Il Granello di Sabbia

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Il Granello di Sabbia
Granello di Sabbia n°131 pag. 1 (10 )
Vi preghiamo di diffondere il Granello nella maniera più ampia possibile.
Il Granello di Sabbia
n°131 – venerdì 28 maggio 2004
FATTI
VOSTRI!
Indice degli argomenti
Car* lettore/lettrice del Granello di Sabbia…
1 - Forum sociali nella Germania di Schroeder
Luciana Castellina
Incontro e lavoro comune fra sindacati e movimenti sociali. E' un sogno che da sempre abbiamo perseguito e
che raramente si è realizzato per colpe dell'uno (chiusura conservatrice ) e dell'altro soggetto (estremismo e
ideologismo). Qualcosa, come sappiamo, da Seattle in poi, è invece cambiato in questi ultimi anni.
2 - Attac Francia s’interroga sullo sbocco politico della sua azione
di Caroline Monnot
Quale significato ha la crisi che attraversa Attac Francia, illustrata dalla decisione di alcuni dei suoi membri di
presentare delle liste denominate “100% altermondialistes” allo scrutinio europeo del 13 giugno? (…) Traduzione a cura
di Umberto G.B. Bardella
3 - Chiapas, tra Nafta e migrazione
di Murus
La storia della migrazione messicana verso gli Stati Uniti d’America si puó far iniziare nel 1880, quando due imprese
ferroviarie, la Southern Pacific e la Santa Fé, cominciarono a “importare” dal vicino del Sud forza lavoro a basso costo…
4 - G20. Il loro potere non è il nostro
di Nicola Bullard (Focus on Global South)
L’emersione del G20 come forza in gioco ai negoziati dell’OMC e’ stata uno dei molteplici fattori che hanno contribuito al
collasso dei colloqui alla Quinta Interministeriale Wto, tenutasi a Cancun nello scorso settembre. (…)Traduzione di
Lorraine Buckley
Car* lettore/lettrice del Granello di Sabbia,
ci permettiamo di rivolgerci direttamente a te per
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Il Granello di Sabbia è il settimanale elettronico
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- di ATTAC: propone materiale originale prodotto da
ATTAC Italia e dai suoi aderenti e traduce testi degli
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facendo e che pensi sia importante che questo lavoro
continui, oltre che attraverso la partecipazione attiva di
tanti, anche con un (piccolo) sostegno economico.
Per ATTAC Italia è iniziato il terzo anno di vita: un
anno importante per il suo futuro, per dare forza al suo
ruolo determinante nel Movimento contro il liberismo e
la guerra.
Un anno importante, a cominciare dal fatto che è l'anno
in cui la nostra proposta di legge per la Tassa Tobin
arriva in discussione al Parlamento e l'anno in cui
stiamo lavorando per elaborare una legge a livello
europeo insieme con gli altri ATTAC.
E' anche l'anno in cui si è avviata l'Università di ATTAC:
un passaggio molto importante per la nostra autoeducazione orientata all'azione. Un anno in cui
vogliamo praticare la partecipazione, a partire dai 50
comitati locali esistenti; perché siano protagonisti attivi,
insieme con i gruppi di lavoro tematici, della costruzione
di ATTAC.
Tutto ciò all'interno della rete internazionale di ATTAC
(www.attac.org ), ora presente in più di 40 paesi.
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che pensiamo siano indispensabili e insostituibili.
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differenzia per possibilità economiche da “non c'ho un
euro" per gli studenti e le persone che non
percepiscono un reddito al costo di 10€ a “la crisi non
mi permette di più" (20€), a "un altro mondo è
possibile" (50€), per finire con "la più bella
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1 - Forum sociali
Germania di Schroeder
nella
Luciana Castellina
Incontro e lavoro comune fra sindacati e movimenti
sociali. E' un sogno che da sempre abbiamo
perseguito e che raramente si è realizzato per colpe
dell'uno (chiusura conservatrice ) e dell'altro soggetto
(estremismo
e
ideologismo). Qualcosa,
come
sappiamo, da Seattle in poi, è invece cambiato in
questi ultimi anni. Ma l'Italia - dove a partire dalla
grande manifestazione dei 3 milioni per la difesa
dell'articolo 18 un'intesa si è sviluppata, e si è poi
rinsaldata con il Forum sociale europeo di Firenze - è
restata fino ad oggi una felice eccezione: altrove il
legame è restato minoritario e intermittente. Ebbene
adesso qualcosa di simile si sta invece sviluppando
anche in altri paesi e mi pare un gran salto di qualità
per l'alternativa. Per molte ragioni mi è capitato di
essere uno dei quattro relatori introduttivi alla annuale
conferenza dei Socialist Scholars a New York a metà
marzo, e uno dei due al Perspektiwenkongress tenuto
a Berlino quest'ultimo weekend (15 minuti a
disposizione negli Usa, ben 45 in Germania, le
diversità culturali continuano a contare!). In ambedue i
casi, pur nel quadro
di situazioni politiche
oggettivamente assai differenti, il fatto nuovo era, per
l'appunto, la presenza corposa dei sindacati accanto
alla tradizionale moltitudine di gruppi, quelli che ora
animano in vario modo il processo di Porto Alegre.
Se negli Stati uniti la cosa è importante e tuttavia
non molto significativa dal punto di vista dei riflessi
che può avere sul quadro politico, ben diverso è in
Germania dove i sindacati sono tuttora assai forti e
dove al governo ci sono socialdemocratici e verdi.
Ed è proprio in polemica con questi partiti, e in
particolare con la loro Agenda 2010 (che prevede
l'inesorabile taglio di uno dei più straordinari
welfare del mondo ) che la conferenza (2.000
delegati paganti, due plenarie e 120 workshops) si
è tenuta. In polemica anche con la povera Pds, per
via della sua presenza nel Senato di Berlino, una
città che si ingigantisce a vista d'occhio ed ha
accumulato 53 miliardi di euro di deficit , che ora
tenta di coprire con una sventagliata di tagli alla
spesa sociale. Avere ministri nella città-stato
divenuta capitale aveva segnato per il partito
venuto dall'est uno straordinario salto di status che
ora sta pagando ad un prezzo assai più caro di
quello che pagano i Verdi per ben più gravi
malefatte. Ma i verdi hanno ormai un'altra base
sociale, quella che un tempo aveva il partito
liberale, cui della caduta del welfare importa assai
meno che non ai due partiti qui detti «rossi». Spd e
Pds,
ambedue
ancora
molto «movimento
operaio».
