come il
fondamentalismo islamico),
regioni (come il primato dei
valori asiatici) o culture (come
la glorificazione dell’etica del
confucianesimo) – può
aggiungere benzina al fuoco
del confronto con l’Occidente.
La globalizzazione è
veramente la nuova
maledizione dell’Occidente?
Essa, in effetti, non è nuova
né necessariamente
occidentale; e non è una
maledizione. Per migliaia di
anni, la globalizzazione ha
contribuito al progresso del
mondo attraverso i viaggi, il
commercio, le migrazioni, la
diffusione di influenze culturali
e la disseminazione della
conoscenza e della
comprensione (incluse quella
scientifica e tecnologica).
Queste interrelazioni globali
sono state spesso assai
produttive nel progresso delle
diverse nazioni. Non hanno
necessariamente preso la
forma di un aumento
dell’influenza occidentale.
Anzi, gli agenti attivi della
globalizzazione sono
provenuti spesso da luoghi
lontani dall’Occidente.
Per esempio, consideriamo il
mondo all’inizio dello scorso
millennio invece che alla sua
fine. Attorno al 1000 d.C., le
conquiste globali della scienza,
della tecnologia e della
matematica cominciarono a
cambiare la natura del vecchio
mondo, ma allora la
disseminazione fu, per la
maggior parte, in direzione
opposta a quella attuale. L’alta
tecnologia nel mondo del
1000 d.C. comprendeva la
carta, la stampa, l’arco, la
polvere da sparo, il ponte a
catenaria, l’aquilone, la
bussola magnetica, la carriola,
il ventilatore. Un millennio fa,
questi oggetti erano
ampiamente utilizzati in Cina
e praticamente sconosciuti
altrove. La globalizzazione ha
fatto sì che si diffondessero
nel mondo, compresa
l’Europa.
Un movimento simile è
avvenuto per l’influenza
orientale sulla matematica
occidentale. Il sistema
decimale è emerso e si è
sviluppato in India tra il
secondo e il sesto secolo;
subito dopo fu impiegato dai
matematici arabi. Tali
innovazioni matematiche
raggiunsero l’Europa
soprattutto nell’ultimo quarto
del decimo secolo e
cominciarono ad avere un
impatto nei primi anni del
millennio, giocando un ruolo
importante nella rivoluzione
scientifica che favorì la
trasformazione dell’Europa.
Gli agenti della
globalizzazione non sono
europei né esclusivamente
occidentali, né sono legati
necessariamente al dominio
occidentale. In realtà, l’Europa
sarebbe stata assai più povera
– economicamente,
culturalmente e
scientificamente – se avesse a
quel tempo resistito alla
globalizzazione della
matematica, della scienza e
della tecnologia. Oggi, si
applica lo stesso principio,
sebbene in direzione opposta
(da ovest a est). Rifiutare la
globalizzazione della scienza e
della tecnologia perché
rappresenta l’influenza e
l’imperialismo occidentali
significherebbe non solo
lasciarsi sfuggire i contributi
globali – provenienti da
diverse parti del mondo – che
sono solidamente alla base
della scienza e della
tecnologia occidentali, ma
sarebbe anche una decisione
stupida dal punto di vista
pratico, visto quanto il mondo
intero potrebbe beneficiare del
processo.
Un’eredità globale
Nell’opporci alla diagnosi della
globalizzazione come
fenomeno di origine
essenzialmente occidentale,
dobbiamo essere sospettosi
non solo nei riguardi della
retorica anti-occidentale ma
anche dello sciovinismo prooccidentale di molti scritti
contemporanei. Certamente, il
Rinascimento, l’Illuminismo e
la Rivoluzione Industriale sono
stati grandi conquiste – e sono
avvenuti principalmente in
Europa e, poi, in America.
Eppure, molti di questi sviluppi
sono derivati da esperienze
del resto del mondo e non
sono stati confinati nella civiltà
occidentale.
La nostra civiltà globale è
un’eredità del mondo – non
solo una collezione di culture
25
Come giudicare il globalismo
How to Judge Globalization
di Amartya Sen*
by Amartya Sen*
Confondere la globalizzazione con l’occidentalizzazione non solo è antistorico,
ma distrae l’attenzione dai molti benefici potenziali dell’integrazione globale
Confusing globalization with Westernization is not only ahistorical, it also diverts attention
from the many potential benefits of global integration
24
there is no advantage to be
gained in manipulating this
information: the risk is to ruin
one’s reputation or even to
totally destroy all trust. On the
contrary, the ability to judge
like an unbiased spectator must
be developed, to be able to put
oneself in the shoes of the
average stakeholder, who is
neither benevolent nor
malevolent (once again it is
important to develop the
capacity for moral reasoning).
Naturally, this ability is
developed by increasing the
dialogue with the stakeholders
(for example, during and after
the process of social
accountability, but even more
so by appointing independent
members, capable of unbiased
judgment, to the corporate
ethical committee). Lastly, the
system’s credibility can be
sustained by external
assessment and certification
carried out by truly
independent bodies, who
operate from the point of view
of the average stakeholder and
who are, thanks to their
organization, beyond the
suspicion of any “conflict
of interest.”
Conclusions
Although we will not go so far
as to say that companies are
naturally inclined to abide by
CSR, it can be said that in this
field there is much room for
self-regulation backed by the
intelligent supervision by public
institutions. Stakeholders can
influence a company’s
reputation, which is a key
intangible asset for any
business. This can indeed
constitute a sufficiently strong
motive to push a company to
adopt CSR as one of the criteria
of its own governance system
and business strategy. On the
other hand, motivations based
on ideals increase stakeholders’
reactivity in the face of
divergences from responsible
behavior, particularly if it is has
been publicized, given that an
important component of many
stakeholders’ benefits is
ideological and linked to
conformity. We may therefore
expect that more companies
will attempt to improve their
reputation through CSR
management systems.
Nevertheless, this is not
necessarily enough to trigger
an evolutionary process
favoring companies whose
own governance and
management systems are
geared to the principles of CSR.
This is where public institutions
could play an important role,
as the European Commission
seems to suggest in its
guidelines. Not so much
through heavy-handed
regulation and the imposition
of external obligations, but
rather by stimulating social
dialogue that encourages selfregulation; by rewarding
companies who adopt it; by
supporting and amplifying the
voice of stakeholders and the
effects on a company’s
reputation in its degree
of conformity to generally
accepted CSR standards. And,
if need be, by introducing the
need for a certified CSR
management system among
the non-compulsory, yet
meritorious criteria for
companies to qualify for public
utility functions and/or
contracts or leases/concessions,
or to gain access to
development incentives.
*Lorenzo Sacconi is Professor of
Institutional Economics in the Economics
Department of Trento University (Italy)
and Director of the CELE-Centre for
Ethics Law & Economics at Cattaneo-LIUC
University in Castellanza.
Amartya Sen
L
a globalizzazione è spesso
vista come
occidentalizzazione. Su
questo punto c’è un
sostanziale accordo tra i molti
sostenitori e oppositori.
Coloro che assumono un
punto di vista ottimista della
globalizzazione la vedono
come un meraviglioso
contributo della civiltà
occidentale al mondo. Si può
fare un riassunto stilizzato dei
grandi sviluppi avvenuti in
Europa: prima venne il
Rinascimento, poi
l’Illuminismo e la Rivoluzione
Industriale che portarono a un
miglioramento di massa degli
standard di vita in Occidente.
Ora, le grandi conquiste
dell’Occidente si stanno
diffondendo nel mondo. Da
questo punto di vista, la
globalizzazione non solo è un
bene, ma anche un dono
dell’Occidente al mondo. I
sostenitori di questa lettura
della storia tendono a irritarsi
non solo perché questo
enorme bene è visto come
una maledizione ma anche
perché è sottovalutato e
disprezzato da un mondo
ingrato.
Dalla prospettiva opposta, il
dominio occidentale – spesso
interpretato come
continuazione
dell’Imperialismo occidentale –
rappresenta il male. In tale
visione, il capitalismo
contemporaneo, guidato dalle
avide e rapaci nazioni
occidentali dell’Europa e del
Nord America, ha stabilito
regole di commercio e
relazioni d’affari che non
servono gli interessi dei poveri
del mondo. La celebrazione
delle varie identità nonoccidentali – definite da
religioni (come il
fondamentalismo islamico),
regioni (come il primato dei
valori asiatici) o culture (come
la glorificazione dell’etica del
confucianesimo) – può
aggiungere benzina al fuoco
del confronto con l’Occidente.
La globalizzazione è
veramente la nuova
maledizione dell’Occidente?
Essa, in effetti, non è nuova
né necessariamente
occidentale; e non è una
maledizione. Per migliaia di
anni, la globalizzazione ha
contribuito al progresso del
mondo attraverso i viaggi, il
commercio, le migrazioni, la
diffusione di influenze culturali
e la disseminazione della
conoscenza e della
comprensione (incluse quella
scientifica e tecnologica).
