Global - Italcementi Group
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Global 4 Per un buon governo dell’impresa Proper Corporate Governance di Luigi Spaventa* by Luigi Spaventa* La Corporate Social Responsability fra trasparenza, controllo e sanzioni Corporate Social Responsibility: transparency, checks and balances Luigi Spaventa Gli scandali finanziari in USA hanno incrinato valori capitali per il sistema economico internazionale, soprattutto per quello anglosassone. Una nuova incertezza ha alimentato la volatilità dei mercati. Il sistema è alla ricerca di nuovi equilibri per imprese socialmente responsabili. Financial scandals in the USA have rocked the entire international economic system, notably in the Anglo-Saxon world. A new form of uncertainty has made the markets even more volatile. The system is now looking for new balances for corporate social responsibility. D ieci anni di eccessi di Borsa hanno indebolito la qualità dei controlli del sistema finanziario. La stagione della “New York da bere” ha minato l’efficacia del sistema di check and balances della finanza americana e ha riproposto con evidenza dirompente il tema della corporate social responsability. La luce iridescente della gran bolla dei mercati (quando ogni anno gli utili dovevano crescere a due cifre e a tre cifre le quotazioni) aveva indotto un sonno della ragione: negli investitori; ma anche nei regolatori e in alcuni studiosi del governo d’impresa. Gli occhi si sono riaperti su una realtà di insospettato squallore. In America, la reazione privata è stata una diffidenza verso tutto e tutti; quella pubblica un subitaneo attivismo legislativo e regolamentare. In attesa di abbondante letteratura che razionalizzerà, senza averlo previsto, quanto è avvenuto, azzardo qualche osservazione. Cosa è cambiato dopo il caso Enron? Ha rappresentato “l’11 settembre delle Borse”, eppure parlare del “caso Enron” è riduttivo. Né si può parlare di poche mele marce, tanti sono i casi di raggiro degli investitori ad opera di chi governava le imprese. Le variegate patologie interessano meno delle disfunzioni fisiologiche che le hanno consentite. La prima, connessa per causa ed effetto alla bolla speculativa, si ravvisa nella progressiva distorsione del sistema di incentivi nella governance di società a proprietà diffusa. Un legittimo obiettivo di crescita dell’impresa è spesso degenerato in ambizione sfrenata di imperialismo manageriale. A questa è funzionale un aumento ininterrotto delle quotazioni, che tacita domande imbarazzanti, fa rivalutare le stock options, agevola e fa apparire più profittevole l’allargamento dell’impero (acquisition accounting): per alimentarlo, e impedire che risultati deludenti interferissero con i progetti manageriali, si ricorreva a trucchi di finanza e di contabilità creativa. I presidi interni non hanno funzionato: gli interessi degli amministratori indipendenti e dei revisori si sono allineati con quelli del manager, da cui dipendeva la conferma dei primi e l’assegnazione di lucrose consulenze ai secondi. Le banche sono divenute complici: non più occhiute erogatrici di credito, lucravano commissioni per offrire i servizi di architettura finanziaria per nascondere la realtà industriale. Gli analisti erano funzionari delle banche. Si sono palesate lacune nel sistema di regolazione. Le regole contabili e di trasparenza, per elenchi e non per principi, non hanno tenuto il passo con l’innovazione finanziaria (trasferimenti fuori bilancio, transazioni fuori mercato, finanza strutturata): non possono coprire tutti i possibili casi; lasciano scappatoie, facendo prevalere la forma sulla sostanza. La stessa categoria dei revisori vigilava sulla revisione contabile: cane non mangia cane. Mancava una disciplina per gli analisti. I noti ed eccellenti rimedi legali (anti-director rights) non bastano: garantiscono l’espressione di voce in assemblea, comunque rara, e il ricorso giudiziale, che è rimedio successivo e residuale. La realtà europea Il fatto che finora l’Europa sia stata (quasi) immune da scandali paragonabili a quelli americani non può essere motivo di eccessivo compiacimento. L’Inghilterra, in cui anche prevale la proprietà diffusa, è rimasta relativamente immune dalla sindrome Enron: prova indiretta delle lacune regolamentari americane. E così pure (sinora) l’Europa continentale, ove la proprietà è concentrata. Perché? Certo, le imprese sono più piccole, operano in uno spazio più angusto, sono meno finanziarizzate. Ma conta anche, e non poco, la struttura proprietaria. L’azionista di minoranza è sempre esposto a un rischio di taglieggiamento. Un socio maggioritario ha modo di espropriare la società: e su questo la letteratura ha detto circa tutto. Oggi riscopriamo i rischi (difficilmente misurabili e perciò trascurati) della proprietà diffusa con manager onnipotente: non tanto le banalità degli aerei privati e dei club di golf, quanto la possibile subordinazione degli interessi della società ai disegni di potere del manager. Tali rischi, nella dimensione che abbiamo constatato, sono minori quando vi sono azionisti di controllo; così come l’estrazione di benefici privati è meno probabile se la proprietà è diffusa.Una terza spiegazione può rinvenirsi nella regolamentazione. È vero, i rimedi legali tradizionali, di cui sempre si parla, sono superiori in America. Ma in altri campi l’Europa si è forse trovata un passo avanti: i principi contabili sono più generali, e perciò più generalmente applicabili; le regole di consolidamento dettate dalla direttiva europea sono più rigide; in molti Paesi i regolatori esercitano un controllo sui revisori; l’obbligo di informazione continua è formulato come principio generale, e non per casi. Presidi più forti di governo societario e di controllo Quanto è recentemente successo, o più precisamente quanto è venuto alla luce, tocca direttamente o indirettamente i temi della corporate governance e della corporate social responsability. Su questo fronte, Stati Uniti ed Europa hanno sinora fornito risposte differenti. Per restaurare la compromessa reputazione, il legislatore americano è intervenuto prontamente e pesantemente (legge Oxley-Sarbanes), e con esso la SEC (dopo qualche esitazione) e le borse. Si può ironizzare (come ha fatto di recente The Economist) sui giuramenti chiesti ai manager, ma non si può dubitare della rilevanza (e della pervasività) delle nuove prescrizioni: aumento delle responsabilità e limiti ai privilegi degli amministratori; un pesante regime sanzionatorio; aumento degli obblighi informativi continui e periodici; obbligo di informazione immediata delle transazioni degli insider; per i revisori controllo pubblico, limiti all’attività di consulenza e rotazione obbligatoria; riesame delle regole contabili; disciplina degli analisti. La scommessa è stata quella di usare la deterrenza per raddrizzare gli incentivi. Non si manifesta in Europa un pari attivismo. È mancata la spinta di una crisi; persiste una frammentazione di regole, che la Commissione non riesce a superare; i problemi sono in parte diversi. In Italia, dopo il Testo unico, gli obblighi di informazione continua sono soddisfacenti e sono stati da poco inaspriti per le operazioni in conflitto di interessi; il regolatore ha poteri di controllo sui sindaci e sui revisori e potere di impugnazione dei bilanci; nei ristretti limiti delle facoltà regolamentari, la Consob è intervenuta sugli analisti e sull’attività di consulenza delle società di revisione. Il regolamento europeo imporrà l’adozione degli International Accounting Standards entro il 2005. Ma si potrebbe fare ancora molto. Esemplifico. Il regime sanzionatorio, blando e insufficiente, ha scarso potere di deterrenza: non v’è bisogno di contemplare un decennio di galera per rinforzarlo. La disciplina sulle transazioni in conflitto d’interesse andrebbe migliorata in sede legislativa: lo esige una situazione di forte concentrazione di proprietà e massima presenza di gruppi piramidali. Occorre disciplina legislativa per una pronta informazione sulle transazioni degli insider in titoli della società: le regole recentemente introdotte dalla Borsa sono un passo avanti, ma modesto. Nel Testo unico l’analista non ha cittadinanza. Dovrebbero essere studiate misure, soprattutto dalla Borsa, per ridurre la separazione fra proprietà e controllo. Il legislatore ha almeno tre occasioni per intervenire: le conclusioni dell’indagine conoscitiva della VI Commissione della Camera sull’attuazione del Testo unico della finanza; il recepimento della prossima direttiva comunitaria sugli abusi di mercato; in misura forse minore la legge delegata di riforma del diritto societario. Sarebbe un gran peccato se il “caso Enron” fosse solo motivo di compiacimento dei mali altrui e non si approfittasse di questo momento, politicamente propizio, per introdurre presidi più forti di governo societario e di trasparenza: anche per non restare indietro (questa volta sì) al nuovo regime di regole americano. Questo è il momento giusto per fare appello a quanti sono convinti che un buon governo dell’impresa sia un bene pubblico che porta benefici ai mercati, alle società, agli investitori e quindi allo sviluppo economico. * Luigi Spaventa è presidente della Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (CONSOB) dal luglio 1998. È professore di economia alla facoltà di Scienze Statistiche presso l’Università La Sapienza di Roma, Membro (research fellow) del Centre for Economic Policy Research di Londra, membro della Commission Economique de la Nation di Parigi e membro del Comité des Sages nominato dal Consiglio Europeo ECOFIN per la regolazione dei mercati finanziari in Europa. È, infine, Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana. ■ ■ ■ ■ ■ ■ T en years of booming stock markets have resulted in lower standards of control for the financial system. The decade of the “Swinging Big Apple” has undermined the effectiveness of the system of checks and balances governing American finance and brought the question of corporate social responsibility dramatically to the fore. The bright light of the great market bubble (when profits had to have double-digit growth while stock prices were expected to increase threefold every year) put reason to sleep for investors and regulators, as well as many experts in corporate management. Everyone awoke to a startlingly squalid state of affairs. The reaction in the private sector in America has been suspicious of everyone and everything, while the public sector has produced an unexpected surge of legislation and regulation. While we wait for all the literature that will inevitably try to explain what it failed to predict, I would like to take this opportunity to make a few comments. What has changed in the wake of the Enron affair? Even though it may have been “the stock market’s September 11,” to speak of an “Enron affair” is to oversimplify. The blame cannot be borne by the odd rotten apple, either. There are lots of cases of investors being swindled by business managers. The various pathologies are far less interesting than the physiological dysfunctions that caused them. The first dysfunction brought about by the speculative bubble was the gradual distortion of the system of management incentives for publicly traded companies. A legitimate objective for business growth often degenerates into the unbridled corporate imperialism, which is directly related to a constant increase in stock prices to silence any embarrassing questions, raise the value of stock options, and make the extension of the empire seem to be the most profitable strategy (so-called acquisition accounting). Financial 5 6 engineering and creative accounting were used to feed this process and prevent disappointing results from interfering with managerial projects. Internal commissions did not work since both independent administrators and auditors shared the same interests as the managers, who confirmed the appointment of the former and attributed lucrative consulting contracts to the latter. The banks became accomplices: from beady-eyed credit allocators, they became partners in setting up commissions to provide financial engineering services to hide the real state of industrial affairs. After all, the analysts were on the banks’ payroll. Holes began to appear in the regulatory system. Accounting and transparency rules, based on the letter and not the spirit of the law, failed to keep up with financial innovation (offbalance sheet transfers, offbooks deals, structured finance). A list of accounting “do’s and don’ts” cannot cover every possible scenario and the loopholes gave form precedence over substance. It was the auditors themselves who kept an eye on the accounts: dog does not eat dog. There were no regulations for analysts. The familiar and extremely valid legal remedies (anti-director rights) were not enough: they guarantee a (rare) voice at general assemblies and provide for legal action after the fact, which treats the effect and not the cause. The Situation in Europe The fact that Europe has so far been (almost) immune to the kinds of scandals that have hit the United States is no reason for excessive rejoicing. The United Kingdom, where ownership is as fragmented as in the US, has been relatively immune from the Enron syndrome, which is indirect evidence of certain holes in American regulations. And the same applies (so far) to continental Europe, where ownership is more concentrated. Why? Of course, companies are smaller, operate in tighter conditions and are less underwritten. But the ownership structure also plays a major part. The minority shareholder is always exposed to the risk of being taken advantage of. A majority partner can expropriate the firm – and just about everything has already been said on this subject. We are now rediscovering the risks (which are hard to gauge and therefore often overlooked) of fragmented, minority ownership in the face of allpowerful managers. And it’s not just the private jets and golf clubs which are at issue, but the risk of subordinating the firm’s interests to the manager’s power-hungry objectives. These risks seem to be smaller when there are controlling shareholders; similarly, private gain is less likely when minority ownership is widespread. A third explanation lies in the nature of regulations. Although there are more conventional legal remedies in America, in other fields Europe is perhaps a step ahead: the auditing principles are more general, and therefore more widely applicable; the rules of consolidation as dictated by the European directives are more strict; in many countries regulators still control auditors; finally, the obligation of making information accessible to the public is stated as a general principle, and not in a case by case inventory list. Tighter corporate governance and control measures What has recently happened or, to be more precise, come to light, directly and indirectly touches on the issues of corporate governance and corporate social responsibility. The United States and Europe have so far come up with different solutions to these problems. To restore its reputation, American legislators acted promptly and in a heavyhanded way (Oxley-Sarbanes Act), as did the SEC (after some hesitation) and the various stock exchanges. It may be easy to make light of the oaths asked of managers (as The Economist did in a recent issue), but there can be no doubting the relevance (and widespread applicability) of the new rules and regulations: an increase in the responsibilities and a reduction of the privileges of administrators; a tough system of sanctions; increased responsibility in providing information to the public on a regular basis and the obligation to provide instant information concerning insider trading; a review of auditing rules; and careful control over analysts. Deterrence was chosen as the means of counterbalancing incentives. Europe was not so quick to take action. There has been no real crisis to speed matters up. Rules still differ from country to country and the European Commission does not seem to be able to overcome these differences. Furthermore, the issues are not quite the same. In Italy, since the Consolidation Act legislation was passed, obligations for disclosure have recently been strengthened and are satisfactory in cases of conflicts of interest; regulators have authority over both boards of directors and auditors, as well as power of opposition on a company’s accounts; within the limits of the regulatory body, the Consob has already taken action with respect to analysts and the activity of auditing companies. Finally, European regulations require the adoption of International Accounting Standards by 2005. Of course, we could do much more. For example, the rather bland and inadequate system of sanctions hardly serves as a deterrent; yet they do not require ten years in prison to make them tougher. The rules governing conflicts of interest need to be improved from a legislative point of view, given the considerable concentration of ownership and excessive presence of pyramid-style groups. It takes strict legislation to ensure prompt disclosure of information about insider trading: the rules and regulations recently adopted by the Italian Stock Exchange are a small step in the right direction. The Consolidation Act does not take analysts into account. The Italian Stock Exchange in particular ought to study ways of reducing the separation between ownership and control. The legislator has at least three opportunities to take action: the conclusions of the inquiry of the 6th House Commission for implementing the Consolidation Act on public finance; the introduction of a forthcoming EC directive on market abuse; and, perhaps to a lesser extent, legislation for reforming corporate law. It would be a real pity if the “Enron affair” were nothing more than an opportunity to gloat over other people’s ills, without seizing such a timely political opportunity to introduce stricter control over corporate governance and transparency: if only not to fall behind (for in this case we undoubtedly would) the new system of American rules and regulations. This is the right time to appeal to all those who believe that proper corporate governance is a public asset benefiting markets, firms, investors and hence economic growth. * Luigi Spaventa has been Chairman of the National Commission for Businesses and the Stock Exchange (CONSOB) since July 1998. He is Professor of Economics in the Department of Statistical Sciences at “La Sapienza” University in Rome, Research Fellow at the Centre for Economic Policy Research in London, Member of the Economic Commission of “La Nation” in Paris and Member of the “Comité des Sages” appointed by the ECOFIN European Council for controlling European financial markets. Finally, he has been awarded the order of merit Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito by the Italian Republic. Lezioni da un anno di scandali Lessons From a Year of Scandals di W. Michael Hoffman e Dawn-Marie Driscoll* by W. Michael Hoffman and Dawn-Marie Driscoll* Non confondere la Responsabilità Sociale di una Società con la Conduzione Etica di una Società Don’t Confuse Corporate Social Responsibility and Ethical Corporate Governance W. Michael Hoffman Dawn-Marie Driscoll Q professionisti mascherati da contabili. Le multe risultanti dagli scandali contabili erano prevedibili: Sunbeam (110 milioni di dollari), Waste Management (75 milioni di dollari), Boston Market (10 milioni di dollari), Baptist Foundation of Arizona (217 milioni di dollari). Presso la Enron, la Andersen aveva più di 150 suoi impiegati, confondendo così il confine tra cliente e controllore poiché essi partecipavano alle riunioni della Enron e contribuivano nella formazione di nuovi affari. Aggiungiamo altri tre clienti della Andersen: la WorldCom ha gonfiato il proprio fatturato di quasi 10 milioni di dollari; la Qwest Communications e la Global Crossing hanno venduto la propria capacità nel campo delle fibre ottiche in modo da registrare vendite che in realtà non erano mai avvenute – e anche in questo caso i dirigenti hanno incassato liquidi esattamente negli stessi anni che sono ora sotto controllo. La Tyco ha perso 87 miliardi di dollari in valore di mercato – e ha fatto di espressioni come “condono dei prestiti” e “tende per la doccia da 6000 dollari” frasi di uso familiari. Il suo ex amministratore uesto è stato un anno cruciale per il mondo degli affari americano. Il presidente della Morgan Stanley, Philip Purcell, ha dichiarato “non si ricorda un periodo in cui il mondo degli affari abbia avuto una reputazione più bassa”. Altri sono stati ancora più duri, domandandosi se gli stessi capitalisti non avessero ucciso il capitalismo. Questo anno di vergogna è iniziato col crollo della Enron, stigmatizzato dalla stampa come “maremoto”, “fulmine”, “balena arenata”. Questo scandalo è diventato la prima tessera di un effetto domino che ha investito tutto il mercato. La Enron ha perso 65 miliardi di dollari in valore di mercato in nove mesi, trasformandosi da società per l’energia che produceva e vendeva beni in una che creava intricate truffe finanziarie in modo che i funzionari e i dirigenti potessero incassare le proprie azioni di Borsa. Poi c’è la Arthur Andersen, l’azienda contabile globale recentemente scomparsa, che ha dimenticato le proprie origini di industria contabile ed è scivolata in una cultura contrassegnata da venditori delegato, Dennis Kozlowski, veniva pagato oltre 300 milioni di dollari ma ha cercato di evadere un milione di dollari di tasse su dei quadri che aveva comprato. Questa azione non etica ha avviato la caduta della Tyco. Più avanti è stato rivelato che anche un direttore esterno della Tyco aveva ricevuto un bonus da 20 milioni di dollari senza però dirlo ai suoi colleghi membri del Consiglio di amministrazione. Alla Adelphia Communications, la società fungeva da banca per i suoi fondatori, la famiglia Rigas, anticipando oltre 3 miliardi di dollari in prestiti e garanzie, senza apparentemente pensare che fosse importante dirlo a qualcuno. Come non bastasse, la società ha acquistato 12 milioni di dollari di beni da una società di cui era proprietaria, e automobili dalla propria rete vendita. Ha acquistato un appartamento a Manhattan per la figlia dei Rigas, ha finanziato le sue avventure come produttrice cinematografica e pagato suo marito oltre un milione di dollari all’anno. Che annata! Ci sono stati giornalisti finanziari che facevano gli investigatori, gruppi di consumatori che facevano i regolatori governativi, i regolatori governativi che facevano i lobbisti, i membri del Congresso che, come il Capitano Renault in Casablanca, si dichiaravano “scioccati, scioccati” del fatto che gli scandali finanziari potessero essere il risultato di scappatoie legislative accettate alcuni anni prima. Per la maggioranza della gente, la storia è che troppi di quelli al potere stanno mentendo, rubando e imbrogliando a spese di tutti noi, che soffriamo le conseguenze nei nostri portafogli e nei nostri piani pensionistici. Sull’onda di tutti questi scandali nel mondo degli affari, espressioni come “responsabilità societaria”, “governo societario” e “etica” sono state sparse a piene mani come vuote scialuppe di salvataggio in un mare in tempesta. Investitori e regolatori oltraggiati hanno reagito agli eccessivi compensi delle dirigenze e alle ingannevoli rivelazioni finanziarie con la richiesta di una riforma del mercato. Il Presidente Bush è andato a Wall Street per appellarsi a una maggiore “responsabilità societaria”. Il Congresso ha risposto approvando il Sarbanes-Oxley Act e molte altre normative sono in attesa. I sindacati, i fondi pensione, gli investitori istituzionali e la stampa finanziaria hanno promesso maggiore attenzione verso gli archivi, la condotta e le decisioni delle società. Ma pensiamo che ci dovrebbe essere una pausa in questo coro che chiede riforme per vedere se stiamo tutti cantando la stessa canzone. Perché se gli individui interessati all’integrità del mercato stanno solo versando parole a vanvera, non ci sarà alcun cambiamento reale nel comportamento delle società. Una delle lezioni più importanti di questo anno di scandali è che le parole “responsabilità sociale delle società d’affari” non sono la stessa cosa di “governo etico delle società d’affari”. Il governo etico si riferisce al sistema di sorveglianza e gestione delle istituzioni di affari, compresi i loro Consigli di amministrazione e dirigenti senior. Il Consiglio deve avere i più alti standard etici e anche comprendere il proprio ruolo nella sorveglianza dell’etica dell’organizzazione, dei suoi dirigenti e dei suoi programmi 7 6 engineering and creative accounting were used to feed this process and prevent disappointing results from interfering with managerial projects. Internal commissions did not work since both independent administrators and auditors shared the same interests as the managers, who confirmed the appointment of the former and attributed lucrative consulting contracts to the latter. The banks became accomplices: from beady-eyed credit allocators, they became partners in setting up commissions to provide financial engineering services to hide the real state of industrial affairs. After all, the analysts were on the banks’ payroll. Holes began to appear in the regulatory system. Accounting and transparency rules, based on the letter and not the spirit of the law, failed to keep up with financial innovation (offbalance sheet transfers, offbooks deals, structured finance). A list of accounting “do’s and don’ts” cannot cover every possible scenario and the loopholes gave form precedence over substance. It was the auditors themselves who kept an eye on the accounts: dog does not eat dog. There were no regulations for analysts. The familiar and extremely valid legal remedies (anti-director rights) were not enough: they guarantee a (rare) voice at general assemblies and provide for legal action after the fact, which treats the effect and not the cause. The Situation in Europe The fact that Europe has so far been (almost) immune to the kinds of scandals that have hit the United States is no reason for excessive rejoicing. The United Kingdom, where ownership is as fragmented as in the US, has been relatively immune from the Enron syndrome, which is indirect evidence of certain holes in American regulations. And the same applies (so far) to continental Europe, where ownership is more concentrated. Why? Of course, companies are smaller, operate in tighter conditions and are less underwritten. But the ownership structure also plays a major part. The minority shareholder is always exposed to the risk of being taken advantage of. A majority partner can expropriate the firm – and just about everything has already been said on this subject. We are now rediscovering the risks (which are hard to gauge and therefore often overlooked) of fragmented, minority ownership in the face of allpowerful managers. And it’s not just the private jets and golf clubs which are at issue, but the risk of subordinating the firm’s interests to the manager’s power-hungry objectives. These risks seem to be smaller when there are controlling shareholders; similarly, private gain is less likely when minority ownership is widespread. A third explanation lies in the nature of regulations. Although there are more conventional legal remedies in America, in other fields Europe is perhaps a step ahead: the auditing principles are more general, and therefore more widely applicable; the rules of consolidation as dictated by the European directives are more strict; in many countries regulators still control auditors; finally, the obligation of making information accessible to the public is stated as a general principle, and not in a case by case inventory list. Tighter corporate governance and control measures What has recently happened or, to be more precise, come to light, directly and indirectly touches on the issues of corporate governance and corporate social responsibility. The United States and Europe have so far come up with different solutions to these problems. To restore its reputation, American legislators acted promptly and in a heavyhanded way (Oxley-Sarbanes Act), as did the SEC (after some hesitation) and the various stock exchanges. It may be easy to make light of the oaths asked of managers (as The Economist did in a recent issue), but there can be no doubting the relevance (and widespread applicability) of the new rules and regulations: an increase in the responsibilities and a reduction of the privileges of administrators; a tough system of sanctions; increased responsibility in providing information to the public on a regular basis and the obligation to provide instant information concerning insider trading; a review of auditing rules; and careful control over analysts. Deterrence was chosen as the means of counterbalancing incentives. Europe was not so quick to take action. There has been no real crisis to speed matters