Più che del mondo e della guerra (da cui i tedeschi si
sentono fuori), temi centrali nei nostri raduni, a Berlino
si è parlato proprio di stato sociale, di salari, di
disoccupazione. Qui la socialdemocrazia aveva
strappato conquiste serie e ora, in particolare i
metalmeccanici e l'enorme impiego pubblico , non
ammette di perderlo. E quel che c'è di movimento
(meno che altrove, ma Attac Germania, nata di recente,
cresce ed è la sola rete che coinvolge i più giovani ) fa
propri i temi sociali. A novembre, e poi nuovamente il 4
di aprile, sono scesi in piazza in mezzo milione; e una
simile mobilitazione - con lo slogan Berlin von Unten
(«Berlino dal basso») - ha smosso i vertici sindacali. (E
persino gli Jusos, l'organizzazione giovanile della Spd,
che, sebbene la dimostrazione fosse contro il governo
del suo partito, vi ha aderito).
E' da questa esperienza che è nato il
Perspektivenkongress: «per una altra politica,
perché ce ne può essere un'altra», come ha
recitato il titolo. Preparata da 70 organizzazioni, fra
cui in particolare Attac, la IG Metal, la IG Bau
( edili), Ver.di ( cui fanno capo tutti i lavoratori dei
servizi, da quelli che lavorano nei media ai postini)
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e molte organizzazioni cattoliche ed evangeliste,
si è posta il problema di come superare i confini di
una lotta puramente sociale, di come - in
sostanza - mettere i piedi nella politica. Fino
anche a delineare l'ipotesi di un altro partito della
sinistra, come ad un certo momento aveva fatto
intendere lo stesso leader dei metalmeccanici,
Jurgen Peters (presente al congresso, nel quale
non ha tuttavia ripreso l'idea).
«La questione del partito non deve dividerci - ha
detto incontrando il consenso di tutti Frank
Bsirske nel suo discorso conclusivo -. Il che non
vuol dire non fare politica. Questo congresso ci ha
insegnato che movimenti e sindacato possono
lavorare assieme». «Dobbiamo continuare ad
utilizzare il rapporto con la Spd - ha aggiunto
Horst Schmitthenner, a nome della IG Metal - ma
dobbiamo costruirci una seconda gamba nel
movimento».
Dal Congresso è uscito l'impegno a costruire un
Forum sociale tedesco che ancora non esiste. Si
riuniranno ancora - il 17-18 luglio a Francoforte per discutere come costruire alleanze ovunque,
nei laender e nei comuni.
La Germania, insomma, si sta muovendo. Per
ultima e lentamente, perché in questi due anni la
sua presenza era stata assai fiacca. Ma
dimensioni e tradizioni ne fanno subito un
soggetto essenziale del movimento.
Domenica, alla fine della conferenza, sul grande
viale 17 giugno antistante la Technische
Universitaet dove si era tenuta, il traffico era
bloccato: 20.000 pensionati si erano dati
appuntamento per protestare.
lato delle Alpi, il Forum Sociale Italiano, nato in
occasione del G8 a Genova, non è più in forma
strabiliante. “A livello internazionale, commenta
Gustave Massiah, vicepresidente di Attac Francia, il
movimento ‘alter’ è in una situazione un po’ difficile. Ha
molto avanzato, ma non ha vinto. Si deve confrontare
con domande delicate: come rispondere alla guerra,
all’offensiva neoliberale, alla crescita della barbarie?
Siamo un una nuova fase, che non sappiamo ancora se
corrisponde a un arretramento o a un attimo di respiro
necessario”. In un contributo indirizzato al Consiglio
Scientifico di Attac, Christophe Aguiton evoca “la
scissione di un certo consenso neoliberalista”. “Le élites
si dividono sulle risposte da dare, tra chi continua a
credere alle virtù del neoliberalismo controllato dalle
istituzioni internazionali, coloro che, al seguito dei
neoconservatori USA, spingono verso interventi armati
unilaterali, e chi critica le cose che ha fatto fino a ieri”.
All’improvviso, secondo Aguiton, “non siamo più nella
situazione degli anni 90, quando, di fronte a politici che
applicavano gli stessi orientamenti, la sola risposta era
il rigetto e la protesta, nella strada come nelle urne”. E
aggiunge che “il rischio è ora che il dibattito non si
sposti decisamente a destra”. In Francia, il panorama
politico uscito dalle regionali ha dato nuova forza a
queste domande. “Le ultime elezioni, in Francia come in
Spagna, hanno mostrato un mutamento nei rapporti tra
cittadini e mondo politico: per la prima volta dopo anni,
l’astensione arretra e la politica sembra ritrovare un
senso”, afferma Aguiton. “C’è in Francia un largo
accordo sul fatto che è necessario da una parte
confermare lo scacco della destra – e il movimento
altermondialista ha giocato il suo ruolo nel rigetto da
parte dell’opinione pubblica delle sue basi ideologiche –
impedendo però l’egemonia dell’ala più liberalista del
PS sull’insieme della sinistra” spiega Massiah. E di qui,
per raggiungere questi obiettivi, il problema di “come
fare a contare”.
Fonte: il manifesto
“CHE FARE DI PIU’?”
In realtà, esistono tre posizioni. Ci sono quelli che,
come i promotori delle liste “100% alter”, credono che
sia necessario scendere nell’arena elettorale. Secondo
Bernard Cassen, presidente onorario dell’associazione,
la loro scelta è comprensibile. “Quelli che si sono iscritti
ad Attac cinque anni fa non sono più gli stessi. Ormai,
si pongono la domanda: che cosa si può fare di più?”,
sostiene. Secondo lui, “l’offerta politica antiliberalista
non è proporzionata al sentire politico antiliberalista
della sinistra. Siamo all’interno di un percorso che staan
fa che iniziando”. E giudica che “questa evoluzione è
del tutto normale e apportatrice di benefici”.
Ci sono poi quelli che pensano che gli altermondialisti
possono giocare un ruolo di stimolo all’interno di un
largo raggruppamento di un polo antiliberalista. “Ci
sono già attori politici che operano su tematiche vicine
a quelle dei movimenti sociali e altermondialisti:
2 - Attac Francia s’interroga sullo sbocco
politico della sua azione
di Caroline Monnot
Quale significato ha la crisi che attraversa Attac
Francia, illustrata dalla decisione di alcuni dei suoi
membri di presentare delle liste denominate “100%
altermondialistes” allo scrutinio europeo del 13
giugno?