Queste interrelazioni globali
sono state spesso assai
produttive nel progresso delle
diverse nazioni. Non hanno
necessariamente preso la
forma di un aumento
dell’influenza occidentale.
Anzi, gli agenti attivi della
globalizzazione sono
provenuti spesso da luoghi
lontani dall’Occidente.
Per esempio, consideriamo il
mondo all’inizio dello scorso
millennio invece che alla sua
fine. Attorno al 1000 d.C., le
conquiste globali della scienza,
della tecnologia e della
matematica cominciarono a
cambiare la natura del vecchio
mondo, ma allora la
disseminazione fu, per la
maggior parte, in direzione
opposta a quella attuale. L’alta
tecnologia nel mondo del
1000 d.C. comprendeva la
carta, la stampa, l’arco, la
polvere da sparo, il ponte a
catenaria, l’aquilone, la
bussola magnetica, la carriola,
il ventilatore. Un millennio fa,
questi oggetti erano
ampiamente utilizzati in Cina
e praticamente sconosciuti
altrove. La globalizzazione ha
fatto sì che si diffondessero
nel mondo, compresa
l’Europa.
Un movimento simile è
avvenuto per l’influenza
orientale sulla matematica
occidentale. Il sistema
decimale è emerso e si è
sviluppato in India tra il
secondo e il sesto secolo;
subito dopo fu impiegato dai
matematici arabi. Tali
innovazioni matematiche
raggiunsero l’Europa
soprattutto nell’ultimo quarto
del decimo secolo e
cominciarono ad avere un
impatto nei primi anni del
millennio, giocando un ruolo
importante nella rivoluzione
scientifica che favorì la
trasformazione dell’Europa.
Gli agenti della
globalizzazione non sono
europei né esclusivamente
occidentali, né sono legati
necessariamente al dominio
occidentale. In realtà, l’Europa
sarebbe stata assai più povera
– economicamente,
culturalmente e
scientificamente – se avesse a
quel tempo resistito alla
globalizzazione della
matematica, della scienza e
della tecnologia. Oggi, si
applica lo stesso principio,
sebbene in direzione opposta
(da ovest a est). Rifiutare la
globalizzazione della scienza e
della tecnologia perché
rappresenta l’influenza e
l’imperialismo occidentali
significherebbe non solo
lasciarsi sfuggire i contributi
globali – provenienti da
diverse parti del mondo – che
sono solidamente alla base
della scienza e della
tecnologia occidentali, ma
sarebbe anche una decisione
stupida dal punto di vista
pratico, visto quanto il mondo
intero potrebbe beneficiare del
processo.
Un’eredità globale
Nell’opporci alla diagnosi della
globalizzazione come
fenomeno di origine
essenzialmente occidentale,
dobbiamo essere sospettosi
non solo nei riguardi della
retorica anti-occidentale ma
anche dello sciovinismo prooccidentale di molti scritti
contemporanei. Certamente, il
Rinascimento, l’Illuminismo e
la Rivoluzione Industriale sono
stati grandi conquiste – e sono
avvenuti principalmente in
Europa e, poi, in America.
Eppure, molti di questi sviluppi
sono derivati da esperienze
del resto del mondo e non
sono stati confinati nella civiltà
occidentale.
La nostra civiltà globale è
un’eredità del mondo – non
solo una collezione di culture
25
26
locali disparate. Quando un
moderno matematico di
Boston cerca un algoritmo per
risolvere un difficile problema
di calcolo, potrebbe non
essere conscio che sta
contribuendo a commemorare
il matematico arabo
Mohammad Ibn Musa-alKhwarizmi, che operò nella
prima metà del nono secolo
(la parola algoritmo deriva dal
nome al-Khwarizmi). Esiste
una catena di relazioni
intellettuali che lega la
matematica e la scienza
occidentali a una serie di
studiosi prettamente nonoccidentali, tra cui uno è alKhwarizmi (il termine algebra
deriva dal titolo del suo
famoso libro Al-Jabr wa-alMuqabilah). Insomma, alKhwarizmi è uno dei molti
studiosi decisamente nonoccidentali i cui lavori
influenzarono il Rinascimento
europeo e, in seguito,
l’Illuminismo e la Rivoluzione
Industriale. L’Occidente deve
ricevere pieno credito per le
notevoli conquiste europee e
dell’America europeizzata, ma
l’idea di un’immacolata
concezione occidentale è pura
fantasia.
Non solo il progresso della
scienza e della tecnologia
globale non è un fenomeno
guidato esclusivamente
dall’Occidente, ma ci sono
stati molte tra le più
importanti conquiste globali in
cui l’Occidente non è stato
minimamente coinvolto. La
stampa del primo libro nel
mondo è stato un evento
meravigliosamente
globalizzato. La tecnologia
della stampa è stata,
naturalmente, una conquista
completamente cinese. Ma il
contenuto veniva da altrove. Il
primo libro stampato è stato
un trattato indiano sanscrito,
tradotto in cinese da un
mezzo turco. Il libro,
Vajracchedika
Prajnaparamitasutra (citato a
volte come “Il Sutra
Diamante”), è un antico
trattato sul Buddismo; fu
tradotto in cinese dal sanscrito
nel quinto secolo da
Kumarajiva, uno studioso
mezzo indiano e mezzo turco
che viveva nel Turkistan
orientale, in una regione
chiamata Kucha, che poi
emigrò in Cina. Il libro fu
stampato quattro secoli più
tardi, nel 868 d.C. Questo
coinvolgimento di Cina,
Turchia e India è certamente
globalizzazione, ma
dell’Occidente non c’è traccia.
Interdipendenze e
Movimenti Globali
L’errata diagnosi che la
globalizzazione delle idee e
delle pratiche debba essere
contrastata perché implica la
temuta occidentalizzazione ha
giocato un ruolo quasi di
regressione nel mondo
coloniale e post-coloniale.
Una tale assunzione favorisce
le tendenze “parrocchiali” e
mina le possibilità di
oggettività della scienza e
della conoscenza. Non solo è
controproducente in sé: date
le interazioni globali nel corso
della storia, può anche far sì
che le società non occidentali
si sparino da sole nei piedi –
anche nei loro preziosi piedi
culturali.
Si consideri la resistenza in
India all’uso di idee e concetti
occidentali nelle scienze e
nella matematica. Nel
diciannovesimo secolo, questo
dibattito sfociò in una vasta
controversia circa l’educazione
occidentale versus
l’educazione indiana
tradizionale. Gli
“occidentalisti” come il
temibile Thomas Babington
Macaulay, non vedeva
assolutamente alcun merito
nella tradizione indiana. “Non
ho mai trovato uno solo tra
loro [avvocati della tradizione
indiana] in grado di negare
che un solo scaffale di una
buona biblioteca europea
valesse l’intera letteratura
indiana e araba”, dichiarò. In
parte per ritorsione, gli
avvocati dell’educazione
indigena si opposero alle
influenze occidentali in toto.
Entrambe le parti, tuttavia,
accettarono troppo
prontamente la dicotomia di
fondo tra due culture diverse.
La matematica europea, con
l’utilizzo di concetti come il
“seno”, era vista come
un’importazione puramente
occidentale in India. In effetti,
il matematico indiano del
quinto secolo Aryabhata
aveva trattato il concetto di
seno nel suo lavoro classico
sull’astronomia e la
matematica nel 499 d.C.,
chiamandolo col nome
sanscrito jya-ardha
(letteralmente “mezza
corda”). Questa parola,
inizialmente abbreviata in jya
in sanscrito, divenne infine
jiba in arabo e, poi, jaib, che
significa “insenatura o baia”.
Nella sua storia della
matematica, Howard Eves
spiega come attorno al 1150
d.C. Gherardo da Cremona,
nella sua traduzione
dall’arabo, rese la parola jaib
col latino sinus, parola
corrispondente a “insenatura
o baia”. E questa è la fonte
della moderna parola seno. Il
concetto ha percorso un
cerchio perfetto – dall’India e
ritorno. Vedere la
globalizzazione come mero
imperialismo occidentale di
idee e credenze (come ci
suggerisce spesso la retorica)
sarebbe un errore grave e
costoso, come lo sarebbe
stata un’opposizione europea
all’influenza orientale all’inizio
dello scorso millennio.
Naturalmente, ci sono temi
legati alla globalizzazione che
la connettono all’imperialismo
(la storia delle conquiste, il
colonialismo, regole aliene
rimangono importanti sotto
molti aspetti ancora oggi), ed
è importante una
comprensione post-coloniale
del mondo. Ma sarebbe un
grande errore vedere la
globalizzazione
principalmente come un
aspetto dell’imperialismo. Essa
è molto più grande e
importante di questo.
