70 Ne mancavano nove... di Paola Verri

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70 Ne mancavano nove... di Paola Verri
70
Ne mancavano nove...
di Paola Verri
Guardò l’orologio. Erano le cinque meno un quarto della sera e il sole s’insinuava con
implacabili lame di luce attraverso le strisce metalliche di una veneziana malridotta. Il
ventilatore ansimava stancamente e ogni cigolante movimento aveva l’aria di essere
l’ultimo. In ogni caso, nonostante gli sforzi delle pale agonizzanti, l’aria era immobile e
appiccicosa e la polvere restava sospesa in tunnel dorati prima di planare su mucchi di
faldoni traboccanti e tenuti insieme da elastici consumati. Si passò la mano corta e
grassoccia sulla fronte sudata e poi sui pantaloni per asciugarsela. “Maledetta estate,
manco all’equatore…” bofonchiò. Gettò un’occhiata al blocco sgualcito e disordinato che
aveva
davanti.
Nove. Ne mancavano ancora nove. Anzi, credeva peggio. Ne aveva già fatti fuori quindici,
solo quel giorno. E altri trenta il giorno prima, e dodici quello prima ancora. Questi erano gli
ultimi. Poi finalmente sarebbe ci sarebbe stata la svolta.
Una sirena della polizia passò in lontananza poi si perse piano nel silenzio del pomeriggio.
Il numero uno e il numero due furono inaspettatamente facili. Erano talmente stremati
dall’attesa e dalla mancanza di informazioni nella quale erano stati tenuti per giorni, da
essere pronti ad accettare qualsiasi accordo pur di uscire da quella penosa incertezza.
Accettarono tre medi di stipendio, la prima cosa che a lui era venuta in mente senza
battere ciglio. Questo lo spinse a osare di più, a vedere fin dove poteva spingere il suo
protervo esercizio di potere. I tre mesi di elemosina passarono da lordi a netti. Metà della
cifra fu dilazionata a fine anno e la concessione venne accordata a patto che firmassero
un’esplicita rinuncia a qualsiasi azione sindacale o giudiziaria, che mai gli fosse venuta in
mente di intraprendere.
Lavoro facile, questo che gli aveva affibbiato il suo padrino, Giuseppe Antonangeli, detto
anche Peppino o’ Succhiasangue, capoclan inviolabile e invisibile e discusso imprenditore.
“Fammi ‘sto piacere” gli aveva detto “tu che sei ..come si dice consulente aziendale,
licenziameli tu a quei perdigiorno di impiegati. Levameli di torno, spendendo meno che
puoi, anzi magari niente, che poi io con la scusa della bancarotta, ci metto un po’ di
precari, un po’ di cococo’, un po’ di negri a pulire i cessi e a te poi ti faccio Direttore del
Personale a vita. Come minimo con quello che risparmio mi ci faccio la villa a Capri. La
seconda.”
Mentre fantasticava sull’arredamento della sua nuova stanza dirigenziale entrò un altro
derelitto.
Il
numero
tre.
Già a vederlo si capiva che si annodava il cappio al collo da solo. Quarantacinque o forse
meno, pieno di sé e con un faccione da bambino scemo, si era infilato a stento dentro il
miglior doppiopetto che era riuscito a trovare. Teneva in mano una cartellina piena di
documenti che iniziò ad esibire freneticamente, con l’intento di dimostrare che si stavano
sbagliando e che un altro geometra informatico come lui non lo avrebbero trovato tanto
facilmente. E infatti non lo stavano cercando, gli disse crudo. Anzi prima si liberavano
anche dell’unico che avevano e tanto di guadagnato. In capo a cinque minuti era
licenziato. Così senza neanche un soldo di buona uscita. Nessun paracadute, nessun
piano di ricollocamento, niente di niente. Come dice? Welfare? Mai sentito. Malignamente
all’ultimo momento lo richiamò indietro. “Si, certo mi dica?” “No solo una cosa …. mi
scusi, … non me la lasci qua la cartellina, se la porti via che a noi non serve…Ah, no
un’altra cosa : faccia entrare il prossimo per piacere. Arrivederci”
Il quattro, il cinque e il sei erano quasi arrivati alla pensione. Non una gran pensione, per
essersi passati trent’anni a perdere la vista su quelle pratiche inutili e pulciose, però meglio
che niente. A lui toccò sorbirsi storie lacrimose di invalidità, malattie e sciagure di ogni
genere. Li ascoltò con finta pazienza pensando che aveva fame e voglia di una sigaretta,
poi con fare paterno li invitò a non cercarsene altri di guai e di disgrazie rifiutando la
generosa offerta della Direzione Aziendale che con inaudita magnanimità aveva deciso sì
di licenziarli in tronco, ma di elargire loro e “da subito” l’intero importo del TFR maturato.