Molti movimenti storici dell’altermondialismo sembrano
attraversare un periodo di domande. In Gran Bretagna,
il movimento “Globalize resistance” ha conosciuto una
severa crisi interna. In Spagna, il “Movimento per una
resistenza globale” (MRG) si è autodissolto e, dall’altro
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l’estrema sinistra, i Verdi, il PCF, una parte del PS.
Senza dover passare attraverso la costituzione di
cartelli, è necessario radunare le forze per evitare una
dispersione generale”, scrive Aguiton, secondo il quale
“dopo le europee, ci saranno tre anni prima di una
nuova scadenza elettorale. Questo lascerà il tempo
per passi trasparenti”.
Infine, ci sono coloro che credono che la dimensione di
“alter” resti quella di contare dall’esterno, in quanto
contropotere. E parlaano paradosso: come può un
movimento che si è costruito sulla crisi di legittimità
delle istituzioni, che ha sempre affermato – nei suoi
statuti, nelle sua linee- guida e nelle sue pratiche – la
neutralità verso il gioco elettorale, pensare oggi a
investire questo stesso terreno delle istituzioni, non più
solo come gruppo di pressione, ma, per alcuni dei suoi
membri, direttamente, passando per la strada delle
urne?
Nell’attesa, a sinistra, i capilista alle europee si
dimostrano molto critici a proposito delle liste “alter”.
Harlem Désir, numero uno della lista PS in Ile-deFrance, membro del coordinamento Attac al
Parlamento europeo, crede che “queste liste fanno
correre il rischio di ridurre le idee altermondialiste a un
punteggio che tutto indica marginale”. Secondo Alain
Lipietz, capolista dei Verdi nella regione e iscritto ad
Attac sin dalla sua creazione, “questa iniziativa di
qualcuno rischia di colpire a morte l’unità di Attac
Francia. Queste liste avranno un risultato minuscolo.
Esse puntano solo sulle liste di sinistra, nelle quali ci
sono molti membri di Attac”. E assicura: “ La sinistra
plurale era lo sbocco politico degli altermondialisti”.
Fonte: Le Monde, 16 maggio 2004
Traduzione di Umberto G.B. Bardella
3 - Chiapas, tra Nafta e migrazione
di Murus
“Solo da quando la storia si é convertita in storia
mondiale si sono condannati popoli interi, dichiarandoli
come superflui... Le sentenze si proclamano a voce
alta e si mettono sistematicamente in pratica, in modo
tale che nessuno rimanga col dubbio di che destino gli
sia stato riservato: Esodo o Migrazione, Esilio o
Genocidio”,
Hans
Enzensberger,
La
grande
Migrazione , Einaudi, Torino, 1993.
La storia della migrazione messicana verso gli Stati
Uniti d’America si puó far iniziare nel 1880, quando
due imprese ferroviarie, la Southern Pacific e la Santa
Fé, cominciarono a “importare” dal vicino del Sud forza
lavoro a basso costo, in maggioranza indigeni Yaqui,
Cora e O’otam. Fino al 1910 circa 20mila messicani
all’anno venivano reclutati dagli agenti delle compagnie
ferroviarie. Durante la Prima Guerra Mondiale i
lavoratori messicani svolsero un ruolo centrale nello
sviluppo dell’economia statunitense, ma l’usuale
gratitudine del governo Nordamericano non tardó a
presentarsi sotto forma della piú feroce ondata di
violenza xenofobica di cui il popolo messicano sia mai
stato vittima. Mentre i veterani di guerra attaccavano i
lavoratori e le lavoratrici “alieni” nei posti di lavoro,
bruciando le loro case e rubando i loro averi, le imprese
agricole, ferroviarie, e la sempre piú presente industria
automobilistica, continuavano a contrattare i messicani
per un salario da fame, lasciandoli in una situazione di
permanente illegalitá e pericolosa vulnerabilitá di fronte
alle aggressioni.
Da allora l’ambiguità della gestione del fenomeno
migratorio da parte del governo Usa, non é cambiata: la
clandestinitá e l’illegalitá a loro rischio e pericolo sono
la normale condizione che i migranti messicani
affrontano dal primo istante in cui mettono piede sul
territorio degli Stati Uniti.
Il primo gennaio 1994 entra in vigore il Trattato di libero
commercio dell’America del Nord (Nafta, nella sua
dicitura in inglese), un accordo che lega l’economia
canadese,
statunitense
e messicana
attraverso
l’apertura delle frontiere alle merci con l’abolizione di
dazi, la liberalizzazione della circolazione dei capitali e
la forte diminuzione del potere politico degli Statinazione, che di fatto non avranno piú la capacitá di
sindacare le scelte economiche imposte dal trattato. Da
quel momento la contraddizione interna alla politica
migratoria dei due paesi piú ricchi si fa di giorno in
giorno piú stridente.
Uno studio del United States General Accuonting Office
(Gao) del 2001 segnala che, nonostante l’aumento
consistente della spesa per la sicurezza della frontiera
Sud degli Stati, negli ultimi sette anni il flusso migratorio
non sia diminuito; come conseguenza si é registrato un
aumento delle morti nel tratto di frontiera diventato più
invalicabile e pericoloso per chi tenta il suo
attraversamento. Il Centro di ricerca sull’immigrazione
dell’Universitá di Houston, Texas, stima che tra il 1995
ed il 1998, il numero di morti per ipotermia e insolazione
sia aumentato di tre volte rispetto ai livelli degli anni ’80.
Nel 2003, secondo la Commissione di diritti umani del
Senato della Repubblica federale del Messico, sono
avvenuti circa 400 decessi al confine Nord del Messico.
All’inasprimento della politica Nord-americana nei
confronti delle persone che tentano di attraversare il
confine, corrisponde nota una massiccia presenza di
lavoratori e lavoratrici messicane clandestine e non,
che ormai rivestono un ruolo fondamentale per la
prosperitá dell’economia statunitense. D’altronde è
proprio la teoria neoliberista a spiegare che
accelerando e garantendo la mobilitá del capitale e
facilitando l’intervento di quello estero, si ottiene
mobilitá dei lavoratori. Se in questo quadro si aggiunge
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un’area interstatuale di libero commercio, il risultato è
noto: “Quando il sistema politico e quello economico si
interconnettono, le forze lavoro tendono a fluire verso il
paese dove c’é minor stratificazione sociale e dove gli
standard di vita sono piú alti”.
