il “periodo assiale”

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il “periodo assiale”
il “periodo assiale”
Qui però dobbiamo fare un passo indietro, giusto per andare alle
radici delle prime culture e credenze religiose, perché più di un secolo
fa siamo venuti a conoscenza di un antico documento, datato intorno
al 2000 dell’evo antico, vecchio quindi di 4000 anni, in cui troviamo
attestato nel modo più concreto ed efficace il comportamento etico e
morale dell’uomo.
Si tratta del “Libro dei morti”, o “Libro per uscire dal giorno” degli
antichi egizi, dove al capitolo CXXV, il “Testo per entrare della Sala
della Verità e della Giustizia” sta scritto: “Egli ha fatto ciò che è
prescritto per gli uomini e di cui gioiscono gli dèi…ha donato pane
all’affamato, acqua all’assetato, vestiti all’ignudo e una imbarcazione
a chi ne era privo”. Con questa ultima donazione, tanto attuale,
perché ci rimanda a un antico e sempre citato proverbio cinese:
“meglio dare una canna da pesca e insegnare a pescare anziché dare
un pesce a chi muore di fame”. Questo antico testo è noto come il
“Papiro di Torino”, deve appunto è conservato nel locale museo egizio,
ritrovato a Tebe nella prima metà del 1800. “Inframmezzate alle
formule magiche emergono a tratti i bagliori di quella morale
naturale [no, umana] che è di ogni luogo e di ogni tempo. E’ il riflesso
di quel codice etico cui l’egiziano improntò la propria vita…”. Questo
sta scritto nella presentazione di Boris de Rachewiltz per la nuova
edizione nel 1986, e fate bene attenzione, perché non sta scritto che
queste prescrizioni sono imposte dall’alto o comandate dall’esterno,
ma si limita a costatare “di cui gioiscono gli dèi”, e aggiunge “ha
donato”, che implica pur sempre la nostra libertà.
Duemila anni dopo, all’incirca nel 70 dell’era volgare, in un vangelo
attribuito a Matteo quelle stesse donazioni sono stare inserite in un
terrificante “giudizio finale”, là dove sta scritto: “poiché ebbi fame e
mi deste da mangiare, ebbi sete e mi deste da bere, ero pellegrino e
mi ospitaste, nudo e mi copriste, infermo e mi visitaste, ero il carcere
e veniste a trovarmi”. E secondo il nostro comportamento “il Re dirà
a quelli che” hanno dato e “stanno alla sua destra: venite, benedetti
dal Padre mio, prendete possesso del Regno preparato per voi sin
dall’origine del mondo…quindi dirà a quelli” che non hanno dato e
“che stanno alla sinistra: andate via da me, o maledetti, nel fuoco
eterno, preparato per il diavolo e i suoi seguaci…e questi se ne
andranno al castigo eterno, i giusti invece alla vita eterna” (Mt. 25,
31 – 46).
Da non credere che questo stesso Re/Cristo/Dio, sempre stando al
vangelo attribuito a Matteo, avrebbe raccomandato a noi di perdonare
“non sette volte, ma fino a settanta volte sette” (Mt.18,22), per dire
sempre, mentre lui non perdona mai, e condanna quelli che non
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hanno dato al fuoco eterno. Per nostra grazia, dopo morti nessuno
ricorderà più di essere vissuto qui e adesso, in questa vita.
Procediamo: in Mesopotamia, all’epoca dei sumeri, degli assiri e dei
babilonesi, in quella che è stata definita la prima rivoluzione urbana,
con le città di Ur, di Uruk e il regno di Babilonia, era in vigore il
“Codice di Hammurabi”, dal nome del re del tempo. Fino a qualche
anno fa si pensava fosse la più antica raccolta di leggi conosciuta nella
storia dell’umanità, datata verso il 1780 dell’evo antico – circa 3.800
anni fa - esposta al pubblico perché chi sapeva leggere le potesse
riferire agli analfabeti, così che tutti fossero messi in grado di
osservarle. La stele, fitta di caratteri cuneiformi è stata rinvenuta nella
città di Susa (Iraq attuale), agli inizi del 1900. Era prevista una specie
di legge del taglione – dente per dente - per evitare che le condanne
inflitte fossero sproporzionate alle colpe commesse. Legge adottata
pure dagli ebrei, forse dopo averla vista applicare durante la loro
deportazione in Babilonia al tempo di Nabucodonosor (596-539 a.C.).
In ogni caso la stele con le sue circa 300 prescrizioni, che in pratica
abbracciano tutte le possibili situazioni della convivenza umana del
tempo, suddivise per categorie sociali, compresi i rapporti famigliari, i
comportamenti economici, produttivi e commerciali, pure con dei
regolamenti edilizi per le costruzioni, con regole per
l’amministrazione della cosa pubblica e fare giustizia, alta più di 2
metri, è sempre visibile a Parigi presso il museo del Louvre.