up. Rules still differ from country to country and the European Commission does not seem to be able to overcome these differences. Furthermore, the issues are not quite the same. In Italy, since the Consolidation Act legislation was passed, obligations for disclosure have recently been strengthened and are satisfactory in cases of conflicts of interest; regulators have authority over both boards of directors and auditors, as well as power of opposition on a company’s accounts; within the limits of the regulatory body, the Consob has already taken action with respect to analysts and the activity of auditing companies. Finally, European regulations require the adoption of International Accounting Standards by 2005. Of course, we could do much more. For example, the rather bland and inadequate system of sanctions hardly serves as a deterrent; yet they do not require ten years in prison to make them tougher. The rules governing conflicts of interest need to be improved from a legislative point of view, given the considerable concentration of ownership and excessive presence of pyramid-style groups. It takes strict legislation to ensure prompt disclosure of information about insider trading: the rules and regulations recently adopted by the Italian Stock Exchange are a small step in the right direction. The Consolidation Act does not take analysts into account. The Italian Stock Exchange in particular ought to study ways of reducing the separation between ownership and control. The legislator has at least three opportunities to take action: the conclusions of the inquiry of the 6th House Commission for implementing the Consolidation Act on public finance; the introduction of a forthcoming EC directive on market abuse; and, perhaps to a lesser extent, legislation for reforming corporate law. It would be a real pity if the “Enron affair” were nothing more than an opportunity to gloat over other people’s ills, without seizing such a timely political opportunity to introduce stricter control over corporate governance and transparency: if only not to fall behind (for in this case we undoubtedly would) the new system of American rules and regulations. This is the right time to appeal to all those who believe that proper corporate governance is a public asset benefiting markets, firms, investors and hence economic growth. * Luigi Spaventa has been Chairman of the National Commission for Businesses and the Stock Exchange (CONSOB) since July 1998. He is Professor of Economics in the Department of Statistical Sciences at “La Sapienza” University in Rome, Research Fellow at the Centre for Economic Policy Research in London, Member of the Economic Commission of “La Nation” in Paris and Member of the “Comité des Sages” appointed by the ECOFIN European Council for controlling European financial markets. Finally, he has been awarded the order of merit Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito by the Italian Republic. Lezioni da un anno di scandali Lessons From a Year of Scandals di W. Michael Hoffman e Dawn-Marie Driscoll* by W. Michael Hoffman and Dawn-Marie Driscoll* Non confondere la Responsabilità Sociale di una Società con la Conduzione Etica di una Società Don’t Confuse Corporate Social Responsibility and Ethical Corporate Governance W. Michael Hoffman Dawn-Marie Driscoll Q professionisti mascherati da contabili. Le multe risultanti dagli scandali contabili erano prevedibili: Sunbeam (110 milioni di dollari), Waste Management (75 milioni di dollari), Boston Market (10 milioni di dollari), Baptist Foundation of Arizona (217 milioni di dollari). Presso la Enron, la Andersen aveva più di 150 suoi impiegati, confondendo così il confine tra cliente e controllore poiché essi partecipavano alle riunioni della Enron e contribuivano nella formazione di nuovi affari. Aggiungiamo altri tre clienti della Andersen: la WorldCom ha gonfiato il proprio fatturato di quasi 10 milioni di dollari; la Qwest Communications e la Global Crossing hanno venduto la propria capacità nel campo delle fibre ottiche in modo da registrare vendite che in realtà non erano mai avvenute – e anche in questo caso i dirigenti hanno incassato liquidi esattamente negli stessi anni che sono ora sotto controllo. La Tyco ha perso 87 miliardi di dollari in valore di mercato – e ha fatto di espressioni come “condono dei prestiti” e “tende per la doccia da 6000 dollari” frasi di uso familiari. Il suo ex amministratore uesto è stato un anno cruciale per il mondo degli affari americano. Il presidente della Morgan Stanley, Philip Purcell, ha dichiarato “non si ricorda un periodo in cui il mondo degli affari abbia avuto una reputazione più bassa”. Altri sono stati ancora più duri, domandandosi se gli stessi capitalisti non avessero ucciso il capitalismo. Questo anno di vergogna è iniziato col crollo della Enron, stigmatizzato dalla stampa come “maremoto”, “fulmine”, “balena arenata”. Questo scandalo è diventato la prima tessera di un effetto domino che ha investito tutto il mercato. La Enron ha perso 65 miliardi di dollari in valore di mercato in nove mesi, trasformandosi da società per l’energia che produceva e vendeva beni in una che creava intricate truffe finanziarie in modo che i funzionari e i dirigenti potessero incassare le proprie azioni di Borsa. Poi c’è la Arthur Andersen, l’azienda contabile globale recentemente scomparsa, che ha dimenticato le proprie origini di industria contabile ed è scivolata in una cultura contrassegnata da venditori delegato, Dennis Kozlowski, veniva pagato oltre 300 milioni di dollari ma ha cercato di evadere un milione di dollari di tasse su dei quadri che aveva comprato. Questa azione non etica ha avviato la caduta della Tyco. Più avanti è stato rivelato che anche un direttore esterno della Tyco aveva ricevuto un bonus da 20 milioni di dollari senza però dirlo ai suoi colleghi membri del Consiglio di amministrazione. Alla Adelphia Communications, la società fungeva da banca per i suoi fondatori, la famiglia Rigas, anticipando oltre 3 miliardi di dollari in prestiti e garanzie, senza apparentemente pensare che fosse importante dirlo a qualcuno. Come non bastasse, la società ha acquistato 12 milioni di dollari di beni da una società di cui era proprietaria, e automobili dalla propria rete vendita. Ha acquistato un appartamento a Manhattan per la figlia dei Rigas, ha finanziato le sue avventure come produttrice cinematografica e pagato suo marito oltre un milione di dollari all’anno. Che annata! Ci sono stati giornalisti finanziari che facevano gli investigatori, gruppi di consumatori che facevano i regolatori governativi, i regolatori governativi che facevano i lobbisti, i membri del Congresso che, come il Capitano Renault in Casablanca, si dichiaravano “scioccati, scioccati” del fatto che gli scandali finanziari potessero essere il risultato di scappatoie legislative accettate alcuni anni prima. Per la maggioranza della gente, la storia è che troppi di quelli al potere stanno mentendo, rubando e imbrogliando a spese di tutti noi, che soffriamo le conseguenze nei nostri portafogli e nei nostri piani pensionistici. Sull’onda di tutti questi scandali nel mondo degli affari, espressioni come “responsabilità societaria”, “governo societario” e “etica” sono state sparse a piene mani come vuote scialuppe di salvataggio in un mare in tempesta. Investitori e regolatori oltraggiati hanno reagito agli eccessivi compensi delle dirigenze e alle ingannevoli rivelazioni finanziarie con la richiesta di una riforma del mercato. Il Presidente Bush è andato a Wall Street per appellarsi a una maggiore “responsabilità societaria”. Il Congresso ha risposto approvando il Sarbanes-Oxley Act e molte altre normative sono in attesa. I sindacati, i fondi pensione, gli investitori istituzionali e la stampa finanziaria hanno promesso maggiore attenzione verso gli archivi, la condotta e le decisioni delle società. Ma pensiamo che ci dovrebbe essere una pausa in questo coro che chiede riforme per vedere se stiamo tutti cantando la stessa canzone. Perché se gli individui interessati all’integrità del mercato stanno solo versando parole a vanvera, non ci sarà alcun cambiamento reale nel comportamento delle società. Una delle lezioni più importanti di questo anno di scandali è che le parole “responsabilità sociale delle società d’affari” non sono la stessa cosa di “governo etico delle società d’affari”. Il governo etico si riferisce al sistema di sorveglianza e gestione delle istituzioni di affari, compresi i loro Consigli di amministrazione e dirigenti senior. Il Consiglio deve avere i più alti standard etici e anche comprendere il proprio ruolo nella sorveglianza dell’etica dell’organizzazione, dei suoi dirigenti e dei suoi programmi 7 8 di affari etici, cercando di prevenire danni ed evitare rischi all’interno della società. Il governo della società è imperniato sull’organizzazione interna, e dedicato alla supervisione e alla gestione delle relazioni e all’incoraggiamento delle decisioni in armonia coi valori dell’azienda. Efficaci programmi d’affari etici comprendono iniziative quali training di etica, consigli o comitati aziendali etici, risorse per aiuti e per brevetti – in altre parole, strutture e strategie per sviluppare una cultura etica interna che guidi a pratiche etiche. Troppi direttori, tuttavia, si autocompiacciono per le attività della propria azienda che dimostrano “responsabilità sociale” e ne concludono quindi che l’azienda è etica. Purtroppo, come gli investitori hanno imparato, attività come il sostegno a opere di beneficenza, la protezione dell’ambiente, l’interesse per i diritti umani, l’incoraggiamento del volontariato non hanno nulla a che fare con lo sviluppo di una cultura in cui la gente farà scelte etiche e metterà in discussione le malefatte. Sebbene gli sforzi delle aziende, sia per l’etica degli affari, sia per la responsabilità aziendale siano importanti, queste non dovrebbero essere confuse. Come hanno fin troppo chiaramente dimostrato la Enron e altre società, un’azienda può portare avanti iniziative di responsabilità sociale e allo stesso tempo avere un governo societario non etico. Ci sono altre lezioni apprese da questo anno di scandali. Non confondere l’etica con la conformità. Alcune aziende dichiarano di avere programmi di conformità e che rispondono a tutti i requisiti legali. La Arthur Andersen disse alla Enron che il suo programma di conformità era sufficiente; dopo tutto, gli impiegati firmavano ogni anno di aver ricevuto il codice di condotta d’affari della Enron. Sebbene importanti, i programmi di conformità da soli non sono sufficienti. Il solo conformarsi alle leggi e alle regole è uno standard della contabilità aziendale esistito per decenni. La conformità informa gli impiegati sulle leggi e sulle politiche aziendali e cerca di prevenire le violazioni. Molte aziende si sono concentrate eccessivamente sulle regole, promovendo una mentalità da “controllo il mio orticello” e conseguentemente una reazione da “ti ho beccato”. Troppo spesso i risultati si scostano dal vero obiettivo della conformità, scoraggiando le persone dal porre domande o dare suggerimenti. Uno dei documenti favoriti nella storia della Enron è una lettera dell’Amministratore Delegato Kenneth Lay inviata il 13 novembre 2001 ai fornitori della società: “La Enron crede in una condotta degli affari in armonia con i più elevati standard etici”. Inoltre, agli impiegati è richiesto di comportarsi in maniera “che essi non apportino altri guadagni se non come diretta conseguenza del loro impiego alla Enron. Inoltre, la Politica Etica degli Affari della Enron stabilisce che gli impiegati non debbano dare o ricevere regali o servizi per posizioni, premi o privilegi particolari”. Forse Kenneth Lay poteva dormire sonni tranquilli avendo inviato tale lettera: a nessun impiegato Enron sarebbe stato fatto un regalo di Natale. Ma la lettera non ha prevenuto tutti gli altri scandali avvenuti alla Enron, soprattutto quelli congegnati dai massimi dirigenti. La conformità non aiuta gli impiegati a risolvere situazioni che non sono contemplate dal regolamento del tipo “Dovrei aiutare a costruire questa finta sala in cui si praticano negoziazioni di borsa e sedere al mio computer, apparendo indaffarato, in modo da ingannare gli analisti?” Quanti alla Enron hanno fatto questo, e quale politica lo proibiva? Solo perché una certa azione non è menzionata nel regolamento non significa che sia giusta o che sia conforme ai valori aziendali. È per questo che le aziende hanno bisogno del programma di conformità come minimo, ma devono poi dotarsi di una più ampia cultura basata su valori etici in modo che gli impiegati che si trovino di fronte a un problema possano prendere decisioni ragionate ed etiche. Sviluppare una tale cultura è alla base del governo etico delle società. Non confondere l’etica individuale con l’etica organizzativa. I dirigenti possono pensare che se gli individui sono etici, le aziende saranno etiche. Non è vero. Siamo tutti parte di un’impresa comune. E queste imprese comuni, incluse le grandi società, sono culture sociali con un distinto carattere – carattere che può esercitare influenze positive o negative sugli individui, a seconda dei valori, degli obiettivi, delle politiche e delle direzioni gestionali che modellano il comportamento e le relazioni all’interno dell’organizzazione. Le aziende più etiche possono, naturalmente, avere individui che agiscono in modo non etico e prendono decisioni sbagliate. Le peggiori aziende possono avere impiegati eticamente responsabili. Ma gli individui con dubbia integrità etica possono essere incoraggiati ad agire eticamente da una cultura gestionale che sostenga tale comportamento e, al contrario, individui etici possono essere frustrati o neutralizzati da una cultura che scoraggi o prevenga una gestione etica. Consideriamo una persona: il contabile della Arthur Andersen responsabile per la Enron. Guadagnava un milione di dollari all’anno. Probabilmente era un individuo etico – sospettiamo che si ritenesse tale. Ma è umano che il nostro interesse personale, naturalmente, ci spinga a deviare il nostro comportamento in determinate direzioni. Avrà pensato: “Merito il mio stipendio. Lavoro sodo. Ho dei bambini e una casa costosa. Dono un sacco di soldi in beneficenza. Ho altre persone che lavorano per me che devono essere pagate. Non possiamo permetterci di perdere un cliente importante come la Enron”. Così non ha messo in discussione le dubbie pratiche finanziarie della Enron. Ma è a questo punto che entra in gioco la forza dell’etica organizzativa – o governo etico di un’azienda. Può incoraggiarci. Può rendere chiari i valori dell’organizzazione e fornire risorse che ci aiutano a prendere decisioni. Meglio ancora, può offrire alleati alle nostre decisioni. Se la Arthur Andersen fosse stata molto chiara e avesse insistito sul fatto che, soprattutto, il nostro valore etico principale è l’integrità, nulla avrebbe potuto scavalcarla e il responsabile avrebbe potuto assumere un altro atteggiamento. Supponiamo che i valori della Arthur Andersen parlassero realmente di integrità. E qui ci troviamo di fronte al problema chiave del reale significato delle parole. Se tutti i suoi soci avessero deciso che, in qualunque struttura di governo aziendale la Andersen fosse chiamata a prendere tali decisioni, avrebbero guadagnato piuttosto 750.000 dollari all’anno invece di un milione di dollari e non avrebbero messo a rischio l’integrità dell’azienda tenendo clienti ad alto rischio come la Enron, questa storia sarebbe potuta finire in modo diverso. Col senno di poi, naturalmente, si può concordare sul fatto che l’azienda ne sarebbe uscita meglio – avrebbe avuto un futuro. Sospettiamo che molti degli impiegati della Andersen desidererebbero che l’azienda avesse avuto un nucleo etico più forte, tale da funzionare anche nei casi più duri. Fare la cosa giusta non è sempre finanziariamente vantaggiosa, specie nel breve termine, e se il tuo guadagno è basato su cosa fai in un trimestre o in un anno, è ancora più difficile fare la cosa giusta, sopportando le conseguenze finanziarie del momento in modo che i tuoi successori possano godere dei successivi guadagni. Ma talvolta è necessario. Anche se la Andersen avesse avuto una più forte cultura etica il suo socio avrebbe potuto ugualmente non fare la voce grossa con la Enron. Ma se i suoi pari lo avessero richiamato e gli avessero detto che non aveva altra scelta e che avrebbero protetto lui e quelli che lavoravano per lui prendendo tutti meno soldi finché non ci fosse stata una nuova occasione di lavoro, allora forse l’avrebbe fatto. Sono questi i casi in cui emerge e conta l’etica organizzativa. Questo bisogno diventa ancora più chiaro quando i risultati del controllo dimostrano che metà degli impiegati avvertono pressioni per agire in modo non etico o illegale e ammettono di imbarcarsi in uno o più atti non etici e/o illegali. Non presumere che coloro che governano siano fedeli alle proprie dichiarazioni. Si noti questo nobile discorso proferito a una cerimonia di laurea: “Procedendo nella vita, diverrete capi di famiglia, di comunità e anche di aziende. Dovrete confrontarvi con problemi che metteranno ogni giorno alla prova la vostra moralità. I problemi saranno sempre più difficili e le conseguenze sempre più drastiche. Pensate con attenzione, e per voi stessi, fate la cosa giusta non la più facile”. È sconcertante che questo discorso sia stato fatto da Dennis Kozlowski, ex amministratore delegato della Tyco – ipocrisia aziendale del peggior livello. Erano parole senza azioni. Kozlowski è stato accusato di aver rubato 600 milioni di dollari alla Tyco, e gli si prospettano venticinque anni di carcere. Come abbiamo visto anche per la Enron e i suoi sbandierati “quattro valori” – comunicazione, integrità, rispetto ed eccellenza – le parole sono vuote senza una cultura etica. Coloro che guidano le grandi società devono guardare oltre le parole pronunciate dai dirigenti e determinare se stiano veramente agendo da capi etici. Abbiamo assistito a molte scene di disperazione per il crollo della Enron, della Andersen, della Worldcom, della Tyco e di altre aziende, e siamo preoccupati che gli investitori perdano la fiducia nelle Borse, temendo che coloro che tutelano i mercati non lavorino per sorprendere i dirigenti non etici. Se i dirigenti delle aziende non fanno ciò che dovrebbero, se i consigli di amministrazione non li sorvegliano, se i legali e i revisori non provvedono a dare a questi ultimi consigli obiettivi, se gli analisti esterni non fanno domande imbarazzanti o non riescono a immaginare cosa un’azienda stia combinando e se i regolatori ignorano tutto questo, ciò non prova forse che il nostro sistema capitalistico è incrinato? Incrinato, forse. Ma riteniamo che il sistema funzioni esattamente come dovrebbe. Il fatto che queste aziende siano invischiate in un comportamento non etico e in scandali pubblici, e che in qualche caso siano crollate, è la riprova della necessità di una condotta d’affari etica – la roccia su cui si fonda il capitalismo. La nostra struttura di mercato capitalista – e in realtà la nostra struttura sociale – è principalmente fondata sulla fiducia. I regolatori non possono esaminare ogni singolo libro contabile; devono fidarsi di coloro che hanno steso le relazioni finanziarie. Gli investitori e i prestatori devono affidarsi all’integrità dei direttori e dei dirigenti anziani. I direttori e i dirigenti devono affidarsi all’esperienza e all’onestà dei loro revisori e legali. I revisori devono affidarsi alla buona fede di ciò che gli viene detto dalla dirigenza. Gli impiegati, i clienti, gli azionisti e la comunità devono fidarsi di tutti questi soggetti. Quando ciascuna parte immagina di non potersi fidare dell’altra perché sta facendo gli affari nel proprio interesse, piuttosto che in quello degli altri, allora le fondamenta di un sistema di mercato integrato crollano. Il risultato catastrofico è preordinato. Nessuno dà fiducia a istituzioni turbate da scandali dovuti alla loro mancanza di integrità. Forse alcune di queste società hanno ancora alcuni impiegati che lavorano duro e forse qualcuno sta ancora guadagnando, ma non importa, perché nella maggioranza dei casi è troppo tardi. Queste società devono essere punite per la loro mancanza di dedizione all’etica. Robert Reich, ex Segretario del Lavoro, disse una volta: “Il più eloquente appello morale non avrà gioco con il più imparziale editto del mercato”. Vale a dire, in una partita tra etica e mercato, il mercato dominerà. Ci è sempre piaciuta molta questa citazione perché siamo in fermo disaccordo con essa. Buona etica significa buoni affari. Non si può avere l’uno senza l’altro, come hanno provato gli scandali dell’anno scorso. Il mercato ha cominciato a punire coloro che sono senza etica. Chi sarà il prossimo? Quali dichiarazioni di valori e missioni sono carenti di significato? Chi sta giocando sul filo del rasoio dell’etica? Insomma, tutti noi appartenenti alla società controlleremo le nostre istituzioni e decideremo chi vive secondo principi etici e chi no. Chi lo fa avrà vantaggi competitivi grazie ai vantaggi etici. * W. Michael Hoffman è direttore esecutivo fondatore del Centro per l’Etica d’Affari (Center for Business Ethics) al Bentley College di Waltham, Massachusetts. Il CBE è da 26 anni un Istituto di consulenza e ricerca e un forum di educazione per lo scambio di idee e informazioni sull’etica in affari. * Dawn-Marie Driscoll è socio esecutivo del Centro (www.bentley.edu/cbe). Sono autori di Ethic Matters: How to Implement Values-Driven Management, 2000. ■ ■ ■ ■ ■ ■ T his has been quite a year for American business. Morgan Stanley’s chairman, Philip Purcell, said he “cannot think of a time when business as whole had a worse reputation.” Others have gone so far as to wonder if capitalists haven’t killed capitalism. This year of shame began with the collapse of Enron, described by the press as a “tidal wave,” a “thunderbolt,” a “beached whale.” Enron became the first domino in a series of scandals that overran the market. Enron lost $65 billion in market value in nine months as it went from being an energy company that made and sold goods to one that created an intricate sham of financial transactions so that its executives could cash in their stock options. Then there was Arthur Andersen, the late global accounting firm, which traded its accounting firm origins in favor of a culture of professional salespeople masquerading as accountants. The resulting fines for accounting scandals were predictable: Sunbeam ($110 million), Waste Management ($75 million), Boston Market ($10 million), Baptist Foundation of Arizona ($217 million). Andersen had over 9 10 150 people working on site for Enron. In fact, the division between client and auditor became so blurred that Andersen attended Enron meetings and helped to shape its new businesses. Add to this three more Andersen clients: WorldCom overstated its cash flow by almost $10 billion; Qwest Communications and Global Crossing traded fiber optic capacity in order to record sales they never really made – and once again, the executives at the top happened to cash out in precisely the same years that are now being analyzed. Tyco lost $87 billion in market value – and made “debt writeoff” and “$6000 shower curtains” household words. Although he had a salary of over $300 million, Dennis Kozlowski, its former CEO, still tried to evade $1 million in sales tax on paintings he bought. That unethical act started Tyco’s downfall. Later it was revealed that even an outside director of Tyco received a $20 million bonus, which he failed to report to his fellow board members. At Adelphia Communications, the company acted as a bank for its founder, the Rigas family, advancing over $3 billion in loans and loan guarantees. And apparently without thinking it important to tell anyone about it. As if that weren’t enough, the company purchased $12 million in goods from a company they owned, and cars from their own dealership. It also bought a Manhattan apartment for the Rigas’ daughter, financed her film production ventures and paid her husband over $1 million a year. What a year it’s been! We ‘ve had financial reporters acting like detectives, consumer groups acting like government regulators, government regulators acting like lobbyists, and Congressmen, like Captain Renault in the movie Casablanca, acting “shocked, shocked” that financial scandals could have resulted from legislative loopholes passed a few years earlier. To most people, the story boils down to the fact that too many of those in power are lying, stealing and cheating at the expense of the rest of us, who suffer the consequences in our wallets and retirement plans. In the wake of all these business scandals, words like “corporate responsibility,” “corporate governance,” and “ethics” have been tossed around like so many empty lifeboats on a stormy sea. Outraged investors and regulators are demanding corporate reform in the face of excessive executive compensation and misleading financial disclosures. President Bush went to Wall Street to call for increased “corporate responsibility.” Congress responded by passing the Sarbanes-Oxley Act and more regulations are pending. Unions, pension funds, institutional investors and the financial press have promised increased scrutiny of corporate filings, practices and decisions. But we believe there should be a break in this overwhelming chorus for reform to make sure we are all singing to the same tune. Because if those who say they are concerned about the integrity of our capital markets are just spouting words without a common meaning, there will be no real change in corporate behavior. One of the chief lessons of this year of scandals is that “corporate social responsibility” is not the same as “ethical corporate governance.” Ethical corporate governance refers to business institutions’ system of control and management, including its board of directors and senior management team. The board must have the highest ethical standards and also understand its role in overseeing the ethics of the organization, its managers and its business practices, with the goal of preventing harm and minimizing risk within the corporation. Corporate governance focuses on internal organization, addressing how to supervise and manage relationships and encourage decision-making in keeping with company values. Effective business ethics programs include initiatives like ethics training, company-wide ethics councils or committees, and resources for assistance and registering concerns – in other words, structures and strategies for developing a corporate ethical culture that will guide ethical business activities. Too many directors, however, pat themselves on the back for initiatives that demonstrate their “corporate social responsibility” and conclude that the company is therefore ethical. Unfortunately, as investors have learned, activities such as supporting charities, protecting the environment, considering human rights and encouraging employee volunteer work have nothing to do with developing a culture in which people will make ethical choices and question wrongdoing. Although both business ethics and social responsibility initiatives are important for corporations, they should not be confused with each other. As Enron and others have shown all too clearly, a company can take initiatives that are socially responsible although it has no ethical governance. There are a few other lessons to be learned from this year of scandals. Don’t confuse ethics and compliance. Some companies say they have compliance programs and that they are meeting all their legal requirements. Arthur Andersen told Enron its compliance program was sufficient; after all, employees signed off every year that they had received Enron’s code of business conduct. While important, compliance programs alone are insufficient. Merely complying with laws and regulations is a standard of corporate accountability that has existed for decades. Compliance tells employees about the law and company policies and tries to prevent violations. Many companies have focused too heavily on rules, fostering a “check the box” mentality and a reactive “caught you” type culture. The results all too often defeat the very goal of compliance, discouraging people from asking questions or making suggestions. One of our favorite documents from the Enron story is a letter CEO Kenneth Lay sent out to the company’s suppliers on November 13, 2001: “Enron believes in conducting its business affairs in accordance with the highest ethical standards.” Furthermore, employees are required to behave in a manner “which does not result in any personal financial gain other than that derived as a direct consequence of their employment with Enron. Enron’s Business Ethics Policy further states that “no entertainment or gifts are to be given or received by Enron employees for special position, price or privilege.” Perhaps Kenneth Lay could sleep soundly at night