Il tema della distribuzione dei
guadagni e delle perdite in
termini economici dovuti alla
globalizzazione resta una
questione completamente
distinta e deve essere trattata
come un tema ulteriore e di
estrema importanza. È
ampiamente provato che
l’economia globale ha portato
prosperità a molte diverse
aree del globo. Una povertà
diffusa dominava il mondo
pochi secoli fa; c’erano solo
piccole sacche di affluenza.
Nel superare la penuria le
estensive interrelazioni
economiche e la tecnologia
moderna sono state e
rimangono influenti. Ciò che
è accaduto in Europa,
America, Giappone e Asia
Orientale contiene messaggi
importanti per tutte le altre
regioni, e non si è certo
molto lontano nella
comprensione della natura
della globalizzazione attuale
senza prima riconoscere i
frutti positivi dei contatti
economici globali.
In realtà, non possiamo
invertire la precarietà
economica dei poveri del
mondo privandoli dei grandi
vantaggi della tecnologia
contemporanea, della ben
stabilita efficienza del
commercio e degli scambi
internazionali e dei vantaggi
economici e sociali del vivere
in una società aperta. Al
contrario il tema principale è
come fare buon uso dei
notevoli benefici dello
scambio economico e del
progresso tecnologico in
modo da pagare la dovuta
attenzione agli interessi dei
poveri e dei diseredati. Vale a
dire, secondo me, la
questione costruttiva che
emerge dai cosiddetti
movimenti
antiglobalizzazione.
I poveri stanno diventando
più poveri?
La sfida principale riguarda la
disuguaglianza – sia
internazionale che nazionale.
Le preoccupanti
disuguaglianze comprendono
la disparità nell’accesso alla
ricchezza e anche le evidenti
asimmetrie in campo politico,
sociale, e di opportunità
economiche e di potere.
Una questione cruciale è
quella della condivisione dei
guadagni potenziali
provenienti dalla
globalizzazione – tra nazioni
ricche e povere e tra diversi
gruppi all’interno di una
nazione. Non è sufficiente
capire che i poveri del mondo
hanno bisogno della
globalizzazione quanto i
ricchi. È altrettanto
importante assicurarsi che essi
possano realmente avere ciò
di cui hanno bisogno. Per
ottenere questo può essere
necessaria una profonda
riforma istituzionale, pur nella
difesa della globalizzazione.
C’è anche bisogno di maggior
chiarezza nella formulazione
delle questioni distributive.
Per esempio, si afferma
spesso che i ricchi stanno
diventando più ricchi e i
poveri più poveri. Ma non è
assolutamente sempre così,
anche se ci sono casi in cui
questo è accaduto. Molto
dipende dalla regione o dal
gruppo scelto e da quali
indicatori di prosperità
economica sono usati. Ma il
tentativo di castigare la
globalizzazione economica su
questa base di ghiaccio sottile
produce una critica
particolarmente fragile.
Dall’altro lato, gli apologhi
della globalizzazione puntano
alla propria convinzione che i
poveri che partecipano al
commercio e allo scambio
stanno per lo più diventando
più ricchi. Ergo – prosegue
questa tesi – la
globalizzazione non è ingiusta
per i poveri: anche loro ne
traggono vantaggio. Se il
nodo centrale di questo
dibattito è accettato, allora
l’intera questione diventa
quella di determinare quale
posizione sia corretta a livello
empirico. Ma è questo il
campo di battaglia giusto da
mettere al primo posto? Io
direi di no.
Giustizia globale e il
problema della
contrattazione
Anche se i poveri dovessero
diventare solo un po’ più
ricchi, questo non
implicherebbe
necessariamente che essi
ricevano una giusta porzione
dei benefici potenzialmente
vasti delle interrelazioni
economiche globali. Non è
adeguato chiedere se la
disuguaglianza internazionale
sta diventando marginalmente
maggiore o minore. Per
ribellarsi all’impressionante
povertà e alle sconcertanti
disuguaglianze che
caratterizzano il mondo
contemporaneo – o per
protestare contro l’ingiusta
suddivisione dei benefici della
cooperazione globale – non è
necessario mostrare che la
massiccia disuguaglianza o
l’ingiustizia della distribuzione
sta diventando marginalmente
maggiore. Anche questo è un
altro tema.
Quando ci sono guadagni
dovuti alla cooperazione, ci
possono essere molte possibili
sistemazioni. Come
argomentato dal teorico dei
giochi e matematico John
Nash più di mezzo secolo fa
(in “Il problema della
contrattazione”, pubblicato in
Econometria, 1950, che fu
citato, con altri scritti, dalla
Royal Swedish Academy of
Sciences quando Nash
ricevette il Premio Nobel per
l’Economia), il tema centrale
in generale non è se una
particolare sistemazione è
migliore per tutti di quanto
potrebbe esserlo una
completa non cooperazione,
ma se esiste una giusta
ripartizione dei benefici. Non
si può confutare la critica che
una sistemazione distributiva è
ingiusta semplicemente
notando che tutte le parti
stanno meglio che in assenza
di cooperazione; il vero
esercizio è la scelta tra queste
alternative.
Un’analogia con la famiglia
Per analogia, per affermare
che una particolare
organizzazione familiare
diseguale e sessista è ingiusta,
non si deve dimostrare che le
donne sarebbero state
comparativamente meglio se
non fossero esistite affatto le
famiglie, ma solo che la
ripartizione dei benefici è
gravemente disuguale in
quella particolare
organizzazione. Prima che il
tema della giustizia sessuale
divenisse un problema
esplicitamente riconosciuto
(come è avvenuto negli ultimi
decenni), c’erano tentativi di
liquidare il tema dell’ingiusta
organizzazione nell’ambito
della famiglia suggerendo che
le donne non avevano
bisogno di vivere in una
famiglia se credevano che la
sua organizzazione fosse così
ingiusta. Si affermò che,
poiché sia le donne sia gli
uomini beneficiano del vivere
in famiglia, l’organizzazione
esistente non poteva essere
ingiusta. Ma anche
accettando che normalmente
entrambi traggono beneficio
dalla vita in una famiglia, la
questione della giustizia
distributiva resta. Molte
diverse organizzazioni familiari
– se comparate con l’assenza
di qualsiasi sistema familiare –
soddisfano la condizione di
portare beneficio sia agli
uomini che alle donne. Il vero
problema è quanto
giustamente siano distribuiti i
benefici associati a queste
rispettive organizzazioni.
Allo stesso modo non si può
confutare l’imputazione che il
sistema globale è ingiusto
dimostrando che i poveri
guadagnano qualcosa dai
contatti globali e che questi
non li rendono
necessariamente più poveri.
Tale risposta può essere più o
meno sbagliata; di sicuro lo è
la domanda. Il punto critico
non è se i poveri stiano
diventando marginalmente più
poveri o più ricchi. Né se
stanno meglio di come
27
28
starebbero se fossero esclusi
dalle interazioni globali.
Ribadisco che il problema
reale è la distribuzione dei
benefici della globalizzazione.
In verità, questo è il motivo
per cui molti di coloro che
protestano contro la
globalizzazione, che cercano
una vita migliore per i
diseredati dell’economia
mondiale, non sono –
contrariamente alla loro
retorica e alle opinioni loro
attribuite da altri – realmente
“antiglobalizzazione”. Ed è
anche il motivo per cui non
c’è una vera contraddizione
nel fatto che le cosiddette
proteste antiglobalizzazione
siano divenute tra gli eventi
più globalizzati del mondo
contemporaneo.
Modificare l’organizzazione
globale
Comunque sia, i gruppi che
stanno peggio possono
raggiungere una vita migliore
grazie all’economia e alle
relazioni sociali globalizzate
senza eliminare l’economia di
mercato in sé? Certamente sì.
L’uso dell’economia di
mercato è compatibile con
molti diversi schemi di
proprietà, disponibilità di
risorse, opportunità sociali e
regole operative (come le leggi
sui diritti e le norme antitrust).
A seconda di queste
condizioni, l’economia di
mercato genererà diversi
prezzi, termini commerciali,
distribuzione dei guadagni e,
più in generale, diversi
risultati. L’organizzazione della
sicurezza sociale e altri
interventi pubblici possono
apportare ulteriori
modificazioni ai risultati dei
processi commerciali e,
insieme, generare livelli
variabili di disuguaglianza e
povertà.
La questione centrale non è se
usare l’economia di mercato. È
facile rispondere a questa
futile domanda, perché è
difficile raggiungere la
prosperità economica senza
utilizzare a fondo le possibilità
di scambio e la
specializzazione che le
relazioni di mercato offrono.
Anche se l’operatività
dell’economia di un dato
mercato può essere
significativamente deficitaria,
non c’è modo di fare a meno
dell’istituzione dei mercati in
generale come potente
motore per il progresso
economico.
