I grandi vecchi: paura della morte e della vita?

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I grandi vecchi: paura della morte e della vita?
4° Corso per Psicologi
I grandi vecchi: paura della morte e della vita?
G Gerontol 2008;56:341-351 Giovedì, 27 novembre 2008
PRIMA SESSIONE
Gli anziani parlano spesso di fine della vita:
angoscia depressiva o esorcismo?
G. Gori
UO Geriatria, ASL 10, Firenze
Quando un soggetto anziano si viene a trovare al confine tra la vita
e la morte spesso sentiamo dire “ha vissuto a lungo” oppure “ha
raggiunto l’età per morire”. Espressioni simili, anche nel linguaggio
della vita quotidiana, sembrano testimoniare che, almeno per il
comune sentire, la morte di una persona anziana sia un evento accettato in modo naturale. D’altra parte nella nostra vita l’immagine
della morte si forma precocemente nell’infanzia: è prevalentemente
quella di un vecchio, per lo più di un nonno, la prima morte che
ci capita di sperimentare come una nuova, inevitabile dimensione
dell’esistenza 1. Anche per gli anziani però la morte in definitiva
resta quella degli altri, l’esperienza esprimibile è quella della morte
oggettiva, la visione di un corpo senza vita, mentre impensabile e
non sperimentabile è la morte soggettiva. La morte è una esperienza
di cui nessuno ha potuto fornire testimonianza diretta, che sfugge
radicalmente al dominio della ragione, ma anche a quello dei sensi.
L’antitesi con la vita la carica di valenze tali da offuscarne la riflessione e l’analisi. Forse è per questo che nei vecchi, che si approssimano inevitabilmente a questo evento, spesso assistiamo a procedure
difensive che suggeriscono come certe espressioni e comportamenti
siano il risultato di uno spostamento in ambiti razionali di un tema
non vissuto facilmente in termini emozionali.
Nei riti funerari spesso i più numerosi partecipanti sono anziani, in
talune occasioni soggetti di età avanzata parlano della morte come
momento di liberazione dagli stenti e dalle limitazioni, la vecchiaia
è l’età in cui la lettura dei necrologi diventa un atto abituale, a
testimonianza di una angoscia sottostante che trova riparo nella
constatazione che la morte è quella degli altri 2. Nella cultura classica ci sono riferimenti alla morte come preferibile alla vecchiaia
(morte magis temuenda senectus, Giovenale): la distanza tra ragione e emozione in prossimità di questo evento consente l’assunzione
difensiva di comportamenti verbali disinvolti sull’argomento. Esprimere a parole un desiderio della fine sta ad indicare che soltanto
una formazione reattiva (cioè la sostituzione di propri sentimenti
inaccettabili con pensieri e stati d’animo diametralmente opposti)
consente di avvicinarsi al tema e di non provare particolari angosce,
come poi valutiamo negli stessi soggetti successivamente quando dal
semplice parlar di morte sono di fronte al morire in realtà. Quindi
anche tra coloro che parlano volentieri della propria morte, che
affermano di non temerla o che addirittura la desiderano, spesso
vi si riferiscono non in termini espliciti, ma con allusioni: “se ne è
andato” o “riposa” o “ha preso il volo”. La morte viene inserita in
una dimensione asettica e irreale di apparente benessere che ha lo
scopo di negare l’angoscia ad essa collegata. Anche l’immagine della
“sorella morte”, “la mano che toccherà la nostra spalla” o di una
“voce amica che dice alzati, è l’ora” sostituisce una immagine quasi
materna ad una terrifica.
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Anche i risultati di alcune ricerche su anziani morenti suggeriscono
che l’angoscia di morte diminuisce con l’età: viene descritta una
diversa elaborazione degli stadi psicologici del morire, illustrati dalla
Kubler-Ross 3, con un più facile superamento della negazione, della
depressione, della rivolta ed un più facile e stabile raggiungimento
della fase di accettazione in confronto a quanto accade nei giovani.
Quindi spesso i vecchi pianificano questo evento e se anche con l’età
tendono a crescere pensieri, espressioni e preparativi nei riguardi
della morte questa non sarebbe fonte di angosce dominanti gli ultimi
anni della vita. Ma Lieberman e Coplan 4 affermano che questo vale
soltanto per quei casi protetti da una particolare stabilità psicologica e sociale. Acquistano particolare valore i legami familiari ed
in primo piano la relazione con i figli ed i nipoti: allora l’angoscia
della fine associata a fantasie di rinascita e di recupero delle proprie
origini rende più facile l’accettazione della morte simbolicamente
assimilata ad un ritorno alla madre 5.
In molti altri casi vediamo che la morte, reale o immaginaria che
sia, può creare vere e proprie manifestazioni psicopatologiche a causa dei vissuti angosciosi ad essa correlati. Il recente interesse che la
psicoanalisi ha rivolto al problema dell’invecchiamento, dopo anni
di scarsa valorizzazione delle dinamiche intrapsichiche della tarda
età, ha prodotto numerosi esempi di trattamenti in cui è stato messo
in evidenza che il materiale fornito da un vecchio paziente non è
correlabile soltanto all’età ma anche con la realtà della morte che
si avvicina. Erikson 6 descrive la questione dell’“integrità in contrapposizione a disperazione e avversione” come compito fondamentale
dell’ultimo stadio della vita, quando il soggetto avverte che la vita
è ormai al termine e dove l’integrità si riferisce all’accettazione del
proprio ciclo vitale, e che quanto egli ha fatto nella sua esistenza
adesso non è più modificabile. Kernberg 7 riporta che quando la propria vita non è accettata come definitiva, l’imminenza della morte
può generare angosce che derivano dal fatto che non c’è più il tempo
per iniziare un altra vita e tentare strade alternative per raggiungere
l’integrità. Questi stati d’animo sono tratteggiati nel racconto di
Tolstoj “La morte di Ivan Ilic” quando il protagonista viene improvvisamente a trovarsi di fronte alla malattia e alla morte: “… gli
passò per la mente un dubbio angoscioso sul senso della propria vita
trascorsa, che quanto fino ad ora gli era sembrato inammissibile,
cioè di aver vissuto come non si doveva, invece era l’assoluta verità”.
