Untitled - Rizzoli Libri

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Untitled - Rizzoli Libri
James Herriot
Creature grandi e piccole
Proprietà letteraria riservata
© James Herriot, 1972
© 1974, 1979, 1993 RCS Rizzoli Libri S.p.A., Milano
© 1994 Libri & Grandi Opere S.p.A., Milano
© 2000, 2014 RCS Libri S.p.A., Milano
© 2016 Rizzoli Libri S.p.A., Milano / BUR Rizzoli
ISBN 978-88-17-09042-1
Titolo originale dell’opera:
All Creatures Great and Small
Traduzione di Gioia Zannino Angiolillo
Prima edizione Rizzoli 1974
Prima edizione BUR 1979
Prima edizione bestBUR novembre 2016
Per l’aiuto gentilmente prestato nella traduzione dei termini tecnici del testo si ringrazia
il prof. Franco Malossini e i dottori Romualdo Alosi e Antonio Borghese, dell’Istituto
Sperimentale di Zootecnica, e il dott. Armando Sperindé.
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Creature grandi e piccole
A Eddie Straiton
con gratitudine e affetto
e a Donald e Brian Sinclair
perché continuino a essere miei amici
Tutte le cose splendide e belle
Tutte le creature grandi e piccole
Tutte le cose sagge e meravigliose
Tutte le ha create il Signore Iddio
Cecil Frances Alexander
Capitolo 1
Di questo non si parlava nei libri, pensai mentre la neve
sospinta dal vento entrava dalla porta aperta e mi si posava
sulla schiena nuda.
Ero sdraiato a faccia in giù sul selciato in una pozzanghera di sporcizia indefinibile con il braccio affondato
dentro la mucca che aveva violenti premiti e con i piedi
che cercavano un appiglio tra le pietre. Ero nudo fino alla
vita e su di me la neve si mischiava con lo sporco e con
il sangue secco. Non riuscivo a distinguere niente oltre il
cerchio di luce tremolante gettata dalla fumosa lampada a
petrolio che il contadino reggeva al di sopra di me.
No, i libri non dicevano neanche una parola sul modo di
cercare funi e altri strumenti al buio; sul modo di mantenersi puliti con mezzo secchio di acqua tiepida; sui selci che ti
affondano nel petto. E anche sul lento intorpidimento delle braccia, sulla subdola paralisi dei muscoli mentre le dita
tentano di opporsi ai potenti premiti espulsivi della mucca.
Non v’era cenno in nessun posto del graduale sfinimento, della sensazione di inutilità, della piccola voce lontana
della paura.
Riandai con la mente a quella figura nel libro di ostetricia. Una mucca in piedi su un pavimento scintillante
mentre un veterinario sdolcinato con immacolato camice
da parto introduceva il braccio a garbata distanza. Il veterinario era rilassato e sorridente, il coltivatore e i suoi
aiutanti erano sorridenti, perfino la mucca era sorridente.
Non c’era in nessun posto sporco né sangue o sudore.
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Il signore della figura aveva appena finito un’eccellente
colazione e si era recato nella casa accanto a far partorire la
mucca per puro divertimento, al posto del dolce. Non era
uscito dal letto rabbrividendo alle due del mattino, né aveva percorso a scossoni quasi venti chilometri di neve gelata,
fissando assonnato la strada davanti a sé finché nella luce
dei fari non apparisse la fattoria solitaria. Non si era arrampicato per circa un chilometro sulla bianca cresta rocciosa
fino al granaio privo di porta dove si trovava la sua paziente.
Tentai di avanzare un po’ dentro alla mucca. Era un
caso di presentazione posteriore e io stavo faticosamente
spingendo con la punta delle dita una corda sottile che finiva con un cappio verso la mascella inferiore del vitello.
Intanto il mio braccio era compresso tra il vitello e le ossa
del bacino. A ogni premito della vacca la pressione aumentava fino a diventar quasi insopportabile, poi la bestia si
rilassava e io spingevo avanti la corda un altro po’. Mi chiedevo per quanto tempo avrei potuto continuare così. Se
non riuscivo ad applicare il cappio alla mandibola entro
breve tempo, non avrei mai tirato fuori il vitello. Mugolai,
strinsi i denti e cercai di nuovo di andare avanti.
Un’altra piccola raffica di neve entrò nel granaio e potei quasi sentire lo sfrigolio dei fiocchi sulla mia schiena
sudata. Sudore ne avevo anche sulla fronte e mi gocciolava
dentro gli occhi mentre spingevo.
Quando una vacca deve figliare e la cosa si presenta difficile, c’è sempre un momento in cui cominci a chiederti se
ce la farai. Io ero in quella fase.