Ma la comprensione di questo
non mette fine al dibattito
sulle relazioni di mercato
globalizzate. L’economia di
mercato non opera da sola
nell’ambito delle relazioni
globali – in realtà, non può
operare da sola neppure
all’interno di una data
nazione. Non è solo il caso
che un sistema
onnicommerciale possa
generare risultati molto diversi
a seconda delle diverse
condizioni di partenza (per
esempio come sono distribuite
le risorse fisiche, come sono
sviluppate le risorse umane,
quali sono le regole prevalenti
nelle relazioni di affari, quale
organizzazione di sicurezza
sociale esistono, eccetera).
Queste condizioni di base
dipendono esse stesse
criticamente dalle istituzioni
economiche, sociali e politiche
che operano a livello
nazionale e globale.
Il ruolo cruciale dei mercati
non rende insignificanti le
altre istituzioni, anche in
termini dei risultati che
l’economia di mercato può
produrre. Come è stato
ampiamente stabilito da studi
empirici, i ricavi del mercato
sono massicciamente
influenzati dalle politiche
pubbliche in campo educativo,
epidemiologico, di riforma
della terra, dei servizi di
microcredito, di adeguate
protezioni legali, eccetera; in
ciascuno di questi settori, c’è
lavoro da fare attraverso
l’azione pubblica che possa
radicalmente variare il risultato
delle relazioni economiche
locali e globali.
Istituzioni e disuguaglianza
La globalizzazione ha molto
da offrire; ma anche se la si
difende, si deve anche, senza
alcuna contraddizione,
comprendere la legittimità di
molte questioni poste dagli
oppositori antiglobalizzazione.
Ci può essere una diagnosi
errata di quali siano i problemi
principali (non è la
globalizzazione come tale), ma
le preoccupazioni etiche e
umane poste da tali questioni
richiedono una seria
rivalutazione dell’adeguatezza
delle organizzazioni
istituzionali locali e globali che
caratterizzano il mondo
contemporaneo e danno
forma alle relazioni
economiche e sociali
globalizzate.
Il capitalismo globale è molto
più interessato a espandere il
dominio delle relazioni di
mercato che, diciamo, a
stabilire la democrazia,
espandere l’educazione
alimentare o promuovere
opportunità sociali per i
diseredati. Poiché la
globalizzazione dei mercati
costituisce, da sola, un
approccio assai inadeguato
alla prosperità del mondo, c’è
bisogno di andare oltre le
priorità che trovano
espressione nel punto critico
scelto dal capitalismo globale.
Come ha sottolineato George
Soros, gli interessi del mercato
internazionale hanno spesso
una forte preferenza per
operare in autocrazie ordinate
e altamente organizzate
piuttosto che in democrazie
attiviste e meno regimentate,
e ciò può rappresentare
un’influenza regressiva per
uno sviluppo equo. Inoltre, le
multinazionali possono
esercitare la loro influenza
sulle priorità di spesa pubblica
nelle meno sicure nazioni del
terzo mondo dando la loro
preferenza alla sicurezza e alla
convenienza delle classi
dirigenti e dei lavoratori
privilegiati, a scapito della
rimozione di un diffuso
analfabetismo, carenza
sanitaria e altre disgrazie dei
poveri. Queste possibilità,
naturalmente, non
costituiscono affatto una
barriera insormontabile allo
sviluppo, ma è importante
assicurarsi che le barriere
sormontabili siano
effettivamente sormontate.
Omissioni e commissioni
Le ingiustizie che
caratterizzano il mondo sono
strettamente relazionate a
varie omissioni che devono
essere prese in considerazione,
particolarmente
nell’organizzazione
istituzionale. Ho cercato di
identificare alcuni dei problemi
principali nel mio libro
Development as Freedom
(Knopf, 1999). Le politiche
globali hanno qui un ruolo nel
favorire lo sviluppo delle
istituzioni nazionali (per
esempio, attraverso la difesa
della democrazia e il sostegno
ai servizi scolastici e sanitari),
ma c’è anche bisogno di riesaminare l’adeguatezza delle
stesse organizzazioni
istituzionali globali. La
distribuzione dei benefici
dell’economia globale
dipende, tra l’altro, da una
varietà di organizzazioni
istituzionali globali, comprese
quelle per il commercio equo,
per le iniziative mediche, gli
scambi educativi, i servizi per
la diffusione della tecnologia,
le limitazioni ecologiche e
ambientali e il trattamento
equo dei debiti accumulati che
spesso verificatisi a causa di
irresponsabili governanti
militari del passato.
Oltre alle gravi omissioni che
devono essere rettificate, ci
sono anche seri problemi di
commissioni cui porre mano
per una anche solo
elementare etica globale. Tra
queste si possono includere
non solo le restrizioni
commerciali inefficienti e
inique che reprimono le
esportazioni dai Paesi poveri,
ma anche le leggi sui brevetti
che inibiscono l’uso di
medicine salvavita – per
malattie come l’AIDS – e che
danno un incentivo
inadeguato alla ricerca medica
tesa allo sviluppo di medicinali
non ripetitivi (come i vaccini).
Questi temi sono stati molto
dibattuti nella loro specificità,
ma si deve anche notare come
si inquadrino in uno schema
generale di organizzazione
deprecabile che mette a
repentaglio ciò che la
globalizzazione può offrire.
Un’altra – meno dibattuta –
“commissione” globale che
causa una profonda miseria e
depauperazione duratura è
quella relativa al
coinvolgimento delle potenze
mondiali nel commercio
globale delle armi. Questo è
un campo in cui è necessaria e
urgente una nuova iniziativa
globale, al di là della necessità
– impellente – di frenare il
terrorismo, su cui tanto ci si
sta oggi concentrando. Le
guerre locali e i conflitti
militari, che hanno
conseguenze molto distruttive
(non ultimo sulle prospettive
economiche dei Paesi poveri),
si alimentano non solo delle
tensioni regionali ma anche
del mercato globale di armi e
armamenti. L’establishment
mondiale è fortemente
implicato in questo
commercio: i Membri
Permanenti del Consiglio di
Sicurezza dell’ONU sono stati
responsabili, tra il 1996 e il
29
2000, per l’81 per cento delle
esportazioni di armi nel
mondo. In verità, i leader
mondiali che esprimono
profonda frustrazione per
l’”irresponsabilità” degli
oppositori antiglobalizzazione
sono a capo di nazioni che
guadagnano una gran parte
dei loro soldi su questo
terribile commercio. Le nazioni
del G8 hanno venduto l’87
per cento della fornitura
totale di armi esportata in
tutto il mondo. I soli Stati Uniti
hanno raggiunto quasi il 50
per cento delle vendite totali
in tutto il mondo. Inoltre, il 68
per cento delle esportazioni di
armi americane ha raggiunto
Paesi in via di sviluppo.
Le armi sono usate con
risultati sanguinosi – e con
effetti devastanti
sull’economia, la politica, la
società. In qualche modo,
questa è la continuazione del
deprecabile ruolo delle
potenze mondiali nella genesi
e prosperare del militarismo
politico in Africa dagli anni
Sessanta agli Ottanta, quando
la Guerra Fredda era
combattuta in Africa. In quei
decenni, i signori militari –
Mobuto Sese Seko o Jonas
Savimbi o chiunque altro che spezzavano
l’organizzazione sociale e
politica (e, in ultima analisi,
anche l’ordine economico) in
Africa, potevano fare
affidamento sul sostegno sia
degli Stati Uniti e dei suoi
alleati sia dell’Unione
Sovietica, a seconda delle loro
alleanze militari. Le potenze
del mondo hanno un’orrenda
responsabilità nell’aver
contribuito alla sovversione
della democrazia in Africa e
per tutte le conseguenze a
lungo termine di tale
sovversione. Il perseguimento
dello “spaccio” d’armi
conferisce loro un ruolo
continuo nell’escalation dei
conflitti militari contemporanei
– in Africa e altrove. Il rifiuto
americano all’accordo per un
abbattimento congiunto
anche della vendita illegale di
piccole armi (proposto dal
Segretario Generale dell’ONU,
Kofi Annan) illustra le
difficoltà della situazione.
Giusta ripartizione delle
opportunità globali
Per concludere, il confondere
la globalizzazione con
l’occidentalizzazione è non
solo antistorico, ma distrae
l’attenzione dai molti
potenziali benefici
dell’integrazione globale. La
globalizzazione è un processo
storico che ha offerto
abbondanza d’opportunità e
ricompense nel passato e
continua a farlo oggi. La sola
esistenza di benefici così
potenzialmente enormi rende
la questione dell’equità nella
loro ripartizione d’importanza
cruciale. Il tema centrale della
disputa non è la
globalizzazione in sé, né l’uso
del mercato come istituzione,
ma la non equità
nell’equilibrio complessivo
dell’organizzazione
istituzionale – che produce
una ripartizione molto iniqua
dei benefici della
globalizzazione. Il problema
non è solo se anche i poveri
guadagnino qualcosa dalla
globalizzazione, ma se essi
ricevano una porzione equa e
opportunità eque. C’è un
urgente bisogno di riformare
l’organizzazione delle
istituzioni globali – oltre a
quelle nazionali – per superare
gli errori sia di omissione sia di
commissione che tendono a
donare ai poveri del mondo
una porzione limitata di
opportunità.