Il cosiddetto “life review process” 8 come reminiscenza, riflessione,
analisi sulla vita trascorsa è un evento che spesso caratterizza gli
ultimi momenti della vita nella consapevolezza dell’avvicinarsi della
propria fine. Tale operazione ha spesso una funzione positiva: il ricordo della vita trascorsa ed il senso di continuità che la caratterizza
dovrebbero favorire l’integrazione. Ma non sempre è così: di fronte
al tema della vecchiaia e della morte non si riesce facilmente ad
entrare in contatto con il mondo interno dei soggetti che vivono in
prima persona questa esperienza. Molti aspetti di questo problema
rimangono al di fuori della nostra portata, come se inconsciamente
cercassimo di evitare un accostamento partecipativo ad eventi così
lontani dal nostro bisogno di esperienze fiduciose e vitali e rimanessimo quindi in una posizione di semplici osservatori esterni. Così
ad esempio quando ci chiediamo di che cosa i vecchi possono avere
paura quando hanno paura della morte spesso le risposte riguardano
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il dolore, l’incognito, la sofferenza per sé e per coloro che restano. Ma
forse queste espressioni che veicolano fondamentalmente l’aspetto
cosciente al pensiero della morte riescono a occultare la vera paura,
profondamente repressa e che potrebbe essere quella di immaginare
e concepire mentalmente la propria morte, la inevitabile finitezza,
non come violenta o accidentale ma come un evento inscritto nell’ordine naturale delle cose, la rinuncia alla nostra umana convinzione, presente anche in vecchiaia, di essere immortali 1. Tale paura
può ritrovarsi anche in esperienze di morte del tutto immaginarie.
In certe occasioni assistiamo a scompensi emotivi, crisi d’ansia o
episodi depressivi, quando una persona raggiunge l’età in cui morì
un proprio genitore. In altri casi vediamo che l’indicazione ad un ricovero a causa di una malattia somatica può essere fonte di angoscia
per le paure di abbandono e di morte.
Nella esperienza con anziani malati ci sembra rilevante la loro comunicazione di una paura di morire in solitudine o in abbandono,
tema affrontato tempo addietro da de M’Uzan 9 secondo il quale il
“lavoro del trapasso” necessita della presenza di un oggetto prescelto, cioè di una relazione privilegiata. Nella nostra esperienza non si
tratta di un qualsiasi bisogno relazionale, ma di una crescente necessità di comunicazione non verbale e fondamentalmente fisica. L’importante è che questo oggetto prescelto sia capace di esporsi senza
eccessiva angoscia al momento captativo del morente, realizzando
una buona identificazione tra ciò che egli è e la sua rappresentazione nell’animo del paziente. Il vecchio prossimo alla morte forma
con il suo oggetto ciò che de M’Uzan chiama la sua ultima diade, con
allusione alla madre di cui l’oggetto è la tardiva reincarnazione.
Molte espressioni si trovano associate al tema della morte, come
il freddo, il vuoto, l’oscurità, …, ma in vecchiaia più che in altre
epoche della vita l’immagine più di frequente evocata è quella
della notte, del sonno e forse della stessa posizione distesa. L’idea
di un corpo immobile e allungato con perdita del contatto con la
realtà (sonno) evoca spesso fantasmi intollerabili e alterazioni del
comportamento. Un paziente descritto da Thomas 10 rifiutava di
distendersi sul letto per la paura che la morte lo sorprendesse e
riusciva a dormire soltanto seduto, dopo aver passato parte della
notte continuamente affaccendato nella convinzione che attività e
morte non possono coesistere, o che si muore meglio fintanto che si
è attivi. Anche nella nostra esperienza abbiamo incontrato decine di
casi simili, e quando non ha avuto effetto la presenza di un oggetto
prescelto abbiamo ottenuto un vantaggio clinico solo con l’uso di
adeguati farmaci antidepressivi.
Contrariamente allo stereotipo, dunque, che vuole il vecchio docile e
rassegnato e pronto a lasciare questo mondo la realtà ci sembra assai
diversa: molti vecchi esprimono nel corpo e con il comportamento il
rifiuto a morire e moltiplicano fantasie di rassicurazione preparando
tramite il linguaggio e i giochi dei preparativi funerari l’incontro
con la morte, sia quando è imminente e reale, sia quando è concepita e vissuta solo in termini fantasmatici. In altri casi assistiamo
a quadri di scompenso emotivo in soggetti anziani che vengono a
trovarsi di fronte ad una malattia somatica, anche se transitoria
e non necessariamente severa ma che rappresenta il segnale di un
cambiamento minaccioso, in grado di attivare sentimenti di angoscia e di insicurezza esistenziale. In questi stessi soggetti scompensi
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psicopatologici si sono spesso attivati di fronte alle inevitabili modificazioni somatiche legate al proprio invecchiare, suggerendo dunque
che, almeno in alcuni, i cambiamenti dovuti alla vecchiaia suscitano
intense risonanze emotive, che sembrano strettamente connesse con
l’angoscia di morte. Ci colpisce come in tali soggetti la tematica della
corporeità assuma un ruolo cosi incisivo, come se il corpo fosse stato
investito come magico protagonista nella trama della loro esistenza
e avesse rappresentato una modalità per mantenere viva una immagine di sé positiva e vincente. Nella vecchiaia è necessario elaborare
una serie di lutti inerenti la trasformazione del corpo, ma questi
soggetti non hanno mai potuto accedere alla sofferenza di un corpo
che cambia e perde vigore, contrapponendo una rigida difesa, un
corpo immutabile nella sua efficienza. Il fallimento avviene quando
il corpo comincia ad evidenziare le sue ineludibili scadenze.
Nella vecchiaia dunque come sottolineano anche i casi descritti da
Segal 12 e da Abraham 13, in assenza di gravi deficit cognitivi, i fattori
di personalità sono gli elementi più importanti nel caratterizzare il
rapporto di un vecchio con la morte e i suoi possibili richiami. Le
personalità narcisistiche vivono la vecchiaia e la morte strettamente
dipendenti l’una dall’altra, come una ferita irrimediabile, un attentato
a posizioni idealizzate, con sentimenti di frustrazione, umiliazione e
rabbia. Il meccanismo difensivo in risposta all’invecchiamento e alla
idea della morte è centrato sulla negazione, come descrive Kernberg 7.