knowing that having sent that letter, no Enron employee would receive a Christmas gift that year. But the letter certainly didn’t prevent all the other scandals at Enron from happening, particularly those devised by top executives. Compliance does not help employees address situations that aren’t in the rulebook, such as, “Should I help create this false trading room and sit at a computer, looking busy, so we can fool the visiting analysts?” How many people at Enron did that, and what policy prohibited that activity? Just because a proposed action is not mentioned in the rules does not mean it is right or that it conforms to company values. This is why company compliance programs are a minimum, beyond which companies must provide a broader, values-based ethical culture for employees to make ethically reasoned decisions in the face of complex situations that do not appear in a guidebook. Developing that culture is the essence of ethical corporate governance. Don’t confuse individual ethics and organizational ethics. Managers might think that if individuals are ethical, companies will be too. This is not true. We are all part of a community. And this community, like any corporation, has a social culture with a distinct character – which can have a good or bad influence on individuals, depending on the values, goals, policies, and management objectives that define the behavior and relationships within the organization. The most ethical companies may, of course, have individuals who act unethically and make wrong decisions. The worst companies may include ethically responsible employees. But individuals with questionable ethical integrity might be encouraged to act ethically by a corporate culture that supports such behavior, while ethical individuals might be discouraged or even suppressed by a culture that discourages or prevents ethical leadership. Let’s take an example: the Arthur Andersen accountant responsible for Enron. He earned more than $1 million a year. He probably was an ethical individual – we suspect he saw himself as such. But he is human, as we all are, and our self-interest naturally pushes us to adapt our behavior in certain ways. He may have thought, “I deserve that salary. I work hard. I have children and an expensive house. I give a lot of money to charity. I have other people who work for me who need their paycheck. We can’t afford to lose a big client like Enron.” So he didn’t challenge Enron’s questionable financial practices. And this is where the strength of organizational ethics – or ethical corporate governance – comes into play. It can support and encourage us. It can make the organization’s values clear and provide us with the resources to help us make decisions. Better yet, it can provide allies in the face of difficult decisions. If Arthur Andersen had been very clear and insisted that, above all, our chief ethical value is integrity, nothing will supercede that – then our accountant might have taken a different course. We should assume that Arthur Andersen’s values did in fact talk about integrity, then we are faced with the issue of the true meaning of words. If each one of its partners had decided that, in whatever corporate governance structure, they would rather make $750,000 a year instead of $1 million and not risk the integrity of the whole company by keeping high-risk clients like Enron, this story might have had a different ending. In retrospect, of course, it’s easy to see that the company would have been better off – it would have had a future. We suspect that many of Andersen’s employees wish that the firm had had a stronger ethical core. One that worked in the most difficult situations. It’s not always financially lucrative, especially in the short term, to do the right thing. Furthermore, if your compensation is based on quarterly or yearly performance, it’s even harder to do the right thing, bearing the financial consequences now so that your successors can enjoy the financial rewards. But sometimes it is necessary. Even if Andersen had had a stronger ethical culture, the Anderson partner still might not have made the tough calls against Enron. But if his peers had insisted and said you have no choice and we’ll protect you and everyone who works for you and wÈll all just take less money until we make it up some other place, then he might have done it. It is in these situations that organizational ethics come into play and where they matter. The need for organizational ethics becomes even more blatant when survey results show that half of all workers feel pressure to act unethically or illegally and admit to engaging in one or more unethical and/or illegal acts. Don’t assume that leaders do as they say. Note this uplifting quote from a graduation address: “As you go forward in life, you will become leaders of families, communities and even companies. Every day you will be confronted with questions that test your moral standards. The questions will become tougher and the consequences will become more severe. Think carefully, and for your sake, do the right thing, not the easy thing.” Amazingly this was spoken by Dennis Kozlowski, former CEO of Tyco – corporate hypocrisy at its worst. They were words without actions. Kozlowski has been charged with stealing over $600 million from Tyco and faces twenty-five years in prison. As we also saw with Enron and its touted “four values,” – communication, integrity, respect and excellence – words remain empty without an ethical culture to back them. Those who govern large corporations need to look beyond the words spoken by executives and determine if they are truly acting as ethical leaders. The collapse of Enron, Andersen, Worldcom, Tyco and the others we witnessed has brought about much desperation and concern that investors might lose confidence in the various stock markets, fearing that market safeguards are insufficient to stop unethical leaders. If company executives aren’t doing what they should, if their board of directors isn’t supervising them, if lawyers and auditors aren’t providing the boards with objective advice, if outside analysts aren’t asking probing questions or can’t figure out what a company is doing and if regulators are ignoring all this, doesn’t that prove our capitalist system is flawed? Flawed perhaps, but nevertheless, we believe the system worked exactly as it should. The fact that these companies were embroiled in unethical behavior and public scandal, and in some cases collapsed, is further proof of the necessity of business ethics – the bedrock upon which capitalism is founded. Our capital market structure – indeed, our entire social structure – is based on trust. Regulators cannot examine every company’s books; they need to trust those who file financial statements. Investors and lenders have to rely on the integrity of directors and senior managers. Directors and executives have to rely on the expertise and honesty of their auditors and lawyers. Auditors have to rely on the good faith of what they are told by management. Employees, customers, shareholders and communities have to rely on all of the above. When everyone feels that they cannot trust the other because each party is operating in its own best interest, rather than in the community’s, then the very foundation of an integrated market system collapses. The disastrous outcome is preordained. No one trusts institutions rocked by scandal due to their lack of integrity. Maybe some of these businesses still have a few employees working hard, and maybe some really are making money, but it doesn’t matter, because in most cases it’s too late. These organizations must be punished for their lack of commitment to ethics. Robert Reich, former U.S. Secretary of Labor, once said, “The most eloquent moral appeal will be no match for the dispassionate edict of the market.” That is, in a match between ethics and the market, the market will win. We have always liked that quote because we totally disagree with it. Good ethics is good business. You can’t have one without the other, as the scandals of the past year have shown. The market has in fact begun to punish those without ethics. Who will be next? Whose mission and values statements are meaningless? Who is walking the ethical tightrope? Ultimately, all of us members of society will judge our institutions and decide who lives according to ethical principles and who does not. And those who do will have a competitive advantage because of their ethical advantage. * W. Michael Hoffman is the founding executive director of the Center for Business Ethics at Bentley College in Waltham, Massachusetts. Founded 26 years ago, CBE is a research and consulting institute and an educational forum for the exchange of ideas and information in business ethics. * Dawn-Marie Driscoll is an executive fellow at the Center (www.bentley.edu/cbe). They are the authors of Ethic Matters: How to Implement Values-Driven Management (2000). 11 Azione invisibile, effetto tangibile Invisible Action, Tangible Result di Lorenzo Sacconi* by Lorenzo Sacconi* Una governance consapevole arricchisce la reputazione dell’azienda Conscientious governance enhances a company’s reputation 12 Lorenzo Sacconi N onostante ancor oggi con l’etichetta “responsabilità sociale di impresa” (corporate social responsibility, CSR in breve) qualcuno intenda solo le politiche aziendali di “immagine” o, in casi migliori, le attività filantropiche dell’impresa verso il territorio circostante, vi è ormai diffusa consapevolezza – si veda ad esempio il Green Paper sulla CSR pubblicato dalla Commissione europea nel Luglio 2001 – che il termine denoti qualcosa di ben altra importanza. In effetti con CSR qui intenderò un modello di governance allargata dell’impresa, in base al quale chi la governa ha responsabilità che si estendono dall’osservanza dei doveri fiduciari nei riguardi della proprietà ad analoghi doveri fiduciari nei riguardi in generale di tutti gli stakeholder. Per chiarire, con “stakeholder” si intendono coloro che hanno un interesse rilevante in gioco nella conduzione dell’impresa sia a causa degli investimenti specifici che intraprendono per effettuare transazioni con l’impresa o nell’impresa, sia a causa dei possibili effetti esterni positivi o negativi delle transazioni effettuate dall’impresa, che ricadono su di loro. Una lista ampia, ma forse non esaustiva, comprende i clienti/consumatori, i collaboratori, gli investitori (azionisti o creditori), i fornitori, i partner commerciali, i concorrenti, la comunità circostante, la Pubblica Amministrazione e gli organismi di controllo e le generazioni future (con interessi ambientali). La definizione di stakeholder dunque precede ed è indipendente dall’identificazione di quella particolare relazione privilegiata che fa sì che uno particolare tra gli stakeholder sia anche il proprietario dell’impresa. Insomma, per la CSR il governo d’impresa ha doveri fiduciari verso un qualsiasi stakeholder non in quanto esso ha titolo sulla proprietà sull’impresa, ma per qualche altra ragione che dovremo chiarire. Sempre definendo il linguaggio, con “doveri fiduciari” ci si riferisce a quegli interessi in nome e per conto dei quali l’impresa è gestita. Essi rinviano all’esistenza di una relazione fiduciaria tra un’agente, investito dell’autorità di prendere le decisioni discrezionali, e altri soggetti la cui fiducia è costitutiva dell’autorità del primo agente, ove tali soggetti non sono però in condizione di prendere le decisioni discrezionali, ma i cui interessi ciò nondimeno costituiscono pretese legittime nei confronti della conduzione dell’impresa. Pretese che chi gestisce effettivamente l’impresa deve assumere come fini ultimi della gestione e che di conseguenza generano doveri fiduciari in capo a lui. L’idea di dovere fiduciario rinvia al fatto che chi governa o gestisce effettivamente l’impresa non è colui che ha l’interesse legittimo in nome del quale l’impresa deve essere gestita. La sua più nota applicazione è ovviamente al caso della separazione tra proprietà e controllo, e identifica i doveri che il management ha nei confronti dei proprietari dell’impresa, che non esercitino il controllo sulla condizione quotidiana. In tale caso tuttavia il proprietario o l’azionista detengono sempre un diritto su alcune decisioni residuali, che non vengono previste in nessun contratto e che non vengono delegate al management (ad esempio le scelte sul cambiamento della compagine societaria, fusioni, acquisizioni ecc.). Con la CSR questo concetto si estende da una prospettiva monostakeholder (in cui l’unico stakeholder rilevante ai fini della identificazione dei doveri fiduciari è lo shareholder) a una prospettiva multistakeholder e non utilizza quindi più la nozione di proprietà come esclusiva base per identificare le responsabilità e i doveri fiduciari del governo di impresa. È bene perciò rimarcare lo slittamento di significato che tale prospettiva impone al tema della governance: in un senso, che resta essenziale, il disegno della governance coincide con l’attribuzione a singoli o categorie del diritto di decisione residuale sulle risorse fisiche dell’impresa, cioè coincide con il problema dell’attribuzione di autorità (tra i proprietari e i manager, cui essa viene in parte delegata) su tutto ciò che non può e non deve essere contrattato ex-ante. Se ci si mette nella prospettiva della CSR, tuttavia, risulta evidente che, se l’impresa ha una struttura di proprietà tale da riconoscere il diritto di decisione residuale a una particolare categoria di stakeholder (siano essi i capitalisti, o nel caso delle cooperative, i lavoratori o i consumatori), allora esistono interessi di soggetti che non possono esser protetti dall’esercizio dei suddetti diritti e dall’autorità che ne promana. Dunque, in modo ancora più marcato che nel caso degli azionisti non controllanti, il disegno della governance deve includere l’attribuzione di doveri fiduciari, ovvero vincoli all’esercizio dell’autorità del proprietario o dell’autorità delegata al management, tali che l’esercizio di tale autorità risulti vantaggioso per gli interessi degli stakeholder non controllanti. La governance include in tal modo diritti di decisione o sovranità, ma anche doveri di responsabilità verso interessi e pretese legittime di soggetti non controllanti. Ciò naturalmente richiede una qualche gerarchia, certi vincoli reciproci tra gli interessi dei vari stakeholder, qualche forma di partecipazione o di consultazione della voce dei loro rappresentanti, in ultima istanza richiede un bilanciamento delle diverse attese e pretese. Posta questa definizione di CSR, qui mi propongo di rispondere alle seguenti domande: • È giusto chiedere alle imprese di adempiere a doveri di CSR? • Quale è il contenuto di tale responsabilità, cioè da quale giustificazione dell’impresa come istituzione economica possiamo dedurre i contenuti e le richieste della CSR? • Perché chi dirige le imprese dovrebbe attuare la CSR, quali sono le convenienze a farlo? • Quali strategie, sistemi e strumenti di gestione consentono di attuarla? Imprese e manager “socialmente responsabili”? Per cominciare, se è vera la tesi della CSR allora deve essere falsa l’altra, resa famosa oltre 30 anni fa da Milton Friedman, secondo cui la sola responsabilità dei manager (e delle imprese da essi dirette) è fare profitti per gli azionisti (the only social responsibility of business is to make profits). Benché presentata con un indubbio gusto per il paradosso, anche questa è una tesi etica. Essa consiste nell’affermare che i manager devono obbedire ad un “etica speciale fortemente differenziata in base al ruolo”. I manager avrebbero un obbligo verso i proprietari, assunto per contratto, e tale obbligo sarebbe soverchiante verso altri doveri, almeno finché sono nel ruolo. Ma che il contratto si limiti a stabilire queste le loro responsabilità dipende dalle istituzioni e dalle norme sociali e morali accettate più in generale. Quali sono perciò le ragioni di etica generale grazie alle quali si può accettare che una particolare istituzione (l’impresa) e il ruolo professionale del manager debbano essere limitati a questa particolare obbligazione fiduciaria verso la proprietà? La tesi, ben nota agli economisti e ai filosofi sociali liberali, è che in un mercato perfettamente concorrenziale la massimizzazione dei profitti consente un esito socialmente efficiente, e garantisce l’imparzialità e l’autonomia degli agenti. Quei valori etici sono garantiti indirettamente, per effetto della “mano invisibile”, dal perseguimento semplice e coerente di un obbiettivo meramente egoistico. Ciò per altro delimita la validità della tesi sulla limitata responsabilità sociale dell’impresa: solo nel caso di un mercato perfettamente concorrenziale si potrebbe sostenere che l’impresa e il manager abbiano come unica responsabilità quella di fare profitto per i proprietari. Sappiamo tuttavia – e in buona parte proprio grazie a economisti liberali come Coase e von Hayek – che di norma i mercati non sono perfettamente concorrenziali e che proprio per questo l’efficienza sociale può essere approssimata solo attraverso la costituzione di molteplici istituzioni (tra cui l’impresa) e dalla diffusione di regole e codici di condotta. Si può suggerire allora che nella realtà le responsabilità sociali dell’impresa e del management non possono essere limitate alla ristretta etica speciale di Friedman e che i manager, entro i limiti del ruolo, devono comunque prendersi cura di principi etici più generali. Anziché impegnarmi in una più ampia confutazione della tesi di Friedman (già abbastanza criticata in letteratura), mi limiterò qui a due esemplificazioni che attestano la nuova urgenza con cui la CSR si è andata imponendo negli ultimi tempi: A) La critica alla globalizzazione: molti di coloro che simpatizzano con i movimenti di critica alla “globalizzazione” non lo fanno perché, come ciecamente accade per alcuni attivisti, siano 13 contrari alla formazione di un sistema di opportunità di scambio e di relazioni economiche a livello globale. Piuttosto non credono che mercati globali siano di per sé condizione sufficiente per la diffusione equa della ricchezza e la massimizzazione del benessere. A tale scopo occorrono istituzioni, sia per il funzionamento del mercato (definizione dei diritti di proprietà a tutela delle parti, contratti abbastanza chiari e articolati, informazione e capacità contrattuale non troppo diseguale, imposizione dei contratti e dei diritti), sia, come ha sottolineato Amartya Sen, per l’accesso dei singoli al mercato (istituzioni che provvedano a “beni principali” come istruzione, salute, sicurezza, previdenza sociale contro le carestie e la povertà, protezione contro le calamità naturali, in grado di garantire alle persone le capacità senza le quali non possono prendere parte attivamente né alla società, né al sistema degli scambi). In mancanza di queste istituzioni il mercato non funziona adeguatamente come meccanismo di allocazione delle risorse e troppo pochi sono coloro che hanno accesso alla ricchezza (che quindi non genera tanto benessere quanto potrebbe). Inoltre si creano disparità di potere che portano all’abuso dei forti sui deboli, al sovra-sfruttamento di alcune risorse e alla distruzione o sottoutilizzo di altre (specie umane). Efficienza ed equità devono essere simultaneamente custodite e garantite da un insieme appropriato di istituzioni se si vuole evitare che, come è evidente nelle economie in via di sviluppo, la “mano invisibile” sia paralizzata da crampi o deviata da tremori che la portano a risultati ben lontani da quelli predetti da Adam Smith. È vero che istituzioni globali di questo tipo, in grado di regolare le transazioni internazionali e le economie in via di sviluppo, a tutt’oggi non esistono. D’altra parte è anche vero che con ciò non si intendono solo istituzioni giuridiche (imposte con la forza della legge), ma anche semplici convenzioni sociali e regole di condotta, che costituiscono la trama istituzionale soggiacente a un mercato che funzioni appropriatamente (ed è proprio perché il mercato opera sulla base di queste regole di sfondo, che noi non ci accorgiamo della loro esistenza). Ecco perché si chiede alle imprese trans- 14 nazionali di assumersi la responsabilità sociale di agire “come se” queste istituzioni esistessero. Esse dovrebbero favorire nei vari contesti in cui operano l’affermarsi di norme sociali e regole di condotta (e la loro trasformazione in norme giuridiche) tali che chiunque considerasse i comportamenti tenuti nei processi di delocalizzazione produttiva alla luce di un ragionevole principio di equità, e tenuto conto delle diversità di contesto economico e sociale, non dovrebbe mai trovarsi a provare ripulsa morale di fronte all’ingiustizia. B) La crisi dei mercati finanziari: fattori scatenanti e amplificatori della crisi di fiducia nella Borsa di New York sono certamente stati la scoperta che certi manager (e il dubbio che tutti i manager) sfruttassero sistematicamente il loro vantaggio informativo nei confronti degli azionisti per truccare i bilanci, colludere con gli auditor, con i revisori dei conti e con i consulenti finanziari. Il tutto, come si dice, in conflitto di interessi con gli azionisti. Paradossalmente, tuttavia, è solo col senno di poi che si può dire che tali manager non abbiano obbedito alla massima di Friedman (in realtà egli sapeva benissimo che la massima “l’unica responsabilità sociale dei manager è fare profitti” era valida all’interno di certi vincoli). Essi in effetti truccavano i bilanci, colludevano con consulenti e revisori allo scopo di creare aspettative di guadagno tali da tenere artificialmente alte le quotazioni di borsa dei titoli, il che in effetti consentiva agli azionisti di moltiplicare nell’immediato la profittabilità degli investimenti (come i manager di Enron hanno saputo fare vendendo i loro pacchetti azionari al momento giusto), da cui dipendeva il valore delle stock options in possesso dei manager, e il rafforzamento in generale della loro autorità manageriale. Essendo stato ipotizzato un grado di perfezione dei mercati finanziari superiore alla realtà (razionalità e informazione perfetta degli investitori, aspettative razionali ecc.) e avendo sottovalutato il vantaggio informativo dei manager, il loro potere collusivo e la capacità di suscitare aspettative che nel breve si auto-confermano, i manager sono stati incentivati a valorizzare il titolo borsistico (quale migliore proxy del profitto degli azionisti che la valorizzazione dei loro titoli?) cui è associata la loro remunerazione, e così essi hanno gonfiato le aspettative con false informazioni, ottenendo alla fine l’opposto di quello che si voleva. Oltre a ricordare che i comportamenti rispondono agli incentivi in modo strategico, questo paradosso mostra che la “massimizzazione del profitto” (via la sua proxy finanziaria) smette di essere un non-senso solo una volta che altri doveri morali più generali siano stati soddisfatti, come ad esempio non mentire nella rendicontazione contabile. Ciò spinge a porre una domanda più generale: se un sistema di governance che intende l’accountability di chi governa l’impresa solo nei termini di offrire l’informazione strettamente necessaria a determinare il valore di borsa dei titoli, un’informazione sulla quale manager e revisori, avendo informazione riservata, possono influire strategicamente, non sia un sistema che garantisce insufficientemente gli azionisti stessi. Ben altro significato avrebbe l’informazione sulla redditività del titolo, e ben più credibile, qualora al contempo gli azionisti sapessero quanto l’impresa rispetta l’ambiente, se non corrompe o collude con gli amministratori pubblici, se soddisfa effettivamente la domanda dei consumatori in tutte le sue attività, rispetta equi contratti con i fornitori, remunera equamente il lavoro, e soprattutto se su queste materie fossero legittimate a parlare anche “voci” che non possono, o possono con maggiore difficoltà, essere corrotte. Un’impresa che conservi elevati profitti in presenza di un profilo di responsabilità sociale elevato, cioè di relazioni positive con tutti i suoi stakeholder, e che renda conto in modo trasparente su tutte queste relazioni, è un’impresa che produce effettivamente un surplus elevato. Un’accountability più ampia, con l’attivazione di altri “cani da guardia” (watch dogs), non interessati a colludere con il management per massimizzare le quotazioni e le consulenze, ma a verificare l’osservanza dei doveri fiduciari verso tutti gli altri stakeholder di cui condividano gli interessi, metterebbe in luce l’effettiva bontà della gestione e sarebbe una guida assai più affidabile per investimenti oculati da parte degli azionisti. La CSR e la teoria economica dell’impresa Torniamo ora alla moderna teoria dell’impresa (il suo ambito è quello della cosiddetta “economia dei costi di transazione” secondo la definizione data da Oliver Williamson). Molte transazioni, che comportano investimenti specifici (cioè tali da promettere ad uno stakeholder elevati benefici se la relazione con altri stakeholder va a buon fine) sono soggette a opportunismo (cioè all’espropriazione da parte di alcuni del valore degli investimenti fatti da altri partecipanti alle transazioni). Il motivo è semplicemente che una volta entrati nella relazione particolare, in presenza di elevati switching costs nel caso in cui si debba uscire da essa, si crea la possibilità di rinegoziare i contratti (espliciti o impliciti) e vi è il rischio che alla fine qualcuno risulti espropriato. Ciò vale per l’investimento in capitale finanziario, in capitale umano, in tecnologie, per l’investimento in fiducia del consumatore, per gli investimenti in forniture dedicate a un particolare cliente ecc. La mancanza di fiducia associata a tali rischi potrebbe deprimere gli scambi e condurrebbe a non effettuare molti degli investimenti che li renderebbero mutuamente vantaggiosi. Ovviamente ciò non accadrebbe se le informazioni fossero tali da consentire di prevedere ogni evidenzia in anticipo e stabilire per contratto come si agirà al suo presentarsi. La realtà è però che i contratti non sono mai completi in questo senso e molti eventi sfuggono alla capacità previsiva delle parti. Ciò sottolinea l’importanza delle decisioni discrezionali, che non possono essere stabilite ex ante contratti, cioè dei cosiddetti diritti di controllo residuale. L’impresa nasce per far fronte a tale problema: per l’economia dei costi di transazione l’impresa altro non è che l’istituzione la quale sottopone le scelte discrezionali all’autorità di una parte, mediante l’attribuzione di un diritto di decisione residuale (decisioni residuali nel senso che non sono incluse nel contratto) associato al diritto di proprietà sulle risorse fisiche dell’impresa. L’impresa è un’istituzione efficiente se l’allocazione del diritto residuale di controllo è in grado di proteggere gli investimenti degli stakeholder più a rischio, che cioè fanno investimenti il cui valore è maggiore ai fini della creazione della ricchezza o utilità eccedente i costi della transazione. Come si capisce subito questa spiegazione è però parziale: si ammetta che anche gli investimenti di altre parti concorrano alla creazione del sovrappiù associato alle transazioni. Chi impedisce al soggetto in posizione di autorità di abusare? Gli incentivi offerti a uno stakeholder (trasformato in proprietario e decisore residuale) si traducono perciò in depressione degli altri investimenti. L’iniquità nell’esercizio dell’autorità si traduce in una perdita di efficienza. Per sfuggire a questa conclusione si può dire che il proprietario compra tale diritto in anticipo e compensa gli interessi di tutti coloro che lo subiranno in seguito, ma - è facile rispondere - nessuno è in grado di valutare ex ante il valore di tale diritto in relazione a ogni stato futuro del mondo. Il lungo periodo, in cui occorrerebbe prevedere le conseguenze di un dato assetto della proprietà al fine si risarcire o compensare gli altri stakeholder all’atto della sua acquisizione, rende poi del tutto futile tale argomento. La CSR così risulta quale naturale completamento della giustificazione economica dell’impresa, intesa come istituzione di governo delle transazioni. Siccome l’abuso di autorità rende inefficiente l’impresa e la sua aspettativa rende instabili le sue relazioni con gli altri stakeholder, una giustificazione più completa sarebbe che al diritto di decisione residuale si accompagnassero i doveri fiduciari verso gli altri soggetti a rischio di abuso, che non detengono il diritto di controllo residuale e che conseguentemente non possono basare le loro transazioni su tale protezione di ultima istanza. Così una governance estesa dovrebbe includere: - il diritto di decisone residuale allocato allo stakeholder che ha investimenti più importanti a rischio, e che è in grado di esercitare il governo nel modo meno costoso per sé e meno rischioso per gli altri; - i doveri fiduciari da parte di chi governa l’impresa (sia esso il