La globalizzazione merita una
difesa ragionata, ma anche
riforme.
* Amartya Sen è stato Premio Nobel per
l’Economia nel 1998. È nato nel 1933 a
Shantiniketan, nel Bengala Ovest, India.
È stato Presidente della Econometric
Society (1984), dell’International
Economic Association (1986-89),
dell’Indian Economic Association (1989)
e dell’american Economic Association
(1994). È stato insignito con la Laurea
ad honorem D.Litt ed è membro di
molte note Università e Istituti Indiani e
stranieri. Sen ha ricevuto il premio
Bharat Ratna, la più alta onoreficienza
civile in India. Attualmente è Master del
Trinity College, Cambridge, Gran
Bretagna.
30
G
lobalization is often
seen as global
Westernization. On this
point, there is substantial
agreement among many
proponents and opponents.
Those who take an upbeat
view of globalization see it as
a marvelous contribution of
Western civilization to the
world.
There is a nicely stylized
history in which the great
developments happened in
Europe: first came the
Renaissance, then the
Enlightenment and the
Industrial Revolution, and
these led to a massive
increase in living standards in
the West. And now the great
achievements of the West are
spreading to the world. In this
view, globalization is not only
good, it is also a gift from the
West to the world. The
champions of this reading of
history tend to feel upset not
just because this great
benefaction is seen as a curse
but also because it is
undervalued and castigated
by an ungrateful world.
From the opposite
perspective, Western
dominance – sometimes seen
as a continuation of Western
imperialism – is the devil of
the piece. In this view,
contemporary capitalism,
driven and led by greedy and
grabby Western countries in
Europe and North America,
has established rules of trade
and business relations that do
not serve the interests of the
poorer people in the world.
The celebration of various
non-Western identities –
defined by religion (as in
Islamic fundamentalism),
region (as in the championing
of Asian values), or culture (as
in the glorification of
Confucian ethics) – can add
fuel to the fire of
confrontation with the West.
Is globalization really a new
Western curse? It is, in fact,
neither new nor necessarily
Western; and it is not a curse.
Over thousands of years,
globalization has contributed
to the progress of the world
through travel, trade,
migration, spread of cultural
influences, and dissemination
of knowledge and
understanding (including that
of science and technology).
These global interrelations
have often been very
productive in the
advancement of different
countries. They have not
necessarily taken the form of
increased Western influence.
Indeed, the active agents of
globalization have often been
located far from the West.
To illustrate, consider the
world at the beginning of the
last millennium rather than at
its end. Around 1000 A.D.,
global reach of science,
technology, and mathematics
was changing the nature of
the old world, but the
dissemination then was, to a
great extent, in the opposite
direction of what we see
today. The high technology in
the world of 1000 A.D.
included paper, the printing
press, the crossbow,
gunpowder, the iron-chain
suspension bridge, the kite,
the magnetic compass, the
wheelbarrow, and the rotary
fan. A millennium ago, these
items were used extensively in
China – and were practically
unknown elsewhere.
Globalization spread them
across the world, including
Europe.
A similar movement occurred
in the Eastern influence on
Western mathematics. The
decimal system emerged and
became well developed in
India between the second and
sixth centuries; it was used by
Arab mathematicians soon
thereafter.
These mathematical
innovations reached Europe
mainly in the last quarter of
the tenth century and began
having an impact in the early
years of the last millennium,
playing an important part in
the scientific revolution that
helped to transform Europe.
The agents of globalization
are neither European nor
exclusively Western, nor are
they necessarily linked to
Western dominance. Indeed,
Europe would have been a lot
poorer – economically,
culturally, and scientifically –
had it resisted the
globalization of mathematics,
science, and technology at
that time. And today, the
same principle applies,
though in the reverse
direction (from West to East).
To reject the globalization of
science and technology
because it represents Western
influence and imperialism
would not only amount to
overlooking global
contributions – drawn from
many different parts of the
world – that lie solidly behind
so-called Western science and
technology, but would also be
quite a daft practical decision,
given the extent to which the
whole world can benefit from
the process.
A Global Heritage
In resisting the diagnosis of
globalization as a phenomenon
of quintessentially Western
origin, we have to be
suspicious not only of the antiWestern rhetoric but also of
the pro-Western chauvinism in
many contemporary writings.
Certainly, the Renaissance, the
Enlightenment, and the
Industrial Revolution were great
achievements – and they
occurred mainly in Europe and,
later, in America. Yet many of
these developments drew on
the experience of the rest of
the world, rather than being
confined within the boundaries
of a discrete Western
civilization.
Our global civilization is a world
heritage – not just a collection
of disparate local cultures.
When a modern
mathematician in Boston
invokes an algorithm to solve a
difficult computational
problem, she may not be
aware that she is helping to
commemorate the Arab
mathematician Mohammad Ibn
Musa-al-Khwarizmi, who
flourished in the first half of the
ninth century (the word
algorithm is derived from the
name al-Khwarizmi). There is a
chain of intellectual relations
that link Western mathematics
and science to a collection of
distinctly non-Western
practitioners, of whom alKhwarizmi was one (the term
algebra is derived from the title
of his famous book Al-Jabr waal-Muqabilah). Indeed, alKhwarizmi is one of many nonWestern contributors whose
works influenced the European
Renaissance and, later, the
Enlightenment and the
Industrial Revolution. The West
must get full credit for the
remarkable achievements that
occurred in Europe and
Europeanized America, but the
idea of an immaculate Western
conception is an imaginative
fantasy.
Not only is the progress of
global science and technology
not an exclusively West-led
phenomenon, but there were
major global developments in
which the West was not even
involved. The printing of the
world’s first book was a
marvelously globalized event.
The technology of printing was,
of course, entirely an
achievement of the Chinese.
But the content came from
elsewhere. The first printed
book was an Indian Sanskrit
treatise, translated into Chinese
by a half-Turk. The book,
Vajracchedika
Prajnaparamitasutra (sometimes
referred to as “The Diamond
Sutra”), is an old treatise on
Buddhism; it was translated
into Chinese from Sanskrit in
the fifth century by Kumarajiva,
a half-Indian and half-Turkish
scholar who lived in a part of
eastern Turkistan called Kucha
but later migrated to China. It
was printed four centuries later,
in 868 A.D. All this involving
China, Turkey, and India is
globalization, all right, but the
West is not even in sight.
Global Interdependences
and Movements
The misdiagnosis that
globalization of ideas and
practices has to be resisted
because it entails dreaded
Westernization has played quite
a regressive part in the colonial
and postcolonial world. This
assumption incites “parochial
tendencies” and undermines
the possibility of objectivity in
science and knowledge. It is
not only counterproductive in
itself; given the global
interactions throughout history,
it can also cause non-Western
societies to shoot themselves in
the foot – even in their
precious cultural foot.
Consider the resistance in India
to the use of Western ideas
and concepts in science and
mathematics. In the nineteenth
century, this debate fitted into
a broader controversy about
Western education versus
indigenous Indian education.
The “Westernizers,” such as the
redoubtable Thomas Babington
Macaulay, saw no merit
whatsoever in Indian tradition.
“I have never found one
among them [advocates of
Indian tradition] who could
deny that a single shelf of a
good European library was
worth the whole native
literature of India and Arabia,”
he declared. Partly in
retaliation, the advocates of
native education resisted
Western imports altogether.
Both sides, however, accepted
too readily the foundational
dichotomy between two
disparate civilizations.
European mathematics, with its
use of such concepts as “sine,”
was viewed as a purely
“Western” import into India. In
fact, the fifth-century Indian
mathematician Aryabhata had
discussed the concept of sine in
his classic work on astronomy
and mathematics in 499 A.D.,
calling it by its Sanskrit name,
jya-ardha (literally, “halfchord”). This word, first
shortened to jya in Sanskrit,
eventually became the Arabic
jiba and, later, jaib, which
means “a cove or a bay.” In his
history of mathematics,
Howard Eves explains that
around 1150 A.D., Gherardo of
Cremona, in his translations
from the Arabic, rendered jaib
as the Latin sinus, the
corresponding word for a cove
or a bay. And this is the source
of the modern word sine. The
concept had traveled full circle
– from India, and then back.
To see globalization as merely
Western imperialism of ideas
and beliefs (as the rhetoric
often suggests) would be a
serious and costly error, in the
same way that any European
resistance to Eastern influence
would have been at the
beginning of the last
millennium. Of course, there
are issues related to
globalization that do connect
with imperialism (the history of
conquests, colonialism, and
alien rule remains relevant
today in many ways), and a
postcolonial understanding of
the world has its merits. But it
would be a great mistake to
see globalization primarily as a
feature of imperialism. It is
much bigger – much greater –
than that.