Questa teoria, peró, non ci racconta le terribili
condizioni che spingono i lavoratori messicani ad
abbandonare le proprie case, i propri affetti, le proprie
comunitá per affrontare un pericoloso viaggio verso
quella prosperitá economica che probabilmente non
incontreranno mai come clandestini, destinati a lavori
mal pagati
e
insicuri. Secondo
un’indagine
dell’Associated Press , negli Usa muore un lavoratore
messicano al giorno; erano il 30% dei morti sul lavoro
a metá degli anni ’90, sono diventati l’80% nel 2003.
Gli ufficiali della pubblica sicurezza spiegano il
fenomeno attraverso lo status di illegalità dei lavoratori
messicani, costretti ad accettare qualsiasi tipo di
occupazione ad alto rischio, in totale assenza di
equipaggiamento e formazione adatta. Nel caso di
incidente mortale di un lavoratore clandestino,
l’autorità federale competente ( l’Occupational Safety
and Health Administration) multa il datore di lavoro per
mancato compimento degli standard di sicurezza per
50 dollari. Questo é il prezzo che il governo Usa ritiene
equo per la morte di un non cittadino.
Attualmente sono presenti in territorio statunitense
circa 8,5 milioni di messicani, di cui 5,5 milioni
“regolari” e 3 milioni circa senza permesso di
soggiorno (n un reato penale negli Usa). Si stima che
ogni anno prendano la strada dell’emigrazione circa
610mila messicani in maggioranza sprovvisti della
documentazione necessaria per varcare stabilmente i
confini.
L’importanza e la crescita del fenomeno è ben
rappresentata dal valore delle rimesse dei lavoratori
residenti negli Usa rappresentato nell’economia
messicana, che nel 2002, raggiungevano i 6,75 miliardi
di dollari (sesta fonte d’entrata valutaria per il paese) e
nel gennaio del 2004 si piazzavano al secondo posto,
subito dopo il petrolio, con un valore stimato tra i 9.4
ed i 14 miliardi di dollari.
Intanto, a dieci anni dall’ingresso del Messico nel
mercato globale con il Nafta, il salario minimo
nazionale ha perso il 20% del suo potere d’acquisto e
la classe politica messicana non ha saputo affrontare e
risolvere il problema della mancanza di posti di lavoro,
mentre rimane costante la domanda di mano d’opera
nei settori agricoli, industriali e dei servizi da parte
degli Stati Uniti. Non stupisce, quindi, che il fenomeno
migratorio messicano verso il piú ricco vicino sia in
costante crescita e che 1,3 milioni di famiglie
dipendano direttamente dalle rimesse economiche
provenienti dagli Usa.
Quello che invece sorprende é la mancanza di volontà,
da parte dei due governi interessati, di regolare il
fenomeno. Le autorità chiudono entrambi gli occhi
sulle bande di “polleros ”, contrabbandieri di mano
d’opera, organizzati in una vera impresa transazionale
conosciuta come la Gringo Coyote Company che
gestisce un traffico clandestino di persone del valore di
8 miliardi di dollari l’anno. Se nel 1995 un messicano
che affidava la sua vita nelle mani di un “pollero” per
attraversare la frontiera con gli Stati Uniti pagava tra i
20 e i 30 dollari, oggi con un aumento considerevole del
rischio si arrivano a pagare tra i 1500 e i 2500 dollari. In
sostanza, una massa di denaro ogni giorno si sposta da
un lato all’altro della frontiera, fomentando il traffico
clandestino di lavoratori e la corruzione degli agenti
doganali.
Uno degli Stati dove la Gringo Coyote Company si
impegna maggiormente nei suoi affari é il Chiapas. Nel
municipio di Comalapa, ad esempio, il 24 marzo 2004,
seicento uomini hanno intrapreso “il viaggio della
speranza” verso il Nord, dopo essere stati contattati da
una delle tante “agenzie di viaggio” sorte nel
municipio.“Qui a Comalapa non c’é piú lavoro, in ogni
angolo di strada c’é una cantina, i prezzi del café e del
mais stanno scendendo ed il pinche governo non fa
altro che promettere, non sviluppa l’industria e non si
accorge che da qui partono ogni mese 2400 persone
verso gli Stati Uniti, non si accorge che dipendiamo
economicamente dai soldi che ci inviano da lá”, cosí
spiegava la situazione Joaquín López López , un uomo
che con la sua famiglia ha piú volte tentato di
attraversare la frontiera.
A Comalapa negli ultimi anni hanno aperto 30 casse di
cambio, due banche e altrettanti uffici delle poste; un
chiaro esempio dell’importanza che per questo
municipio ha significato l’emigrazione verso gli Usa.
Non si tratta di un esempio isolato all’interno dello
Stato: nel municipio di Siltepec, zona Sierra, ogni mese
partono 200 persone di un’etá compresa tra i 20 ed i 45
anni e arriva circa un milione di dollari. Nella comunitá
di Las Delicias, nello stesso municipio, non si vedono
piú uomini. Sono rimaste solamente le donne e gli
anziani in attesa dei soldi dal parente d’America. In
tutto, sono circa 90mila i chiapanechi che annualmente
affrontano la difficile scelta di lasciare casa e affetti per
cercare fortuna oltre il confine, a fronte di 380 milioni di
dollari l’anno di rimesse (pari al 4.5% del Pil dello
Stato).
Per meglio comprendere le ragioni di questo, ci si deve
soffermare sulle conseguenze per il mercato del mais
derivate dall’avvio del Nafta nel 1994.
Il Chiapas storicamente ha basato la sua sopravvivenza
sulla coltivazione del campo, la produzione agricola
rappresenta il 45% del Pil. Oltre il 95% dei produttori di
mais, a cui é dedicata la coltivazione del 65% del
terreno chiapaneco, lavorano appezzamenti di terra
inferiori ai 5 ettari. Con l’entrata in vigore del Nafta il
mais
statunitense,
coltivato
intensivamente
e
sovvenzionato, ha invaso la terra della piccola
produzione messicana. Tanto per chiarire, se il
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rendimento medio di produzione di mais negli Usa é di
8/10 tonnellate per ettaro, in Messico oscilla tra 2 e 5,
mentre in Chiapas tra 1 e 3. Inoltre, grazie ad una
legge promulgata nel 2002, gli Stati Uniti concedono a
ogni agricoltore 52,30 dollari al giorno come sussidio
alla produzione (1,8 dollari al giornoin Messico). La
differenza ricade moltiplicata sul prezzo di vendita.