titolare del diritto residuale di controllo o un agente da lui delegato) verso gli stakeholder non controllanti, nel senso della responsabilità di agire nel corso della gestione in modo da consentire loro di appropriarsi di una equa parte del surplus, proporzionale al valore dei loro investimenti specifici, cioè al loro contributo al valore della transazione. Nell’assieme sarebbero così protetti più investimenti che nel caso in cui l’unico dovere fiduciario messo in atto dal management fosse quello verso il proprietario. L’efficienza dell’impresa dipende così dalla responsabilità sociale (e dall’equità) verso coloro che non controllano l’impresa (un esito abbastanza paradossale per una spiegazione partita dall’enfasi sull’allocazione della proprietà e del controllo). La CSR e il contratto sociale dell’impresa Ma quale è il contenuto normativo dei diritti fiduciari verso gli stakeholder? Per rispondere abbiamo bisogno di un modello di impresa moralmente legittima, dal quale sia possibile procedere per deduzione. Con moralmente legittima intendiamo un’istituzione che riscuota il consenso di chiunque nel valutarla adotti ragioni imparziali, che fanno appello a criteri come il benessere generale, l’efficienza allocativa o sociale, l’equità e il rispetto uguale delle libertà. Non dico ovviamente che da sole tali ragioni imparziali siano in grado di spingere ad agire i manager o gli imprenditori (a questo scopo dovremo discutere anche la “convenienza”), ma è chiaro intanto che esse fanno appello alla ragione di ciascuno di noi. Chi sostiene la CSR condivide in solido la metafora dell’impresa come un “gioco cooperativo” tra molteplici stakeholder, gli interessi dei quali sono coinvolti in quanto ciascuno apporta contributi (chi il capitale, chi il lavoro, chi le decisioni di consumo, chi i mezzi e i beni strumentali e intermedi, chi le autorizzazioni regolamentari ecc.), e che subiscono effetti interni ed esterni positivi o negativi e possono influire sia pure in modo diverso (via contratto, via autorità, via negoziazione nell’organizzazione, attraverso la pressione esterna e la regolazione ecc.). Il gioco cooperativo consiste nello stabilire una strategia congiunta, cioè un piano in cui siano descritte le azioni di ciascuno stakeholder, dal quale nasca un esito tale da apportare un surplus di ricchezza e benessere rispetto ai costi che ogni stakeholder sostiene cooperando. Esso viene giocato dagli stakeholder come un gioco di contrattazione e quindi l’esecuzione dell’accordo viene delegata a un agente che si incarica di fare valere quanto stabilito. La gestione strategica dell’impresa può essere vista come l’attribuzione ad un agente - di solito l’imprenditoredel compito di coordinare i molteplici apporti a livello efficiente in vista della produzione di un surplus (tale surplus può essere ricavato dalla somma algebrica dei vantaggi ricavati e dei costi sostenuti nelle transazioni da ciascuno stakeholder) in modo da evitare i costi di una contrattazione effettiva tra tutti gli stakeholder. La parte essenziale della strategia è perciò raggiungere un equilibrio di cooperazione, grazie al quale ciascun stakeholder sia disposto a dare il proprio apporto efficientemente. La governance allargata in questa prospettiva è il bilanciamento tra gli interessi dei vari stakeholder, da cui discendono i doveri fiduciari che chi stabilisce la strategia di impresa assume nei confronti degli stakeholder stessi, i quali a loro volta decidono di cooperare, accettando di fatto l’autorità dell’imprenditore nel prendere le decisioni circa la combinazione degli apporti. La domanda seguente è però come bilanciare? “Stakeholder” è un termine descrittivo: molte classi di individui hanno interessi in gioco nella conduzione dell’impresa a causa di investimenti specifici, attese di benefici o timore di subire danni e le loro pretese possono essere in conflitto. Il termine “stakeholder” non ci è di grande aiuto poiché non è un concetto normativo: non dice quali pretese diano adito a un diritto, perciò non dice come bilanciare le pretese in conflitto. Quali pretese nei confronti dell’impresa sono perciò legittime e possono essere considerate diritti che impongono doveri fiduciari in capo a chi governa l’impresa? Per rispondere abbiamo bisogno di un criterio etico che sia in grado di identificare un equilibrio giustificabile, cioè accettabile ex ante da tutti gli stakeholder come base per la loro cooperazione, e che possa essere rispettato ex post dagli stakeholder e dall’impresa. Sembra naturale proporre quale criterio etico appropriato quello del “contratto sociale” tra gli stakeholder dell’impresa (un’idea che, dopo essere stata diversamente riproposta da filosofi ed economisti come Rawls, Gauthier, Buchanan e Binmore, ho cercato insieme ad altri di applicare anche all’etica di impresa). Con questa espressione si intende non un contratto qualsiasi della vita reale, ma una “pietra di paragone” (ragionamento ipotetico svolto dall’imprenditore): l’accordo che verrebbe sottoscritto in una posizione ipotetica di scelta unanime dai rappresentanti di tutti gli stakeholder. In questa situazione contrattuale ideale, forza, frode e manipolazione vanno scartate. Ciascuno si siede al tavolo della contrattazione solo portando con sé le proprie capacità di contribuire, e una valutazione dell’utilità di ciascuna ipotesi di accordo e di non accordo. Per giungere alla soluzione ciascuno segue la procedura di mettere se stesso nella posizione di ogni altro a turno. Si trovano allora i termini di accordo che saremmo disposti ad accettare dal punto di vista di ciascuno e quindi dal punto di vista di chiunque. Così il contratto sociale è l’accordo accettabile da uno spettatore imparziale (questo sarebbe il ruolo dell’imprenditore) che giudica dal punto di vista di ogni stakeholder e identifica perciò l’accordo mutuamente vantaggioso tra i vari stakeholder dell’impresa, che potrebbe essere accettato in modo invariante rispetto alla permutazione dei loro particolari punti di vista. La domanda restante è ovviamente se tale accordo esista effettivamente. Siccome l’impresa è un gioco cooperativo, la teoria della contrattazione (una branca consolidata della teoria dei giochi che fu iniziata dal matematico John Nash, premio Nobel dell’economia assieme a Reinard Selten e John Harsanyi) ci assicura che almeno un equilibrio di mutuo vantaggio esiste. In realtà un gioco di contrattazione genera un intero insieme di esiti cui è associato un vantaggio reciproco (un surplus) e la teoria della contrattazione ci offre alcune ragionevoli soluzioni che consentono di identificare una soluzione univoca del problema 15 16 di distribuzione del surplus efficiente, ad esempio la distribuzione corrispondente all’uguale concessione rispetto alla massima pretesa di ciascuno, oppure la proporzionalità delle quote distribuite rispetto alla variazione marginale dell’utilità relativa per gli esiti della contrattazione (questa in effetti equivale alla soluzione di Nash). Qualunque sia l’esito suggerito della “matematica della contrattazione”, non è comunque difficile riconoscere la condotta equa (cioè rispettosa del contratto sociale con gli stakeholder) nelle situazioni reali, ricostruendo l’accordo che ipoteticamente sarebbe accettato unanimemente in assenza della possibilità da parte di qualcuno dei partecipanti di agire opportunisticamente nei confronti degli altri. Si immaginino le molteplici transazioni in cui si può esercitare opportunismo e abuso di autorità: rinegoziazione dei contratti con fornitori, offerte ai clienti e quindi esecuzione delle prestazioni, definizione e ricontrattazione dei rapporti di lavoro con i collaboratori (inclusi i processi di ristrutturazione), decisioni con impatto ambientale esterno delle attività produttive, rapporti riservati con rappresentanti della Pubblica Amministrazione. In ciascuna situazione si “sospenda” il vantaggio di cui una parte (spesso, ma non necessariamente, l’impresa) dispone a causa del fatto che ha autorità o discrezionalità, potere di minaccia, maggiore conoscenza, informazione riservata o nascosta, maggiore disponibilità economica e possibilità di indurre alla collusione - e si ipotizzi che le parti possano accordarsi alla luce della conoscenza degli eventi che accadranno in seguito. Quello che resterà è l’accordo (o l’insieme di accordi) “ideale” tra le parti, che in quanto è accettabile razionalmente è anche equo. Opportunismo è sempre avvantaggiarsi iniquamente rispetto all’esito che sarebbe accettato in assenza dei suddetti fattori distorsivi (spesso legati alla disuguaglianza di informazione, potere o autorità, oppure alla semplice incompleta conoscenza del futuro possibile), che ahimè nella realtà sempre presenti. La convenienza della CSR: la reputazione dell’impresa Le ragioni morali per agire, ammettiamolo, non costituiscono sempre anche un incentivo sufficiente ad agire. L’homo oeconomicus agisce in base alla prudenza e alla ricerca del massimo utile personale (in realtà questa ipotesi può essere compatibile con comportamenti non meramente egoistici). Facciamo qui l’ipotesi volutamente riduttiva che l’imprenditore e il manager non traggano significativamente soddisfazione diretta dall’obbedienza al contratto sociale dell’impresa (per quanto lo possano ritenere giustificato) e che invece derivino la loro utilità dal successo dell’impresa che dirigono. In tal modo bisogna cercare un sostegno all’attuazione della CSR nella sfera della razionalità strumentale e degli incentivi. Perché allora l’imprenditore o il manager dovrebbero dare attuazione alla CSR? La risposta è perché essa è la base per conservare e accrescere uno degli asset più preziosi, benché immateriali, dell’impresa: la reputazione. La reputazione dell’impresa è ciò che consente ai suoi stakeholder di fidarsi e conseguentemente di cooperare con essa, in modo che le transazioni avvengono con bassi costi di controllo o di contrattazione. D’altra parte dare fiducia è sempre una decisione problematica, poiché nell’idea stessa di una relazione fiduciaria è implicita la possibilità che la parte che chiede fiducia possa poi abusare di essa e trarre un vantaggio venendo meno agli impegni espliciti o impliciti. D’altra parte la reputazione si acquisisce se l’impresa dichiara impegni inizialmente almeno in parte credibili e se essi vengono mantenuti attraverso incontri ripetuti in cui si genera l’evidenza di una condotta che non abusa. Tuttavia accumulare reputazione può essere un compito proibitivo per l’impresa se l’unico modo di dimostrare il mantenimento degli impegni è fare in modo che l’interlocutore osservi le concrete azioni che vengono compiute in varie aree. Si considerino le seguenti situazioni: - contratti incompleti: il contratto non prevede clausole relative ad eventi inizialmente non previsti, cosicché non c’è un termine concreto alla luce del quale valutare la ricontrattazione; - qualità non osservabile: la qualità di un bene o servizio non può essere appurata dal cliente in base alla sua informazione, talché egli deve “fidarsi” dell’opinione di un esperto (e di solito il produttore è un esperto); - autorità organizzativa: il “capo” prende decisioni genuinamente discrezionali sui collaboratori in virtù della flessibilità consentita dai contratti di lavoro; - collusione: nel rapporto con rappresentati del cliente, del fornitore o della Pubblica Amministrazione, l’impresa dispone di risorse per stringere accordi e questi non sono osservabili da chi non è presente alla relazione, cosicché si può sempre sospettare che l’impresa colluda ai danni dei terzi che non assistono allo scambio illecito. Sono tutti ambiti in cui l’informazione o la conoscenza a proposito delle azioni dell’impresa sono incomplete o fortemente asimmetriche. O gli impegni non sono definiti in relazione ad eventi imprevisti e quindi non possono essere verificati, oppure la loro attuazione non è osservabile. È proprio in relazione a queste situazioni che i doveri fiduciari in cui si articola la CSR mostrano la loro funzionalità come base per accumulare la reputazione. I doveri fiduciari dell’impresa verso i suoi stakeholder sono infatti principi e regole di comportamento preventivo che asseriscono cosa bisogna aspettarsi dall’impresa anche nei contesti non previsti o in cui le azioni concrete non sono osservabili, e offrono una base verificabile per la formazione di quei giudizi e credenze che stanno alla base della reputazione. Le aspettative, come suggerito dall’economista David Kreps, si formano anziché in relazione all’accadere di eventi particolari (che non sono previsti) o all’attuazione di particolari azioni o esiti (non osservabili), piuttosto in relazione al rispetto di principi generali e astratti, e quindi mai muti. Di contro, la verifica della conformità è assicurata mediante l’attuazione di procedure precauzionali e preventive di condotta che sostituiscono le azioni come parametro di riferimento per la reputazione. C’è dunque (come ho sostenuto in altri lavori) una funzione cognitiva della CSR, che essa condivide con ogni sistema di principi e norme etiche, consistente nel consentire la formazione di aspettative reciproche nelle situazioni in cui l’informazione è vaga, incompleta o incerta, il che permette di aggiornare le aspettative fino a ottenere un grado di fiducia sufficiente al sostenere relazioni cooperative. Per assolvere a questa funzione occorre che i sistemi di gestione della CSR rispettino a una certa logica (su questo si veda il prossimo paragrafo). Si potrebbe tuttavia insistere che questa è una base ancora troppo debole per dimostrare la convenienza per l’impresa di mantenere una condotta conforme alla CSR. Un’impresa che si facesse una reputazione di soggetto che “abusa ma non troppo” della fiducia dei suoi stakeholder, potrebbe comunque ottenere la loro cooperazione, se la sua incompleta osservanza offrisse comunque un’aspettativa positiva di benefici e se l’alternativa fosse la rinuncia a tutte le transazioni. Così stanti le cose, sarebbe proprio l’equità a soffrine, poiché l’impresa si limiterebbe a far fronte ai suoi doveri solo quel tanto che basta a non indurre gli stakeholder a interrompere ogni cooperazione (benché iniqua). Per fortuna la CSR, avendo a che fare con principi etici e doveri di condotta, cioè parlando il linguaggio della deontologia, offre un appiglio più efficace al meccanismo della reputazione e all’ipotesi che essa renda conveniente la condotta conforme. Il fatto è che molti stakeholder hanno preferenze non puramente auto-interessate o rivolte ai vantaggi materiali (conseguenze). Essi attribuiscono importanza anche al fatto che l’impresa ottemperi a doveri derivanti dal contratto sociale, specie se l’impresa li enuncia in codici di condotta e ne fa una comunicazione esterna. Così una deviazione dal profilo di CSR, o degli impegni etici assunti, viene punito anche più di quanto il semplice interesse materiale non indurrebbe a fare. Il panico in Borsa a seguito degli scandali manageriali americani potrebbe essere razionalizzato come punizione per l’oltraggio o la mancanza di conformità dei manager rispetto ai principi che essi dichiaravano di accettare. Altri esempi sono il boicottaggio inflitto dagli “investitori etici” e dai “consumatori responsabili” a certe multinazionali che operano nei Paesi in via di sviluppo in flagrante contrasto con norme etiche condivise nei Paesi di origine. Non occorre immaginare che, da un lato, la razionalità economica presieda ai comportamenti dell’impresa e dall’altra la pura ideologia presieda alle scelte degli stakeholder “etici”. La razionalità economica, come un recente filone di studi sostiene, può essere estesa a ricomprendere preferenze definite non sulle conseguenze, cui è associato un vantaggio materiale, bensì sul grado di conformità attesa delle azioni a ideali accettati razionalmente. In altre parole le preferenze possono incorporare, assieme al desiderio delle conseguenze migliori per sé o per chiunque altro, anche il desiderio che le azioni attese dagli altri si conformino a principi o ideali, se tali ideali sono condivisi e accettati ipoteticamente da entrambe le parti della relazione (ad esempio attraverso l’esperimento ideale del “contratto ipotetico” di cui al paragrafo 4). In senso stretto l’utilità dello stakeholder può essere la combinazione opportunamente pesata delle utilità materiali e delle utilità ideologiche, cioè di quelle utilità che rappresentano la preferenza conformista che ricaviamo dall’aspettativa di osservanza del contratto sociale. In tal senso sarebbe solo il frutto di un’ipersemplificazione l’aver ridotto il concetto economico di utilità a quello del guadagno monetario o materiale. Se questo è vero, allora ci spieghiamo in modo del tutto razionale perché imprese i cui codici etici, per quanto striminziti, affermavano un impegno per l’integrità aziendale, sono state duramente punite in Borsa dalla crisi di fiducia degli investitori, forse in misura eccedente il danno economico direttamente prodotto dalle malversazioni. Insomma le preferenze conformiste amplificano gli effetti di reputazione positivi o negativi e rendono meno spendibile la scelta strategica delle imprese che rispettano “solo un po’ ” un sistema di valori condiviso. I sistemi di gestione per la CSR Come suggerito, la CSR affronta il problema di rendere possibile assumere impegni, dai quali dipendano le aspettative, anche su materie che non possono essere concretamente previste o in cui i risultati e le azioni concrete non sono direttamente osservabili, e che proprio per questo divengono oggetto dei “doveri fiduciari” verso gli stakeholder. Diventa quindi essenziale il disegno dei sistemi di gestione rivolti ad assicurare la CSR. Nel dibattito internazionale, in parte riassunto ma anche rilanciato a livello più alto dal Green Paper della Commissione Europea, stanno emergendo tentativi di standardizzazione di un sistema di qualità per la CSR. In particolare, secondo lo standard di qualità dei sistemi di gestione per la Responsabilità Etico Sociale in corso di elaborazione in Italia (progetto Q-RES), le fasi e gli strumenti corrispondenti sono: 1) visione etica d’impresa: non una semplice affermazione della missione produttiva, ma una visione del contratto sociale che l’impresa offre ai sui stakeholder cioè del bilanciamento equo tra i loro interessi; 2) codice etico: - principi che definiscono l’insieme bilanciato dei diritti e dei doveri nei confronti di ciascuna categoria di stakeholder; - norme di comportamento etico per ogni area a rischio nelle relazioni con ogni stakeholder, contenenti i divieti delle forme tipiche di opportunismo e gli standard di condotta preventivi raccomandati; 3) formazione etica per sviluppare la competenza di interpretazione degli eventi organizzativi alla luce della loro rilevanza rispetto ai principi etici e trasmettere il senso di impegno (commitment) sui principi e le norme di condotta; 4) sistemi organizzativi di attuazione: comitato etico in grado di rappresentare in modo imparziale il punto di vista dei vari stakeholder; controllo top down (audit); sviluppo di un dialogo bottom up per integrare la CSR nei compiti e obbiettivi di lavoro; sistemi di valutazione e incentivazione materiale e immateriale del personale, legati alla conformità e ai risultati in ambito CSR; 5) rendicontazione sociale: comunicazione esterna di principi e standard per fornire agli stakeholder nuovi parametri su cui fondare il giudizio; illustrazione con un bilancio sociale della comprensibile relazione fra performance e commitment, illustrando i risultati ottenuti in relazione a ciascuno stakeholder sotto il riguardo sia del valore economico distribuito, sia di altri benefici ottenuti o costi allocati dalla gestione; inclusione del punto di vista degli stakeholder in modo da garantire credibilità alla rendicontazione; 6) verifica e certificazione esterna della CSR sulla base di evidenze relative a ciascuno strumento e ai risultati ottenuti nei vari ambiti della gestione (gestione delle risorse, qualità dei prodotti e dei servizi ecc.). Non è questa la sede per entrare in dettaglio degli strumenti suddetti. È invece opportuno richiamare la logica e la struttura generale ad essi soggiacente, che si riconduce al tema del ruolo cognitivo dell’etica di impresa nel favorire il giudizio degli stakeholder sulla reputazione meritata (o non meritata) dall’impresa. Quanto alla visione e ai principi generali, essi definiscono l’idea di giustizia dell’impresa. Sono quindi astratti e generali, in quanto si applicano a molteplici eventi, inclusi quelli che non siamo in grado dapprincipio di prevedere o di descrivere. Per la loro applicazione non è quindi necessaria una descrizione dettagliata della situazione. È sufficiente il riconoscimento della presenza di alcune caratteristiche astratte. Inoltre, al contrario che le regole di dettaglio e i contratti, quando mancano in essi le clausole contingenti rispetto al presentarsi di situazioni non previste, i principi non sono mai muti, poiché coprono sia gli eventi previsti, sia quelli imprevisti o ex ante non prevedibili che presentino semplicemente la struttura o la caratteristica astratta identificata dal principio. Il loro ambito di applicazione è necessariamente vago (resta una certa ambiguità circa l’appartenenza di situazioni impreviste al dominio di un principio). Ma la vaghezza può però essere governata grazie alla logica del ragionamento morale, che permette di ricondurre le situazioni impreviste al dominio di applicazione dei principi, almeno entro certi limiti di vaghezza (a questo fine occorre sviluppare la capacità di ragionamento morale nei membri dell’organizzazione). Quanto alle regole di condotta precauzionali e preventive del codice etico, esse non richiedono di essere condizionate a situazioni concrete, ma semplicemente si attuano quando il rischio di violazione di un principio eccede una soglia preannunciata. In altre parole, vengono applicate mediante un ragionamento per default. Il ragionamento per default non richiede un’informazione completa sulla situazione: è sufficiente che l’appartenenza di un evento al dominio del principio superi una determinata soglia di vaghezza perché esse siano obbligatorie. Così le condizioni di attuazione possono essere stabilite ex ante e su di esse lo stakeholder può legittimamente formarsi un’aspettativa. Le regole - non le decisioni particolari o le conseguenze - per altro devono essere standardizzate, osservabili e verificabili esternamente, in quanto la loro applicazione costituisce l’evidenza che non è stato infranto intenzionalmente alcun principio. Infine la comunicazione a due vie e il dialogo con gli stakeholder è parte essenziale del sistema: principi, standard e comportamenti devono essere comunicati poiché da essi dipende la reputazione. Gli stakeholder baseranno il loro giudizio sulla corrispondenza fra eventi/principi e procedure annunciate ex ante/ comportamenti adottati, di modo che la rendicontazione sociale non potrà limitarsi a evidenziare i “risultati sociali” come un sottoprodotto non intenzionale dell’attività economica volta ad altri scopi (ad esempio il profitto). Gli stakeholder hanno una “comune comprensione” del rischio (meglio: della vaghezza) con cui un evento mette a rischio un dato principio. Cosicché non c’è alcun vantaggio nella manipolazione di queste informazioni: il rischio è perdere la propria reputazione o addirittura distruggere totalmente 17 18 la fiducia. Al contrario occorre sviluppare la capacità di giudicare come uno spettatore imparziale, in grado di mettersi nei panni di uno stakeholder medio, né malevolente né benevolente (ancora una volta è importante la formazione della capacità di ragionamento morale). È chiaro che questa capacità è facilitata sviluppando il dialogo con gli stakeholder (ad esempio durante e alla fine del processo di rendicontazione sociale, ma prima ancora inserendo membri indipendenti nel comitato etico aziendale, capaci di giudicare secondo quella prospettiva imparziale). Da ultimo la credibilità del sistema può essere sostenuta dalla verifica e certificazione esterna, attuata da organi effettivamente indipendenti, che adottino effettivamente il punto di vista dello stakeholder medio suddetto e che per il loro disegno organizzativo non possano essere sospettati neppure lontanamente di agire in “conflitto di interessi”.i ideale che dispone Conclusioni Non ci spingeremo a dire che le imprese siano naturalmente portate ad ottemperare alla CSR e tuttavia si può ritenere che qui vi sia spazio per l’autoregolazione, opportunamente sostenuta da un’intelligente sorveglianza da parte delle istituzioni pubbliche. Gli stakeholder hanno possibilità di influire sulla reputazione e la reputazione è un asset immateriale fondamentale per le imprese, il che può costituire un movente abbastanza forte per spingerle ad adottare la CSR tra i criteri del proprio sistema di governance e della propria strategia. D’altra parte le motivazioni ideali aumentano la reattività degli stakeholder contro deviazioni dal comportamento responsabile, specie se annunciato, poiché una componente importante dell’utilità degli stakeholder (o almeno una parte di essi) è ideale ed è legata alla conformità. Dunque ci possiamo aspettare che aumenti il numero delle imprese che cercheranno, mediante una sistema di gestione per la CSR, di aumentare la loro reputazione. Non è detto che questo sia sufficiente a innescare un processo evolutivo tale da fare prevalere quelle imprese che conformano il proprio sistema di governance e di gestione ai principi di CSR. Qui le istituzioni pubbliche potrebbero assolvere un ruolo importante, come quello che la Commissione europea sembra adombrare nelle sue indicazioni. Non tanto una pesante regolazione e imposizione esterna di doveri aggiuntivi, ma un dialogo sociale che spinge all’autoregolazione, premiando coloro che la intraprendono, sostenendo e amplificando la voce degli stakeholder e gli effetti sulla reputazione delle imprese derivante dalla loro conformità o non conformità a standard accettati di CSR. E, se il caso, introducendo tra i criteri non obbligatori, ma meritori al fine di qualificare le imprese per lo svolgimento di compiti e funzioni nell’ambito delle public utilities, o nei contratti e concessioni pubbliche, o per accedere agli incentivi a sostegno dello sviluppo, il possesso di un sistema di gestione per la CSR opportunamente verificato e certificato. * Lorenzo Sacconi è professore di Economia delle Istituzioni, Dipartimento di economia, Università di Trento e Direttore del CELE-Centre for Ethics Law & Economics, Università Cattaneo-LIUC, Castellanza. ■ ■ ■ ■ ■ ■ A lthough some people still use the label “corporate social responsibility” (or CSR) to refer to “image-related” business policies and, in the best of cases, philanthropic activities aimed at the surrounding environment, most understand that the expression refers to something of much greater importance – as is made clear by the European Commission’s Green Paper on CSR published in July 2001. Indeed, I will use CSR to refer to a broader concept of corporate governance, which includes the responsibility of managers to meet their fiduciary obligations toward ownership, as well as those related to stakeholders in general. By “stakeholder” I mean any party with some real interest in the running of a business, either through specific investments made to do business with/in the company, or because of potential external effects, both positive and negative, arising from the company’s activities that may affect the stakeholders in question. An extensive but not exhaustive list includes clients/consumers, colleagues, investors (shareholders or creditors), suppliers, business partners, competitors, the surrounding community, public administrators and control bodies, and future generations (with environmental concerns). This definition of stakeholder therefore is more basic and is independent of the specific and privileged relationship that makes one particular stakeholder also an owner of the company. In other words, for CSR, corporate governance implies fiduciary obligations toward any stakeholder; not because they are part owners, but for some other reason that we will try to understand. To further define our terminology, by “fiduciary obligations” we mean those interests in the name of which and for whose interest the business is run. These obligations refer to the relationship of trust between an agent with discretionary decision-making authority and the subjects whose trust constitutes the agent’s authority. Even though these subjects are not in a position to make the discretional decisions, their interests constitute, nevertheless, legitimate claims in the way the company is run. These claims represent the ultimate objectives of those running the business and therefore become fiduciary obligations which corporate management must meet. The concept of fiduciary obligation refers to the fact that those in charge of actually running or managing a business are not those in whose