The issue of the distribution of
economic gains and losses from
globalization remains an
entirely separate question, and
it must be addressed as a
further – and extremely
relevant – issue. There is
extensive evidence that the
global economy has brought
prosperity to many different
areas of the globe. Pervasive
poverty dominated the world a
few centuries ago; there were
only a few rare pockets of
affluence. In overcoming that
penury, extensive economic
interrelations and modern
technology have been and
remain influential. What has
happened in Europe, America,
Japan, and East Asia has
important messages for all
other regions, and we cannot
go very far into understanding
the nature of globalization
today without first
acknowledging the positive
fruits of global economic
contacts.
Indeed, we cannot reverse the
economic predicament of the
poor across the world by
withholding from them the
great advantages of
contemporary technology, the
well-established efficiency of
international trade and
exchange, and the social as
well as economic merits of
living in an open society.
Rather, the main issue is how
to make good use of the
remarkable benefits of
economic intercourse and
technological progress in a way
that pays adequate attention to
the interests of the deprived
and the underdog. That is, I
would argue, the constructive
question that emerges from the
so-called antiglobalization
movements.
Are the Poor Getting
Poorer?
The principal challenge relates
to inequality – international as
well as national. The troubling
inequalities include disparities in
affluence and also gross
asymmetries in political, social,
and economic opportunities
and power.
A crucial question concerns the
sharing of the potential gains
from globalization – between
rich and poor countries and
among different groups within
a country. It is not sufficient to
understand that the poor of
the world need globalization as
much as the rich do; it is also
important to make sure that
they actually get what they
need. This may require
extensive institutional reform,
even as globalization is
defended.
There is also a need for more
clarity in formulating the
distributional questions. For
example, it is often argued that
the rich are getting richer and
the poor poorer. But this is by
no means uniformly so, even
though there are cases in
which this has happened.
Much depends on the region
or the group chosen and what
indicators of economic
prosperity are used. But the
attempt to base the castigation
of economic globalization on
this rather thin ice produces a
peculiarly fragile critique.
On the other side, the
apologists of globalization
point to their belief that the
poor who participate in trade
and exchange are mostly
getting richer. Ergo – the
argument runs – globalization
is not unfair to the poor: they
too benefit. If the central
relevance of this question is
accepted, then the whole
debate turns on determining
which side is correct in this
empirical dispute. But is this the
right battleground in the first
place? I would argue that it is
not.
Global Justice and the
Bargaining Problem
Even if the poor were to get
just a little richer, this would
not necessarily imply that the
poor were getting a fair share
31
32
of the potentially vast benefits
of global economic
interrelations. It is not
adequate to ask whether
international inequality is
getting marginally larger or
smaller. In order to rebel
against the appalling poverty
and the staggering inequalities
that characterize the
contemporary world – or to
protest against the unfair
sharing of benefits of global
cooperation – it is not
necessary to show that the
massive inequality or
distributional unfairness is also
getting marginally larger. This
is a separate issue altogether.
When there are gains from
cooperation, there can be
many possible arrangements.
As the game theorist and
mathematician John Nash
discussed more than half a
century ago (in “The
Bargaining Problem,”
published in Econometrica in
1950, which was cited, among
other writings, by the Royal
Swedish Academy of Sciences
when Nash was awarded the
Nobel Prize in economics), the
central issue in general is not
whether a particular
arrangement is better for
everyone than no cooperation
at all would be, but whether
that is a fair division of the
benefits. One cannot rebut the
criticism that a distributional
arrangement is unfair simply
by noting that all the parties
are better off than they would
be in the absence of
cooperation; the real exercise
is the choice between these
alternatives.
An Analogy with the Family
By analogy, to argue that a
particularly unequal and sexist
family arrangement is unfair,
one does not have to show
that women would have done
comparatively better had there
been no families at all, but
only that the sharing of the
benefits is seriously unequal in
that particular arrangement.
Before the issue of gender
justice became an explicitly
recognized concern (as it has
in recent decades), there were
attempts to dismiss the issue
of unfair arrangements within
the family by suggesting that
women did not need to live in
families if they found the
arrangements so unjust. It was
also argued that since women
as well as men benefit from
living in families, the existing
arrangements could not be
unfair. But even when it is
accepted that both men and
women may typically gain
from living in a family, the
question of distributional
fairness remains. Many
different family arrangements
– when compared with the
absence of any family system –
would satisfy the condition of
being beneficial to both men
and women. The real issue
concerns how fairly benefits
associated with these
respective arrangements are
distributed.
Likewise, one cannot rebut the
charge that the global system
is unfair by showing that even
the poor gain something from
global contacts and are not
necessarily made poorer. That
answer may or may not be
wrong, but the question
certainly is. The critical issue is
not whether the poor are
getting marginally poorer or
richer. Nor is it whether they
are better off than they would
be had they excluded
themselves from globalized
interactions.
Again, the real issue is the
distribution of globalization’s
benefits. Indeed, this is why
many of the antiglobalization
protesters, who seek a better
deal for the underdogs of the
world economy, are not –
contrary to their own rhetoric
and to the views attributed to
them by others – really
“antiglobalization.” It is also
why there is no real
contradiction in the fact that
the so-called antiglobalization
protests have become among
the most globalized events in
the contemporary world.
Altering Global
Arrangements
However, can those less-welloff groups get a better deal
from globalized economic and
social relations without
dispensing with the market
economy itself? They certainly
can. The use of the market
economy is consistent with
many different ownership
patterns, resource availabilities,
social opportunities, and rules
of operation (such as patent
laws and antitrust regulations).
And depending on these
conditions, the market
economy would generate
different prices, terms of
trade, income distribution,
and, more generally, diverse
overall outcomes. The
arrangements for social
security and other public
interventions can make further
modifications to the outcomes
of the market processes, and
together they can yield varying
levels of inequality and
poverty.
The central question is not
whether to use the market
economy. That shallow
question is easy to answer,
because it is hard to achieve
economic prosperity without
making extensive use of the
opportunities of exchange and
specialization that market
relations offer. Even though
the operation of a given
market economy can be
significantly defective, there is
no way of dispensing with the
institution of markets in
general as a powerful engine
of economic progress.
But this recognition does not
end the discussion about
globalized market relations.
The market economy does not
work by itself in global
relations – indeed, it cannot
operate alone even within a
given country. It is not only the
case that a marketinclusive
system can generate very
distinct results depending on
various enabling conditions
(such as how physical
resources are distributed, how
human resources are
developed, what rules of
business relations prevail, what
social-security arrangements
are in place, and so on). These
enabling conditions themselves
depend critically on economic,
social, and political institutions
that operate nationally and
globally.
The crucial role of the markets
does not make the other
institutions insignificant, even
in terms of the results that the
market economy can produce.
As has been amply established
in empirical studies, market
outcomes are massively
influenced by public policies in
education, epidemiology, land
reform, microcredit facilities,
appropriate legal protections,
et cetera; and in each of these
fields, there is work to be
done through public action
that can radically alter the
outcome of local and global
economic relations.
Institutions and Inequality
Globalization has much to
offer; but even as we defend
it, we must also, without any
contradiction, see the
legitimacy of many questions
that the antiglobalization
protesters ask. There may be a
misdiagnosis about where the
main problems lie (they do not
lie in globalization, as such),
but the ethical and human
concerns that yield these
questions call for serious
reassessments of the adequacy
of the national and global
institutional arrangements that
characterize the contemporary
world and shape globalized
economic and social relations.
Global capitalism is much more
concerned with expanding the
domain of market relations
than with, say, establishing
democracy, expanding
elementary education, or
enhancing the social
opportunities of society’s
underdogs. Since globalization
of markets is, on its own, a
very inadequate approach to
world prosperity, there is a
need to go beyond the
priorities that find expression in
the chosen focus of global
capitalism. As George Soros
has pointed out, international
business concerns often have a
strong preference for working
in orderly and highly organized
autocracies rather than in
activist and less-regimented
democracies, and this can be a
regressive influence on
equitable development.
Further, multinational firms can
exert their influence on the
priorities of public expenditure
in less secure third-world
countries by giving preference
to the safety and convenience
of the managerial classes and
of privileged workers over the
removal of widespread
illiteracy, medical deprivation,
and other adversities of the
poor. These possibilities do not,
of course, impose any
insurmountable barrier to
development, but it is
important to make sure that
the surmountable barriers are
actually surmounted.
Omissions and Commissions
The injustices that characterize
the world are closely related to
various omissions that need to
be addressed, particularly in
institutional arrangements. I
have tried to identify some of
the main problems in my book
Development as Freedom
(Knopf, 1999). Global policies
have a role here in helping the
development of national
institutions (for example,
through defending democracy
and supporting schooling and
health facilities), but there is
also a need to re-examine the
adequacy of global institutional
arrangements themselves. The
distribution of the benefits in
the global economy depends,
among other things, on a
variety of global institutional
arrangements, including those
for fair trade, medical
initiatives, educational
exchanges, facilities for
technological dissemination,
ecological and environmental
restraints, and fair treatment of
accumulated debts that were
often incurred by irresponsible
military rulers of the past.