Così, mentre la produzione di mais messicano costa
181,9 dollari la tonnellata, il prezzo sul mercato
internazionale é sceso a 123,18 dollari. Per le
multinazionali ci sta pure il costo del trasporto. E infatti
é esattamente quello che fanno.
I piccoli contadini messicani e chiapanechi, trovandosi
schiacciati da questa concorrenza sleale, sono
costretti ad abbandonare il campo e cercare fortuna
altrove. Il lavoro che per millenni ha dato da mangiare
agli abitanti di questa regione rischia di scomparire
insieme a migliaia di uomini ogni anno.
Il Chiapas é uno degli Stati messicani dove é piú forte
il morso della politica liberista, dove le risorse naturali,
abbondanti nel territorio, sono facile preda di grandi
aziende, ma è anche il luogo dove la resistenza
quotidiana dei popoli indigeni si erge come una diga
contro l’invasione dell’omologazione targata Coca
Cola. In questo scenario di colonialismo, di sofferenza
e di lotta si dilaga il fenomeno migratorio, che impone
l’esilio e abbandona l’esule allo sfruttamento e alla
criminalizzazione.
Dopo l’11 Settembre, la situazione è ulteriormente
peggiorata. Gli Stati Uniti hanno inasprito la loro
politica nei confronti dello straniero trasformandolo in
un potenziale “terrorista”. La paura diffusa a piene
mani permette e giustifica il comportamento congiunto
del governo e delle grandi multinazionali che, in nome
di una sicurezza nazionale sempre piú indefinita e
sempre piú richiamata nei discorsi ufficiali e televisivi,
mantengono illegale la condizione del migrante. Per lui
non ci sono diritti come cittadino e come lavoratore. Il
tutto costa meno a vantaggio, soprattutto, ancora un
volta delle imprese nordamericane e del suo settore
agricolo.
Parallelamete a questo circolo vizioso che imprigiona
come in una ragnatela l’indio messicano, incontriamo
un nuovo modello che sorge dalla stessa terra
chiapaneca: il movimento zapatista. Solidarietá e
tradizione indigena per rispondere alle minaccia
mortale del liberismo con un progetto d’autonomia
comunitaria che risulta essere la possibile alternativa
di regole e di vita. In un’epoca storica dove l’imposta
omogeneitá
culturale
si
trasforma
facilmente
nell’appropriazione violenta o nel genocidio dei saperi
diversi, l’orizzonte disegnato dagli indigeni del Chiapas
sembra essere la sola risposta per la sopravvivenza e
per il riscatto di questo popolo che, anche a causa
dell’acuirsi del fenomeno migratorio, continua a subire
la politica colonizzatrice delle grandi potenze mondiali.
* Murus è il nome in lingua tzotzil di Carlo Calabrò,
fondatore di Attac Italia ora residente in Chapas.
4 - G20. Il loro potere non è il nostro
di Nicola Bullard (Focus on Global South)
L’emersione del G20 come forza in gioco ai negoziati
dell’OMC e’ stata uno dei molteplici fattori che hanno
contribuito al collasso dei colloqui alla Quinta
Interministeriale Wto, tenutasi a Cancun nello scorso
settembre. Il G20 – il nome richiama la data della sua
fondazione nell’agosto dell’anno passato – e’
capeggiato da quattro tra le piu’ significative economie
dei paesi in via di sviluppo: India, Brasile, Cina e
Sudafrica. Alcuni commentatori, per sottolineare il
predominio di queste nazioni, si riferiscono al gruppo in
termini del ‘G4 Piu’’. Negli scorsi mesi il numero dei
componenti del gruppo ha fluttuato, alcuni dei membri
minori avendo ceduto alle pressioni degli Stati Uniti per
farglielo abbandonare.
Gli attuali componenti del G20 sono Argentina, Bolivia,
Brasile, Cile, Cina, Colombia, Costa Rica, Cuba,
Ecuador, Egitto, El Salvador, Filippine, Guatemala,
India, Messico, Pakistan , Paraguay, Peru’, Sudafrica,
Tailandia e Venezuela.
Informalmente, la missione brasiliana di Ginevra dice
che l’attuale gruppo conta 22 membri. La Nigeria e
l’Indonesia sono entrate, El Salvador si e’ ritirato.
Queste informazioni erano corrette al 22 settembre
2003 e una ricerca sulla Rete non ha trovato elenchi
piu’ aggiornati.
La posizione negoziale del G20 era – ed e’ ancora –
chiara: richiedono l’apertura dei mercati del Nord ai
loro prodotti agricoli, la fine delle sovvenzioni alle
esportazioni agricole dei paesi ricchi e l’eliminazione
dei sussidi interni che di fatto non sono altro che sussidi
alle esportazioni. (v. successivo articolo di Hugueney
per ulteriori particolari sulla posizione del G20). A
Cancun, l’UE e gli USA hanno dimostrato scarso
interesse ad accogliere le richieste del G20 e, in ogni
caso, i colloqui sono terminati prima dei negoziati
sostanziali sulla bozza dell’accordo sull’agricoltura, per
cui l’equilibrio delle forze non e’ stato messo alla prova.
A seguito dei colloqui interministeriali, l’UE e gli USA
hanno tacciato il G20 di intransigenza, mentre altri
vedevano la creazione di un terzo polo di
contrapposizione agli USA e all’UE come l’alba di una
nuova era nei negoziati OMC (o anche nelle relazioni
nord-sud)
Le critiche dell’UE e degli USA non sono tuttavia
rimaste isolate.
La federazione internazionale dei
contadini Via Campesina, per esempio, ha interpretato
la posizione del G20 come un tentativo appena
dissimulato di promuovere gli interessi degli agroesportatori e dell’agri-business, con scarsa attenzione
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alle conseguenze che avrebbe per i produttori
contadini. Questo punto di vista e’ emerso durante la
stesura della bozza di denuncia da parte delle ONG
contro le tattiche sporche degli USA e dell’UE nei loro
tentativi di dividere la coalizione G20 dopo Cancun. La
Via Campesina ha deciso di non appoggiare la
denuncia, sostenendo che mentre il G20 poteva
dimostrarsi un efficace ostacolo a breve ai negoziati,
qualora le loro richieste di ulteriori liberalizzazioni in
campo agricolo venissero accolte, cio’ non farebbe che
accentuare la crisi dei contadini e dei piccoli produttori.