L’artificioso giovanilismo di certi vecchi, l’intraprendere con frenesia
ipomaniacale certe attività normalmente limitate dagli anni sono
esempi di tale meccanismo difensivo. È frequente che tali soggetti
ricerchino, talvolta in modo quasi grottesco, il successo ottenuto nel
passato, e non accettano da anziani che le loro prestazioni di un
tempo subiscano un ridotto apprezzamento: a lungo si soffermano a
parole sui successi ottenuti, su quel che erano ed invidiano il mondo
dei giovani quando dimostrano potenzialità e capacità. Quando in
soggetti anziani con tale organizzazione del carattere si instaura la
necessità di un sostegno o di dipendenza si produce vergogna e senso
di fallimento, per la proiezione di atteggiamenti svalutativi e sprezzanti
su coloro dai quali essi dipendono. Ciò aumenta la intolleranza verso
la vecchiaia, verso la malattia, verso la perdita delle funzioni corporee,
aumenta la paura della morte e rinforza cosi la negazione. Negando
la depressione e le sottostanti perdite è impossibile sviluppare una
“confortante fantasia di immortalità” 14 e ci si costringe a comportarsi
valorizzando gesti e comportamenti non potendo contare sul pensiero.
Quando però questo meccanismo fallisce emerge la depressione, come
perdita di funzioni narcisisticamente investite o come consapevolezza
di solitudine e della mancanza di buoni rapporti con altri se nel passato l’invidia ed il disprezzo hanno impoverito il mondo degli affetti e
delle relazioni. Il suicidio può allora diventare un recupero del potere
perduto, imponendo il tempo e le circostanze alla morte.
Un altro aspetto particolare del rapporto tra morte e vecchiaia si può
avere in presenza di alterazioni cognitive. Nella demenza al posta di
difese mature affiorano meccanismi immaturi come la proiezione
ed il diniego e così, di fronte ad eventi che accentuano la “perdita
di continuità del proprio Sé”, vissuto frequentemente presente nelle
forme di entità severa, si hanno allucinazioni e idee persecutori
terrifiche. Così quando la malattia si struttura come non riconoscimento della realtà un semplice cambiamento ambientale, un evento
4° Corso per psicologi insolito, una nuova persona che interagisce con il soggetto può generare vissuti di condanna a morte con ovvie conseguenze reattive.
In conclusione se comunemente si sostiene che la morte è più facilmente tollerata in vecchiaia, ci sembra che questo riguardi prevalentemente gli aspetti coscienti e non quelli inconsci di tale problema.
Quando la durezza della realtà è negata invece che trasformata in
fantasie difensive e consolatorie si passa da un mondo simbolico ad
uno infinitamente più limitato e mutilante che impoverisce la libera
espressione della paura ed espone maggiormente all’angoscia.
Bibliografia
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Venerdì, 28 novembre 2008
Seconda Sessione
Moderatore: G. Gori (Firenze)
Vissuti di malattia e di morte in oncologia
geriatrica: spunti di riflessione
A. Belloni Sonzogni
UOC Psicologia Clinica “Pio Albergo Trivulzio”, Milano
Nell’immaginario comune la “diagnosi di tumore” e la “morte per
tumore” sono concetti, per quanto non sovrapponibili, molto prossimi ed affini. L’ascolto dell’anziano affetto da patologia oncologica
offre pertanto l’opportunità, qualora sia sollecitata l’espressione e
la condivisione dei vissuti di malattia, di entrare in contatto con
possibili vissuti di morte; in tal senso la tipicità di alcune dinamiche
psicologiche ad essi correlate stimolerebbe la riflessione su alcuni
rilevanti quesiti. Il soggetto vive meglio se attribuisce il suo stare
male ed il morire alla vecchiaia piuttosto che al tumore o ad altra
patologia? Come favorire l’elaborazione e l’espressione di costruzioni
343
personali sul tema morte che rafforzino l’immagine del sé, piuttosto
che svilirla? Come riuscire a rispettare quei bisogni più strettamente
connessi alla dimensione privata e soggettiva del morire in ambiti
che, per loro stessa natura pubblica e sanitaria, danno maggior
rilievo all’obiettività e alla dimensione sociale? Una più mirata attenzione al vissuto di malattia e di morte faciliterebbe l’attuazione di
strategie diagnostiche e terapeutiche maggiormente confacenti alla
realtà clinica perché libere da dogmatismi interpretativi, rigidità e
banalizzazioni.
Vissuti di malattia e vissuti di morte. I risultati di un’indagine
esplorativa (Belloni Sonzogni, Stella, 2004) che ha utilizzato il colloquio clinico ed il Reattivo delle Frasi da Completare sul Vissuto di
Malattia per rilevare il vissuto di trenta anziani affetti da patologia
oncologica, degenti nell’arco di un mese in un reparto di oncogeriatria, hanno evidenziato in quale misura la patologia tumorale si
presenti come discriminante rispetto ad altri quadri morbosi – eventualmente concomitanti e caratteristici dell’età anziana – rendendo
conto di alcune peculiarità dei vissuti di morte. I soggetti reclutati
sono stati giudicati uniformi dai medici per quanto attiene la gravità
del quadro clinico complessivo, lo stadio di avanzamento della malattia oncologica, il livello di compromissione funzionale.
Lo strumento delle frasi da completare si compone di trentadue
item che riguardano sia il vissuto esplicito di malattia (otto item
con un riferimento specifico alla malattia), sia altre sei dimensioni
psicologiche relative ad un possibile vissuto implicito (risorse personali, aspirazioni, timori, sessualità, tonalità affettiva, frustrazioni)
valutate ognuna col completamento di quattro item. La mancanza
di riferimento alla malattia oncologica nel completamento delle
frasi del reattivo denoterebbe o una disinformazione totale o un
atteggiamento denegante. Nella fattispecie, si rileva una differente
distribuzione dei soggetti in merito al fatto che nel vissuto di malattia la patologia indagata si presenti come: unica/prevalente (43,3%)
(G1); presente ma non prevalente (6,7%) (G2); inesistente (50%)
(G2). L’evitamento della consegna o completamenti evidenzianti
meccanismi di diniego e negazione sono massicciamente presenti,
sia nel G1 sia nel G2, in tutti gli item volti a delineare il vissuto esplicito di malattia (Tab. I): il primo dei due gruppi si presenta meno
denegante e con minori aspettative circa un possibile miglioramento
del quadro clinico, ma più reattivo in senso aggressivo. Nell’item
“Quando mi hanno detto a che cosa erano dovuti i miei disturbi”
il 21,2% del campione (G1 maggiormente di G2) fa riferimento
alla diagnosi: cancro in G1, osteoporosi in G2. In quello relativo
agli interrogativi che il soggetto vorrebbe porre ai sanitari si ha
una spiccata centratura sulla prognosi in termini di sopravvivenza
e qualità di vita (soprattutto nel G2) ed in particolare nel G1, sulla
diagnosi. Sostantivo questo ultimo, in tal caso mai utilizzato dai pazienti, che si è ritenuto di collegare alle più generiche frasi: “perché
sto così male?”, “che cosa ho?”. Le differenze più evidenti tra i due
gruppi (valori più alti in C1 rispetto a C2) negli item che non hanno
esplicito riferimento alla malattia (Tab. II) emergono nelle aree
Risorse Personali/Valenza Negativa, Aspirazioni/Valenza Negativa,
Sessualità, Tonalità Affettiva/Ambivalenza, Frustrazioni, palesando
l’ipotesi che nel G1 la maggiore consapevolezza di malattia tumorale
arrivi ad incidere più pesantemente nel determinare disagio emotivo.