In addition to the momentous
omissions that need to be
rectified, there are also serious
problems of commission that
must be addressed for even
elementary global ethics. These
include not only inefficient and
inequitable trade restrictions
that repress exports from poor
countries, but also patent laws
that inhibit the use of
lifesaving drugs – for diseases
like AIDS – and that give
inadequate incentive for
medical research aimed at
developing nonrepeating
medicines (such as vaccines).
These issues have been much
discussed on their own, but
we must also note how they
fit into a general pattern of
unhelpful arrangements that
undermine what globalization
could offer.
Another – somewhat less
discussed – global
“commission” that causes
intense misery as well as
lasting deprivation relates to
the involvement of the world
powers in globalized arms
trade. This is a field in which a
new global initiative is urgently
required, going beyond the
need – the very important
need – to curb terrorism, on
which the focus is so heavily
concentrated right now. Local
wars and military conflicts,
which have very destructive
consequences (not least on the
economic prospects of poor
countries), draw not only on
regional tensions but also on
global trade in arms and
weapons. The world
establishment is firmly
entrenched in this business:
the Permanent Members of
the Security Council of the
United Nations were together
responsible for 81 percent of
world arms exports from 1996
through 2000. Indeed, the
world leaders who express
deep frustration at the
“irresponsibility” of antiglobalization protesters lead
the countries that make the
most money in this terrible
trade. The G-8 countries sold
87 percent of the total supply
of arms exported in the entire
world. The U.S. share alone
has just gone up to almost 50
percent of the total sales in the
world. Furthermore, as much
as 68 percent of the American
arms exports went to
developing countries.
The arms are used with bloody
results – and with devastating
effects on the economy, the
polity, and the society. In some
ways, this is a continuation of
the unhelpful role of world
powers in the genesis and
flowering of political militarism
in Africa from the 1960s to
the 1980s, when the Cold War
was fought over Africa. During
these decades, when military
overlords – Mobuto Sese Seko
or Jonas Savimbi or whoever –
busted social and political
arrangements (and, ultimately,
economic order as well) in
Africa, they could rely on
support either from the United
States and its allies or from the
Soviet Union, depending on
their military alliances. The
world powers bear an
awesome responsibility for
helping in the subversion of
democracy in Africa and for all
the far-reaching negative
consequences of that
subversion. The pursuit of
arms “pushing” gives them a
continuing role in the
escalation of military conflicts
today – in Africa and
elsewhere. The U.S. refusal to
agree to a joint crackdown
even on illicit sales of small
arms (as proposed by UN
Secretary-General Kofi Annan)
illustrates the difficulties
involved.
Fair Sharing of Global
Opportunities
To conclude, the confounding
of globalization with
Westernization is not only
ahistorical, it also distracts
attention from the many
potential benefits of global
integration. Globalization is a
historical process that has
offered an abundance of
opportunities and rewards in
the past and continues to do
so today. The very existence of
potentially large benefits
makes the question of fairness
in sharing the benefits of
globalization so critically
important.
The central issue of contention
is not globalization itself, nor is
it the use of the market as an
institution, but the inequity in
the overall balance of
institutional arrangements –
which produces very unequal
sharing of the benefits of
globalization. The question is
not just whether the poor, too,
gain something from
globalization, but whether they
get a fair share and a fair
opportunity. There is an urgent
need for reforming institutional
arrangements – in addition to
national ones – in order to
overcome both the errors of
omission and those of
commission that tend to give
the poor across the world such
limited opportunities.
Globalization deserves a
reasoned defense, but it also
needs reform.
* Amartya Sen is the 1998 Nobel
Laureate in Economics. He was born in
1933 at Shantiniketan, West Bengal,
India. He has been the President of the
Econometric Society (1984), the
International Economic Association
(1986-89), the Indian Economic
Association (1989) and the American
Economic Association (1994). He has
been honored with Honorary D.Litt
degrees and fellowships of a large
number of Indian and Foreign
Universities and Institutes of repute. Sen
was awarded Bharat Ratna, the highest
civilian award in India. He is currently
Master of Trinity College, Cambridge,
U.K.
33
Un’economia per la Terra
An Economy for the Earth
di Lester R. Brown*
by Lester R. Brown*
La sfida di ristrutturare il mondo in modo che il progresso economico possa continuare
Restructuring our world for sustainable economic development
34
Lester R. Brown
O
gni giorno leggiamo del
deterioramento del
rapporto tra economia
globale ed ecosistema terrestre.
Ci sono sempre nuove storie di
depauperamento delle foreste,
desertificazione, decadimento
del patrimonio ittico,
abbassamento delle falde
acquifere, innalzamento dei
livelli di biossido di carbonio,
aumento delle temperature,
scioglimento dei ghiacci,
innalzamento del livello del
mare e uragani sempre più
devastanti. L’economia attuale
sta distruggendo i propri sistemi
naturali di supporto. Non ci
porterà dove vogliamo andare.
La sfida è ristrutturare
l’economia – costruire un’ecoeconomia – in modo che il
progresso economico possa
continuare. Si possono vedere
sprazzi di un’eco-economia
emergente nelle fattorie eoliche
della Germania settentrionale,
nelle coperture solari in
Giappone, nel rimboschimento
delle montagne sudcoreane e
negli impianti di riciclaggio
dell’acciaio negli Stati Uniti.
Oggi, le turbine eoliche stanno
rimpiazzando le miniere di
carbone in Europa. Già ora la
Danimarca, che ha bandito la
costruzione d’impianti a
carbone, ricava il 15 per cento
della propria elettricità dal
vento. Nello Schleswig-Holstein,
lo stato più settentrionale della
Germania, questa percentuale
sale al 19 per cento. In Spagna,
la provincia di Navarra, nel nord
industriale, ricava dal vento il 22
per cento dell’elettricità.
Negli Stati Uniti, Nord Dakota,
Kansas e Texas hanno
sufficiente vento da sfruttare
per coprire il fabbisogno
elettrico nazionale. L’Europa,
densamente popolata, ha
abbastanza vento di terra da
coprire tutto il proprio
fabbisogno elettrico. La Cina è
in grado di raddoppiare la
propria produzione d’energia
utilizzando solo il vento. Il
vento è un’enorme e
inesauribile fonte energetica.
Gli sviluppi della tecnologia
hanno abbassato il costo della
produzione d’energia eolica dai
38 centesimi di dollaro
americano per KW/h dei primi
anni Ottanta agli attuali meno 4
centesimi di dollaro americano
nei luoghi vicini alle centrali –
una cifra che è competitiva col
petrolio, il gas e il carbone.
L’elettricità a basso costo
proveniente dalle turbine
eoliche può essere utilizzata
direttamente o per elettrolizzare
l’acqua per produrre idrogeno.
L’idrogeno è un modo per
immagazzinare o trasportare
l’energia eolica.
È anche il carburante scelto
per i motori a cellula su cui
stanno lavorando le maggiori
case automobilistiche.
Con un modesto 1.7 centesimo
di dollaro americano di
detassazione per la produzione
d’ogni kilowattora d’energia
eolica, negli ultimi anni stanno
sorgendo nuove fattorie eoliche
in Minnesota, Iowa, Kansas,
Colorado, Wyoming, Oregon e
Washington. Si sta assistendo
alla nascita di un futuro in cui
agricoltori e allevatori negli Stati
Uniti, che possiedano i propri
diritti sul vento, potranno un
giorno fornire non solo molta
dell’elettricità nazionale, ma
anche molto dell’idrogeno – il
carburante per la flotta
nazionale di automobili.
Abbiamo ormai le tecnologie
necessarie a stabilizzare la
situazione e dichiarare la nostra
indipendenza dal petrolio
mediorientale. Oltre alle nuove
industrie per l’energia, le
industrie per il riciclaggio
rimpiazzeranno quelle
minerarie. Gli Stati Uniti lo
scorso anno hanno prodotto il
58 per cento del proprio acciaio
da riciclaggio degli scarti di
lavorazione. Il riciclaggio
dell’acciaio è concentrato in
piccoli impianti ad arco elettrico
ampiamente distribuiti nel
territorio nazionale, riforniti da
forniture locali di scarti.
La Germania è leader mondiale
nel riciclaggio della carta, con il
72 per cento della propria
produzione proveniente da
materiale riciclato. Se tutto il
mondo raggiungesse i livelli
tedeschi di riciclaggio, si
ridurrebbe il legno usato per
produrre carta di quasi un terzo.
Oggi, le maggiori corporazioni
sono votate al riciclo per
chiudere il ciclo dell’economia
dei materiali. Altri stanno
iniziando a diminuire
gradualmente l’utilizzo di
combustibili fossili.