legitimate interests the business ought to be run. Its most obvious application is of course the separation of ownership and control, and the definition of management’s responsibilities toward the owners, who are not actually involved in the day-to-day running of the company. In this case, however, the owner or shareholder still retains some control over certain decisions not included in any contract and not delegated to management (e.g. decisions about changes in company structure, mergers, acquisitions, etc.). From a CSR perspective, this concept is extended from a monostakeholder perspective (in which the only relevant stakeholder for identifying fiduciary obligations is the shareholder) to a multistakeholder perspective, whereby the notion of property is no longer the exclusive basis for determining the responsibilities and fiduciary obligations of corporate management. It is therefore important to understand the shift that this implies in the notion of governance: on one essential level governance still means assigning individuals or categories of individuals certain residual decision-making authority over physical corporate resources; i.e., it deals with the issue of assigning authority (from owners to managers, to whom authority is in part delegated) over anything that cannot and must not be contracted ex-ante. From a CSR point of view, however, it is obvious that any company with an ownership structure based on the right to residual decisionmaking of a given category of stakeholders (whether capitalists or, in the case of cooperatives, workers and consumers), there will be certain categories of interests that cannot be protected from the exercise of the abovementioned rights and the authority they confer. Therefore, even more clearly than in the case of minority shareholders, governance must include the allocation of fiduciary obligations or place limits on the exercise of the owner’s authority or the authority delegated to management, so that exercising this authority also remains in the interest of noncontrolling stakeholders. Governance must therefore include decision-making authority or sovereignty, as well as responsibilities toward the legitimate interests and claims of non-controlling stakeholders. Naturally, this calls for some sort of hierarchy and reciprocal constraints on the interests of the various stakeholders; it implies some form of participation or means to express their representative’s opinions and, ultimately, a way to balance the various demands and expectations. Having defined CSR in this fashion, I will now try and answer the following questions: • Is it right to ask companies to meet CSR obligations? • Just what do these responsibilities entail; in other words, based on what definition of a company as an economic entity can we determine the contents and demands of CSR? • Why should managers implement CSR? What is their interest in doing so? • What business strategies, systems and tools are needed to implement it? “Socially responsible” businesses and managers? First, if CSR is valid as a theory then the conflicting theory made famous 30 years ago by Milton Friedman, whereby “the only social responsibility of business is to make profits,” must be false. Despite its apparent paradox, Friedman’s is also an ethical theory according to which managers must abide by “specific ethics differentiated according to their role.” Managers have a contractual responsibility toward owners, which takes precedence over other obligations, at least as long as they occupy a certain position. But whether or not the contract limits itself to establishing their responsibilities depends on the institutions and the generally accepted social/moral norms. So what are the general ethical principles in which an institution or business and its manager’s duties can be confined to this particular fiduciary obligation to ownership? The theory that is well-known to liberal philosophers and economists states that the maximization of profits in a perfectly competitive market produces socially efficient results and guarantees the impartiality and independence of its agents. The “invisible hand” of the market guarantees these ethical principles indirectly, by simply and coherently pursuing a purely selfish goal. This also defines the scope of the theory of limited corporate social responsibility: only in a perfectly competitive market can businesses and its managers have “the generation of profits for their owners” as their sole responsibility. However, we know - thanks mainly to liberal economists like Coase and von Hayek - that markets tend not to be perfectly competitive, which is why social efficiency can only be approximated by setting up various institutions (including businesses) and establishing widely accepted standards and codes of behavior. This suggests that in actual fact the social responsibilities of a company and its management cannot be limited to Friedman’s restricted ethics and that, within the boundaries of their role, managers must take into account more general ethical principles. Rather than try to refute Friedman’s theory in greater detail (which has already been done), I will simply give two examples to show how quickly CSR has advanced recently: A) The Criticism of Globalization: many people who sympathize with movements “criticizing” globalization are not, as certain activists blindly believe, against setting up a system of global opportunities for economic trade and relations. They simply do not believe that global markets alone are a sufficient means of bringing about the fair distribution of wealth and the highest standards of living. This calls for institutions to regulate markets (through clearly defined property rights to protect the parties involved, reasonably clear and carefully drawn up contracts, access to information and fairly unbiased contractual powers, imposition of contracts and rights) and, as Amartya Sen has pointed out, to allow individuals access to markets (institutions providing “key assets” like education, health, safety, social insurance against famine and poverty, protection against natural disasters; institutions giving people the means without which they cannot actively participate in society or the system of trade). In the absence of these institutions, the market cannot allocate resources efficiently and not enough people have access to wealth (therefore, the highest level of living standards is not achieved). This also leads to an imbalance of power, where the strong take advantage of the weak, certain resources are overexploited, while others are destroyed or under-utilized (particularly human resources). If we are to prevent (as is obviously happening in developing economies) the “invisible hand” from being paralyzed by cramps and leading to results that are anything but those predicted by Adam Smith, efficiency and equality must be simultaneously safeguarded and guaranteed by a combination of institutions. It is clear that institutions capable of governing international transactions and developing economies still do not exist. On the other hand, this does not necessarily imply legal institutions (enforced by law), it is also the simple social conventions and rules of behavior that make up the institutional fabric underlying properly functioning markets (and it is precisely because the market works around these basic rules that we do not even notice they exist). This is why international corporations are asked to take on these social responsibilities “as if” these institutions existed. In the various contexts in which they operate, these international corporations should encourage the implementation of social norms and rules of conduct (as well as their transformation into legal regulations), so that anyone examining the process of relocating production, for example, and taking into account a reasonable principle of equality, as well as bearing in mind differences in the socio-economic context, would not feel moral repugnance at the injustice of the situation. B) The crisis in the financial markets: the awareness that certain managers (and therefore potentially all) systematically took advantage of their privileged access to information in order to doctor accounts and collude with auditors, accountants and financial consultants are all factors that triggered and amplified the loss of confidence in the New York Stock Exchange. All this, as they say, in direct conflict with the interests of shareholders. Paradoxically, however, it is only in hindsight that we realize that these managers failed to comply with Friedman’s theory. In fact, he was well aware that the theory that “a manager’s only social responsibility is to make 19 20 profits” only applied in certain conditions. Top management was indeed doctoring the accounts, colluding with consultants and auditors in order to create potential profits sufficient to keep share prices artificially high, on which the value of their own stock options depended, and instantly multiplying shareholder’s return on investment (precisely as Enron managers did by selling their shares at just the right time); and, of course, simultaneously increasing their managerial authority and control. The assumption that stock markets are more perfect than they actually are (investors guided by reason and with perfectly rational expectations, etc.) and the underestimation of the information to which managers are privy, as well as their powers of collusion and their ability to create expectations that they can meet in the short term; all these factors resulted in giving managers every incentive to raise the value of the company’s shares (after all, what better proxy for shareholders’ profits is there than raising the value of their stock?), but on which their own compensation also depended. The result was that they bolstered expectations through false information, leading to the opposite result of what was expected of them. Beyond showing that behavior is strategically related to incentives, this paradox shows that “maximizing profits” (their financial proxy) only becomes logical once the other, more general moral obligations are met, like for instance not doctoring accounts. This naturally leads to a more general question: are the interests of the shareholders sufficiently protected by a governance system whereby the accountability of managers is based solely on providing the information necessary to determine the value of the shares on the market, confidential information to which only managers and auditors are privy and that they can therefore influence strategically? Information concerning the profitability of a company would likely take on a whole new meaning, and be much more credible, if shareholders also knew how environmentally friendly it was, that it does corrupt or collude with public administrators, that it genuinely meets consumer demand in all its activities, respects fair deals with its suppliers, pays fairly for labor and, especially, if in all these matters, “voices” that cannot (or at least not so easily) be influenced also have their say. A company generating high profits while displaying a position of high social responsibility, i.e. maintaining good relations with all its stakeholders and a policy of transparency in all matters, is truly a company generating a significant surplus. Greater accountability through other “watch dog” institutions not interested in colluding with management to maximize share prices and consulting services, but actually involved in verifying the degree to which a company meets its fiduciary obligations toward all its stakeholders whose interests it shares, would highlight how good management is and be a much more reliable guide for sensible investments by shareholders. CSR and Corporate Economic Theory We should now return to modern business theory (the so-called “economy of transaction costs” as defined by Oliver Williamson). Many transactions involving specific investments (i.e., investments likely to generate significant profits for one stakeholder, if the transaction with other stakeholders is concluded) are likely to be subject to abuse (i.e. expropriation by one party of the value of the investments made by other parties in the transactions). The reason for this is simply that once a special relation with high switching costs has been established, it is possible to renegotiate (explicit or implicit) agreements, thereby increasing the risk of one of the parties being expropriated. This applies to investments in financial and human capital, technology, consumer confidence, and investments in supplies for a specific client… The lack of trust associated with these risks may limit trade and result in the decision not to make mutually beneficial investments. Obviously, this would not happen if there were sufficient information to anticipate all possible scenarios in advance and to contractually define what the consequences of scenario would be. The fact is, however, that contracts are never complete in this respect and many events cannot be foreseen by the parties involved. This underlines the importance of discretional decision-making, or so-called rights of residual control, which cannot be established in ex ante contracts. A company exists precisely to deal with this problem: to reduce transaction costs, a company is simply a means of placing discretional decision-making power under the authority of a given party by conferring residual decision-making rights (residual decisions are those that are not directly stipulated in the contract) that the company derives from its ownership of the physical resources in use. A company functions efficiently if the allocation of residual control protects the stakeholders most at risk through investments generating additional value or generating utility in excess of the transaction costs. Of course this is only a partial explanation: clearly investments from other areas contribute to the surplus of a transaction. What prevents those in a position of power to abuse their authority? The fact that incentives given to a stakeholder (who becomes owner and residual decisionmaker) end up depreciating the other investments. The unfair exercise of authority translates into a loss of efficiency. This conclusion can be countered by claiming that the owner buys this right in advance, compensating for the interests of all those who will later suffer. However, nobody can assess ex ante the value of such a right in relation to the undefined future state of affairs. The long period of time for which we would have to take into account the consequences of a given ownership situation in order to duly compensate other stakeholders for their future purchase makes this a futile argument. CSR therefore naturally complements the financial justification of a company, understood as an institution to control transactions. Since the abuse of power makes a company inefficient and its expectation makes relations with other stakeholders unstable, a further justification for CSR would be to complement residual decisionmaking rights with fiduciary obligations towards other parties at risk who do not have these rights and cannot, therefore, base their transaction decisions on the protection they provide. As a result, extended governance ought to include: - residual decision-making rights allocated to the stakeholder with the largest investments at risk, and who can exercise control at the lowest cost for himself and the lowest risk for others; - fiduciary obligations of management (whether with direct residual control rights or as an agent) toward noncontrolling stakeholders; in other words, the responsibility of management to ensure that stakeholders reap a share of the surplus that is commensurate to their specific investments, i.e., to their contribution to the value of the transaction. Overall, this would protect more investments than if management’s only fiduciary obligation was to the owner. A company’s efficiency depends on its social responsibility (and fairness) toward those who do not control it (a rather ironic conclusion for an explanation that began by emphasizing the allocation of ownership and control). CSR and the corporate social contract So just what are the normative contents of the fiduciary rights of stakeholders? To answer this, we need a morally legitimate model from which we can make the appropriate deductions. By morally legitimate, we mean an institution that would obtain the approval of anyone judging it objectively in terms of general criteria such as overall well-being, social efficiency as well as the allocation of resources, equality and respect for freedom. I am not saying that these impartial reasons alone are enough to force managers or entrepreneurs to take action (for this, we also need to address the issue of “convenience”), but at least it is obvious that they appeal to our common sense. Supporters of CSR firmly believe in the image of business as a “cooperative game” between multiple stakeholders, whose interests are involved because they all contribute something to the whole (capital, labor, user choices, instrumental means and goods, regulatory authorizations, etc.), who are subjected to the same positive and negative internal/external effects and who can exercise different degrees of influence (by contract, by authority, by negotiations within the organization, by external pressure and through regulations, etc.). Cooperation involves developing a joint strategy, that is, a plan of action describing each stakeholder’s responsibilities to generate a surplus of wealth and well-being as compared to the costs incurred by each stakeholder by cooperating. Stakeholders play the cooperative game like a form of contracting and therefore delegate the execution of the agreement to an agent who becomes responsible for implementing what has been decided. In order to avoid the costs of establishing contractual agreements between all the stakeholders, strategic business management may be seen as a way of assigning to an agent - usually the company - the task of efficiently coordinating the various contributions of each stakeholder to create a surplus (this surplus is the result of the algebraic sum of the profits generated and the transaction costs incurred by each stakeholder). The essential part of the strategy involves achieving cooperative balance, whereby each stakeholder is willing to provide his contribution efficiently. This wider concept of governance means achieving a balance between all the various stakeholders’ interests and determines the fiduciary obligations of those establishing the business strategy toward the stakeholders themselves, who in turn decide to cooperate, thereby accepting the company’s authority to make decisions concerning the combination of the various contributions. The next question, of course, is how to achieve this balance? The term “stakeholder” refers to many different groups of individuals with a stake in the way the company is run and potentially conflicting interests due to each one’s specific investments, profit expectations or fear of incurring damages. The term “stakeholder” is not very useful because it is not a normative concept: it does not tell us which claims constitute a right, and therefore it does not tell us how to deal with conflicting claims. Therefore, which claims on a company are legitimate and must be treated as rights imposing real fiduciary obligations on business managers? To answer this question we must find an ethical criterion to identity a justifiable balance, in other words, a criterion acceptable ex ante to all stakeholders as the basis for their cooperation and respected ex post by both the stakeholders and the company. The “social contract” between the company’s stakeholders seems like an appropriate criterion. This is an idea which has been put forward by philosophers and economists like Rawls, Gauthier, Buchanan and Binmore, and that I have tried, along with others, to apply to business ethics. This expression does not refer to any real contract; it is meant as a “yardstick” (manager’s hypothetical reasoning): the agreement that would be signed in a hypothetical situation of unanimous choice by the representatives of all the stakeholders. In this ideal contractual state of affairs, power, fraud and manipulation are discarded. Each party comes to the negotiating table with their own capacity to contribute to the transaction and an assessment of the value of every agreement, or lack thereof. To reach a solution, each party must put itself in everybody else’s shoes. This method establishes the terms of agreement that would be acceptable from each party’s point of view, and therefore from everyone’s point of view. As a result, the social contract is the only acceptable agreement from an unbiased observer’s point of view (in this case the manager’s perspective), who can judge the situation from each stakeholder’s perspective and can thereby forge an agreement that is mutually advantageous to all the company’s stakeholders, regardless of individual points of view. Naturally, the remaining question is whether such an agreement actually exists. If the company is a cooperative game, however, contract theory (a wellestablished branch of the Game Theory first developed by the mathematician John Nash, winner of the Nobel Prize for Economics, together with Reinard Selten and John Harsanyi) demonstrates that there is at least one solution of mutual benefit. In actual fact, the contractual game creates a whole system of possible outcomes producing reciprocal benefits (surpluses) and contract theory provides some reasonable approaches to identify a univocal solution for the efficient distribution of the surplus, for example, distribution based on comparable concessions in relation to each party’s highest claim, or proportional quotas based on the relative utility (or its marginal variation) of the contractual outcome (this is basically Nash’s solution). Whatever the suggested outcome of “contract mathematics,” in the absence of opportunistic behavior of any one party, it is easy to identify fairness (i.e. behavior that respects the social contract between stakeholders) in reallife situations by creating an agreement that would be unanimously acceptable. We should consider all the transactions in which opportunistic behavior and abuse of authority are likely to arise: renegotiating contracts with suppliers, delivery of services to clients and hence the execution of these services, defining and renegotiating business relations with employees (including the restructuring process), decisions with external environmental repercussions of a company’s production activities, privileged relations with public administrators. We should now “suspend” the advantage that one party (often, though not always, the company) enjoys 21 22 due to its authority, powers of discretion, threats, greater know-how, confidential or proprietary information, greater financial resources and the ability to force other parties to collude. And we should now imagine that the different parties could reach an agreement in light of future events. What remains is the “ideal” agreement (or set of agreements) between the parties, which will be both rational and fair. Opportunistic behavior always implies taking unfair advantage of the above mentioned distorting factors (often connected with differences in available information, power and authority or simply uncertainty as to potential outcomes), compared with what would have been an acceptable agreement in the absence of these factors, which, unfortunately, are always present in real life. The value of CSR: a company’s reputation Let’s be frank, morality is not always a sufficient incentive for action. Homo oeconomicus acts cautiously and based on the expectation of maximum personal gain (although this hypothesis can in fact be compatible with behavior that is not strictly selfish). We should make the deliberately oversimplified assumption that the entrepreneur and manager do not draw significant satisfaction from following the company’s social contract (however justified they might think it is), but that they derive their usefulness from the success of the company they run. This implies that we must find some additional reasons for the implementation of CSR in the company’s instrumental rationalization and incentives. Otherwise, why should a manager implement CSR? The answer is because it is the basis for maintaining and growing one of the company’s most precious, though intangible, assets: its reputation. A company’s reputation is what allows its stakeholders to trust and therefore cooperate with the company, while keeping the control and contracting aspects of transaction costs to a minimum. On the other hand, trust is always a difficult choice, since in the very concept of a relationship built on trust there is an implicit risk that the party asking to be trusted may take advantage of this trust and fail to meet its explicit or implicit commitments. However, a company gains a good reputation by initially making at least partially credible commitments and meeting them over time, thereby gradually generating the proof of trustworthy business conduct. Nevertheless, building a good reputation can become prohibitive for a company if the only way of proving its trustworthiness is to show concrete evidence of its having met its commitments in various areas. Take the following situations, for example: - incomplete contracts: the contract contains no clauses about initially unforeseen events, so that there is actually no real gauge for recontracting; - non-measurable quality: the quality of a product or service cannot be assessed by the client based on the information available to him; he must therefore “trust” an expert’s opinion (and the manufacturer is usually an expert); - organizational authority: the “boss” makes truly discretional decisions about his employees based on the flexibility implicit in workers’ contracts; - collusion: the company has resources that allow it to influence agreements with representatives of clients, suppliers or public administrators that cannot be measured by third parties not involved in the illicit relationship; therefore, the suspicion that a company may be colluding at the expense of the third party is always present. These are all situations in which the degree of information and/or the knowledge concerning the company’s actions is incomplete or highly asymmetrical; or the commitments are not defined in relation to unexpected events and therefore cannot be verified; or their completion cannot be observed. It is precisely in situations like these that the fiduciary obligations of CSR prove their usefulness for building a solid reputation. A firm’s fiduciary obligations to its stakeholders are, in fact, preventive principles and rules of behavior stipulating how the company will behave in the face of unexpected events or when its concrete actions cannot be verified by third parties. They also provide a verifiable basis for the beliefs and judgments that underpin a company’s reputation. As the economist David Kreps has pointed out, expectations are not created based on specific (and unplanned) events or (invisible) outcomes, but by respecting general, abstract principles that are always applicable. Of course, conformity to these principles is guaranteed by implementing precautionary and preventive procedures as a means of gauging a company’s reputation. This implies, therefore, (as I have claimed elsewhere) that CSR has a cognitive function that it shares with any system of principles and ethical standards, allowing for reciprocal expectations to be established in situations where the degree of information is insufficient or uncertain. These expectations can then be updated and strengthened until a sufficient degree of trust has been established to create a true cooperative relationship. To serve this purpose, the management processes for handling CSR must follow a certain logic (cf. the following paragraph). One could still claim that this is still not a sufficient reason for a company to abide by CSR. A company with the reputation of “only slightly taking advantage” of its stakeholders’ trust may still be able to cooperate with them, provided its partial observance of CSR promised sufficiently profitable results, while the alternative would be to give up any and all transactions with the company. This scenario, of course, is anything by fair and equitable, in as much as the company only meets its expectations to the degree necessary to keep its stakeholders from breaking off completely their (unequal) cooperation. Fortunately, since CSR deals with ethical principles and rules of behavior, i.e., it fits in a deontological framework, it provides a more solid foundation for the mechanism of building a company’s reputation and for the notion that it is in fact worth abiding by its rules of conduct to achieve a good reputation. The fact is that many stakeholders