E’ stato un momento difficile: per molti, il G20 meritava
sostegno per il solo fatto di esistere, per il ruolo che
avrebbe potuto svolgere nello spostare il bilancio di
potere all’interno dell’OMC, anche se le loro posizioni
negoziali erano ben lunghe dal pretendere una
trasformazione dell’Accordo sull’Agricoltura (AOA), per
non parlare nemmeno del completo ritiro dell’OMC dal
campo dell’agricoltura.
IL DIBATTITO G20 AL FORUM SOCIALE MONDIALE
In questo contesto, Focus on the Global South ha
invitato delegati G20 da Brasile, India e Sudafrica ad
un dibattito , al Forum Sociale Mondiale di quest’anno
a Mumbai, con Via Campesina, Africa Trade Network
(rete africana per il commercio ), Focus on the Global
South, la confederazione sindacale brasiliana CUT e la
Economics Research Foundation (Fondazione per la
Ricerca Economica) di Delhi. Il titolo del dibattito: ‘G20:
Fenomeno sociale passeggero o duraturo ? Lo scopo
era semplice: arrivare ad una maggiore comprensione
della direzione intrapresa dal G20, per capire se ci
sono spazi perche’ il gruppo adotti un’agenda piu’
ampia e piu’ radicale che rifletta le istanze di
movimenti sociali, sindacati e contadini.
Il Ministero brasiliano degli Affari Esteri – Itamaraty –
incarico’
l’ambasciatore
Clodoaldo
Hugueney,
responsabile del coordinamento degli addetti di alto
livello del G20, delegato ad esprimere la posizione
ufficiale del governo brasiliano. Il portavoce indiano era
Shri S.N. Menon, segretario speciale del Ministero del
Commercio e dell’Industria. Alla fine il Sudafrica non
ha inviato delegati.
Nell’attesa che cominciasse il dibattito, l’ambasciatore
Hugueney
dichiaro’ scherzosamente
di voler
‘abbassare’ le nostre aspettative nei confronti del G20.
Ribattemmo scherzosamente che qualcuno aveva gia’
delle aspettative molto basse e che magari lui avrebbe
dovuto elevarle !
Alla conclusione, le nostre aspettative sono state
decisamente abbassate (o confermate, a seconda
della posizione di partenza dell’individuo), perche’
Hugueney ha ribadito piu’ volte che l’agenda del G20
all’interno dell’OMC e’ ristretta – accesso ai mercati e
la fine dei sussidi all’esportazione – e che qualsiasi
tentativo di allargare l’agenda del gruppo avrebbe
portato al suo collasso.
La presentazione dell’Ambasciatore Hugueney e’
pubblicata di seguito a questo mio articolo. Al suo
interno, definisce chiaramente gli scopi ed i limiti del
G20, benche’ non abbia spiegato ne’ nella
presentazione ne’ nel corso del dibattito come
intendano far quadrare il cerchio di proteggere i piccoli
coltivatori e nel contempo promuovere l’agricoltura per
l’esportazione. Non si parla di protezione dei mercati,
ne’ del calmierare i prezzi dei generi di prima
necessita’, ne’ di come gestire le concessioni che
inevitabilmente gli Stati Uniti e l’Unione Europea
pretenderanno in cambio di qualsiasi futura loro
concessione in termini di accesso ai mercati o
eliminazione di sussidi interni o alle esportazioni.
E’ questo il nocciolo del dilemma: riuscira’ il G20 a
liberalizzare e a proteggere contemporaneamente? E’
chiaro che risolvere questo genere di paradosso e’
pane quotidiano per l’UE e gli USA, come ampiamente
dimostrato dalle recenti concessioni USA all’industria
dello zucchero nell’ambito degli accordi di libero
scambio USA-Australia e CAFTA, ma e’ tutt’altra
questione aspettarsi che le grandi potenze commerciali
permettano ai loro concorrenti di giocare alle medesime
condizioni.
LA
STRATEGIA
DENTRO-FUORI,
VISTA
DALL’INTERNO
Sia Hugueney che Menon vivono ‘dentro la gabbia’ ed il
loro approccio e’ quello di assecondare il gioco politico
con proposte tecniche adeguate.
Come ha detto
Hugueney, ‘il giusto ruolo della societa’ civile e’ quello
di deragliare l’OMC. Il nostro e’ di lavorare al suo
interno per vedere se l’OMC non possa giocare un
ruolo costruttivo nello sviluppo’. Nel corso del dibattito,
ha posto molta enfasi sull’importanza delle forze
‘esterne’ nel dar forma ai dibattiti all’interno dell’OMC e
ha dichiarato che il G20 non sarebbe riuscito a ‘stare
uniti’ a Cancun se non fosse stato cosi’ ben accolto.
Menon crede che il G20 sia destinato a durare, e la
sfida che devono affrontare e’ quella di rimanere
‘compatti, concentrati e fedeli’ mentre espandono il
gruppo per comprendere i paesi meno sviluppati (LDC
– PMS). Sia Menon che Hugueney hanno delineato le
caratteristiche di base del G20; tutti i paesi sono del
Sud, 12 fanno parte del Gruppo Cairns, ma al contrario
di quell’alleanza, che effettua lobbying solamente a
favore della piena liberalizzazione, la maggioranza dei
paesi componenti il G20 conta grandi settori della
propria popolazione che dipendono dall’agricoltura di
sussistenza o su piccola scala e definiscono la loro
posizione un punto di equilibrio tra la liberalizzazione e
lo sviluppo.
Hugueney si dichiara convinto che il G20 possa rendere
Doha un ‘Round di Sviluppo’ e ha descritto il loro
approccio quale ‘il combinare i benefici della
liberalizzazione del commercio con la risoluzione dei
problemi della fame, dei senza terra e della
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disoccupazione’.
Questo,
evidentemente,
e’
esattamente l’approccio che il Presidente brasiliano
Lula Ignacio de Silva (Lula) ha adottato durante il
primo anno del suo mandato, fornendo sostanziose
prove che il G20 viene diretto da Brasilia. Se potra’
funzionare la ‘strategia Lula’ – in Brasile o altrove –
rimane da vedere. (Per ulteriori informazioni su questo
punto, vedi la successiva intervista con Joao Pedro
Stedile del movimento dei Sem Terra).
