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Corte europea dei diritti dell’uomo
Sentenza 29 giugno 2004
Sahin c. Turchia
(omissis)
II. Sulla dedotta violazione dell’art. 9 della Convenzione
64. La ricorrente sostiene che il divieto di portare il velo islamico negli istituti di
insegnamento superiore costituisce una violazione ingiustificata del suo diritto alla libertà di
religione, e segnatamente della libertà di manifestare la propria religione. La ricorrente invoca
l’art. 9 della Convenzione, che così recita: «l. Ogni persona ha diritto alla libertà di
pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o
credo e la libertà di manifestare la propria religione o credo individualmente o
collettivamente, sia in pubblico che in privato, mediante il culto, l'insegnamento, le
pratiche e l'osservanza dei riti. 2. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio
credo può essere oggetto di quelle sole restrizioni che, stabilite per legge, costituiscono
misure necessarie in una società democratica, per la protezione dell'ordine pubblico, della
salute, della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui».
65. - II Governo nega che si sia verificata una tale violazione. A suo avviso, non si è avuta
alcuna ingerenza nel diritto della ricorrente ad esercitare la libertà di religione. Se anche
così fosse, il Governo sostiene che tale ingerenza sarebbe giustificata alla luce del par. 2
dell'art. 9 della Convenzione. 66. La Corte ricorda che la libertà di pensiero, di coscienza e
di religione, prevista dall'art. 9, rappresenta uno dei fondamenti di una «società
democratica» nel senso indicato dalla Convenzione. Questa libertà risulta, nella sua
dimensione religiosa, tra gli elementi essenziali dell'identità dei credenti e della loro
concezione della vita, costituendo anche un bene prezioso per gli atei, gli agnostici, gli
scettici o gli indifferenti. E’ in gioco il pluralismo - conquistato a caro prezzo nel corso
dei secoli - che non può essere dissociato da una tale società. Tale libertà implica, in
particolare, aderire o meno ad una religione, praticarla o non praticarla (tra le altre,
Kokkinakis c. Grecia, sentenza 25 maggio 1993 [... ]; Buscarini e altri c. San Marino, n.
24645/94, § 34). Se la libertà di religione concerne in primo luogo il foro interiore, essa
implica anche la libertà di manifestare la propria religione individualmente e privatamente,
collettivamente e in pubblico, e insieme a coloro che condividono la stessa fede. L’art. 9
enuclea molteplici delle forme che può assumere la manifestazione di una religione o di una
convinzione, cioè il culto, l'insegnamento, le pratiche e la celebrazione dei riti ( cfr. Cháare
Shalom Ve Tsedek c. Francia, n. 27417/95, § 73,). L'art. 9 non protegge tuttavia qualsiasi atto
motivato o ispirato da una religione o da una convinzione né garantisce sempre il diritto di
comportarsi in ambito pubblico nel modo dettato dalla propria convinzione (v. Kalaç c.
Turchia, sentenza 1° luglio 1997, § 27; Arrowsmith c. Regno unito, n. 7050/75, decisione
della Commissione del 12 ottobre 1978, e C. c. Regno unito, n. 10358/83, decisione della
Commissione del 15 dicembre 1983).
67. La Corte deve valutare se c'è stata ingerenza nel diritto della ricorrente, ex art. 9 e, in caso
affermativo, se questa ingerenza è «stabilita per legge», persegua uno scopo legittimo e
«risulti necessaria in una società democratica» ai sensi dell'art. 9, par. 2, della Convenzione.
A. Sull'esistenza di un'ingerenza
68. La ricorrente dichiara che il suo abbigliamento deve essere considerato come osservanza
di una regola religiosa, da considerarsi come una «pratica riconosciuta». Essa sostiene che la
restrizione in questione e la sua conseguente esclusione dall'Università di Istanbul
costituiscono una ingerenza della sua libertà di manifestare la propria religione. 69. II
Governo contesta questa tesi e sostiene che il regolamento dell’Università si basa sia sulle
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regole del diritto interno, in materia di abbigliamento degli studenti, sia sui principi del diritto
internazionale. Si fa notare che l'art. 9 della Convenzione non conferisce il diritto di invocare
le proprie convinzioni per evitare di sottomettersi ad una legislazione di cui la Convenzione
prevede l'applicazione e che si applica in modo generale e neutrale nel settore pubblico.