344
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Tab. I. Reattivo delle frasi da completare sul vissuto di malattia (vissuto esplicito) (valori percentuali).
Penso che la causa della mia malattia
Scarsa prevenzione sul lavoro
Causa imprecisa, “Non so”
Specifiche patologie
Vecchiaia
Altro (es. Fato, esperienze di lutto)
Quando penso alla mia malattia
“Non ci penso”, “Ci penso raramente”
Reattività aggressiva
Tristezza, scoraggiamento, preoccupazione
Riferimento alla guarigione
Fatalismo, iella
Sopportazione e adattamento
Riferimento alla vecchiaia
Sconcerto (“Non so come ho fatto ad arrivarci”)
Ho sempre pensato che le malattie come la mia
“Non esistessero”, “Non devono venire”
“Guariscono”
“Non guariscono”
“Fossero rare”
“Non so”, “Non ci ho mai pensato”/Nessuna risposta
“È meglio non averle”
Riferimento alla sintomatologia
“Siano dovute a debolezza” (Riferimento alla vecchiaia)
Quando mi hanno detto a che cosa erano dovuti i miei disturbi
Riferimento alla diagnosi
Incredulità, minimizzazione/negazione della diagnosi/Nessuna risposta
Paura, preoccupazione, avvilimento
Reattività aggressiva
Accettazione della malattia e delle sue conseguenze
Riferimento a cause generiche di “fragilità” (riferimento alla vecchiaia)
Riferimento alla guarigione
Relativamente alla mia malattia vorrei sapere
“Niente”, “So già tutto”/Nessuna risposta
Prognosi/ Evoluzione della patologia
Diagnosi
“Se in futuro si potranno guarire i malati di tumore”
Nei soggetti del G2 che, invece, riconoscono la patologia principale
nell’osteoporosi, nell’ipertensione, nel diabete e nella frattura, la
situazione di malattia risulterebbe meno pervadente, connotando in
senso meno negativo la percezione di sé. In questa direzione potrebbe essere interpretata anche la differenza tra i due gruppi nell’area
delle Risorse Personali: più della metà dei soggetti del G2 (58,8%),
a fronte di una più esigua porzione del G1 (31,8%), non pensa di
essere stata colpita, a seguito della patologia, in tale versante e non
sente l’immagine di sé impoverita nelle sue componenti essenziali,
ritenendo, al più, che le diminuite abilità siano un’inevitabile
conseguenza dell’età. In entrambi i gruppi, tuttavia, è presente un
forte senso di vulnerabilità: indipendentemente dalla percezione
della natura della malattia, i pazienti avvertono come fattore determinante l’essere anziani, e per ciò stesso l’essere a rischio rispetto
ad una serie di malattie invalidanti; esprimono preoccupazione per
G1
46,1
30,8
15,4
7,7
G1
23,1
23,1
15,4
15,4
15,4
7,7
G1
30,8
23,1
15,4
15,4
7,7
7,7
G1
35,5
30,8
15,4
7,7
7,7
G1
38,5
30,8
23,1
7,7
G2
29,4
23,5
29,4
5,9
11,8
G2
47,1
5,9
17,6
11,8
5,9
5,9
5,9
G2
23,5
17,6
35,3
17,6
5,9
G2
11,8
53,0
11,8
5,9
17,7
11,8
G2
41,1
57,1
11,8
la compromissione del livello di indipendenza. Per quanto attiene
l’area dei Timori la maggior parte dei completamenti fa esplicito
riferimento alla morte o all’invalidità permanente o, diversamente,
presenta aspetti deneganti (“non ho paura di niente”; “non so”;
“non ci ho mai pensato”), segnali di una situazione ansiogena da
cui il soggetto vuole emotivamente distaccarsi. Il fatto che l’esplicitazione di angosce di morte sia presente, in percentuali simili, nel
gruppo di pazienti che hanno un vissuto di patologia tumorale e nel
gruppo di pazienti in cui tale vissuto non sussiste (Tab. II), confermerebbe quanto l’età senile faciliti la mentalizzazione dell’evento
morte (Cesa-Bianchi Cristini, 2007), come accadimento sempre più
frequente con l’avanzare dell’età e perché parrebbe consono alla
comune cultura accettare (o per lo meno, mostrare di accettare)
ciò che si presenta inevitabile in quanto dettato da una superiore
legge naturale.
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Tab. II. Reattivo delle Frasi da Completare sul Vissuto di Malattia (vissuto implicito) e distribuzione dei soggetti in riferimento
alle variabili “Presenza di angosce di morte” e “Vissuto della patologia tumorale” (valori percentuali).
Aree
G1
G2
Aree
Risorse personali/Valenza positiva
23,1
23,5
Timori
Risorse personali/Valenza negativa
38,5
11,8
Sessualità
Risorse personali (Ambivalenza
7,7
5,9
Tonalità affettiva/Valenza positiva
Aspirazioni/Valenza positiva
61,5
58,8
Tonalità affettiva /Valenza negativa
Aspirazioni /Valenza negativa
15,4
5,9
Tonalità affettiva /Ambivalenza
Aspirazioni /Ambivalenza
23,1
17,6
Frustrazioni
Vissuto della patologia tumorale
Pazienti con vissuto dì malattia tumorale come patologia unica/prevalente
Pazienti con vissuto di malattia tumorale come patologia non prevalente/assente
Se da un lato il paziente geriatrico manifesta, senza reticenza, un
vissuto di vulnerabilità legato all’invalidità grave o permanente,
dall’altro sembra permanere una forte resistenza a dichiarare la
natura della patologia oncologica in corso. La difficoltà non risiederebbe tanto nel riconoscimento degli aspetti sintomatici relativi
a molteplici patologie considerate come tipiche della vecchiaia, ma
nell’attribuire i disturbi ad una diagnosi precisa o, come probabile, a
quella diagnosi oncologica. Gli anziani riconoscerebbero soprattutto
quanto ritengono fisiologicamente connesso all’invecchiamento o al
quadro sintomatologico che ad esso attribuiscono. Il tumore rappresenterebbe, invece, la patologia inaccettabile, probabilmente perché
connessa ad una morte “non naturale” (Tramma, 2007), carica di
sofferenza. Negherebbero, pertanto, l’attribuzione dei sintomi alla
patologia tumorale nel tentativo rassicurante di non percepire, come
riguardanti se stessi, le immagini di sofferenza, le paure e le angosce
dì morte evocate dal cancro; tenderebbero a riconoscersi affetti da
patologie che cronicizzano, purché non vissute come ad esito fatale,
dato che con esse è possibile “con­vivere”, pur se con forti limitazioni
personali. Da tali premesse sul tema del morire possono scaturire
suggestive implicazioni in ambito pedagogico e clinico.