Ma nel 1947 è venuto alla luce un precedente codice sumerico, il
“codice di Ur-Nammu”, dal nome del padre di Shulgi, l’autore
materiale del codice, datato 2100 dell’evo antico, quindi coevo del
papiro egizio, redatto su tavolette di argilla conservate al museo di
Istanbul. La sua importanza sta nel fatto che l’amministrazione della
giustizia era basata su compensazioni e risarcimenti economici, non
sul taglio delle mani, la legge del taglione.
Lo storico Louis Godart (1945), nel risvolto di copertina di un suo
recente testo “La libertà fragile” (2012), annota: “Intorno al 2110 a.C.
– 4122 anni fa - il re mesopotanico Ur-Nammu proclama un sistema
di leggi che sancisce i diritti dei membri più deboli della società:
orfani, vedove e poveri. Tre secoli dopo il sovrano babilonese
Hammurabi (già sopra menzionato), emana un codice in cui viene
riconosciuta agli schiavi e alle donne la personalità giuridica”.
Adesso, chi avrà il coraggio di andarlo a dire a Habermas, a
Bochenforde, ad altri saccentoni dei tempi nostri? A tutti quelli
convinti che tutto il buono e il meglio lo ha portano Cristo, quello che
non è mai venuto? Andiamo avanti a leggere nel risvolto: “Nel 1222 era volgare - il primo imperatore del Mali (Africa), Sundjata Keita,
proclama ‘ai quatto angoli del mondo’ l’abolizione della schiavitù e il
rispetto dei valori inalienabili della vita umana, della libertà
individuale, della giustizia e della solidarietà”. Questa annotazione fa
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riferimento alla “Charte du Manden”, dal nome della regione che
comprende l’attuale Guinea settentrionale e il Mali africano.
Gli storici, anche di diverse correnti filosofiche, concordano nel
ritenere questo testo la prima dichiarazione dei diritti dell’uomo: anno
1222. Se non ché, dopo la scoperta delle Americhe – anno 1492 - i
cattolicissimi colonizzatori, e tutti provenienti da nazioni della
cristianità europea, hanno deportato in schiavitù circa 10 milioni di
africani, uomini, donne, bambini, intere famiglie. Il golfo di Guinea è
stato battezzato “golfo degli schivi”, e Nelson Mandela (1918),
incarcerato per 23 anni nel Sud Africa, può ancora testimoniare
l’apartheid decretata dai colonizzatori cristiani, finita pochi anni fa.
Non mi risulta invece che altri popoli, per dire cinesi confuciani o
taolisti, indiani induisti o buddisti abbiano colonizzato delle regioni
della Terra e schiavizzati dei popoli. Già, ma loro non credono di
essere stati creati e fatti “a immagini di Dio”, né di essere destinati a
“soggiogare la Terra”; loro non credono che un uomo possa essere un
Dio, o suo Figlio, il quale prima di risalire in cielo ci avrebbe dato
l’ordine missionario di convertire tutte le genti (Mt. 28,18-20). Noi
cristiani ci crediamo figli del Padre nostro che sta nei Cieli, tutti
fratelli e sorelle in Cristo, e però la Chiesa cattolica, che avrebbe
dovuto ispirarsi al messaggio evangelico – “ama il prossimo tuo come
te stesso” - ha impiegato ben 743 anni prima di ammettere, soltanto
sul finire del 1965, con la dichiarazione “Dignitatis humanae” (7
dicembre 1965), quanto nel 1222 aveva già proclamato l’africano
imperatore del Mali e della Guinea: la libertà di coscienza e di
religione, la dignità della persona umana. Lascio a ciascuno di voi di
riflettere sulle dis-umanità introdotte dal cristianesimo, quelle che più
aventi mi permetterò di elencare.
Quando gli antichi sacerdoti d’Israele, esuli o di ritorno da Babilonia
sono andati a comporre il loro secondo racconto di creazione, verso il
500 dell’era antica, l’umanità conosceva quello che il filosofo Karl
Jaspers (1883-1969), ha definito il “periodo assiale”, per dire l’asse
portante o lo spartiacque nella storia dell’umanità, là dove si
sarebbero concentrati i personaggi più incisivi per le culture del
mondo allora conosciuto. In Cina con Confucio e Lao-tse; in India con
Buddha e le Upanishad; in Persia con Zarathustra e il dualismo tra
bene e male, infine in Grecia, nel 500 ha avuto inizio il pensiero
filosofico, con Eraclito, Parmenide, Socrate, Platone e Aristotele. Lo
storico greco Tucidide (460 – 404 evo antico), ne “La guerra del
Peloponneso”, al capo 37 ha lasciato scritto il discorso di ‘Pericle agli
Ateniesi’ dell’anno 461, che costituisce un mirabile esempio di senso
della libertà e della democrazia a quel tempo già raggiunto dai greci.