70. La Corte rileva innanzitutto che, secondo gli elementi raccolti, la ricorrente non è stata in
alcun modo oggetto di una procedura disciplinare che ha condotto alla sua esclusione definitiva in ragione del non rispetto delle regole relative all'abbigliamento. E' da osservare, del
pari, che essa non si lamenta delle sanzioni disciplinari che le sono state inflitte, le quali sono
state in seguito annullate il 28 giugno 2000 [...]. L'oggetto della presente richiesta riguarda
dunque unicamente un provvedimento generale, cioè la circolare del 23 febbraio 1998,
adottata dall'Università di Istanbul, e la sua applicazione nel caso di specie. 71. La ricorrente
ha sostenuto che, indossando un velo, essa obbedisce ad un precetto religioso e, per ciò stesso,
manifesta il suo desiderio di conformarsi rigorosamente agli obblighi della religione
musulmana. Di conseguenza considerando che l’indossare il velo è un atto motivato o ispirato
dalla religione o da una convinzione religiosa e, senza pronunciarsi sulla questione di sapere
se questo atto, in ogni caso, costituisca l'adempimento di un dovere religioso, la Corte parte
dalla considerazione che il regolamento in questione, che sottopone il portare il velo a restrizioni di luogo e di forma nelle Università, rappresenta un'ingerenza nell'esercizio da parte
della ricorrente della libertà di manifestare la propria religione.
B. «Stabilita per legge»
75. Nella specie, la Corte rileva che la circolare del 23 febbraio 1998, che vietava l'accesso ai
corsi, agli stages ed ai seminari agli studenti con la barba o velati, costituisce un testo di rango
regolamentare del Rettore dell'Università di Istanbul. Non c'è dubbio che quest'ultimo, in
quanto organo esecutivo dell'Università, disponga di un tale potere nel rispetto del principio di
legalità […]. Secondo la ricorrente, tuttavia, questo testo non è compatibile con il disposto
dell'art. 17 provvisorio della l. n. 2547, nella misura in cui questa disposizione legislativa non
vieta di portare il velo.
76. La Corte deve dunque valutare se l'art. 17 provvisorio della l. n. 2547 possa costituire il
fondamento legale della circolare in questione. Essa ricorda a questo riguardo che spetta in
primo luogo alle autorità nazionali, in particolare alle corti e ai tribunali, interpretare ed
applicare il diritto interno (Kruslin c. Francia, sentenza 24 aprile 1990, § 29). Ora il giudice
amministrativo, per disattendere la censura relativa all'illegalità del testo regolamentare, ha
fatto leva sulla costante giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte costituzionale [...].
77. Peraltro, per quel che concerne l'espressione «stabilita per legge», presente negli artt. 8-11
della Convenzione, la Corte ricorda di aver sempre inteso il termine «legge» nella sua
accezione «materiale» e non «formale»; essa vi ha incluso, di volta in volta, il «diritto
scritto», comprendente tanto i testi di rango infra-legislativo (De Wilde, Ooms et Versyp c.
Belgio, sentenza 18 giugno 1971, § 93) quanto gli atti regolamentari adottati da un ordine
professionale, su delega del legislatore, nel quadro di un potere normativo autonomo (Bartold
c. Germania, sentenza 25 marzo 1985, § 46), ed il «diritto non scritto». La «legge» deve
intendersi come nozione comprendente il testo scritto ed il «diritto elaborato» dai giudici (v.,
tra le altre, Sunday Times c. Regno unito, sentenza 26 aprile 1979 § 47; Kruslin, cit., § 29 in
fine, e Casado Coca c. Spagna, sentenza 24 febbraio 1994, § 43). Il diritto turco considera
quest'ultimo come una fonte del diritto [... ]. In sintesi la «legge» è il testo in vigore così
come lo hanno interpretato le giurisdizioni competenti.
78. Conviene pertanto esaminare la questione sulla base non soltanto del testo dell'art. 17
provvisorio della 1. n. 2547, ma anche del diritto giurisprudenziale. In quest'ottica, la
prevedibilità della legge in questione non pone alcun problema: emerge infatti dalla sentenza
del 9 aprile 1991 della Corte costituzionale che il fatto di autorizzare le studentesse a «coprirsi
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il collo ed i capelli con un velo o un velo per ragioni di convinzione religiosa» nelle
Università è contrario alla Costituzione [... ].