La mia morte. Nelle fasi avanzate di patologie gravi come quelle
oncologiche il soggetto anziano sembrerebbe attuare strategie di coping al fine di preservare i vissuti di morte dai più dolenti significati
di sconfitta e resa incondizionata. Nel vissuto di malattia di queste
persone sarebbe implicitamente iscritta l’essenza più profonda della
condizione umana così bene espressa da Guido Sala (2007) là dove,
rifacendosi a Foucault, ricorda che non si muore perché compare la
malattia, ma compare la malattia perché si è destinati a morire: un
sentire, come si è visto, non sempre lucidamente soggetto al vaglio
della consapevolezza, metabolizzato solo parzialmente perché si è
resistenti ad accettare la realtà integrale e se ne recepisce una rielaborazione consolatoria che talvolta ha il sapore della mistificazione
e dell’autoinganno. Si confermerebbe anche l’importanza di offrire
al paziente oncologico un contesto comunicativo per relazionare il
vissuto attivato dalla morte, dal quale possa trarre sollievo nell’esternare le proprie emozioni senza vedere suscitata l’angoscia in colui
che ascolta (Filiberti, 2002). Colpisce, invece, il mancato riscontro
di aspetti ritenuti importanti in queste fasi della malattia, come il
“passaggio del testimone”, l’“eredità”, il “lascito per le generazioni
future”: la diversità del contesto culturale (Seale, Addington-Hall,
McCarthy, 1997) italiano, rispetto ad altri paesi, può spiegare solo
G1
G2
69,2
76,5
23,1
5,9
7,7
11,8
38,5
41,1
53,8
11,8
76,9
58,8
Angosce di morte
53,8
(7 soggetti)
52,9
(9 soggetti)
in parte il fenomeno. Se è pur vero che il paziente che “organizza
l’evento della propria morte” si trova più facilmente in una società
che apertamente informa sulla natura della patologia e l’esito
prognostico infausto, tuttavia, si è più volte osservato che l’esigenza
del “dono di sé” in una prospettiva di permanenza trans-temporale,
anche se difficilmente espressa come atto spontaneo di autodeterminazione, costituisce una risorsa importante per molti anziani, se
supportata e ben gestita a livello relazionale. In merito ai dibattuti
quesiti “si può pensare alla propria morte?”, “si può imparare a
morire?” condividiamo la posizione di chi ritiene che la morte possa
essere accolta, vissuta, sentita, anche se nell’impossibilità di rinserrarla in un reticolo di pensiero (Ancona, 2002); crediamo che il pensiero del morire non tolga valore, qualità, desiderio al vivere, ma ne
rappresenti l’orientamento, la misura, l’apporto nel suo procedere
ed arrivare, in una sempre rinnovata disposizione allo sviluppo, alla
realizzazione ed alla conoscenza di sé (Cesa-Bianchi, 2004). Tuttavia, come è possibile valorizzare l’opportunità di comunicare con chi
è disposto a parlare del proprio morire (Pangrazzi, 2006)? Dobbiamo
meglio capire quale possa essere il metodo ed il frangente migliore
per aiutare l’anziano a dialogare con se stesso e con l’altro sulla propria morte; per sostenerlo nel familiarizzare con essa, pensandola, al
fine di invogliarlo a parlare della vita: spingerlo dolcemente ad affacciarsi sul vuoto del mistero che può essere riempito dei significati
personali che fino alla fine ci identificano. Poiché la maggior parte
delle testimonianze e degli studi si riferiscono a soggetti malati o in
fase terminale, ad indicare la resistenza ad affrontare questo tema
come qualche cosa che riguarda tutti ed il tentativo di confinarlo a
quelle condizioni che ne presentano gli aspetti più dolorosi e terrifici
(Pinkus, 2002), riterremmo utile allargare l’interesse euristico e
clinico ad uno spaccato più ampio di osservazione e comparazione,
coinvolgendo soggetti di varie età, non necessariamente malate o in
fase terminale, utilizzando metodiche che, attraverso la suggestione
di stimoli verbali e iconografici, aiutino a trovare o a non perdere il
contatto personale con la morte.
Bibliografia
1
2
Ancona L. Qualità di vita e qualità di morte. In: Pinkus L, Filiberti A,
eds. La qualità della morte. Milano: Franco Angeli, 2002, p. 201-12.
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prospettiva del ciclo di vita. Milano: Edizioni Unicopli 2004, p. 103-23.
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ed. Vivere il morire. L’assistenza nelle fasi terminali. Roma: Aracne
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Cesa-Bianchi M. Ai confini tra la vita e la morte: l’ultima creatività.
In: Stroppa C, ed. Ai confini tra la vita e la morte. Fede ed etica nella
vita quotidiana. Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane 2004, p. 79-93.
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cit. 2002, p. 180-98.
Pangrazzi A. Vivere il tramonto. Paure, bisogni e speranze dinanzi
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Seale C, Addington-Hall J, McCarthy M. Awareness of dying: prevalence,
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Tramma S. Vivere il morire: il punto di vista pedagogico. In: Cristini C,
ed. Vivere il morire. cit. 2007, p. 65-76.
Tra paura e depressione: intrecci emotivorelazionali nelle donne anziane
E. Bavazzano
Firenze
Premessa.
“La psicologia geriatrica nota come le persone anziane dedichino
sempre più tempo a fare il proprio inventario, passare in rassegna
la vita. (…) Via via che invecchiamo, c’è qualcosa dentro di noi che
vuole ritornare in stanze lontane dagli specchi polverosi. Io penso che
il carattere voglia cercare di capirsi, accrescere la propria capacità
introspettiva e la propria intelligenza.”
(Hillman J. La forza del carattere. 1999).
Solitamente per spiegare la vecchiaia ci rivolgiamo alle scienze mediche, ma, per comprenderla, forse abbiamo bisogno di qualcosa di
più. “La vecchiaia è mediata dalle storie che si raccontano su essa”;
è necessario “psicologizzare la vecchiaia, scoprire l’anima che ha
dentro” (Hillman, 1999).