have preferences that are not only selfinterested or aimed at material benefits (consequences). They also value the fact that a company should meet the obligations it derives from its social contract, particularly if these obligations are clearly stated in official rules of conduct and the company makes them public. As a result, failure to comply with CSR, or any other ethical commitment, is punished more severely than if there were just some material interest at stake. The panic attack of the stock markets in the wake of the American management scandals can be explained, at least in part, as punishment for managers’ failure to respect the principles they had pledged to uphold. Other examples are the boycotting by “ethical investors” and “responsible consumers” of certain multinational corporations whose operations in developing countries blatantly violate the ethical standards of the corporations’ home countries. This does not necessarily imply that, on the one hand, economic common sense dictates business behavior and, on the other hand, pure ideology governs the choices of “ethical” stakeholders. Recent studies have shown that economic common sense can be extended to encompass preferences determined not only by material benefits, but rather by the extent to which certain actions conform to rationally accepted ideals. In other words, over and above the desire for the best possible outcome for oneself or others, preferences may also include that other parties’ actions should conform to principles and ideals that are shared and accepted by both parties in a relationship (e.g., the ideal “hypothetical contract” experiment in paragraph 4). Strictly speaking, the benefit to the stakeholder is the weighted combination of material and ideological benefits, that is, the benefits represented by our conformist preference derived from the observation of the social contract. In this respect, reducing the concept of economic benefits to merely their monetary or material expression would be a gross over-simplification. If this is the case, then we have a rational explanation for the harsh punishment, that at times even exceeded the direct economic prejudice suffered by investors, meted out by the stock market to companies whose ethical codes of behavior (however limited) claimed to be committed to integrity. In conclusion, conformist preferences magnify the effects of a positive or negative reputation and make the strategic decision of a company to conform “only partially” to a system of shared values less viable. CSR Management Systems As we have seen, CSR addresses the problem of assuming commitments which carry with them specific expectations, even in situations that cannot be concretely planned or in which concrete results and actions are not directly observable, thereby turning them into “fiduciary obligations” toward the stakeholders. It therefore becomes vitally important to design management systems that support CSR. A number of attempts to standardize a quality control system for CSR are emerging from the international debate that has been summed up but also placed on a higher level by the European Commission’s Green Paper. Specifically, the phases and instruments for quality control of the Social Ethical Responsibility project (Q-RES) currently being drawn up in Italy are the following: 1) Ethical vision of the company: not just a simple statement of the company’s mission, but a vision of the company’s social contract with its stakeholders, i.e., the equitable balancing of their interests; 2) Code of ethics: - the principles defining the overall balance of rights and obligations toward each category of stakeholder; - the standards of moral behavior for each risk area in relations with stakeholders, proscribing the typical forms of abuse and stipulating the recommended preventive standards of behavior; 3) Ethical training to develop skills in understanding organizational events in terms of their relevance to ethical principles and to instill a sense of commitment to these principles and rules of behavior; 4) Organizational means of implementation: an ethical committee capable of objectively representing the various stakeholders’ points of view; top-down auditing; bottom-up dialogue that incorporates CSR in production tasks and objectives; assessment and motivation of staff through tangible and intangible systems of assessment linked to CSR conformity and results; 5) Social accountability: make public the principles and standards for supplying stakeholders with new parameters on which to judge the company; illustration through social reports of the relation between performance and commitment, showing the results obtained in relation to each stakeholder either in terms of distributed economic value, or of other benefits or management costs; inclusion of the stakeholders’ perspective to lend credibility to accountability; 6) External assessment and certification of CSR based on evidence from each instrument and on results obtained in the different areas of management (resource management, quality control of products and services, etc.). This is not the place to explore these tools in greater detail. However, it is appropriate to reiterate the underlying logic and structure, which is the cognitive role a company’s ethics plays in the stakeholders’ judgment concerning a company’s well-earned reputation (or lack thereof). It is the vision and the basic principles that define the notion of corporate justice. These are general and abstract principles that can be applied to multiple events, including those that cannot be foreseen in advance. They do not need a detailed description of the situation in order to be applied. The presence of certain abstract characteristics is enough. Moreover, unlike detailed rules and contracts, when the appropriate clause for an unforeseen contingency is missing, general principles are always applicable, because they cover both events that have been taken into account, as well as any unforeseen and unforeseeable contingencies that feature the structure or abstract characteristic covered by the principle. Their range of application is purposely vague (a slight ambiguity remains as to the categorization of unforeseen situations in terms of a governing principle). But this vagueness can be managed by using the logic of moral reasoning, thereby allowing the categorization of unforeseen contingencies under certain principles, at least within certain limits of vagueness (to this end, the ability for moral reasoning of members of the organization must be developed). Furthermore, the precautionary and deterrent rules of a code of ethics need not be based on concrete situations; they simply come into play when the risk of violating a principle exceeds a certain predetermined threshold. In other words, they are applied by default. Reasoning by default does not require full information about a given situation. Whenever an event governed by one of the principles of ethics exceeds a certain threshold of vagueness, then the rules come into play. Therefore, the conditions for implementing them can in fact be determined ex ante and stakeholders can legitimately base their expectations on them. Moreover, it is the rules – and not any special decisions or consequences – that need to be standardized, which are observable and verifiable by an external observer since their application is the proof that no principle has been intentionally broken. Finally, two-way communication and dialogue with the stakeholders is an essential part of the system: principles, standards and codes of conduct must be made known, since the company’s reputation depends on them. The stakeholders will base their judgment on the correlation between events/principles and procedures announced ex ante/behavior, such that social accountability will not be limited to enhancing “social results” as an unintentional byproduct of economic activity aimed at other objectives (e.g. generating profits). Stakeholders have a “common understanding” of the risk (or rather: vagueness) with which certain events jeopardize a given principle. As a result, 23 Come giudicare il globalismo How to Judge Globalization di Amartya Sen* by Amartya Sen* Confondere la globalizzazione con l’occidentalizzazione non solo è antistorico, ma distrae l’attenzione dai molti benefici potenziali dell’integrazione globale Confusing globalization with Westernization is not only ahistorical, it also diverts attention from the many potential benefits of global integration 24 there is no advantage to be gained in manipulating this information: the risk is to ruin one’s reputation or even to totally destroy all trust. On the contrary, the ability to judge like an unbiased spectator must be developed, to be able to put oneself in the shoes of the average stakeholder, who is neither benevolent nor malevolent (once again it is important to develop the capacity for moral reasoning). Naturally, this ability is developed by increasing the dialogue with the stakeholders (for example, during and after the process of social accountability, but even more so by appointing independent members, capable of unbiased judgment, to the corporate ethical committee). Lastly, the system’s credibility can be sustained by external assessment and certification carried out by truly independent bodies, who operate from the point of view of the average stakeholder and who are, thanks to their organization, beyond the suspicion of any “conflict of interest.” Conclusions Although we will not go so far as to say that companies are naturally inclined to abide by CSR, it can be said that in this field there is much room for self-regulation backed by the intelligent supervision by public institutions. Stakeholders can influence a company’s reputation, which is a key intangible asset for any business. This can indeed constitute a sufficiently strong motive to push a company to adopt CSR as one of the criteria of its own governance system and business strategy. On the other hand, motivations based on ideals increase stakeholders’ reactivity in the face of divergences from responsible behavior, particularly if it is has been publicized, given that an important component of many stakeholders’ benefits is ideological and linked to conformity. We may therefore expect that more companies will attempt to improve their reputation through CSR management systems. Nevertheless, this is not necessarily enough to trigger an evolutionary process favoring companies whose own governance and management systems are geared to the principles of CSR. This is where public institutions could play an important role, as the European Commission seems to suggest in its guidelines. Not so much through heavy-handed regulation and the imposition of external obligations, but rather by stimulating social dialogue that encourages selfregulation; by rewarding companies who adopt it; by supporting and amplifying the voice of stakeholders and the effects on a company’s reputation in its degree of conformity to generally accepted CSR standards. And, if need be, by introducing the need for a certified CSR management system among the non-compulsory, yet meritorious criteria for companies to qualify for public utility functions and/or contracts or leases/concessions, or to gain access to development incentives. *Lorenzo Sacconi is Professor of Institutional Economics in the Economics Department of Trento University (Italy) and Director of the CELE-Centre for Ethics Law & Economics at Cattaneo-LIUC University in Castellanza. Amartya Sen L a globalizzazione è spesso vista come occidentalizzazione. Su questo punto c’è un sostanziale accordo tra i molti sostenitori e oppositori. Coloro che assumono un punto di vista ottimista della globalizzazione la vedono come un meraviglioso contributo della civiltà occidentale al mondo. Si può fare un riassunto stilizzato dei grandi sviluppi avvenuti in Europa: prima venne il Rinascimento, poi l’Illuminismo e la Rivoluzione Industriale che portarono a un miglioramento di massa degli standard di vita in Occidente. Ora, le grandi conquiste dell’Occidente si stanno diffondendo nel mondo. Da questo punto di vista, la globalizzazione non solo è un bene, ma anche un dono dell’Occidente al mondo. I sostenitori di questa lettura della storia tendono a irritarsi non solo perché questo enorme bene è visto come una maledizione ma anche perché è sottovalutato e disprezzato da un mondo ingrato. Dalla prospettiva opposta, il dominio occidentale – spesso interpretato come continuazione dell’Imperialismo occidentale – rappresenta il male. In tale visione, il capitalismo contemporaneo, guidato dalle avide e rapaci nazioni occidentali dell’Europa e del Nord America, ha stabilito regole di commercio e relazioni d’affari che non servono gli interessi dei poveri del mondo. La celebrazione delle varie identità nonoccidentali – definite da religioni (come il fondamentalismo islamico), regioni (come il primato dei valori asiatici) o culture (come la glorificazione dell’etica del confucianesimo) – può aggiungere benzina al fuoco del confronto con l’Occidente. La globalizzazione è veramente la nuova maledizione dell’Occidente? Essa, in effetti, non è nuova né necessariamente occidentale; e non è una maledizione. Per migliaia di anni, la globalizzazione ha contribuito al progresso del mondo attraverso i viaggi, il commercio, le migrazioni, la diffusione di influenze culturali e la disseminazione della conoscenza e della comprensione (incluse quella scientifica e tecnologica). Queste interrelazioni globali sono state spesso assai produttive nel progresso delle diverse nazioni. Non hanno necessariamente preso la forma di un aumento dell’influenza occidentale. Anzi, gli agenti attivi della globalizzazione sono provenuti spesso da luoghi lontani dall’Occidente. Per esempio, consideriamo il mondo all’inizio dello scorso millennio invece che alla sua fine. Attorno al 1000 d.C., le conquiste globali della scienza, della tecnologia e della matematica cominciarono a cambiare la natura del vecchio mondo, ma allora la disseminazione fu, per la maggior parte, in direzione opposta a quella attuale. L’alta tecnologia nel mondo del 1000 d.C. comprendeva la carta, la stampa, l’arco, la polvere da sparo, il ponte a catenaria, l’aquilone, la bussola magnetica, la carriola, il ventilatore. Un millennio fa, questi oggetti erano ampiamente utilizzati in Cina e praticamente sconosciuti altrove. La globalizzazione ha fatto sì che si diffondessero nel mondo, compresa l’Europa. Un movimento simile è avvenuto per l’influenza orientale sulla matematica occidentale. Il sistema decimale è emerso e si è sviluppato in India tra il secondo e il sesto secolo; subito dopo fu impiegato dai matematici arabi. Tali innovazioni matematiche raggiunsero l’Europa soprattutto nell’ultimo quarto del decimo secolo e cominciarono ad avere un impatto nei primi anni del millennio, giocando un ruolo importante nella rivoluzione scientifica che favorì la trasformazione dell’Europa. Gli agenti della globalizzazione non sono europei né esclusivamente occidentali, né sono legati necessariamente al dominio occidentale. In realtà, l’Europa sarebbe stata assai più povera – economicamente, culturalmente e scientificamente – se avesse a quel tempo resistito alla globalizzazione della matematica, della scienza e della tecnologia. Oggi, si applica lo stesso principio, sebbene in direzione opposta (da ovest a est). Rifiutare la globalizzazione della scienza e della tecnologia perché rappresenta l’influenza e l’imperialismo occidentali significherebbe non solo lasciarsi sfuggire i contributi globali – provenienti da diverse parti del mondo – che sono solidamente alla base della scienza e della tecnologia occidentali, ma sarebbe anche una decisione stupida dal punto di vista pratico, visto quanto il mondo intero potrebbe beneficiare del processo. Un’eredità globale Nell’opporci alla diagnosi della globalizzazione come fenomeno di origine essenzialmente occidentale, dobbiamo essere sospettosi non solo nei riguardi della retorica anti-occidentale ma anche dello sciovinismo prooccidentale di molti scritti contemporanei. Certamente, il Rinascimento, l’Illuminismo e la Rivoluzione Industriale sono stati grandi conquiste – e sono avvenuti principalmente in Europa e, poi, in America. Eppure, molti di questi sviluppi sono derivati da esperienze del resto del mondo e non sono stati confinati nella civiltà occidentale. La nostra civiltà globale è un’eredità del mondo – non solo una collezione di culture 25 Come giudicare il globalismo How to Judge Globalization di Amartya Sen* by Amartya Sen* Confondere la globalizzazione con l’occidentalizzazione non solo è antistorico, ma distrae l’attenzione dai molti benefici potenziali dell’integrazione globale Confusing globalization with Westernization is not only ahistorical, it also diverts attention from the many potential benefits of global integration 24 there is no advantage to be gained in manipulating this information: the risk is to ruin one’s reputation or even to totally destroy all trust. On the contrary, the ability to judge like an unbiased spectator must be developed, to be able to put oneself in the shoes of the average stakeholder, who is neither benevolent nor malevolent (once again it is important to develop the capacity for moral reasoning). Naturally, this ability is developed by increasing the dialogue with the stakeholders (for example, during and after the process of social accountability, but even more so by appointing independent members, capable of unbiased judgment, to the corporate ethical committee). Lastly, the system’s credibility can be sustained by external assessment and certification carried out by truly independent bodies, who operate from the point of view of the average stakeholder and who are, thanks to their organization, beyond the suspicion of any “conflict of interest.” Conclusions Although we will not go so far as to say that companies are naturally inclined to abide by CSR, it can be said that in this field there is much room for self-regulation backed by the intelligent supervision by public institutions. Stakeholders can influence a company’s reputation, which is a key intangible asset for any business. This can indeed constitute a sufficiently strong motive to push a company to adopt CSR as one of the criteria of its own governance system and business strategy. On the other hand, motivations based on ideals increase stakeholders’ reactivity in the face of divergences from responsible behavior, particularly if it is has been publicized, given that an important component of many stakeholders’ benefits is ideological and linked to conformity. We may therefore expect that more companies will attempt to improve their reputation through CSR management systems. Nevertheless, this is not necessarily enough to trigger an evolutionary process favoring companies whose own governance and management systems are geared to the principles of CSR. This is where public institutions could play an important role, as the European Commission seems to suggest in its guidelines. Not so much through heavy-handed regulation and the imposition of external obligations, but rather by stimulating social dialogue that encourages selfregulation; by rewarding companies who adopt it; by supporting and amplifying the voice of stakeholders and the effects on a company’s reputation in its degree of conformity to generally accepted CSR standards. And, if need be, by introducing the need for a certified CSR management system among the non-compulsory, yet meritorious criteria for companies to qualify for public utility functions and/or contracts or leases/concessions, or to gain access to development incentives. *Lorenzo Sacconi is Professor of Institutional Economics in the Economics Department of Trento University (Italy) and Director of the CELE-Centre for Ethics Law & Economics at Cattaneo-LIUC University in Castellanza. Amartya Sen L a globalizzazione è spesso vista come occidentalizzazione. Su questo punto c’è un sostanziale accordo tra i molti sostenitori e oppositori. Coloro che assumono un punto di vista ottimista della globalizzazione la vedono come un meraviglioso contributo della civiltà occidentale al mondo. Si può fare un riassunto stilizzato dei grandi sviluppi avvenuti in Europa: prima venne il Rinascimento, poi l’Illuminismo e la Rivoluzione Industriale che portarono a un miglioramento di massa degli standard di vita in Occidente. Ora, le grandi conquiste dell’Occidente si stanno diffondendo nel mondo. Da questo punto di vista, la globalizzazione non solo è un bene, ma anche un dono dell’Occidente al mondo. I sostenitori di questa lettura della storia tendono a irritarsi non solo perché questo enorme bene è visto come una maledizione ma anche perché è sottovalutato e disprezzato da un mondo ingrato. Dalla prospettiva opposta, il dominio occidentale – spesso interpretato come continuazione dell’Imperialismo occidentale – rappresenta il male. In tale visione, il capitalismo contemporaneo, guidato dalle avide e rapaci nazioni occidentali dell’Europa e del Nord America, ha stabilito regole di commercio e relazioni d’affari che non servono gli interessi dei poveri del mondo. La celebrazione delle varie identità nonoccidentali – definite da religioni (come il fondamentalismo islamico), regioni (come il primato dei valori asiatici) o culture (come la glorificazione dell’etica del confucianesimo) – può aggiungere benzina al fuoco del confronto con l’Occidente. La globalizzazione è veramente la nuova maledizione dell’Occidente? Essa, in effetti, non è nuova né necessariamente occidentale; e non è una maledizione. Per migliaia di anni, la globalizzazione ha contribuito al progresso del mondo attraverso i viaggi, il commercio, le migrazioni, la diffusione di influenze culturali e la disseminazione della conoscenza e della comprensione (incluse quella scientifica e tecnologica). Queste interrelazioni globali sono state spesso assai produttive nel progresso delle diverse nazioni. Non hanno necessariamente preso la forma di un aumento dell’influenza occidentale. Anzi, gli agenti attivi della globalizzazione sono provenuti spesso da luoghi lontani dall’Occidente. Per esempio, consideriamo il mondo all’inizio dello scorso millennio invece che alla sua fine. Attorno al 1000 d.C., le conquiste globali della scienza, della tecnologia e della matematica cominciarono a cambiare la natura del vecchio mondo, ma allora la disseminazione fu, per la maggior parte, in direzione opposta a quella attuale. L’alta tecnologia nel mondo del 1000 d.C. comprendeva la carta, la stampa, l’arco, la polvere da sparo, il ponte a catenaria, l’aquilone, la bussola magnetica, la carriola, il ventilatore. Un millennio fa, questi oggetti erano ampiamente utilizzati in Cina e praticamente sconosciuti altrove. La globalizzazione ha fatto sì che si diffondessero nel mondo, compresa l’Europa. Un movimento simile è avvenuto per l’influenza orientale sulla matematica occidentale. Il sistema decimale è emerso e si è sviluppato in India tra il secondo e il sesto secolo; subito dopo fu impiegato dai matematici arabi. Tali innovazioni matematiche raggiunsero l’Europa soprattutto nell’ultimo quarto del decimo secolo e cominciarono ad avere un impatto nei primi anni del millennio, giocando un ruolo importante nella rivoluzione scientifica che favorì la trasformazione dell’Europa. Gli agenti della globalizzazione non sono europei né esclusivamente occidentali, né sono legati necessariamente al dominio occidentale. In realtà, l’Europa sarebbe stata assai più povera – economicamente, culturalmente e scientificamente – se avesse a quel tempo resistito alla globalizzazione della matematica, della scienza e della tecnologia. Oggi, si applica lo stesso principio, sebbene in direzione opposta (da ovest a est). Rifiutare la globalizzazione della scienza e della tecnologia perché rappresenta l’influenza e l’imperialismo occidentali significherebbe non solo lasciarsi sfuggire i contributi globali – provenienti da diverse parti del mondo – che sono solidamente alla base della scienza e della tecnologia occidentali, ma sarebbe anche una decisione stupida dal punto di vista pratico, visto quanto il mondo intero potrebbe beneficiare del processo. Un’eredità globale Nell’opporci alla diagnosi della globalizzazione come fenomeno di origine essenzialmente occidentale, dobbiamo essere sospettosi non solo nei riguardi della retorica anti-occidentale ma anche dello sciovinismo prooccidentale di molti scritti contemporanei. Certamente, il Rinascimento, l’Illuminismo e la Rivoluzione Industriale sono stati grandi conquiste – e sono avvenuti principalmente in Europa e, poi, in America. Eppure, molti di questi sviluppi sono derivati da esperienze del resto del mondo e non sono stati confinati nella civiltà occidentale. La nostra civiltà globale è un’eredità del mondo – non solo una collezione di culture 25 26 locali disparate. Quando un moderno matematico di Boston cerca un algoritmo per risolvere un difficile problema di calcolo, potrebbe non essere conscio che sta contribuendo a commemorare il matematico arabo Mohammad Ibn Musa-alKhwarizmi, che operò nella prima metà del nono secolo (la parola algoritmo deriva dal nome al-Khwarizmi). Esiste una catena di relazioni intellettuali che lega la matematica e la scienza occidentali a una serie di studiosi prettamente nonoccidentali, tra cui uno è alKhwarizmi (il termine algebra deriva dal titolo del suo famoso libro Al-Jabr wa-alMuqabilah). Insomma, alKhwarizmi è uno dei molti studiosi decisamente nonoccidentali i cui lavori influenzarono il Rinascimento europeo e, in seguito, l’Illuminismo e la Rivoluzione Industriale. L’Occidente deve ricevere pieno credito per le notevoli conquiste europee e dell’America europeizzata, ma l’idea di un’immacolata concezione occidentale è pura fantasia. Non solo il progresso della scienza e della tecnologia globale non è un fenomeno guidato esclusivamente dall’Occidente, ma ci sono stati molte tra le più importanti conquiste globali in cui l’Occidente non è stato minimamente coinvolto. La stampa del primo libro nel mondo è stato un evento meravigliosamente globalizzato. La tecnologia della stampa è stata, naturalmente, una conquista completamente cinese. Ma il contenuto veniva da altrove. Il primo libro stampato è stato un trattato indiano sanscrito, tradotto in cinese da un mezzo turco. Il libro, Vajracchedika Prajnaparamitasutra (citato a volte come “Il Sutra Diamante”), è un antico trattato sul Buddismo; fu tradotto in cinese dal sanscrito nel quinto secolo da Kumarajiva, uno studioso mezzo indiano e mezzo turco che viveva nel Turkistan orientale, in una regione chiamata Kucha, che poi emigrò in Cina. Il libro fu stampato quattro secoli più tardi, nel 868 d.C. Questo coinvolgimento di Cina, Turchia e India è certamente globalizzazione, ma dell’Occidente non c’è traccia. Interdipendenze e Movimenti Globali L’errata diagnosi che la globalizzazione delle idee e delle pratiche debba essere contrastata perché implica la temuta occidentalizzazione ha giocato un ruolo quasi di regressione nel mondo coloniale e post-coloniale. Una tale assunzione favorisce le tendenze “parrocchiali” e mina le possibilità di oggettività della scienza e della conoscenza. Non solo è controproducente in sé: date le interazioni globali nel corso della storia, può anche far sì che le società non occidentali si sparino da sole nei piedi – anche nei loro preziosi piedi culturali. Si consideri la resistenza in India all’uso di idee e concetti occidentali nelle scienze e nella matematica. Nel diciannovesimo secolo, questo dibattito sfociò in una vasta controversia circa l’educazione occidentale versus l’educazione indiana tradizionale. Gli “occidentalisti” come il temibile Thomas Babington Macaulay, non vedeva assolutamente alcun merito nella tradizione indiana. “Non ho mai trovato uno solo tra loro [avvocati della tradizione indiana] in grado di negare che un solo scaffale di una buona biblioteca europea valesse l’intera letteratura indiana e araba”, dichiarò. In parte per ritorsione, gli avvocati dell’educazione indigena si opposero alle influenze occidentali in toto. Entrambe le parti, tuttavia, accettarono troppo prontamente la dicotomia di fondo tra due culture diverse. La matematica europea, con l’utilizzo di concetti come il “seno”, era vista come un’importazione puramente occidentale in India. In effetti, il matematico indiano del quinto secolo Aryabhata aveva trattato il concetto di seno nel suo lavoro classico sull’astronomia e la matematica nel 499 d.C., chiamandolo col nome sanscrito jya-ardha (letteralmente “mezza corda”). Questa parola, inizialmente abbreviata in jya in sanscrito, divenne infine jiba in arabo e, poi, jaib, che significa “insenatura o baia”. Nella sua storia della matematica, Howard Eves spiega come attorno al 1150 d.C. Gherardo da Cremona, nella sua traduzione dall’arabo, rese la parola jaib col latino sinus, parola corrispondente a “insenatura o