La giurisprudenza della Corte costituzionale, avendo efficacia vincolante [...] ed essendo
accessibile in quanto pubblicata sul Giornale ufficiale il 31 luglio 1991 [...], va intesa a
completamento della lettera dell'art. 17 provvisorio e si fonda sulla sua giurisprudenza
anteriore [... ]. Inoltre, da ormai molti anni, il Consiglio di Stato ha ritenuto che il portare il
velo non fosse compatibile con i principi fondamentali della Repubblica [... ]. 79. Quanto
all'applicazione adottata dall'Università di Istanbul, è fuori dubbio che il portare il velo fosse
disciplinato molto prima che la signora Sahin si iscrivesse all'università. Come testimoniano
la decisione dell’1 giugno 1994 dell'Università di Istanbul e la nota informativa del 1994 del
Rettore di questa Università [. . .], gli studenti, in particolare i frequentanti dei corsi di
medicina, come la ricorrente, erano tenuti a conformarsi alle regole stabilite in materia di abbigliamento. Queste regole facevano chiaramente divieto di indossare una tenuta religiosa, ivi
incluso il velo, nel corso dei seminari di medicina e di scienza applicata. 80. In ordine
all'assenza di applicazione uniforme nelle Università di Bursa e di Istanbul, la Corte considera
che è chiamata ad esaminare un provvedimento generale adottato dall'Università di Istanbul e
la sua applicazione alla luce degli elementi del fascicolo e degli argomenti delle parti, ma che
non può valutare in astratto la pratica dell'una o dell'altra Università. Le è dunque sufficiente,
a questo stadio della sua analisi, determinare se le esigenze che derivano dall'espressione
«stabilita per legge» siano soddisfatte. Il resto degli argomenti si riferisce piuttosto alla
questione della «necessità» dell'ingerenza incriminata, che sarà esaminata partitamente (§
111-113, infra). 81. In queste condizioni, la Corte conclude che l'ingerenza in questione aveva
una base legale nel diritto turco. La legge risulta anche accessibile ed il suo testo presenta una
sufficiente precisione idonea a soddisfare l'esigenza di prevedibilità. In effetti, la ricorrente
poteva prevedere, sin dalla sua iscrizione all'Università, che il portare, da parte delle
studentesse, il velo fosse disciplinato e che, a partire dal 23 febbraio 1998, essa rischiasse di
vedersi rifiutare l'accesso ai corsi se avesse continuato a portare il velo.
C. Scopo legittimo
82. Secondo il Governo, l'ingerenza in questione persegue molteplici scopi legittimi: il
mantenimento dell'ordine pubblico nelle Università, la salvaguardia del principio di laicità e
la protezione dei diritti e delle libertà altrui.
83. La ricorrente ammette che l'ingerenza in questione può apparire compatibile con gli
scopi legittimi enucleati dal par. 2 dell'art. 9 della Convenzione, tenuto conto dell'importanza
della salvaguardia del principio di laicità e della neutralità delle università in Turchia.
84. Con riguardo alle circostanze della causa ed ai sensi delle decisioni delle giurisdizioni
interne, la Corte conclude che il provvedimento incriminato persegue, essenzialmente, gli
scopi legittimi che sono la protezione dei diritti e delle libertà altrui e la protezione
dell'ordine.