LA STRATEGIA BRASILIANA
Al congresso della confederazione sindacale brasiliano
CUT nel giugno dello scorso anno, il Presidente del
Partito dei Lavoratori, Jose Genoino ed il Ministro
responsabile del ‘dialogo sociale’, Luiz Dulci, hanno
spiegato la politica economica del governo Lula agli
ospiti stranieri. Nonostante i copiosi riferimenti alla
giustizia, la poverta’ e l’equita’, dopo due ore di
discorso era chiaro che il messaggio finale e’ quello di
‘accontentare i mercati’. Il successo di una politica
economica viene misurata in termini di rendimento
delle obbligazioni, tassi d’interesse ed un Real forte, e
viene formulata con intenti ‘stabilizzatori’ (cioe’, tenere
tranquilli gli investitori ). Eppure dopo un anno di
stabilizzazione in terapia intensiva, la crescita
economica del Brasile e’ stata di appena l’l%,
decisamente meno del 5% che Dulci aveva dichiarato
necessario: un ritorno assai magro in cambio di una
capitolazione cosi’ massiccia ai mercati.
In considerazione del proprio pesantissimo debito
estero e l’apparente politica di pacificazione dei
finanzieri, il Brasile deve cercare di accrescere i propri
guadagni sul mercato dei cambi. Inoltre, il 50% del PIL
e dei posti di lavoro in Brasile dipendono dal settore
esportazioni, da cui derivano gli sforzi intensi del
Brasile nell’ultimo anno per stabilire e diversificare le
proprie relazioni commerciali, soprattutto in termini di
commercio Sud- Sud. Il G20 costituisce una delle
frecce dell’arco brasiliano in questo campo. Inoltre, il
G20 simboleggia la politica estera rivitalizzata del
Brasile, caratterizzata dalla rivendicazione della
propria leadership ed indipendenza (per esempio,
reagire alla pretesa USA di rilevare le impronte digitali
a tutti i brasiliani che entrano negli Stati Uniti
pretendendo altrettanto dai cittadini USA che entrano
in Brasile, o il ruolo del Brasile nel Forum IBSA (India,
Brasile Sudafrica), annunciata ufficialmente a Nuova
Delhi a marzo, che tratta un ampio spettro di questioni
commerciali, politiche,
sullo sviluppo, sulle fonti
energetiche).
(Puo’ darsi che questa coraggiosa
politica estera sia stata formulata per placare le forze
progressiste interne, spazientite dalla lentezza delle
riforme e dalla capitolazione governativa davanti ai
mercati).
Benche’ le politiche commerciali ed estere paiano
coerenti – stimolare la crescita attraverso le
esportazioni, in particolare verso nuovi mercati –
rimane la questione: e’ possibile conciliare l’impegno
economico alla liberalizzazione con l’impegno politico
alla ‘giustizia e la dignita’ per tutti’ ?
Questo stesso dilemma si presenta per ogni
componente del G20, in maniera pesante per gli altri tre
paesi dominanti – India, Cina e Sudafrica, i quali
dovranno affrontare enormi - e potenzialmente
esplosive - pressioni interne a causa dell’aumento
della disoccupazione e della poverta’ rurale.
Basandoci sui risultati degli ultimi 20 anni di neoliberismo, non sembra che sia possibile all’interno della
gabbia neoliberista realizzare il genere di ridistribuzione
massiccia e la rivitalizzazione delle economie locali che
servirebbero per creare posti di lavoro per decine di
milioni di lavoratori disoccupati in citta’ e per assicurare
la sopravvivenza di milioni di piccoli coltivatori. Ma
potrebbe darsi che, attraverso una sapiente miscela del
politico col tecnico, il G20 possa allargare i confini di
quella gabbia. Questo dipendera’ da quanto sostegno
avranno all’interno dell’OMC, e da quante e quali
pressioni subiranno dall’esterno.
LA RELAZIONE AMORE-ODIO TRA L’UE E IL G20
Ora pare che l’UE sia disposta a trattare col G20,
ribaltando i commenti denigratori del commissario al
commercio Pascal Lamy a Cancun, quando si
domandava quanto sarebbe durata quell’alleanza. Il 19
gennaio di quest’anno, in un discorso pronunciato
davanti alla Confederazione dell’Industria Indiana,
Lamy ha fatto frequenti e generosi riferimenti al G20,
riconoscendo l’esistenza di una realta’ che a Cancun si
augurava scomparisse.
L’UE deve affrontare un dilemma nei suoi rapporti col
G20. Sul fronte politico, l’UE ha interesse a formare
un’alleanza forte col G20 per appoggiare il proprio
rapporto verso gli Stati Uniti. Sul fronte commerciale,
pero’, Lamy (nonostante le sue sviolinate diplomatiche)
senz’altro preferirebbe un G20 debole e diviso, che non
rappresenti una vera forza all’interno dell’OMC, che
potrebbe intralciare le ambizioni dell’UE nei campi
industriale, dei servizi e degli investimenti.
Ma l’UE ha ben poco da offrire al G20: i segnali che
arrivano da Bruxelles indicano pochissima flessibilita’
nella politica agricola dell’UE, nonostante indicazioni
che forse potrebbero prendere in considerazione
l’apertura dei propri mercati ad una serie molto limitata
di prodotti non controversi. Per ora, la politica UE e’
limitata dagli imperativi interni di accontentare l’agribusiness europeo e assimilare l’impatto dell’espansione
UE che introdurra’ diversi nuovi paesi membri con
economie agricole e popolazioni rurali rilevanti, che
competeranno anch’essi per l’accesso ai mercati UE.
Per contro, l’UE potrebbe finalmente rivedere le proprie
posizioni sui sussidi alle esportazioni, anche a causa
degli enormi costi che comportano. Una piccola ma
crescente fetta dell’opinione pubblica europea e’
favorevole alla protezione dei piccoli produttori e agli
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aspetti ‘polifunzionali’ dell’agricoltura, e si rende conto
che i sussidi alle esportazioni vanno dritti in tasca ai
grandi, a discapito dei paesi in via di sviluppo. E’
chiaro che qualsiasi cambiamento deve partire dal
PAC (Politica Agricola Comune)
e l’UE dovra’
sopraffare la potente lobby dell’agri-business, ma i
benefici del concretizzare un’alleanza col G20 –
soprattutto
se
comportasse
una
reciproca
liberalizzazione dei servizi, dell’industria e degli
investimenti - ricordatevi del G4 – potrebbero fare si’
che ne valga la pena.