“Anima” insita dentro l’idea e il senso della vecchiaia è la paura, di
fronte alla quale le possibilità di scelta che compaiono sulla scena
sono principalmente due:
– la fuga dalle paure – preoccupazioni, insite nel comune vivere (ex
farmaco);
– l’accoglienza delle paure – emozioni, messaggi che provengono
da dentro di noi e dall’ambiente dove viviamo e un tempo abbiamo vissuto.
È attraverso l’analisi del carattere della persona che invecchia che
possiamo esaminare quali siano realmente le possibilità di scelta
della cura rispetto alla propria sofferenza (paura).
Mi interrogo, in questo mio intervento, in merito alle possibilità che
trattamenti di natura psicologica-psicoterapica possano portare la
persona anziana “impaurita” (non solo dal vivere ma anche dal
tanto vicino approssimarsi al morire) a giovamenti significativi.
Le fasi deflessive delle persone che invecchiano: quali le cure.
“Guardarsi allo specchio è per tutti un’esperienza spaesante:
massimamente durante l’adolescenza e l’invecchiamento. Ma, se
nella giovinezza la quotidiana metamorfosi si accompagna ad una
4° Corso per psicologi
sensazione di potenza che corrisponde all’aprirsi al mondo di una vita,
nell’invecchiamento guardarsi allo specchio diventa testimonianza di
una frattura.
Quelle incancellabili tracce dell’invecchiare stanno lì, a significare
un rapporto di estraneità tra l’io che vede un me che non si vorrebbe
riconoscere; tra l’io che vede un me la cui proiezione nel mondo è
difficile e la cui rappresentazione nel mondo è meno gradevole.”
(Mistura S. Invecchiamento e vecchiaia. In: Spagnoli A., 1995).
È importante considerare che la persona che invecchia cresce attraverso molteplici esperienze, che sovente la conducono ad attraversare vere e proprie fasi deflessive nel tono dell’umore (sane quando
gradualmente realizzi che le persone che prima le erano accanto se
ne vanno – per decesso o per lutti parziali), o semplicemente periodi
di preoccupazione – paura – ansia connesse a sintomi fisici (nonché
psichici) che riguardino sé oppure l’altro.
La depressione, da un punto di vista psicodinamico, è infatti “movimento evolutivo” che occorre durante un periodo di crisi, suscettibile
di:
– svilupparsi nel corso di uno scompenso in una personalità fragile;
– risolversi con la risoluzione del “conflitto” che l’ha originata.
Del resto l’isolamento affettivo dell’individuo che invecchia, insieme
alla consapevolezza del tempo limitato che gli resta da vivere, della
prossimità della morte, di limitazioni imposte dall’ambiente possono
essere vissuti come ferita all’immagine narcisistica di sé (Simeone,
2001).
La vita stessa è un susseguirsi di acquisizioni e perdite. E, se le acquisizioni sono il corrispettivo di investimenti oggettuali, le perdite
sono riconducibili a ferite narcisistiche. Ecco che la vecchiaia, quella
psichica, insorge nel momento in cui avviene la rottura, talora causata da eventi banali, del bilancio tra acquisizioni e perdite (“una
perdita di troppo”), con una conseguente impossibilità di integrare
il dolore e andare avanti, rinnovando gli investimenti. La persona,
invecchiando, non riesce più a percepirsi quale oggetto di desiderio,
né ritrova oggetti di desiderio (Spagnoli, 1995).
In concomitanza ad un graduale procedere del Ciclo vitale, alla persona che invecchia vengono via via proposte cure che, come è noto
ai più, se sul momento conducono ad un miglioramento a livello di
singole patologie prese in carico, al contempo portano ad un presentarsi sempre più frequente di effetti collaterali che, nell’anziano
fragile (con comorbilità fisiche, psicologiche e relazionali), rendono
sempre più complessa la gestione delle cure medesime (senza dimenticarsi che la persona talora le tollera per compliance verso il
medico prescrittore, talora le accetta consapevolmente).
Certa dell’importanza di una Integrazione tra cure di natura diversa
tra loro, laddove mi interroghi anche in merito ai “costi” complessivi
delle cure, nonché tenga bene a mente la multidimensionalità della
persona (con i suoi bisogni bio-psico-sociali), vorrei proporre una
possibilità di ascolto delle Paure della persona che invecchia quali
espressioni di bisogni profondi del soggetto:
– bisogno di apertura a livello dell’“Ombra” (legittimando che la
vecchiaia sia “grigia”);
– bisogno di comprensione di sé nell’identificazione con un “Senex”
autenticamente “Vecchio Saggio”.
4° Corso per psicologi La “cura psichica” per le donne che invecchiano, attraversando
fasi deflessive.
“È strano vagare nella nebbia! Isolata è ogni pietra, ogni cespuglio;
non c’è albero che l’altro veda, tutti sono soli. Pieno di amici era il mio
mondo quando chiara era la vita mia; adesso, che calata è la nebbia,
non ne vedo più nemmeno uno. Certamente non può esser saggio chi
non conosca le tenebre che, ineluttabili e lievi, da tutto separano. È
strano vagare nella nebbia! La vita è solitudine. Non c’è uomo che
l’altro conosca, tutti sono soli.”
(Hesse H. Pellegrinaggio d’autunno. 1905).
Solo dando ascolto ai segnali-sintomi della persona che invecchia,
non tanto come indicatori di patologia psico-fisica, quanto come
modalità (sia pure di tono deflessivo) per uscire da Sé ed andare
verso l’altro con la mano tesa in segno di aiuto, risulta possibile, a
mio parere, comprendere quanto realmente possa essere di giovamento una cura di natura medica-farmacologica, anche insieme
ad una cura psicologica-psicoterapica. Ed allora quale può essere la
cura psichica per il soggetto che vive Paure proprie di chi sta invecchiando? Quale cura offriamo alla donna, che si trova, sovente più
dell’uomo, sopravvivendo a lui, a rivedere ruoli e posizioni assunte,
nel corso degli anni, davanti agli altri ed a se stessa? Se è vero che
davanti alla perdita dell’oggetto (la persona amata) viene avviato
il meccanismo del lutto, come può avere luogo una elaborazione
che conduca ad una “ristrutturazione di personalità”? Nel lutto c’è
un “lavoro da fare” (Simeone, 2001), un’elaborazione che consiste
essenzialmente in quattro compiti:
– accettare la realtà della perdita;
– provare il dolore del lutto;
– adattarsi ad un ambiente deprivato della persona amata;
– spostare l’energia legata alla persona amata persa e investirla in
altra relazione-situazione.