D. «Necessaria in una società democratica»
a) La ricorrente
85. - La ricorrente sostiene che l'ingerenza nel suo diritto alla libertà di manifestare la
propria religione, con riguardo al suo oggetto, alla sua natura ed alla sua estensione, risulta
estremamente grave e richiede di essere giustificata da ragioni particolarmente serie. Essa
spiega che è una musulmana praticante, e che porta il velo in ragione del suo credo religioso,
secondo il quale una donna musulmana deve coprirsi la testa ed il collo. Essa non ha né
formulato un'opinione né fatto una dichiarazione o una protesta relativamente ai principi
costituzionali dello Stato turco, ivi incluso il principio di laicità. II modo con cui essa si
conforma ad una prescrizione religiosa non ha carattere ostentativo o rivendicativo e non
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costituisce un atto di pressione, di provocazione o di proselitismo. 86. Peraltro, invocando i
suoi quattro anni di studi all'università di Bursa ed il periodo che si colloca tra il settembre
1997 ed il febbraio 1998, la Sahin sostiene che il Governo non è riuscito a dimostrare che il
fatto che essa indossasse il velo avesse causato un disturbo, un perturbamento o una minaccia
all'ordine pubblico che deve regnare negli istituti di insegnamento superiore. L'interessata
aggiunge che in Turchia non esiste alcun istituto di insegnamento né alcuna Università dove
poter proseguire i suoi studi superiori indossando il velo. 87. La ricorrente afferma che la
società turca - profondamente attaccata al principio di laicità - si dichiara nella sua stragrande
maggioranza contro un regime teocratico e, al contempo, non è contraria al velo. Ai suoi
occhi, il divieto in questione non persegue lo scopo di preservare il carattere neutrale e laico
degli istituti di insegnamento. II velo islamico non costituisce una sfida ai valori repubblicani
o ai diritti altrui e non potrebbe essere considerato in sé come incompatibile con i principi di
laicità e di neutralità dell'insegnamento. Questi due principi non possono essere interpretati in
modo che tutti i simboli religiosi siano vietati negli istituti scolastici. La prassi adottata dai
paesi europei ne fornisce molteplici esempi. 88. Secondo l'interessata, quando rischiano di
emergere tensioni in seno ad una società - una delle conseguenze inevitabili del pluralismo - il
ruolo delle autorità in tali circostanze non consiste nell'eliminare la causa delle tensioni sopprimendo il pluralismo, ma nel vigilare affinché i gruppi concorrenti si tollerino
vicendevolmente. Essa denuncia a questo riguardo una prassi discriminatoria nei confronti
delle donne musulmane. Essa ricorda che il diritto di godere dei diritti garantiti dalla
Convenzione senza essere sottoposti a discriminazione è ugualmente trasgredito quando,
senza giustificazione obiettiva e ragionevole, gli Stati non applicano un trattamento diverso
nei confronti di persone le cui situazioni siano sensibilmente diverse (v. Thlimmenos c.
Grecia, n. 34369197, § 44). A suo avviso, le studentesse musulmane si trovano in una
situazione diversa dagli altri studenti e devono in conseguenza beneficiare di un trattamento
differente. Peraltro, essa sostiene che la restrizione concernente il portare simboli religiosi non
si applica in modo uniforme. Il Governo non ha dedotto alcuna prova che faccia pensare che
gli studenti non musulmani siano stati oggetto di una procedura disciplinare. Del pari, il
portare la kippah da parte degli studenti di confessione ebraica o il crocefisso da parte degli
studenti cristiani, non è vietato. Ai suoi occhi, la lettera del 1° aprile 2002 del consiglio
dell'insegnamento superiore, con la quale si invita le autorità delle Università ad accettare la
richiesta di vacanze presentata dagli studenti di confessione ebraica durante le feste di questa
religione [...] costituisce un esempio dell'applicazione discriminatoria propria della prassi
delle autorità universitarie. 89. La ricorrente ne deduce che il provvedimento in questione non
risponde ad un bisogno sociale imperioso e non è necessario in una società democratica.
b) Il Governo
90. Il Governo fa innanzitutto osservare che la libertà di manifestare la religione non è un
diritto illimitato. Esaminando i casi concreti, le giurisdizioni nazionali o sovranazionali
hanno sempre preso in considerazione il carattere secolare dello Stato in questione, la natura
della pratica religiosa ed i provvedimenti adottati in vista di preservare la neutralità del
servizio pubblico.
91. Il Governo afferma che il principio di laicità è una condizione preliminare di una
democrazia pluralista liberale e che certe condizioni rendono il principio di laicità
particolarmente importante per la Turchia rispetto alle altre democrazie. A suo avviso, il
fatto che la Turchia sia il solo paese musulmano che aderisca ai principi di una democrazia
liberale nel senso dei paesi occidentali si spiega attraverso l'applicazione rigorosa del principio di laicità nel paese. Aggiunge che la protezione dello Stato laico è una condizione sine
qua non dell'applicazione della Convenzione in Turchia. 92. Il Governo analizza anche
l'argomento della ricorrente secondo il quale il velo un dovere imposto dal Corano.