Quindi, volendo azzardare alla grande un’ipotesi: ‘che
succederebbe se’… l’UE ed il G20 , tramite varie
configurazioni di accordi bilaterali con i singoli paesi
G20, oppure attraverso organi regionali per il
commercio quali Mercosur, mettessero su un ‘Accordo
sull’Agricoltura Piu’ (AOA Plus) che servisse da punto
di riferimento per i futuri negoziati AOA ? E quale
significato avrebbe ai fini di un’agenda progressista
che allontani la produzione agricola dalle esportazioni
e si orienti alla sovranita’ alimentare ?
Negli Stati Uniti, sia i Repubblicani che i Democratici
stanno scoprendo che i discorsi protezionistici
riscuotono grande favore col pubblico, perche’
sfruttano l’opinione corrente che decine di migliaia di
posti di lavoro di statunitensi vengono ‘rubati’ dai
lavoratori del Sud dai salari bassissimi. Benche’ Bush
abbia recentemente ribadito il suo impegno verso la
liberalizzazione del commercio e alla globalizzazione,
la vita vissuta (per esempio l’accordo Australia-USA
sul commercio) conferma che il ‘libero commercio’
s’imbatte in un muro di gomma appena le potenti
lobby agricole – soprattutto quelle del Sud (degli Stati
Uniti) – si fanno sentire. Inoltre, la posizione ufficiale
degli Stati Uniti nei negoziati OMC e’ che qualunque
riduzione dei sussidi interni USA debba essere
accompagnata da impegni all’apertura dei mercati da
parte dei piu’ importanti paesi emergenti quali Cina,
Brasile ed India. Ovvero, il G20. Come l’UE, quasi
sicuramente gli USA continuano ad esercitare
pressioni sui singoli paesi perche’ abbandonino il G20,
nella speranza di indebolire la coalizione e qualunque
ostacolo alle proprie ambizioni commerciali.
L’AGENDA G20 AL DI FUORI DELL’OMC
Secondo
l’Ambasciatore
Hugueney,
l’agenda
personale del Brasile e’ a respiro ben piu’ ampio di
quella del G20, e cercheranno di raggiungere gli scopi
sia dentro che fuori dell’OMC. Lula ha suggerito che il
G20 potrebbe negoziare un accordo di libero scambio
al proprio interno, utilizzando il Sistema Generale di
Preferenze Commerciali (GSTP); e l’accordo firmato
tra il Mercosur e l’India nel corso della visita di stato di
cinque giorni di Lula a pochi giorni dal Forum Sociale
Mondiale indica che il G20 continuera’ a rafforzare i
loro collegamenti Sud- Sud.
‘Insieme, l’India ed il Brasile potranno costruire una
grande forza che puo’ cambiare la geografia
commerciale del mondo’, dichiaro’ Lula ai cronisti a
Delhi. Un sistema per dar forma a questa nuova
geografia potrebbe essere l’utilizzo di accordi
commerciali
preferenziali,
pero’
sembrerebbe
contraddittorio rispetto all’impegno dichiarato del G20 al
rafforzamento del multilateralismo.
Anche Pascal Lamy ha un approccio positivo di fronte
alla prospettive di approfondimenti nei rapporti
commerciali Sud- Sud; ha dichiarato alla Camera di
Commercio Indiana (CCI) che questo e’ ‘essenziale per
lo sviluppo’, e ha esortato l’India ad aprire ai mercati ai
paesi meno sviluppati. Forse questo sara’ un sistema
per fare entrare lo ‘sviluppo’ nel round di Doha senza
che l’UE sia costretta ad alcuna rinuncia.
UN’AGENDA PROGRESSISTA PER IL G20 ?
In quale relazione devono quindi porsi i movimenti
progressisti verso il G20 ? Ci sono tre considerazioni
importanti. La prima, che non vi e’ alcuna probabilita’
che il G20 vada oltre la propria posizione minimalista
nell’OMC in relazione all’apertura dei mercati e
l’eliminazione dei sussidi interni/all’esportazione. Se
dovesse prevalere la loro posizione (ed e’ un
grandissimo ‘se’), la logica della produzione di cibo per
l’esportazione, dominata dall’agri-business e dagli agriesportatori si insedierebbe definitivamente nel Sud.
Non appare prossimo un riavvicinamento tra il G20 e/o
l’UE o gli USA, pero’ se cio’ avvenisse, il dibattito
sull’agricoltura rimarrebbe chiuso per moltissimo tempo,
e anche dopo rimarrebbe indifferente alle richieste dei
piccoli agricoltori, che sarebbero senz’altro i perdenti
nella nuova distensione agricola.
Secondo, il G20 sta cercando di ‘combinare i piu’ ampi
interessi dello sviluppo economico e sociale,
particolarmente nelle zone rurali, attraverso la
liberalizzazione del commercio ’. Se cio’ sia possibile
all’interno dell’OMC e’ tutto da dimostrare, ma molti
sono scettici. Inoltre, non c’e’ alcuna indicazione che il
G 20 abbia alcuna idea di come potrebbero raggiungere
questo scopo, perche’ non hanno fatto alcuna proposta
sulle questioni di protezione dei mercati, prezzi dei
generi di prima necessita’, gestione dell’offerta, ecc.
Terzo: ci fidiamo dei governi G20 quali promotori degli
interessi dei popoli ? Dovremmo permettere che l’elite
politica occupi gli spazi che i contadini, i lavoratori, i
popoli indigeni, gli studenti e gli attivisti si sono ritagliati
col loro lavoro e con le loro lotte ? Molti di questi
governi asseriscono di rappresentare gli interessi delle
loro popolazioni piu’ povere ed emarginate, ma se mai
le ascoltassero per davvero, si renderebbero conto
abbastanza presto che l’accesso ai mercati e
l’eliminazione dei sussidi non risolveranno i problemi, e
potrebbero crearne molti di nuovi.
Il G20 ha fatto un buon lavoro nel bloccare i negoziati
di Cancun e rappresenta un importante alleato tattico
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nel tentativo di fermare il consenso, deragliare e
svuotare di potere l’OMC, soprattutto se riescono a
tener fede alla loro posizione di Cancun, cosi’
chiaramente invisa all’UE e agli USA. Pero’, come ha
dichiarato l’Ambasciatore Hugueney, il ruolo della
societa’ civile e’ proprio quello di ‘deragliare l’OMC’ ed
i movimenti progressisti e gli attivisti non devono
lasciarsi intrappolare dalle logiche di negoziati e potere
del G20.
Traduzione di Lorraine Buckley
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