STMicroelectronics in Italia e la
Interface, azienda leader
nell’industria dei tappeti negli
Stati Uniti, stanno avvicinandosi
allo zero nelle emissioni di
carbonio. La Shell Hydrogen e la
DaimlerChrysler stanno
lavorando con l’Islanda per
renderla la prima nazione a
economia basata sull’energia a
idrogeno. La gente sembra
ansiosa di vedere, di cogliere il
senso di come saremo in grado
di invertire il deterioramento
ambientale della Terra. Un
sempre maggior numero di
persone vogliono essere
coinvolte, fare qualcosa. Anche
se possiamo fare qualcosa a
livello personale, come usare
più la bicicletta e meno
l’automobile o riciclare la carta
di giornale, questo non è
sufficiente. Dobbiamo cambiare
il sistema economico. E ciò
richiede la ristrutturazione del
sistema di tassazione: ridurre le
tasse sulle entrate e aumentare
le tasse sulle attività
ambientalmente distruttive,
come le emissioni di carbonio,
la produzione di rifiuti tossici, e
l’immissione di materiali nelle
falde. Si deve lavorare per
ristrutturare le imposte per
avere prezzi che includano i
costi ecologici. Øystein Dahle,
ex vice presidente di Exxon per
la Norvegia e il Mare del Nord
ha riassunto in modo brillante
questo concetto: “Il Socialismo
è crollato perché non
consentiva che i prezzi
riflettessero i costi economici. Il
Capitalismo potrebbe crollare
perché non consente che i
prezzi riflettano i costi
ecologici”. La sfida è di
ristrutturare il sistema delle
tasse in modo che i prezzi di
mercato riflettano la realtà
ecologica. Siamo in grado di
muoverci abbastanza
velocemente? Sappiamo che i
mutamenti sociali richiedono
tempo. In Europa Orientale, ci
sono voluti quarant’anni
dall’imposizione del Socialismo
al suo crollo. Sono passati 34
anni tra il primo Rapporto del
Capo della Sanità Pubblica
statunitense su fumo e salute e
l’accordo quadro tra l’industria
del tabacco e i governi nazionali
per rimborsare 251 miliardi di
dollari ai governi stessi per le
spese sanitarie correlate al
fumo. Trentotto anni sono
passati da quando il biologo
Rachel Carson ha pubblicato
Silent Spring, che favorì la
nascita del movimento
moderno per l’ambiente.
Talvolta le società si muovono
velocemente, specie quando la
gravità della minaccia è
evidente e la natura della
risposta è ovvia, come per la
risposta americana all’attacco di
Pearl Harbor. In un anno,
l’economia americana è stata
ampiamente ristrutturata. In
meno di quattro anni, la guerra
era finita. Non c’è via di mezzo.
O ci uniremo per costruire
un’economia sostenibile o
manterremo la nostra economia
ambientalmente insostenibile
fino al suo declino. È un
obiettivo che non ammette
compromessi. O in un modo o
nell’altro, la scelta sarà fatta
dalla nostra generazione. Ma
influirà sulla vita della Terra per
tutte le generazioni a venire.
* Lester R. Brown è presidente del Earth
Policy Institute, un centro di ricerca con
sede a Washington. Ha recentemente
pubblicato un libro che offre una visione
di come può apparire e di come si può
raggiungere un’economia sostenibile o
eco-economia (Eco-economy: building an
Economy for the Earth, edizione italiana
pubblicata nel 2002 da Editori Riuniti).
■ ■ ■ ■ ■ ■
E
very day in the news, we
read about the
deteriorating relationship
between the global economy
and the earth’s ecosystem.
Every day we read stories about
shrinking forests, expanding
deserts, collapsing fisheries,
falling water tables, rising
carbon dioxide levels, rising
temperatures, melting glaciers,
rising sea levels and more
destructive storms. Our existing
economy is destroying its
natural support systems. It
cannot take us where we want
to go. The challenge therefore
is to restructure the economy
into one that is sustainable – an
eco-economy.
Examples of this eco-economy
are growing: the wind farms of
northern Germany, the solar
rooftops of Japan, the
reforested mountains of South
Korea, the steel recycling mills
of the United States. Today,
wind turbines are replacing coal
mines in Europe. Denmark,
which has banned the
construction of coal-fired
power plants, already generates
15% of its electricity from
wind, while in SchleswigHolstein, the northernmost
state in Germany, this figure
reaches 19%. The northern
industrial province of Navarra in
Spain generates 22% of its
electricity from wind.
In the United States, North
Dakota, Kansas, and Texas have
enough harnessable wind
energy to satisfy the nation’s
electricity needs. Densely
populated Europe has enough
off-shore wind energy to meet
all of its electricity needs. China
can double its current electricity
generation from wind alone.
Wind is a vast energy resource,
which cannot be depleted.
Technological progress has
lowered the cost of generating
electricity from wind from 38
US cents per kilowatt-hour in
the early 1980s to less than 4
US cents at prime wind sites
today, making it competitive
with oil, gas and coal in terms
of price. This low-cost electricity
from wind turbines can either
be used directly or it can be
used to electrolyze water to
produce hydrogen, a
convenient way of both storing
and transporting wind energy.
Hydrogen is also the fuel of
choice for the fuel cell engines
that every major automobile
manufacturer is now working
to develop.
Thanks to a modest windproduction tax credit ($0.017
per kilowatt-hour), new wind
farms have come on-line in the
last few years in Minnesota,
Iowa, Kansas, Colorado,
Wyoming, Oregon and
Washington. We are now
looking at a future where
farmers and ranchers in the
United States, who own their
own wind rights, could one day
be supplying not only much of
the country’s electricity, but also
much of its hydrogen – the fuel
of tomorrow’s national fleet of
automobiles. We now have the
technologies to stabilize the
situation and to declare our
independence from Middle
Eastern oil.
In addition to these new energy
industries, recycling is gradually
replacing the mining industry.
Last year the United States
produced 58% of its steel from
recycled scrap metal. Steel
recycling is concentrated in
small, electric arc furnace mills
spread all around the country
and supplied by local scrap
metal.
Germany leads the world in
paper recycling, generating
72% of its paper from recycled
stock. If the entire world were
to achieve the same level of
recycling, the amount of wood
used for paper would fall by
nearly one third.
Today, major corporations are
committed to comprehensive
recycling in order to end the
cycle of the material economy.
Others are starting to phase
out their use of fossil fuels.
STMicroelectronics in Italy and
Interface, a leading
manufacturer of industrial
carpeting in the United States,
are both striving to achieve
zero-carbon emission levels.
Shell Hydrogen and Daimler
Chrysler are working with
Iceland to create the world’s
first hydrogen-powered
economy.
People are eager to see and to
understand how we can
reverse the environmental
deterioration of the earth.
More and more people want to
get involved and actively
participate. Although we can all
contribute through personal
changes, like using more
bicycles and fewer cars and
recycling our daily newspapers
– that is not enough. We have
to change the economic
system. And that requires
restructuring the tax system:
reducing income taxes and
increasing taxes on
environmentally destructive
activities, such as carbon
emissions, landfills and the
generation of toxic waste. We
have to restructure taxes so
that prices reflect the costs to
the environment.
Øystein Dahle, former vice
president of Exxon for Norway
and the North Sea, summed it
up brilliantly when he said,
“Socialism collapsed because it
did not allow prices to reflect
economic costs. Capitalism may
collapse because it does not
allow prices to reflect
environmental costs.” Our
challenge is to restructure the
tax system so that market
prices also reflect the ecological
truth.
Will we be able to move fast
enough? We know that social
change takes time. In Eastern
Europe, it took four decades
for socialism to collapse. Thirtyfour years passed between the
first U.S. Surgeon General’s
report on smoking and health
and the landmark agreement
between the tobacco industry
and state governments to
reimburse the latter $251
billion for smoking-related
health care expenditures.
Thirty-eight years have passed
since biologist Rachel Carson
published Silent Spring, the
wakeup call that gave rise to
the modern environmental
movement.
Sometimes societies do move
quickly, however, especially
when the magnitude of the
threat is understood and the
nature of the response obvious,
such as the U.S. response to
the attack on Pearl Harbor.
Within the first year, most of
the U.S. economy had been
restructured. In less than four
years, the war was over.
There is no middle way. We can
either come together to build a
sustainable economy or
continue with our
environmentally unsustainable
economy until it falls apart.
There can be no compromise.
One way or the other, the
choice will be made by our
generation. But this choice will
affect life on earth for all
generations to come.
* Lester R. Brown is president of the
Earth Policy Institute, an environmental
think tank based in Washington. He has
recently published a book which
provides a vision of what an
environmentally sustainable economy, an
eco-economy, looks like and how it can
be achieved (Eco-economy: building an
Economy for the Earth, Italian Edition
published in 2002 by Editori Riuniti).
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