Ecco che quindi potremmo trovare due esempi di modalità di vivere
il lutto-depressivo:
– Antonia è una donna, che forse per una difficoltà individuale, forse per mancate opportunità di visioni del mondo diverse rispetto
a quelle di un regime patriarcale di vecchio stampo, non riesce a
modificare la sua posizione di “vittima”, attuando invero un meccanismo difensivo di spostamento proiettivo dal marito al figlio,
per “affrontare” il cambiamento dovuto alla perdita del coniuge;
– Giovanna è una donna che, restando sola dopo il lutto, ritrova,
forse trova per la prima volta nell’arco della sua vita, la fiamma
interna per attivare alcuni cambiamenti di ruolo, di quella visione
di sé interiormente diversa rispetto al proprio modello idealizzato
di donna “Mater” (frutto di uno spostamento da sua madre a sé
– figlia).
Due vignette cliniche esemplificano possibili modalità di attuazione
delle proposte di lettura fin qui, in breve, anticipate; a queste seguono alcuni suggerimenti di intervento psicologico-psicoterapico, da
effettuarsi principalmente a vantaggio della donna anziana, ancora
lucida, cognitivamente sana, bisognosa dell’aiuto psichico che la
sorregga nell’affrontare transizioni per lei ancora possibili nella sua
ultima fase di vita, entrando nei suoi intrecci (intra- ed inter-psichici) emotivo-relazionali.
347
Considerazioni conclusive.
“CONTINUITÀ
Nulla mai viene veramente perduto, o può venir perduto, non nascita,
identità, forma-oggetto veruno del mondo, non vita, non forza, né
cosa alcuna visibile; le apparenze non devono ingannare, sfera
mutata non deve confonderti il cervello. Vasti sono il Tempo e lo Spazio
– vasti i campi della Natura. Il corpo torpido, vecchio, freddo – ceneri
rimaste dai fuochi d’un tempo, la luce offuscata degli occhi tornerà
a splendere: il sole ora basso a occidente rinnova perenne mattini,
meriggi; alla zolla gelata ritorna perenne, invisibile, la legge della
primavera, con erba, fiori, frutti estivi e grano.”
(Whitman W. Foglie d’erba. 1950).
Principalmente a partire dagli intrecci emotivi interni a sé (nei
ricordi del passato, in special modo, in connessione e continuità con
l’oggi) e dai legami che uniscono (nel passato come nel presente),
è importante porsi in atteggiamento di osservazione autentica, al
fine di impostare programmazioni personalizzate di interventi che
i singoli operatori coinvolti nella cura potranno mettere in atto con
la finalità precipua di aiutare la donna che invecchia a fare i conti
con le proprie paure – espressioni di sconcerto di fronte ai dolori che
sono parte integrante del vivere, senza negarli, ma elaborandoli così
da avviare quel doloroso processo di attraversamento delle fasi del
Lutto, che deve essere affrontato, senza difese (quelle che paralizzano), con gli occhi aperti sulla realtà dei propri vissuti.
Bibliografia
Hesse H. (1905). Eine Fussreise im Herbst. (trad. it. Pellegrinaggio d’autunno. Roma: Newton Compton, 1992).
Hillman J. (1999). The force of character and the lasting life (trad. it. La
forza del carattere. Milano: Adelphi, 2000).
Mistura S. Invecchiamento e vecchiaia. In: A. Spagnoli (1995).
Simeone I. L’anziano e la depressione. Roma: Casa Editricie Scientifica
Internazionale, 2001.
Spagnoli A. “… e divento sempre più vecchio”. Jung, Freud. La psicologia
del profondo e l’invecchiamento. Torino: Boringhieri, 1995.
Whitman W. (1950). Leaves of Grass (trad. it. Foglie d’erba. Torino, Einaudi, 1993).
Terza Sessione
Moderatore: G. Zeloni (Firenze)
Significato di vita o attesa di morte nella
prescrizione dell’ausilio nell’anziano disabile
G. Melli1, V. Da Pieve1 2
Istituto di Psicologia “Clinica Rocca”, Stendoro, Milano, 2 Casa di Cura
“Le Terrazze”, Cunardo
1
Con questo lavoro ci proponiamo di rilevare quanto la prescrizione
di un ausilio, nella vita di un anziano disabile, si ponga come oggetto transizionale che apre i più svariati scenari nel profondo e nell’inconscio del soggetto, portando, a volte, ad un vissuto involutivo
di “morte psicologica”, a volte, ad uno evolutivo di speranza futura,
altre volte ad una completa dipendenza dall’oggetto inanimato.
Siamo partiti dall’idea che le relazioni esistenti fra la dimensione
quotidiana della disabilità del paziente anziano e la risposta dell’ambiente richiedano, necessariamente, dei presupposti teorici e pratici
348
per un adeguato intervento riabilitativo nella prescrizione di ausili il
più possibile aderenti alle reali necessità.
Il progetto riabilitativo sul paziente anziano, qualsiasi siano le
condizioni patologiche di base, deve considerare, fra i principali
obiettivi, il perseguimento della migliore qualità di vita: ogni azione
intrapresa con intenzionalità riabilitativa, quindi, deve ristabilire,
là dove sia possibile, o adattare al meglio il rapporto dinamico fra
soggetto e contesto nel quale vive.
Di qui si deduce come lo sforzo non possa essere riconducibile unicamente al medico o ai medici, che si occupano degli aspetti funzionali
ed organici della disabilità del soggetto o della situazione che ha generato tale condizione, ma ad un’équipe intera, che adotti il progetto
riabilitativo ed educativo, operato sul paziente, alla eterogeneità di
parametri clinici, riabilitativi, psicologici e sociali. Il modello di
riferimento dev’essere in grado di convogliare tutti gli indicatori in
un paradigma universalistico (che in realtà siamo ancora lontani
dal possedere).
La finalità dell’intervento riabilitativo è permettere il raggiungimento di un rapporto il più possibile ottimale fra capacità di autonomia
residua del soggetto, potenzialità espresse o da consolidare, progetto
di vita del soggetto e del suo gruppo familiare; risulta fondamentale in merito alla prescrizione dell’ausilio, sia esso di semplice o
complessa fattura, la valutazione complessiva di ciò che si può sinteticamente definire come “modificabilità ambientale”, intendendo
per “ambiente” non solo luogo, con le sue connotazioni fisiche e
sociali, ma, più profondamente, dove si sviluppano la personalità e i
comportamenti dell’individuo.