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Innanzitutto, a suo avviso, il dovere religioso e la libertà sono due concetti diversi e
difficilmente conciliabili. La prima nozione richiede, per sua natura, una sottomissione della
persona a regole divine ed immutabili, mentre la libertà presuppone che il massimo delle
facoltà e delle scelte siano lasciate agli individui. Inoltre, sottolinea che, in quanto tale, il
velo presenta per una donna musulmana caratteristiche diverse a seconda dei paesi e dei
regimi. La bandana, che lascia i capelli parzialmente visibili, è portata dalle donne moderne
durante i funerali o dalle donne nelle campagne. II bourqa [il velo integrale che copre
l'insieme del corpo e del viso], indossato dalle donne afgane era un obbligo imposto durante
il periodo dei talebani in virtù della loro interpretazione dell'Islam. Si riscontra anche
l'usanza di portare il tchador o l'abava [velo di colore nero che copre tutto il corpo, dai
capelli alle caviglie] nei paesi arabi o in Iran. È difficile conciliare tutte queste varianti di
abbigliamento derivate dalla stessa regola religiosa con il principio di neutralità
dell'insegnamento pubblico. 93. Il Governo fa valere inoltre che il portare il velo non è
proibito né negli spazi privati né negli spazi comuni. All'esterno degli istituti scolastici, le
allieve lo possono portare. Tuttavia, nel settore dell'insegnamento pubblico, che è
considerato come un servizio pubblico, il principio di laicità, di cui il principio di neutralità
fa parte integrante, deve applicarsi. Il Governo sostiene che, nel contesto della Turchia ed
alla luce dell'argomentazione svolta dalle giurisdizioni turche, è accertato, che il velo è
divenuto un simbolo correntemente sviato dai movimenti fondamentalisti religiosi verso fini
politici e costituisce una minaccia per i diritti delle donne. 94. Secondo il Governo, la
richiesta che consiste nell'ottenere il riconoscimento giuridico dell'autorizzazione a portare il
velo nel quadro del servizio pubblico equivale ad una richiesta di privilegio in favore di una
religione, che conduce di conseguenza al riconoscimento dell’esistenza di molteplici status
giuridici (a seconda della religione che il cittadino professa) considerato dalla Corte come
contrario alla Convenzione (Refah Partisi e altri c. Turchia, nn. 41340198, 42342/98,
41343/98 e 41344/98, § 119). A questo proposito, sottolinea che le disposizioni della sharia
concernenti, tra gli altri, il diritto penale, i supplizi in quanto sanzioni penali e lo status delle
donne non sarebbero in alcun modo compatibili con il principio di laicità e con la
Convenzione. 95. Per ciò che concerne la Sahin, il Governo sottolinea che l'interessata ha
scelto di perseguire studi di medicina, un settore in cui le esigenze di igiene sarebbero
indubitabilmente in contraddizione con un approccio religioso conservatore che imponesse
un comportamento discriminatorio con riguardo a pazienti di sesso maschile. 96.
Nell'udienza del 19 novembre 2002, il Governo ha in particolare sottolineato che le autorità
dell'Università di Istanbul hanno disciplinato in modo preventivo l'accesso degli studenti con
la barba e delle studentesse velate nelle aule universitarie, in seguito a reclami depositati da
altri studenti che denunciavano le pressioni esercitate da studenti membri di movimenti fondamentalisti religiosi. Per far ciò, queste autorità hanno avuto riguardo anche al fatto che,
per il passato, questa Università è stata il teatro di violenti confronti tra diversi gruppi
radicali. Disciplinando la facoltà di portare simboli religiosi, esse miravano a preservare la
neutralità del loro istituto.
2. Valutazione della Corte
a) I principi pertinenti
97. - In una società democratica, dove molteplici religioni coesistono in seno ad una stessa
popolazione, può rivelarsi necessario porre alla libertà di manifestare la propria religione o le
proprie convinzioni limitazioni atte a conciliare gli interessi dei diversi gruppi e ad assicurare
il rispetto delle convinzioni di ciascuno (Kokkinakis, cit., § 33). 98. - La Corte ricorda che,
nelle decisioni Karaduman c. Turchia (n. 16278/90, decisione della commissione del 3
maggio 1993) e Dahlab c. Svizzera, gli organi della Convenzione hanno considerato che, in
una società democratica, lo Stato può limitare l’indossare il velo, se il fatto di portarlo nuoce
all'obiettivo perseguito di protezione dei diritti e delle libertà altrui, dell'ordine e della
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sicurezza pubblica. Nel caso Dahlab precitato, concernente un'insegnante di una classe di
alunni giovanissimi, la Corte ha messo l'accento, in particolare, sul «simbolo esteriore forte»
rappresentato dal portare il velo e si è interrogata sull'effetto di proselitismo che può avere il
portare un tale simbolo dal momento che sembra essere imposto alle donne da una
prescrizione coranica difficilmente conciliabile con il principio di eguaglianza dei sessi. 99.