Per la verità era un governo riservato a pochi, quindi una oligarchia,
perché allora la società poggiava sul lavoro riservato agli schiavi, di
sicuro però trattati, nutriti e alloggiati meglio di molti raccoglitori di
pomodori nelle campagne meridionali nei tempi nostri.
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Secoli dopo lo storico romano Tito Livio (59 – 17 evo antico), ci ha
tramandato il famoso apologo del console Menenio Agrippa, dato nel
493 (prima di Cristo), di quando la plebe romana si sarebbe ritirata
sul Monte Sacro rifiutandosi di lavorare per mantenere i patrizi. Ecco,
secondo voi, che idea, quale concezione dovevano avere di loro quei
plebei, della loro umana dignità, tanto da farla valere al pari dei
patrizi? Eppure non mi risulta che gli ateniesi e i romani di quei tempi
avessero fede di essere fatti ad immagine e somiglianza di Dio.
Pressappoco nello stesso tempo, nel 485 o 492 prima di Cristo nasce a
Abdera, in Tracia (Asia minore), un sofista di nome Protagora, il quale
ha osato affermare che “l’uomo è misura di tutte le cose”. Tanto per
farci intendere che siamo noi e prendere le misure, sempre noi a dare
nome alle cose, anche a quelle più astratte, o metafisiche, quali verità,
libertà, amore, ecc. ecc. E però con quella “misura” intendeva metterci
in guardia dall’andare fuori misura, appunto dalla dis-misura, fatto
consapevole dei nostri limiti. Dunque, già a quei tempi si sapeva che
l’uomo e la donna, gli esseri umani, con la loro mente e il sentire del
loro cuore, con le loro facoltà di intendere e di volere, di intuire, di
riflettere, di ragionare e computare sono la sola e unica fonte di
conoscenza, il fondamento dell’etica e della morale, del bene e del
male, del vero e del falso, del giusto e dell’ingiusto.
E però ciascuno secondo le sue misure, sempre limitate e soggettive,
anche se tutte poggiate su un fondo comune di umanità. Perché
Protagora mette in luce anche il valore della diversità e della
necessaria compressione reciproca, giacché il suo merito è quello di
aver fatto intendere le ragioni dell’altro. Grazie alla sofistica, in
Grecia, 450 anni prima di Cristo, “l’uomo balza al primo posto: esso
viene considerato non più come un pezzo della natura o dell’essere,
ma nei suoi caratteri specifici; sicché, se la prima fase della filosofia
greca era stata prevalentemente ‘cosmologica’ (le cose materiali del
cosmo), o ‘ontologica’ (dell’ente e dell’essere metafisico), con i Sofisti
si inizia una fase antropologica”: discorso sull’uomo. In “Storia della
filosofia” del 1966 (pag. 90), di Nicola Abbagnano (1901-1990).
Ripeto: adesso, chi avrà il coraggio di andarlo a dire a Habermas, a
Bochenforde, ma anche a Ratzinger, a Ravasi, ad altri saccentoni
nostrani?
Ancora in Grecia, con Zenone da Cizio (333-263 a.C.), si perviene alla
filosofia stoica, che trasferita in seguito a Roma è stata fatta propria
dal commediografo Publio Terenzio Afro (185-159 a.C.), cui dobbiamo
il concetto di “humanitas”, che ha ripreso il termine greco
“filantropia” – amore per l’uomo - ma anche di “benevolenza”, il ben
volere, praticando le virtù e la pietas. Di questo commediografo
romano, vissuto 150 anni prima di Cristo è noto il suo aforisma: “sono
un uomo, e niente di ciò che è umano considero estraneo a me”
(Homo sum: humani nihil a me alienum puto), per far intendere
l’umana solidarietà che ci deve tutti accomunare. E noto a tutti che
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nell’antica Grecia si poneva grande cura per l’educazione dei giovani –
la paideia – poi rispesa a diffusa in tutto l’impero romano, giacché
molto, se non tutto dipende da una buona educazione impartita fin
dalle prime età, oltre che dai comportamenti esemplari praticati dai
genitori e nella società.
Ecco, adesso vi sarei grato se a fronte di questi antichi concetti e
impegni virtuosi, a quel tempo già praticati da molte persone di buona
volontà, voi poneste mente alla disumana indifferenza, allo smaccato
egoismo menefreghista dei giorni nostri, e questo dopo quasi venti
secoli di cultura e di tradizioni cristiane, di carità cristiana. Non di
tutti, ben inteso, ma questa è la dominante sulle terre volte al
tramonto, là dove – ripeto – sta calando la notte.
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