baia”. E questa è la fonte della moderna parola seno. Il concetto ha percorso un cerchio perfetto – dall’India e ritorno. Vedere la globalizzazione come mero imperialismo occidentale di idee e credenze (come ci suggerisce spesso la retorica) sarebbe un errore grave e costoso, come lo sarebbe stata un’opposizione europea all’influenza orientale all’inizio dello scorso millennio. Naturalmente, ci sono temi legati alla globalizzazione che la connettono all’imperialismo (la storia delle conquiste, il colonialismo, regole aliene rimangono importanti sotto molti aspetti ancora oggi), ed è importante una comprensione post-coloniale del mondo. Ma sarebbe un grande errore vedere la globalizzazione principalmente come un aspetto dell’imperialismo. Essa è molto più grande e importante di questo. Il tema della distribuzione dei guadagni e delle perdite in termini economici dovuti alla globalizzazione resta una questione completamente distinta e deve essere trattata come un tema ulteriore e di estrema importanza. È ampiamente provato che l’economia globale ha portato prosperità a molte diverse aree del globo. Una povertà diffusa dominava il mondo pochi secoli fa; c’erano solo piccole sacche di affluenza. Nel superare la penuria le estensive interrelazioni economiche e la tecnologia moderna sono state e rimangono influenti. Ciò che è accaduto in Europa, America, Giappone e Asia Orientale contiene messaggi importanti per tutte le altre regioni, e non si è certo molto lontano nella comprensione della natura della globalizzazione attuale senza prima riconoscere i frutti positivi dei contatti economici globali. In realtà, non possiamo invertire la precarietà economica dei poveri del mondo privandoli dei grandi vantaggi della tecnologia contemporanea, della ben stabilita efficienza del commercio e degli scambi internazionali e dei vantaggi economici e sociali del vivere in una società aperta. Al contrario il tema principale è come fare buon uso dei notevoli benefici dello scambio economico e del progresso tecnologico in modo da pagare la dovuta attenzione agli interessi dei poveri e dei diseredati. Vale a dire, secondo me, la questione costruttiva che emerge dai cosiddetti movimenti antiglobalizzazione. I poveri stanno diventando più poveri? La sfida principale riguarda la disuguaglianza – sia internazionale che nazionale. Le preoccupanti disuguaglianze comprendono la disparità nell’accesso alla ricchezza e anche le evidenti asimmetrie in campo politico, sociale, e di opportunità economiche e di potere. Una questione cruciale è quella della condivisione dei guadagni potenziali provenienti dalla globalizzazione – tra nazioni ricche e povere e tra diversi gruppi all’interno di una nazione. Non è sufficiente capire che i poveri del mondo hanno bisogno della globalizzazione quanto i ricchi. È altrettanto importante assicurarsi che essi possano realmente avere ciò di cui hanno bisogno. Per ottenere questo può essere necessaria una profonda riforma istituzionale, pur nella difesa della globalizzazione. C’è anche bisogno di maggior chiarezza nella formulazione delle questioni distributive. Per esempio, si afferma spesso che i ricchi stanno diventando più ricchi e i poveri più poveri. Ma non è assolutamente sempre così, anche se ci sono casi in cui questo è accaduto. Molto dipende dalla regione o dal gruppo scelto e da quali indicatori di prosperità economica sono usati. Ma il tentativo di castigare la globalizzazione economica su questa base di ghiaccio sottile produce una critica particolarmente fragile. Dall’altro lato, gli apologhi della globalizzazione puntano alla propria convinzione che i poveri che partecipano al commercio e allo scambio stanno per lo più diventando più ricchi. Ergo – prosegue questa tesi – la globalizzazione non è ingiusta per i poveri: anche loro ne traggono vantaggio. Se il nodo centrale di questo dibattito è accettato, allora l’intera questione diventa quella di determinare quale posizione sia corretta a livello empirico. Ma è questo il campo di battaglia giusto da mettere al primo posto? Io direi di no. Giustizia globale e il problema della contrattazione Anche se i poveri dovessero diventare solo un po’ più ricchi, questo non implicherebbe necessariamente che essi ricevano una giusta porzione dei benefici potenzialmente vasti delle interrelazioni economiche globali. Non è adeguato chiedere se la disuguaglianza internazionale sta diventando marginalmente maggiore o minore. Per ribellarsi all’impressionante povertà e alle sconcertanti disuguaglianze che caratterizzano il mondo contemporaneo – o per protestare contro l’ingiusta suddivisione dei benefici della cooperazione globale – non è necessario mostrare che la massiccia disuguaglianza o l’ingiustizia della distribuzione sta diventando marginalmente maggiore. Anche questo è un altro tema. Quando ci sono guadagni dovuti alla cooperazione, ci possono essere molte possibili sistemazioni. Come argomentato dal teorico dei giochi e matematico John Nash più di mezzo secolo fa (in “Il problema della contrattazione”, pubblicato in Econometria, 1950, che fu citato, con altri scritti, dalla Royal Swedish Academy of Sciences quando Nash ricevette il Premio Nobel per l’Economia), il tema centrale in generale non è se una particolare sistemazione è migliore per tutti di quanto potrebbe esserlo una completa non cooperazione, ma se esiste una giusta ripartizione dei benefici. Non si può confutare la critica che una sistemazione distributiva è ingiusta semplicemente notando che tutte le parti stanno meglio che in assenza di cooperazione; il vero esercizio è la scelta tra queste alternative. Un’analogia con la famiglia Per analogia, per affermare che una particolare organizzazione familiare diseguale e sessista è ingiusta, non si deve dimostrare che le donne sarebbero state comparativamente meglio se non fossero esistite affatto le famiglie, ma solo che la ripartizione dei benefici è gravemente disuguale in quella particolare organizzazione. Prima che il tema della giustizia sessuale divenisse un problema esplicitamente riconosciuto (come è avvenuto negli ultimi decenni), c’erano tentativi di liquidare il tema dell’ingiusta organizzazione nell’ambito della famiglia suggerendo che le donne non avevano bisogno di vivere in una famiglia se credevano che la sua organizzazione fosse così ingiusta. Si affermò che, poiché sia le donne sia gli uomini beneficiano del vivere in famiglia, l’organizzazione esistente non poteva essere ingiusta. Ma anche accettando che normalmente entrambi traggono beneficio dalla vita in una famiglia, la questione della giustizia distributiva resta. Molte diverse organizzazioni familiari – se comparate con l’assenza di qualsiasi sistema familiare – soddisfano la condizione di portare beneficio sia agli uomini che alle donne. Il vero problema è quanto giustamente siano distribuiti i benefici associati a queste rispettive organizzazioni. Allo stesso modo non si può confutare l’imputazione che il sistema globale è ingiusto dimostrando che i poveri guadagnano qualcosa dai contatti globali e che questi non li rendono necessariamente più poveri. Tale risposta può essere più o meno sbagliata; di sicuro lo è la domanda. Il punto critico non è se i poveri stiano diventando marginalmente più poveri o più ricchi. Né se stanno meglio di come 27 28 starebbero se fossero esclusi dalle interazioni globali. Ribadisco che il problema reale è la distribuzione dei benefici della globalizzazione. In verità, questo è il motivo per cui molti di coloro che protestano contro la globalizzazione, che cercano una vita migliore per i diseredati dell’economia mondiale, non sono – contrariamente alla loro retorica e alle opinioni loro attribuite da altri – realmente “antiglobalizzazione”. Ed è anche il motivo per cui non c’è una vera contraddizione nel fatto che le cosiddette proteste antiglobalizzazione siano divenute tra gli eventi più globalizzati del mondo contemporaneo. Modificare l’organizzazione globale Comunque sia, i gruppi che stanno peggio possono raggiungere una vita migliore grazie all’economia e alle relazioni sociali globalizzate senza eliminare l’economia di mercato in sé? Certamente sì. L’uso dell’economia di mercato è compatibile con molti diversi schemi di proprietà, disponibilità di risorse, opportunità sociali e regole operative (come le leggi sui diritti e le norme antitrust). A seconda di queste condizioni, l’economia di mercato genererà diversi prezzi, termini commerciali, distribuzione dei guadagni e, più in generale, diversi risultati. L’organizzazione della sicurezza sociale e altri interventi pubblici possono apportare ulteriori modificazioni ai risultati dei processi commerciali e, insieme, generare livelli variabili di disuguaglianza e povertà. La questione centrale non è se usare l’economia di mercato. È facile rispondere a questa futile domanda, perché è difficile raggiungere la prosperità economica senza utilizzare a fondo le possibilità di scambio e la specializzazione che le relazioni di mercato offrono. Anche se l’operatività dell’economia di un dato mercato può essere significativamente deficitaria, non c’è modo di fare a meno dell’istituzione dei mercati in generale come potente motore per il progresso economico. Ma la comprensione di questo non mette fine al dibattito sulle relazioni di mercato globalizzate. L’economia di mercato non opera da sola nell’ambito delle relazioni globali – in realtà, non può operare da sola neppure all’interno di una data nazione. Non è solo il caso che un sistema onnicommerciale possa generare risultati molto diversi a seconda delle diverse condizioni di partenza (per esempio come sono distribuite le risorse fisiche, come sono sviluppate le risorse umane, quali sono le regole prevalenti nelle relazioni di affari, quale organizzazione di sicurezza sociale esistono, eccetera). Queste condizioni di base dipendono esse stesse criticamente dalle istituzioni economiche, sociali e politiche che operano a livello nazionale e globale. Il ruolo cruciale dei mercati non rende insignificanti le altre istituzioni, anche in termini dei risultati che l’economia di mercato può produrre. Come è stato ampiamente stabilito da studi empirici, i ricavi del mercato sono massicciamente influenzati dalle politiche pubbliche in campo educativo, epidemiologico, di riforma della terra, dei servizi di microcredito, di adeguate protezioni legali, eccetera; in ciascuno di questi settori, c’è lavoro da fare attraverso l’azione pubblica che possa radicalmente variare il risultato delle relazioni economiche locali e globali. Istituzioni e disuguaglianza La globalizzazione ha molto da offrire; ma anche se la si difende, si deve anche, senza alcuna contraddizione, comprendere la legittimità di molte questioni poste dagli oppositori antiglobalizzazione. Ci può essere una diagnosi errata di quali siano i problemi principali (non è la globalizzazione come tale), ma le preoccupazioni etiche e umane poste da tali questioni richiedono una seria rivalutazione dell’adeguatezza delle organizzazioni istituzionali locali e globali che caratterizzano il mondo contemporaneo e danno forma alle relazioni economiche e sociali globalizzate. Il capitalismo globale è molto più interessato a espandere il dominio delle relazioni di mercato che, diciamo, a stabilire la democrazia, espandere l’educazione alimentare o promuovere opportunità sociali per i diseredati. Poiché la globalizzazione dei mercati costituisce, da sola, un approccio assai inadeguato alla prosperità del mondo, c’è bisogno di andare oltre le priorità che trovano espressione nel punto critico scelto dal capitalismo globale. Come ha sottolineato George Soros, gli interessi del mercato internazionale hanno spesso una forte preferenza per operare in autocrazie ordinate e altamente organizzate piuttosto che in democrazie attiviste e meno regimentate, e ciò può rappresentare un’influenza regressiva per uno sviluppo equo. Inoltre, le multinazionali possono esercitare la loro influenza sulle priorità di spesa pubblica nelle meno sicure nazioni del terzo mondo dando la loro preferenza alla sicurezza e alla convenienza delle classi dirigenti e dei lavoratori privilegiati, a scapito della rimozione di un diffuso analfabetismo, carenza sanitaria e altre disgrazie dei poveri. Queste possibilità, naturalmente, non costituiscono affatto una barriera insormontabile allo sviluppo, ma è importante assicurarsi che le barriere sormontabili siano effettivamente sormontate. Omissioni e commissioni Le ingiustizie che caratterizzano il mondo sono strettamente relazionate a varie omissioni che devono essere prese in considerazione, particolarmente nell’organizzazione istituzionale. Ho cercato di identificare alcuni dei problemi principali nel mio libro Development as Freedom (Knopf, 1999). Le politiche globali hanno qui un ruolo nel favorire lo sviluppo delle istituzioni nazionali (per esempio, attraverso la difesa della democrazia e il sostegno ai servizi scolastici e sanitari), ma c’è anche bisogno di riesaminare l’adeguatezza delle stesse organizzazioni istituzionali globali. La distribuzione dei benefici dell’economia globale dipende, tra l’altro, da una varietà di organizzazioni istituzionali globali, comprese quelle per il commercio equo, per le iniziative mediche, gli scambi educativi, i servizi per la diffusione della tecnologia, le limitazioni ecologiche e ambientali e il trattamento equo dei debiti accumulati che spesso verificatisi a causa di irresponsabili governanti militari del passato. Oltre alle gravi omissioni che devono essere rettificate, ci sono anche seri problemi di commissioni cui porre mano per una anche solo elementare etica globale. Tra queste si possono includere non solo le restrizioni commerciali inefficienti e inique che reprimono le esportazioni dai Paesi poveri, ma anche le leggi sui brevetti che inibiscono l’uso di medicine salvavita – per malattie come l’AIDS – e che danno un incentivo inadeguato alla ricerca medica tesa allo sviluppo di medicinali non ripetitivi (come i vaccini). Questi temi sono stati molto dibattuti nella loro specificità, ma si deve anche notare come si inquadrino in uno schema generale di organizzazione deprecabile che mette a repentaglio ciò che la globalizzazione può offrire. Un’altra – meno dibattuta – “commissione” globale che causa una profonda miseria e depauperazione duratura è quella relativa al coinvolgimento delle potenze mondiali nel commercio globale delle armi. Questo è un campo in cui è necessaria e urgente una nuova iniziativa globale, al di là della necessità – impellente – di frenare il terrorismo, su cui tanto ci si sta oggi concentrando. Le guerre locali e i conflitti militari, che hanno conseguenze molto distruttive (non ultimo sulle prospettive economiche dei Paesi poveri), si alimentano non solo delle tensioni regionali ma anche del mercato globale di armi e armamenti. L’establishment mondiale è fortemente implicato in questo commercio: i Membri Permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sono stati responsabili, tra il 1996 e il 29 2000, per l’81 per cento delle esportazioni di armi nel mondo. In verità, i leader mondiali che esprimono profonda frustrazione per l’”irresponsabilità” degli oppositori antiglobalizzazione sono a capo di nazioni che guadagnano una gran parte dei loro soldi su questo terribile commercio. Le nazioni del G8 hanno venduto l’87 per cento della fornitura totale di armi esportata in tutto il mondo. I soli Stati Uniti hanno raggiunto quasi il 50 per cento delle vendite totali in tutto il mondo. Inoltre, il 68 per cento delle esportazioni di armi americane ha raggiunto Paesi in via di sviluppo. Le armi sono usate con risultati sanguinosi – e con effetti devastanti sull’economia, la politica, la società. In qualche modo, questa è la continuazione del deprecabile ruolo delle potenze mondiali nella genesi e prosperare del militarismo politico in Africa dagli anni Sessanta agli Ottanta, quando la Guerra Fredda era combattuta in Africa. In quei decenni, i signori militari – Mobuto Sese Seko o Jonas Savimbi o chiunque altro che spezzavano l’organizzazione sociale e politica (e, in ultima analisi, anche l’ordine economico) in Africa, potevano fare affidamento sul sostegno sia degli Stati Uniti e dei suoi alleati sia dell’Unione Sovietica, a seconda delle loro alleanze militari. Le potenze del mondo hanno un’orrenda responsabilità nell’aver contribuito alla sovversione della democrazia in Africa e per tutte le conseguenze a lungo termine di tale sovversione. Il perseguimento dello “spaccio” d’armi conferisce loro un ruolo continuo nell’escalation dei conflitti militari contemporanei – in Africa e altrove. Il rifiuto americano all’accordo per un abbattimento congiunto anche della vendita illegale di piccole armi (proposto dal Segretario Generale dell’ONU, Kofi Annan) illustra le difficoltà della situazione. Giusta ripartizione delle opportunità globali Per concludere, il confondere la globalizzazione con l’occidentalizzazione è non solo antistorico, ma distrae l’attenzione dai molti potenziali benefici dell’integrazione globale. La globalizzazione è un processo storico che ha offerto abbondanza d’opportunità e ricompense nel passato e continua a farlo oggi. La sola esistenza di benefici così potenzialmente enormi rende la questione dell’equità nella loro ripartizione d’importanza cruciale. Il tema centrale della disputa non è la globalizzazione in sé, né l’uso del mercato come istituzione, ma la non equità nell’equilibrio complessivo dell’organizzazione istituzionale – che produce una ripartizione molto iniqua dei benefici della globalizzazione. Il problema non è solo se anche i poveri guadagnino qualcosa dalla globalizzazione, ma se essi ricevano una porzione equa e opportunità eque. C’è un urgente bisogno di riformare l’organizzazione delle istituzioni globali – oltre a quelle nazionali – per superare gli errori sia di omissione sia di commissione che tendono a donare ai poveri del mondo una porzione limitata di opportunità. La globalizzazione merita una difesa ragionata, ma anche riforme. * Amartya Sen è stato Premio Nobel per l’Economia nel 1998. È nato nel 1933 a Shantiniketan, nel Bengala Ovest, India. È stato Presidente della Econometric Society (1984), dell’International Economic Association (1986-89), dell’Indian Economic Association (1989) e dell’american Economic Association (1994). È stato insignito con la Laurea ad honorem D.Litt ed è membro di molte note Università e Istituti Indiani e stranieri. Sen ha ricevuto il premio Bharat Ratna, la più alta onoreficienza civile in India. Attualmente è Master del Trinity College, Cambridge, Gran Bretagna. 30 G lobalization is often seen as global Westernization. On this point, there is substantial agreement among many proponents and opponents. Those who take an upbeat view of globalization see it as a marvelous contribution of Western civilization to the world. There is a nicely stylized history in which the great developments happened in Europe: first came the Renaissance, then the Enlightenment and the Industrial Revolution, and these led to a massive increase in living standards in the West. And now the great achievements of the West are spreading to the world. In this view, globalization is not only good, it is also a gift from the West to the world. The champions of this reading of history tend to feel upset not just because this great benefaction is seen as a curse but also because it is undervalued and castigated by an ungrateful world. From the opposite perspective, Western dominance – sometimes seen as a continuation of Western imperialism – is the devil of the piece. In this view, contemporary capitalism, driven and led by greedy and grabby Western countries in Europe and North America, has established rules of trade and business relations that do not serve the interests of the poorer people in the world. The celebration of various non-Western identities – defined by religion (as in Islamic fundamentalism), region (as in the championing of Asian values), or culture (as in the glorification of Confucian ethics) – can add fuel to the fire of confrontation with the West. Is globalization really a new Western curse? It is, in fact, neither new nor necessarily Western; and it is not a curse. Over thousands of years, globalization has contributed to the progress of the world through travel, trade, migration, spread of cultural influences, and dissemination of knowledge and understanding (including that of science and technology). These global interrelations have often been very productive in the advancement of different countries. They have not necessarily taken the form of increased Western influence. Indeed, the active agents of globalization have often been located far from the West. To illustrate, consider the world at the beginning of the last millennium rather than at its end. Around 1000 A.D., global reach of science, technology, and mathematics was changing the nature of the old world, but the dissemination then was, to a great extent, in the opposite direction of what we see today. The high technology in the world of 1000 A.D. included paper, the printing press, the crossbow, gunpowder, the iron-chain suspension bridge, the kite, the magnetic compass, the wheelbarrow, and the rotary fan. A millennium ago, these items were used extensively in China – and were practically unknown elsewhere. Globalization spread them across the world, including Europe. A similar movement occurred in the Eastern influence on Western mathematics. The decimal system emerged and became well developed in India between the second and sixth centuries; it was used by Arab mathematicians soon thereafter. These mathematical innovations reached Europe mainly in the last quarter of the tenth century and began having an impact in the early years of the last millennium, playing an important part in the scientific revolution that helped to transform Europe. The agents of globalization are neither European nor exclusively Western, nor are they necessarily linked to Western dominance. Indeed, Europe would have been a lot poorer – economically, culturally, and scientifically – had it resisted the globalization of mathematics, science, and technology at that time. And today, the same principle applies, though in the reverse direction (from West to East). To reject the globalization of science and technology because it represents Western influence and imperialism would not only amount to overlooking global contributions – drawn from many different parts of the world – that lie solidly behind so-called Western science and technology, but would also be quite a daft practical decision, given the extent to which the whole world can benefit from the process. A Global Heritage In resisting the diagnosis of globalization as a phenomenon of quintessentially Western origin, we have to be suspicious not only of the antiWestern rhetoric but also of the pro-Western chauvinism in many contemporary writings. Certainly, the Renaissance, the Enlightenment, and the Industrial Revolution were great achievements – and they occurred mainly in Europe and, later, in America. Yet many of these developments drew on the experience of the rest of the world, rather than being confined within the boundaries of a discrete Western civilization. Our global civilization is a world heritage – not just a collection of disparate local cultures. When a modern mathematician in Boston invokes an algorithm to solve a difficult computational problem, she may not be aware that she is helping to commemorate the Arab mathematician Mohammad Ibn Musa-al-Khwarizmi, who flourished in the first half of the ninth century (the word algorithm is derived from the name al-Khwarizmi). There is a chain of intellectual relations that link Western mathematics and science to a collection of distinctly non-Western practitioners, of whom alKhwarizmi was one (the term algebra is derived from the title of his famous book Al-Jabr waal-Muqabilah). Indeed, alKhwarizmi is one of many nonWestern contributors whose works influenced the European Renaissance and, later, the Enlightenment and the Industrial Revolution. The West must get full credit for the remarkable achievements that occurred in Europe and Europeanized America, but the idea of an immaculate Western conception is an imaginative fantasy. Not only is the progress of global science and technology not an exclusively West-led phenomenon, but there were major global developments in which the West was not even involved. The printing of the world’s first book was a marvelously globalized event. The technology of printing was, of course, entirely an achievement of the Chinese. But the content came from elsewhere. The first printed book was an Indian Sanskrit treatise, translated into Chinese by a half-Turk. The book, Vajracchedika Prajnaparamitasutra (sometimes referred to as “The Diamond Sutra”), is an old treatise on Buddhism; it was translated into Chinese from Sanskrit in the fifth century by Kumarajiva, a half-Indian and half-Turkish scholar who lived in a part of eastern Turkistan called Kucha but later migrated to China. It was printed four centuries later, in 868 A.D. All this involving China, Turkey, and India is globalization, all right, but the West is not even in sight. Global Interdependences and Movements The misdiagnosis that globalization of ideas and practices has to be resisted because it entails dreaded Westernization has played quite a regressive part in the colonial and postcolonial world. This assumption incites “parochial tendencies” and undermines the possibility of objectivity in science and knowledge. It is not only counterproductive in itself; given the global interactions throughout history, it can also cause non-Western societies to shoot themselves in the foot – even in their precious cultural foot. Consider the resistance in India to the use of Western ideas and concepts in science and mathematics. In the nineteenth century, this debate fitted into a broader controversy about Western education versus indigenous Indian education. The “Westernizers,” such as the redoubtable Thomas Babington Macaulay, saw no merit whatsoever in Indian tradition. “I have never found one among them [advocates of Indian tradition] who could deny that a single shelf of a good European library was worth the whole native literature of India and Arabia,” he declared. Partly in retaliation, the advocates of native education resisted Western imports altogether. Both sides, however, accepted too readily the foundational dichotomy between two disparate civilizations. European mathematics, with its use of such concepts as “sine,” was viewed as a purely “Western” import into India. In fact, the fifth-century Indian mathematician Aryabhata had discussed the concept of sine in his classic work on astronomy and mathematics in 499 A.D., calling it by its Sanskrit name, jya-ardha (literally, “halfchord”). This word, first shortened to jya in Sanskrit, eventually became the Arabic jiba and, later, jaib, which means “a cove or a bay.” In his history of mathematics, Howard Eves explains that around 1150 A.D., Gherardo of Cremona, in his translations from the Arabic, rendered jaib as the Latin sinus, the corresponding word for a cove or a bay. And this is the source of the modern word sine. The concept had traveled full circle – from India, and then back. To see globalization as merely Western imperialism of ideas and beliefs (as the rhetoric often suggests) would be a serious and costly error, in the same way that any European resistance to Eastern influence would have been at the beginning of the last millennium. Of course, there are issues related to globalization that do connect with imperialism (the history of conquests, colonialism, and alien rule remains relevant today in many ways), and a postcolonial understanding of the world has its merits. But it would be a great mistake to see globalization primarily as a feature of imperialism. It is much bigger – much greater – than that. The issue of the distribution of economic gains and losses from globalization remains an entirely separate question, and it must be addressed as a further – and extremely relevant – issue. There is extensive evidence that the global economy has brought prosperity to many different areas of the globe. Pervasive poverty dominated the world a few centuries ago; there were only a few rare pockets of affluence. In overcoming that penury, extensive economic interrelations and modern technology have been and remain influential. What has happened in Europe, America, Japan, and East Asia has important messages for all other regions, and we cannot go very far into understanding the nature of globalization today without first acknowledging the positive fruits of global economic contacts. Indeed, we cannot reverse the economic predicament of the poor across the world by withholding from them the great advantages of contemporary technology, the well-established efficiency of international trade and exchange, and the social as well as economic merits