Del pari, la Corte ricorda di aver sottolineato che il principio di laicità è certamente uno dei
principi fondatori dello Stato turco che s'inquadra nella preminenza del diritto e nel rispetto
dei diritti dell'uomo e della democrazia (Refah Partisi e altri, cit., § 93). In un paese come la
Turchia, dove la grande maggioranza della popolazione aderisce ad una religione precisa,
provvedimenti adottati in seno alle Università allo scopo di impedire a certi movimenti
fondamentalisti religiosi di esercitare una pressione sugli studenti che non praticano la
religione in questione o su quelli che aderiscono ad un'altra possono essere giustificati con
riferimento all'art. 9, par. 2, della Convenzione. In questo contesto, Università laiche possono
disciplinare la manifestazione dei riti e dei simboli di questa religione apportando restrizioni
di luogo e di forma, al fine di assicurare la promiscuità degli studenti di fedi diverse e di
proteggere in tal modo l'ordine pubblico e le fedi altrui (Refah Partisi e altri, cit., § 95). 100.
La Corte ricorda al contempo il ruolo fondamentalmente sussidiario dal meccanismo della
Convenzione. Secondo la sua giurisprudenza costante, le autorità nazionali si trovano in linea
di principio meglio collocate rispetto al giudice internazionale per pronunciarsi sui bisogni e
sui contesti locali (ad esempio, Handyside c. Regno unito, sentenza 7 dicembre 1976, § 48).
Spetta a queste autorità il compito di valutare in primo luogo la «necessità» di una ingerenza,
sia per ciò che attiene al quadro legislativo sia per i provvedimenti concreti di applicazione.
Anche se le suddette autorità beneficiano in questo senso di un certo margine di valutazione,
la loro decisione resta sottoposta al controllo della Corte, che deve verificarne la conformità
con le esigenze della Convenzione (Hatton e altri c. Regno unito, n. 36022/97, § 101). 101.
Per determinare l'ampiezza del margine di valutazione lasciato agli Stati, bisogna tener
presente l'importanza della natura del diritto garantito dalla Convenzione e degli atti sottoposti
a restrizioni, oltre che la loro finalità (Hatton e altri, cit., § 101, e Buckley c. Regno unito,
sentenza 25 settembre 1996, § 76). Quando entrano in gioco questioni riguardanti rapporti tra
Stato e religioni, sulle quali possono ragionevolmente esistere in uno Stato democratico
profonde divergenze, deve accordarsi una importanza particolare al ruolo del legislatore e del
giudice nazionale (v. Cháare Shalom Ve Tsedek, cit., § 84, e Wingrove c. Regno unito,
sentenza 25 novembre 1996, § 58). In questo caso, bisogna aver riguardo al giusto equilibrio
da predisporre tra i diversi interessi in gioco: i diritti e le libertà altrui, la pace civile, gli
imperativi dell'ordine pubblico ed il pluralismo (v. Kokkinakis, cit., § 31, Manoussakis e altri
c. Grecia, sentenza 26 settembre 1996, § 44; Casado Coca, cit. § 55).
102. Un margine di valutazione si impone specialmente quando gli Stati contraenti
disciplinano il portare simboli religiosi negli istituti di insegnamento, ciò in quanto la
disciplina in materia varia da un paese all'altro in funzione delle tradizioni nazionali [... ] e
in quanto i paesi europei non hanno una concezione uniforme delle esigenze afferenti a «la
protezione dei diritti altrui» ed a «l'ordine pubblico» (Wingrove, cit., § 58; Casado Coca,
cit., § 55). Conviene a questo proposito ricordare che il settore dell'insegnamento richiede
per sua natura un potere di disciplina (v. Kjeldsen, Busk Madsen e Pedersen c. Danimarca,
sentenza 7 dicembre 1976, § 53; X. c. Regno unito, n. 8160/78, decisione della commissione
del 12 marzo 1981). Beninteso, ciò non esclude un controllo europeo, tanto più che una tale
disciplina non deve mai comportare violazioni del principio pluralistico, né contrastare con
altri diritti consacrati dalla Convenzione, né sopprimere totalmente la libertà di manifestare
la propria religione o la propria convinzione (v. Caso «Relativo ad alcuni aspetti del regime
linguistico dell’insegnamento in Belgio» c. Belgio, sentenza 23 luglio 1968, § 5, e Yanasik
c. Turchia, n. 14524/89, decisione della commissione del 6 gennaio 1993).