Tanto fra cinque, massimo sei anni, sarebbe arrivata la pensione. Intanto quei soldi
potevano goderseli e se non ci scappava neanche di poter estinguere il mutuo prima casa
che li schiacciava da una vita…pazienza, altri non avevano goduto di tanta clemenza da
parte dei propri datori di lavoro. I tre salutarono ossequiosi e uscirono un po’ perplessi per
quei discorsi apocalittici, ma
soddisfatti, per aver strappato al mediatore quella
liquidazione, che qualsiasi scalzacane di avvocato del lavoro avrebbe considerato dovuto,
ma che loro vivevano come un generoso regalo.
Un’ altra sirena, un’ambulanza forse. Strano, lì non succedeva mai niente, o meglio: niente
che non si sapeva sarebbe avvenuto, pensò.
Dalle sirene lo distrasse la settima. Era una donna. Bene! Ci si può sempre aspettare
qualcosa di più da una donna. Che ne sai, magari finisce come meno te lo aspetti vale a
dire in pratica come speri che finisca ogni volta che ne vedi una.
Lei era passabile e quando si sedette, lui la guardò viscido passandosi il dorso della mano
sulle labbra. Lo aveva visto fare una volta in una pubblicità quel gesto e aveva notato che
molte donne lo avevano commentato con ammiccante ostentazione. Poco importava che
lui non fosse affatto il modello figlio di Apollo della pubblicità, magari l’effetto era lo stesso.
Tanto lo avevano ringalluzzito e reso impavido i precedenti licenziamenti che andò dritto
con un sorriso e un “Le viene in mente qualche modo in cui possiamo accordarci?”. Lei,
che di quel lavoro aveva bisogno come il pane, un modo se lo fece venire in mente. Così
si accordarono per vedersi quello stesso pomeriggio alle tre in un desolato parcheggio
sterrato. Ufficialmente per definire gli ultimi accordi. Ottimo il numero sette.
Il numero otto non venne. Il nove lo liquidò con quattro soldi, sapeva che era malato e lo
invitò a godersi i quattro soldi che munificamente gli elargì. Per quel giorno aveva finito.
Inaspettatamente entrò la segretaria. Trafelata, pallida. “Mi scusi, io devo andare, sa un
impegno improvviso..i figli , la scuola, non avevo visto l’ora…scappo..Senta qui fuori c’è il
numero dieci” Chiuse la porta e scappò via, fu l’ultima volta che la vide e pensò che
doveva essere quasi sicuramente pazza.
Il numero dieci? Quale numero dieci? Ricontrollò il taccuino e i nomi sbarrati con una riga
di penna. E chi cazzo è il numero dieci? A giorni sarò il nuovo Direttore del Personale e
nessuno mi avverte. Quella cretina la devo licenziare. Subito. Domani.
Altre sirene, stavolta il suono si affacciò più vivo alla soglia della coscienza. Che
succedeva, li fuori..?
Il numero dieci aprì la porta. Lui lo guardò e capì subito. Il più fidato degli uomini del
nemico. Il più affidabile, al quale aveva sempre invidiato l’oscuro rispetto degli altri. Quello
che lui non era mai riuscito ad ottenere. Capì tutte quelle sirene. Tante, troppe in quello
sputo di città. “Lo avete ucciso? Come è possibile…la scorta…” “Tutti hanno un
prezzo..Non lo sai tu che tutti i giorni compri e vendi la vita e le speranze degli altri…non te
li
fai
i
conti
su
quel
lurido
blocchetto?”
Non sprecò neanche altre parole e gli esplose due colpi secchi in pieno petto.
Ebbe un ultimo inutile pensiero. Forse per quel giorno avrebbe fatto meglio a fermarsi alla
numero sette.
***