of living in an open society. Rather, the main issue is how to make good use of the remarkable benefits of economic intercourse and technological progress in a way that pays adequate attention to the interests of the deprived and the underdog. That is, I would argue, the constructive question that emerges from the so-called antiglobalization movements. Are the Poor Getting Poorer? The principal challenge relates to inequality – international as well as national. The troubling inequalities include disparities in affluence and also gross asymmetries in political, social, and economic opportunities and power. A crucial question concerns the sharing of the potential gains from globalization – between rich and poor countries and among different groups within a country. It is not sufficient to understand that the poor of the world need globalization as much as the rich do; it is also important to make sure that they actually get what they need. This may require extensive institutional reform, even as globalization is defended. There is also a need for more clarity in formulating the distributional questions. For example, it is often argued that the rich are getting richer and the poor poorer. But this is by no means uniformly so, even though there are cases in which this has happened. Much depends on the region or the group chosen and what indicators of economic prosperity are used. But the attempt to base the castigation of economic globalization on this rather thin ice produces a peculiarly fragile critique. On the other side, the apologists of globalization point to their belief that the poor who participate in trade and exchange are mostly getting richer. Ergo – the argument runs – globalization is not unfair to the poor: they too benefit. If the central relevance of this question is accepted, then the whole debate turns on determining which side is correct in this empirical dispute. But is this the right battleground in the first place? I would argue that it is not. Global Justice and the Bargaining Problem Even if the poor were to get just a little richer, this would not necessarily imply that the poor were getting a fair share 31 32 of the potentially vast benefits of global economic interrelations. It is not adequate to ask whether international inequality is getting marginally larger or smaller. In order to rebel against the appalling poverty and the staggering inequalities that characterize the contemporary world – or to protest against the unfair sharing of benefits of global cooperation – it is not necessary to show that the massive inequality or distributional unfairness is also getting marginally larger. This is a separate issue altogether. When there are gains from cooperation, there can be many possible arrangements. As the game theorist and mathematician John Nash discussed more than half a century ago (in “The Bargaining Problem,” published in Econometrica in 1950, which was cited, among other writings, by the Royal Swedish Academy of Sciences when Nash was awarded the Nobel Prize in economics), the central issue in general is not whether a particular arrangement is better for everyone than no cooperation at all would be, but whether that is a fair division of the benefits. One cannot rebut the criticism that a distributional arrangement is unfair simply by noting that all the parties are better off than they would be in the absence of cooperation; the real exercise is the choice between these alternatives. An Analogy with the Family By analogy, to argue that a particularly unequal and sexist family arrangement is unfair, one does not have to show that women would have done comparatively better had there been no families at all, but only that the sharing of the benefits is seriously unequal in that particular arrangement. Before the issue of gender justice became an explicitly recognized concern (as it has in recent decades), there were attempts to dismiss the issue of unfair arrangements within the family by suggesting that women did not need to live in families if they found the arrangements so unjust. It was also argued that since women as well as men benefit from living in families, the existing arrangements could not be unfair. But even when it is accepted that both men and women may typically gain from living in a family, the question of distributional fairness remains. Many different family arrangements – when compared with the absence of any family system – would satisfy the condition of being beneficial to both men and women. The real issue concerns how fairly benefits associated with these respective arrangements are distributed. Likewise, one cannot rebut the charge that the global system is unfair by showing that even the poor gain something from global contacts and are not necessarily made poorer. That answer may or may not be wrong, but the question certainly is. The critical issue is not whether the poor are getting marginally poorer or richer. Nor is it whether they are better off than they would be had they excluded themselves from globalized interactions. Again, the real issue is the distribution of globalization’s benefits. Indeed, this is why many of the antiglobalization protesters, who seek a better deal for the underdogs of the world economy, are not – contrary to their own rhetoric and to the views attributed to them by others – really “antiglobalization.” It is also why there is no real contradiction in the fact that the so-called antiglobalization protests have become among the most globalized events in the contemporary world. Altering Global Arrangements However, can those less-welloff groups get a better deal from globalized economic and social relations without dispensing with the market economy itself? They certainly can. The use of the market economy is consistent with many different ownership patterns, resource availabilities, social opportunities, and rules of operation (such as patent laws and antitrust regulations). And depending on these conditions, the market economy would generate different prices, terms of trade, income distribution, and, more generally, diverse overall outcomes. The arrangements for social security and other public interventions can make further modifications to the outcomes of the market processes, and together they can yield varying levels of inequality and poverty. The central question is not whether to use the market economy. That shallow question is easy to answer, because it is hard to achieve economic prosperity without making extensive use of the opportunities of exchange and specialization that market relations offer. Even though the operation of a given market economy can be significantly defective, there is no way of dispensing with the institution of markets in general as a powerful engine of economic progress. But this recognition does not end the discussion about globalized market relations. The market economy does not work by itself in global relations – indeed, it cannot operate alone even within a given country. It is not only the case that a marketinclusive system can generate very distinct results depending on various enabling conditions (such as how physical resources are distributed, how human resources are developed, what rules of business relations prevail, what social-security arrangements are in place, and so on). These enabling conditions themselves depend critically on economic, social, and political institutions that operate nationally and globally. The crucial role of the markets does not make the other institutions insignificant, even in terms of the results that the market economy can produce. As has been amply established in empirical studies, market outcomes are massively influenced by public policies in education, epidemiology, land reform, microcredit facilities, appropriate legal protections, et cetera; and in each of these fields, there is work to be done through public action that can radically alter the outcome of local and global economic relations. Institutions and Inequality Globalization has much to offer; but even as we defend it, we must also, without any contradiction, see the legitimacy of many questions that the antiglobalization protesters ask. There may be a misdiagnosis about where the main problems lie (they do not lie in globalization, as such), but the ethical and human concerns that yield these questions call for serious reassessments of the adequacy of the national and global institutional arrangements that characterize the contemporary world and shape globalized economic and social relations. Global capitalism is much more concerned with expanding the domain of market relations than with, say, establishing democracy, expanding elementary education, or enhancing the social opportunities of society’s underdogs. Since globalization of markets is, on its own, a very inadequate approach to world prosperity, there is a need to go beyond the priorities that find expression in the chosen focus of global capitalism. As George Soros has pointed out, international business concerns often have a strong preference for working in orderly and highly organized autocracies rather than in activist and less-regimented democracies, and this can be a regressive influence on equitable development. Further, multinational firms can exert their influence on the priorities of public expenditure in less secure third-world countries by giving preference to the safety and convenience of the managerial classes and of privileged workers over the removal of widespread illiteracy, medical deprivation, and other adversities of the poor. These possibilities do not, of course, impose any insurmountable barrier to development, but it is important to make sure that the surmountable barriers are actually surmounted. Omissions and Commissions The injustices that characterize the world are closely related to various omissions that need to be addressed, particularly in institutional arrangements. I have tried to identify some of the main problems in my book Development as Freedom (Knopf, 1999). Global policies have a role here in helping the development of national institutions (for example, through defending democracy and supporting schooling and health facilities), but there is also a need to re-examine the adequacy of global institutional arrangements themselves. The distribution of the benefits in the global economy depends, among other things, on a variety of global institutional arrangements, including those for fair trade, medical initiatives, educational exchanges, facilities for technological dissemination, ecological and environmental restraints, and fair treatment of accumulated debts that were often incurred by irresponsible military rulers of the past. In addition to the momentous omissions that need to be rectified, there are also serious problems of commission that must be addressed for even elementary global ethics. These include not only inefficient and inequitable trade restrictions that repress exports from poor countries, but also patent laws that inhibit the use of lifesaving drugs – for diseases like AIDS – and that give inadequate incentive for medical research aimed at developing nonrepeating medicines (such as vaccines). These issues have been much discussed on their own, but we must also note how they fit into a general pattern of unhelpful arrangements that undermine what globalization could offer. Another – somewhat less discussed – global “commission” that causes intense misery as well as lasting deprivation relates to the involvement of the world powers in globalized arms trade. This is a field in which a new global initiative is urgently required, going beyond the need – the very important need – to curb terrorism, on which the focus is so heavily concentrated right now. Local wars and military conflicts, which have very destructive consequences (not least on the economic prospects of poor countries), draw not only on regional tensions but also on global trade in arms and weapons. The world establishment is firmly entrenched in this business: the Permanent Members of the Security Council of the United Nations were together responsible for 81 percent of world arms exports from 1996 through 2000. Indeed, the world leaders who express deep frustration at the “irresponsibility” of antiglobalization protesters lead the countries that make the most money in this terrible trade. The G-8 countries sold 87 percent of the total supply of arms exported in the entire world. The U.S. share alone has just gone up to almost 50 percent of the total sales in the world. Furthermore, as much as 68 percent of the American arms exports went to developing countries. The arms are used with bloody results – and with devastating effects on the economy, the polity, and the society. In some ways, this is a continuation of the unhelpful role of world powers in the genesis and flowering of political militarism in Africa from the 1960s to the 1980s, when the Cold War was fought over Africa. During these decades, when military overlords – Mobuto Sese Seko or Jonas Savimbi or whoever – busted social and political arrangements (and, ultimately, economic order as well) in Africa, they could rely on support either from the United States and its allies or from the Soviet Union, depending on their military alliances. The world powers bear an awesome responsibility for helping in the subversion of democracy in Africa and for all the far-reaching negative consequences of that subversion. The pursuit of arms “pushing” gives them a continuing role in the escalation of military conflicts today – in Africa and elsewhere. The U.S. refusal to agree to a joint crackdown even on illicit sales of small arms (as proposed by UN Secretary-General Kofi Annan) illustrates the difficulties involved. Fair Sharing of Global Opportunities To conclude, the confounding of globalization with Westernization is not only ahistorical, it also distracts attention from the many potential benefits of global integration. Globalization is a historical process that has offered an abundance of opportunities and rewards in the past and continues to do so today. The very existence of potentially large benefits makes the question of fairness in sharing the benefits of globalization so critically important. The central issue of contention is not globalization itself, nor is it the use of the market as an institution, but the inequity in the overall balance of institutional arrangements – which produces very unequal sharing of the benefits of globalization. The question is not just whether the poor, too, gain something from globalization, but whether they get a fair share and a fair opportunity. There is an urgent need for reforming institutional arrangements – in addition to national ones – in order to overcome both the errors of omission and those of commission that tend to give the poor across the world such limited opportunities. Globalization deserves a reasoned defense, but it also needs reform. * Amartya Sen is the 1998 Nobel Laureate in Economics. He was born in 1933 at Shantiniketan, West Bengal, India. He has been the President of the Econometric Society (1984), the International Economic Association (1986-89), the Indian Economic Association (1989) and the American Economic Association (1994). He has been honored with Honorary D.Litt degrees and fellowships of a large number of Indian and Foreign Universities and Institutes of repute. Sen was awarded Bharat Ratna, the highest civilian award in India. He is currently Master of Trinity College, Cambridge, U.K. 33 Un’economia per la Terra An Economy for the Earth di Lester R. Brown* by Lester R. Brown* La sfida di ristrutturare il mondo in modo che il progresso economico possa continuare Restructuring our world for sustainable economic development 34 Lester R. Brown O gni giorno leggiamo del deterioramento del rapporto tra economia globale ed ecosistema terrestre. Ci sono sempre nuove storie di depauperamento delle foreste, desertificazione, decadimento del patrimonio ittico, abbassamento delle falde acquifere, innalzamento dei livelli di biossido di carbonio, aumento delle temperature, scioglimento dei ghiacci, innalzamento del livello del mare e uragani sempre più devastanti. L’economia attuale sta distruggendo i propri sistemi naturali di supporto. Non ci porterà dove vogliamo andare. La sfida è ristrutturare l’economia – costruire un’ecoeconomia – in modo che il progresso economico possa continuare. Si possono vedere sprazzi di un’eco-economia emergente nelle fattorie eoliche della Germania settentrionale, nelle coperture solari in Giappone, nel rimboschimento delle montagne sudcoreane e negli impianti di riciclaggio dell’acciaio negli Stati Uniti. Oggi, le turbine eoliche stanno rimpiazzando le miniere di carbone in Europa. Già ora la Danimarca, che ha bandito la costruzione d’impianti a carbone, ricava il 15 per cento della propria elettricità dal vento. Nello Schleswig-Holstein, lo stato più settentrionale della Germania, questa percentuale sale al 19 per cento. In Spagna, la provincia di Navarra, nel nord industriale, ricava dal vento il 22 per cento dell’elettricità. Negli Stati Uniti, Nord Dakota, Kansas e Texas hanno sufficiente vento da sfruttare per coprire il fabbisogno elettrico nazionale. L’Europa, densamente popolata, ha abbastanza vento di terra da coprire tutto il proprio fabbisogno elettrico. La Cina è in grado di raddoppiare la propria produzione d’energia utilizzando solo il vento. Il vento è un’enorme e inesauribile fonte energetica. Gli sviluppi della tecnologia hanno abbassato il costo della produzione d’energia eolica dai 38 centesimi di dollaro americano per KW/h dei primi anni Ottanta agli attuali meno 4 centesimi di dollaro americano nei luoghi vicini alle centrali – una cifra che è competitiva col petrolio, il gas e il carbone. L’elettricità a basso costo proveniente dalle turbine eoliche può essere utilizzata direttamente o per elettrolizzare l’acqua per produrre idrogeno. L’idrogeno è un modo per immagazzinare o trasportare l’energia eolica. È anche il carburante scelto per i motori a cellula su cui stanno lavorando le maggiori case automobilistiche. Con un modesto 1.7 centesimo di dollaro americano di detassazione per la produzione d’ogni kilowattora d’energia eolica, negli ultimi anni stanno sorgendo nuove fattorie eoliche in Minnesota, Iowa, Kansas, Colorado, Wyoming, Oregon e Washington. Si sta assistendo alla nascita di un futuro in cui agricoltori e allevatori negli Stati Uniti, che possiedano i propri diritti sul vento, potranno un giorno fornire non solo molta dell’elettricità nazionale, ma anche molto dell’idrogeno – il carburante per la flotta nazionale di automobili. Abbiamo ormai le tecnologie necessarie a stabilizzare la situazione e dichiarare la nostra indipendenza dal petrolio mediorientale. Oltre alle nuove industrie per l’energia, le industrie per il riciclaggio rimpiazzeranno quelle minerarie. Gli Stati Uniti lo scorso anno hanno prodotto il 58 per cento del proprio acciaio da riciclaggio degli scarti di lavorazione. Il riciclaggio dell’acciaio è concentrato in piccoli impianti ad arco elettrico ampiamente distribuiti nel territorio nazionale, riforniti da forniture locali di scarti. La Germania è leader mondiale nel riciclaggio della carta, con il 72 per cento della propria produzione proveniente da materiale riciclato. Se tutto il mondo raggiungesse i livelli tedeschi di riciclaggio, si ridurrebbe il legno usato per produrre carta di quasi un terzo. Oggi, le maggiori corporazioni sono votate al riciclo per chiudere il ciclo dell’economia dei materiali. Altri stanno iniziando a diminuire gradualmente l’utilizzo di combustibili fossili. STMicroelectronics in Italia e la Interface, azienda leader nell’industria dei tappeti negli Stati Uniti, stanno avvicinandosi allo zero nelle emissioni di carbonio. La Shell Hydrogen e la DaimlerChrysler stanno lavorando con l’Islanda per renderla la prima nazione a economia basata sull’energia a idrogeno. La gente sembra ansiosa di vedere, di cogliere il senso di come saremo in grado di invertire il deterioramento ambientale della Terra. Un sempre maggior numero di persone vogliono essere coinvolte, fare qualcosa. Anche se possiamo fare qualcosa a livello personale, come usare più la bicicletta e meno l’automobile o riciclare la carta di giornale, questo non è sufficiente. Dobbiamo cambiare il sistema economico. E ciò richiede la ristrutturazione del sistema di tassazione: ridurre le tasse sulle entrate e aumentare le tasse sulle attività ambientalmente distruttive, come le emissioni di carbonio, la produzione di rifiuti tossici, e l’immissione di materiali nelle falde. Si deve lavorare per ristrutturare le imposte per avere prezzi che includano i costi ecologici. Øystein Dahle, ex vice presidente di Exxon per la Norvegia e il Mare del Nord ha riassunto in modo brillante questo concetto: “Il Socialismo è crollato perché non consentiva che i prezzi riflettessero i costi economici. Il Capitalismo potrebbe crollare perché non consente che i prezzi riflettano i costi ecologici”. La sfida è di ristrutturare il sistema delle tasse in modo che i prezzi di mercato riflettano la realtà ecologica. Siamo in grado di muoverci abbastanza velocemente? Sappiamo che i mutamenti sociali richiedono tempo. In Europa Orientale, ci sono voluti quarant’anni dall’imposizione del Socialismo al suo crollo. Sono passati 34 anni tra il primo Rapporto del Capo della Sanità Pubblica statunitense su fumo e salute e l’accordo quadro tra l’industria del tabacco e i governi nazionali per rimborsare 251 miliardi di dollari ai governi stessi per le spese sanitarie correlate al fumo. Trentotto anni sono passati da quando il biologo Rachel Carson ha pubblicato Silent Spring, che favorì la nascita del movimento moderno per l’ambiente. Talvolta le società si muovono velocemente, specie quando la gravità della minaccia è evidente e la natura della risposta è ovvia, come per la risposta americana all’attacco di Pearl Harbor. In un anno, l’economia americana è stata ampiamente ristrutturata. In meno di quattro anni, la guerra era finita. Non c’è via di mezzo. O ci uniremo per costruire un’economia sostenibile o manterremo la nostra economia ambientalmente insostenibile fino al suo declino. È un obiettivo che non ammette compromessi. O in un modo o nell’altro, la scelta sarà fatta dalla nostra generazione. Ma influirà sulla vita della Terra per tutte le generazioni a venire. * Lester R. Brown è presidente del Earth Policy Institute, un centro di ricerca con sede a Washington. Ha recentemente pubblicato un libro che offre una visione di come può apparire e di come si può raggiungere un’economia sostenibile o eco-economia (Eco-economy: building an Economy for the Earth, edizione italiana pubblicata nel 2002 da Editori Riuniti). ■ ■ ■ ■ ■ ■ E very day in the news, we read about the deteriorating relationship between the global economy and the earth’s ecosystem. Every day we read stories about shrinking forests, expanding deserts, collapsing fisheries, falling water tables, rising carbon dioxide levels, rising temperatures, melting glaciers, rising sea levels and more destructive storms. Our existing economy is destroying its natural support systems. It cannot take us where we want to go. The challenge therefore is to restructure the economy into one that is sustainable – an eco-economy. Examples of this eco-economy are growing: the wind farms of northern Germany, the solar rooftops of Japan, the reforested mountains of South Korea, the steel recycling mills of the United States. Today, wind turbines are replacing coal mines in Europe. Denmark, which has banned the construction of coal-fired power plants, already generates 15% of its electricity from wind, while in SchleswigHolstein, the northernmost state in Germany, this figure reaches 19%. The northern industrial province of Navarra in Spain generates 22% of its electricity from wind. In the United States, North Dakota, Kansas, and Texas have enough harnessable wind energy to satisfy the nation’s electricity needs. Densely populated Europe has enough off-shore wind energy to meet all of its electricity needs. China can double its current electricity generation from wind alone. Wind is a vast energy resource, which cannot be depleted. Technological progress has lowered the cost of generating electricity from wind from 38 US cents per kilowatt-hour in the early 1980s to less than 4 US cents at prime wind sites today, making it competitive with oil, gas and coal in terms of price. This low-cost electricity from wind turbines can either be used directly or it can be used to electrolyze water to produce hydrogen, a convenient way of both storing and transporting wind energy. Hydrogen is also the fuel of choice for the fuel cell engines that every major automobile manufacturer is now working to develop. Thanks to a modest windproduction tax credit ($0.017 per kilowatt-hour), new wind farms have come on-line in the last few years in Minnesota, Iowa, Kansas, Colorado, Wyoming, Oregon and Washington. We are now looking at a future where farmers and ranchers in the United States, who own their own wind rights, could one day be supplying not only much of the country’s electricity, but also much of its hydrogen – the fuel of tomorrow’s national fleet of automobiles. We now have the technologies to stabilize the situation and to declare our independence from Middle Eastern oil. In addition to these new energy industries, recycling is gradually replacing the mining industry. Last year the United States produced 58% of its steel from recycled scrap metal. Steel recycling is concentrated in small, electric arc furnace mills spread all around the country and supplied by local scrap metal. Germany leads the world in paper recycling, generating 72% of its paper from recycled stock. If the entire world were to achieve the same level of recycling, the amount of wood used for paper would fall by nearly one third. Today, major corporations are committed to comprehensive recycling in order to end the cycle of the material economy. Others are starting to phase out their use of fossil fuels. STMicroelectronics in Italy and Interface, a leading manufacturer of industrial carpeting in the United States, are both striving to achieve zero-carbon emission levels. Shell Hydrogen and Daimler Chrysler are working with Iceland to create the world’s first hydrogen-powered economy. People are eager to see and to understand how we can reverse the environmental deterioration of the earth. More and more people want to get involved and actively participate. Although we can all contribute through personal changes, like using more bicycles and fewer cars and recycling our daily newspapers – that is not enough. We have to change the economic system. And that requires restructuring the tax system: reducing income taxes and increasing taxes on environmentally destructive activities, such as carbon emissions, landfills and the generation of toxic waste. We have to restructure taxes so that prices reflect the costs to the environment. Øystein Dahle, former vice president of Exxon for Norway and the North Sea, summed it up brilliantly when he said, “Socialism collapsed because it did not allow prices to reflect economic costs. Capitalism may collapse because it does not allow prices to reflect environmental costs.” Our challenge is to restructure the tax system so that market prices also reflect the ecological truth. Will we be able to move fast enough? We know that social change takes time. In Eastern Europe, it took four decades for socialism to collapse. Thirtyfour years passed between the first U.S. Surgeon General’s report on smoking and health and the landmark agreement between the tobacco industry and state governments to reimburse the latter $251 billion for smoking-related health care expenditures. Thirty-eight years have passed since biologist Rachel Carson published Silent Spring, the wakeup call that gave rise to the modern environmental movement. Sometimes societies do move quickly, however, especially when the magnitude of the threat is understood and the nature of the response obvious, such as the U.S. response to the attack on Pearl Harbor. Within the first year, most of the U.S. economy had been restructured. In less than four years, the war was over. There is no middle way. We can either come together to build a sustainable economy or continue with our environmentally unsustainable economy until it falls apart. There can be no compromise. One way or the other, the choice will be made by our generation. But this choice will affect life on earth for all generations to come. * Lester R. Brown is president of the Earth Policy Institute, an environmental think tank based in Washington. He has recently published a book which provides a vision of what an environmentally sustainable economy, an eco-economy, looks like and how it can be achieved (Eco-economy: building an Economy for the Earth, Italian Edition published in 2002 by Editori Riuniti). 35