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b) Applicazione di questi principi al caso di specie
103. - Per valutare la «necessità» dell'ingerenza che è rappresentata dal regolamento del 23
febbraio 1998, che sottopone il portare il velo da parte delle studentesse, come la Sahin, a
restrizioni di luogo e di forma all'interno delle aule universitarie, bisogna collocare la
circolare nel suo contesto giuridico e sociale ed esaminarla alla luce delle circostanze del
caso specifico. Tenuto conto dei principi applicabili alla fattispecie, il compito della Corte è
limitato in questo caso a determinare se i motivi sui quali è fondata questa ingerenza fossero
pertinenti e sufficienti e se i provvedimenti adottati a livello nazionale fossero proporzionati
ai fini perseguiti. 104. Giova, innanzitutto, osservare che l'ingerenza in questione era fondata
in particolare su due principi, la laicità e l'eguaglianza, che si rafforzano e si completano
vicendevolmente […]. 105. Nella sentenza del 7 marzo 1989, i giudici costituzionali hanno
ritenuto che la laicità in Turchia costituisca, con altre, la garanzia dei valori democratici e
dei principi di inviolabilità della libertà di religione, nella misura in cui essa riguarda il foro
interiore, e dell'eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge [... ]. Questo principio protegge
gli individui anche dalle pressioni esterne. Secondo questi giudici, peraltro, la libertà di
manifestare la propria religione poteva essere limitata al fine di preservare questi valori e
questi principi. 106. Una tale concezione della laicità pare alla Corte essere rispettosa dei
valori sottostanti alla Convenzione e si constata che la salvaguardia di questo principio può
essere considerata come necessaria alla protezione del sistema democratico in Turchia.
107. La Corte rileva inoltre che il sistema costituzionale turco pone l'accento sulla
protezione dei diritti delle donne [... ]. L'eguaglianza tra i sessi, riconosciuta dalla Corte
europea come uno dei principi essenziali sottostanti alla Convenzione e come un obiettivo
degli Stati membri del Consiglio d'Europa (v., ad esempio, Abdulaziz, Cabales e Balkandali
c. Regno unito, sentenza 28 maggio 1985, § 78; Schuler-Zgraggen c. Svizzera, sentenza 24
giugno 1993, § 67; Burghartz c. Svizzera, sentenza 22 febbraio 1994, § 27; Van Raalte c.
Paesi Bassi, sentenza 21 febbraio 1997, § 39 in fine, e Petrovic c. Austria, sentenza 27
marzo 1998, § 37), è stata considerata anche dalla Corte costituzionale turca come un principio implicitamente contenuto nei valori che ispirano la Costituzione [... ].