Brevi ragionamenti cominciarono ad attraversarmi il
cervello. «Forse sarebbe meglio macellare questa vacca. È
così piccola e stretta di bacino che non vedo proprio come
il vitello possa uscire», oppure: «È una bella bestia grassa, proprio del tipo da macello, perciò non pensa che le
renderebbe di più chiamare il macellaio?»; o forse: «È una
pessima presentazione. In una vacca più larga sarebbe abbastanza semplice far girare la testa, ma in questo caso è
quasi impossibile».
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Naturalmente, avrei potuto cavarmela praticando sul
vitello l’embriotomia... passandogli un fil di ferro intorno
al collo e segandogli la testa. Quanti casi di questo genere
finivano con il pavimento cosparso di teste, zampe, mucchi di intestini. C’erano libri grossi così per illustrare gli
innumerevoli modi in cui si può fare a pezzi un vitello.
Ma nessuno di essi andava bene qui, perché questo vitello era vivo. Tendendomi al massimo, ero riuscito a portare
il dito fino alla commessura della bocca ed ero trasalito
sentendo una contrazione della lingua della piccola creatura. Non me l’aspettavo perché in quella posizione i vitelli
di solito sono morti, asfissiati dalla flessione eccessiva del
collo e dalla pressione esercitata dalle possenti contrazioni
della madre. Ma questo aveva ancora una scintilla di vita e
se veniva fuori doveva essere intero.
Andai al mio secchio d’acqua, ormai fredda e sporca di
sangue, e in silenzio mi insaponai le mani. Poi mi buttai
di nuovo a terra, sentendo i selci più duri che mai contro
il petto.
Spinsi le dita dei piedi tra le pietre, mi tolsi il sudore dagli occhi e per la centesima volta cacciai dentro alla vacca
un braccio che sentivo molle come una massa di spaghetti;
lungo le piccole zampe asciutte del vitello, che si muovevano violentemente come carta vetrata contro di me, poi
fino alla curva del collo e all’orecchio, e infine, tormentosamente, lungo il lato del muso verso quella mandibola
inferiore che era diventata la massima aspirazione della
mia vita.
Era incredibile che fossero quasi due ore che facevo
questo: due ore di lotta con le forze che mi venivano meno
per spingere un piccolo cappio intorno a quella mandibola. Avevo tentato tutto il resto – spinta di una zampa indietro, leggera trazione con un uncino smussato nella cavità
orbitale – ma ero ritornato al cappio.
Era stata fin dal principio una seduta deprimente. Il
coltivatore, il signor Dinsdale, era un uomo alto e tetro
di poche parole che pareva sempre in attesa del peggio.
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Aveva con sé un figlio alto, tetro e silenzioso ed entrambi
avevano osservato i miei sforzi con crescente malinconia.
Ma peggio di tutto era stato lo Zio. Appena entrato nel
granaio a mezza costa ero stato sorpreso vedendo un vecchietto con gli occhi chiari e con un cappelluccio tondo,
comodamente seduto su una balla di paglia. Si stava riempiendo la pipa ed era chiaro che aspettava con ansia lo
spettacolo.
«E allora, giovanotto» gridò con la voce nasale del West
Riding. «Sono il fratello del signor Dinsdale. Sono proprietario nel Listondale.»
Io deposi la mia attrezzatura e feci un cenno con la testa. «Come va? Mi chiamo Herriot.»
Il vecchio mi esaminò, con sguardo penetrante. «Il mio
veterinario è il dottor Broomfield. Immagino che ne avrà
sentito parlare... lo conoscono tutti. Un uomo meraviglioso, il dottor Broomfield, specie per i parti. Non ho mai
visto che non ce la facesse, capisce.»
Produssi un debole sorriso. In qualsiasi altra occasione
sarei stato felice di apprendere quant’era bravo il mio collega, ma non so perché adesso no, adesso no. Addirittura,
quelle parole misero in moto dentro di me il lugubre rintocco di una piccola campana.
«No, temo di non conoscere il dottor Broomfield» dissi
togliendomi la giacca e sfilandomi, molto più a malincuore, la camicia dalla testa. «Ma non è molto che sto da queste parti.»
Lo Zio fu stupefatto. «Non lo conosce! Be’, è l’unico
a non conoscerlo. Nel Listondale lo portano in palmo di
mano, glielo dico io.» Si abbandonò a un silenzio scioccato
e avvicinò un fiammifero alla pipa. Poi lanciò un’occhiata
alla pelle d’oca del mio torace. «Spogliato ha un fisico da
pugile, il dottor Broomfield. Mai visti muscoli simili.»
Un’ondata di debolezza mi percorse lentamente. Mi
sentii a un tratto i piedi di piombo, sentii di non essere
all’altezza della situazione. Mentre cominciavo a disporre
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