108. Inoltre, alla stessa stregua dei giudici costituzionali [...], la Corte ritiene che, quando si
affronta la questione del velo nel contesto turco, non può farsi astrazione dall'impatto che
può avere indossare questo simbolo, presentato o percepito come un obbligo religioso
vincolante, su coloro che non lo sfoggiano. Entrano in gioco, segnatamente, come è già stato
sottolineato (Karaduman, cit., e Refah Partisi e altri, cit., § 95), la protezione dei «diritti e
delle libertà altrui» ed il «mantenimento dell'ordine pubblico» in un paese dove la maggioranza della popolazione, manifestando un attaccamento profondo ai diritti delle donne e
ad un modo di vita laico, aderisce alla religione musulmana. Una limitazione in materia può
dunque apparire come rispondente ad un «bisogno sociale imperioso» che tende a
raggiungere questi due obiettivi, legittimi, tanto più che, come indicano le giurisdizioni
turche [... ], questo simbolo religioso ha acquisito nel corso degli ultimi anni, in Turchia, una
valenza politica. 109. La Corte non perde di vista che esistono in Turchia movimenti politici
estremisti che si sforzano di imporre alla società intera i loro simboli religiosi e la loro
concezione della società, fondata su regole religiose [...]. Essa ricorda di aver già detto che
ogni Stato contraente può, in conformità con le disposizioni della Convenzione, prendere
posizione contro tali movimenti politici in funzione della sua esperienza storica (Refah
Partisi e altri, cit., § 124). Il regolamento in questione si colloca dunque in un tale contesto
e costituisce un provvedimento destinato a raggiungere gli obiettivi legittimi enunciati sopra
ed a proteggere in tal modo il pluralismo in un istituto universitario. 110. Visto il contesto
sopra descritto, è il principio di laicità, come interpretato dalla Corte costituzionale [... ], che
è la considerazione primordiale che ha motivato il divieto di portare simboli religiosi nelle
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università. In un tale contesto, dove i valori del pluralismo, del rispetto dei diritti altrui e, in
particolare, dell'eguaglianza degli uomini e delle donne dinanzi alla legge sono insegnati ed
applicati nella pratica, si può comprendere che le autorità competenti considerino come
contrario a questi valori accettare la pratica di portare simboli religiosi, ivi incluso, come nel
caso di specie, che le studentesse si coprano il capo con un velo nei locali dell'Università.
111. La ricorrente critica l'atteggiamento delle autorità universitarie in occasione
dell'applicazione dei provvedimenti in questione (§ 86-89, supra). La Corte osserva tuttavia
che non é contestato che nelle Università turche gli studenti musulmani praticanti, nei limiti
posti dalle esigenze dell'organizzazione dell'insegnamento pubblico, possano adempiere le
obbligazioni che costituiscono le forme abituali attraverso cui un musulmano pratica la sua
religione. Essa rileva, peraltro, che la decisione del 9 luglio 1998 adottata dall'Università di
Istanbul [... ] pone su un piede di parità, vietandolo all'interno delle aule universitarie, ogni
sorta di abbigliamento che simbolizzi o manifesti una qualunque religione o confessione.
112. Del resto, come é stato sottolineato in precedenza (§ 78), è fuori dubbio che il velo sia
stato considerato come incompatibile con la Costituzione da parte delle giurisdizioni turche
e che il come portarlo fosse regolamentato nelle aule universitarie già da molti anni [... ]. In
considerazione di ciò, se alcune Università hanno applicato più o meno rigidamente le regole in vigore in funzione del contesto e delle particolarità del tipo di formazione proposta,
una tale prassi non può privare i regolamenti della loro giustificazione. Ciò non significa,
tanto meno, che le autorità universitarie abbiano rinunciato al loro potere di
regolamentazione che deriva dalla legge, dalle regole di organizzazione dell'istituzione
universitaria e dalle esigenze della formazione in questione. Del pari, quale che sia la
politica adottata dalle Università in materia, deve rilevarsi che gli atti regolamentari delle
Università che concernono il portare simboli religiosi ed i provvedimenti individuali di
applicazione sono sottoposti al controllo dei giudici amministrativi […]. 113. Peraltro, prima
dell'adozione della circolare del 23 febbraio 1998, il portare il velo da parte di alcune
studentesse aveva già suscitato un lungo dibattito, […]. Quando, nel 1994, questa questione
si è posta, nell'Università di Istanbul, nel quadro delle attività di formazione di medicina, le
autorità universitarie hanno ricordato alle studentesse i principi applicabili in materia [...]. Si
constata che durante tutto il procedimento decisionale, le autorità universitarie hanno cercato
di adattare il loro atteggiamento all'evoluzione del contesto per non chiudere le porte
dell'Università alle studentesse velate dal velo, mantenendo il dialogo con queste e
vigilando sul mantenimento dell'ordine pubblico all'interno del loro istituto. 114. Alla luce
di quanto precede, e tenuto conto del margine di valutazione lasciato agli Stati contraenti la
Corte conclude che il regolamento dell’Università di Istanbul, che sottopone la pratica di
portare il velo a restrizioni, ed i provvedimenti di applicazione ad essa relativi, trovavano
giustificazione nei principi da cui derivano ed sono proporzionati agli obiettivi perseguiti e
sono dunque essere considerati come «necessari in una società democratica». 115. Pertanto,
non si è verificata violazione dell'art. 9 della Convenzione.
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