Rocca e Stendoro, nel loro libro “L’Immaginario teatro delle nostre
emozioni” (2001), scrivono: “L’uomo non può esistere senza il suo
ambiente sociale: l’uomo è la sommatoria delle interazioni reciproche che si stabiliscono fra sé e gli esseri umani […] anche l’Io
dell’uomo maturo è comunque formato da una presa di coscienza
sociale riflessa. Ma spesso, nel relazionarsi con il mondo, l’opinione
degli altri non coincide con lo stato emotivo del proprio Io: così si
possono sviluppare le interrelazioni emotivo-affettive deformate che
coinvolgono l’uomo negativamente”.
Questa prospettiva presuppone un’accezione ampia della valutazione necessaria per la prescrizione di un ausilio, in quanto esso va
a modificare le sinergie ambientali riferibili agli aspetti di ordine
spaziale e temporale, oltre che, inevitabilmente, di ordine psichico,
cioè legati all’immagine che il soggetto ha di sé e alla relazione con
oggetti e altri soggetti.
È implicito, quindi, che l’uso di orientamenti valutativi considerati
singolarmente appaia limitante; è necessario considerare per i nostri
scopi, un modello multivariato che prende corpo dal gioco delle interazioni fra i tre ordini di fattori: indicatori oggettivistici, indicatori
legati al grado di integrazione sociale e indicatori soggettivistici;
questi ultimi vanno a costruire, insieme alla definizione della situazione, gli indicatori di stato e di qualità sulla valutazione della
modificabilità ambientale.
Un concetto che molti autori utilizzano per sottolineare le funzioni
stabilizzatrici dello spazio per il mondo sociale è quello di “luogo”.
Il “luogo” è lo spazio di piccole dimensioni, di entità unica, con un
contenuto profondo e significativo che va oltre l’esperienza diretta e
4° Corso per psicologi
contingente, produce affezione, memoria, emozione estetica in colui
che lo designa come tale; gli spazi di vita diventano luoghi, il luogo
differenzia le nostre azioni e trasforma in simboli culturali, per
esemplificare la casa intesa come “dimora”.
In questo senso l’ausilio è interpretabile come “estensione, pelle o
confine del corpo”, permette l’accesso ai “luoghi”, esso stesso tuttavia è “luogo” con tutte le connotazioni affettive e simboliche che
ne conseguono.
Il “luogo” esprime, quindi, la potenzialità dell’agire – vivere si embrica con il “luogo” interno del vivere e del ricordare.
L’essere “luogo” presume l’esistenza di “non luogo”, inteso come
spazio non contraddistinto, senza le caratteristiche stabilizzatrici
sopra citate: ne sono esempi le sale di attesa nelle stazioni, i luoghi
informali e standardizzati, non riconosciuti, possiamo aggiungere
certe corsie di reparti ospedalieri; nella nostra esperienza di riabilitatori il “non luogo” è anche uno spazio che non si può fruire, di
cui non si può avere diretta esperienza, ricordo, relazione, ciò che
ostacola: in sintesi è “barriera”.
Da queste premesse si può individuare la complessità ed il significato
profondo che ha il lavoro riabilitativo svolto nella “semplice” prescrizione di un ausilio verso il paziente anziano disabile.
L’ausilio quindi deve essere interpretato come ambiente che espande
il proprio spazio corporeo e costituisce un potenziale aiuto alla
comunicazione, presenta contenuti di rifugio, ampiezza ideale, posizione, condizioni fisiche e di igiene e possibilità interazione con il
mondo in contenuti determinati culturalmente ed affettivamente.
Proprio per indagare, esplorare i vissuti degli anziani disabili a cui
viene prescritto un ausilio a seguito di eventi più o meno traumatici
(eventi, comunque, che modificano il processo di vita di un soggetto,
caratterizzato già, per età e natura, da una miriade di cambiamenti,
di adattamenti a nuove condizioni, nuove potenzialità, ma anche
paure, lutti, abbandoni, perdite) abbiamo svolto due colloqui con
un piccolo gruppo di pazienti (escludendo, naturalmente soggetti
con deterioramento cognitivo o con patologie psichiatriche significative), concentrandosi sulle loro “narrazioni” dell’evento, sul loro
significato interno di evento disabilitante, della loro disabilità e dei
loro vissuti rispetto all’ausilio.
Binswanger nel 1979 dice: “L’uomo è una totalità composta di mente
e di corpo, il corpo occupa uno spazio; studiando lo spazio si può
comprendere anche il corpo che ha bisogno di comunicare con la
mente e con il fuori di sé […] la psicologia non ha mai a che fare
con un soggetto privo del suo mondo, perché un simile soggetto non
sarebbe altro che un oggetto”.
Sempre all’interno di questi incontri, attraverso un’attenzione fluttuante, abbiamo cercato di cogliere la rappresentazione psichica del
loro problema fisico, il corpo immaginato (R. Rocca e G. Stendoro,
2005: “Il corpo immaginato rappresenta uno dei luoghi principali
in cui la persona, di tutte le età, mette in scena le vicende alterne del
proprio sentimento d’identità …”), l’Io-corpo e la distanza spaziale
tenuta dall’anziano nel dialogo, incontro con noi: “il tratto di distanza personale che separa un individuo da altri individui o oggetti,
è regolato, predisposto gerarchicamente dalla presenza di fantasmi
di fuga – pericolosità – angoscia o di avvicinamento – intimità
– piacevolezza propri di ogni essere” (Rocca e Stendoro, 2005).
4° Corso per psicologi Ci sembra, quindi, necessario nella prospettiva di un incontro autentico con l’Altro, tenere conto del significato simbolico della situazione spaziale che il paziente assume consciamente o inconsciamente
per sé nel dialogo-incontro e il nostro corpo-spazio-apertura.
Da questo, se pur esiguo, numero di colloqui abbiamo cercato di
trarre alcuni spunti riflessivi sia rispetto ai vissuti ed all’immaginario dei soggetti riguardo alla prescrizione dell’ausilio, sia rispetto ad
un modello di intervento idoneo alla presa in carico di questi stessi
soggetti durante e dopo la prescrizione stessa.
Bibliografia
Ammaniti M, Stern D. Attaccamento e psicoanalisi. Roma: Laterza 2003.
Binswanger L. Essere nel mondo. Roma: Astrolabio 1979.
Bronfenbrenner U. Ecologia dello sviluppo umano. Bologna: Il Mulino
2002.
Herzlich C, Philippe A. Sociologia della malattia e della medicina. Milano:
Franco Angeli 1999.
Liverta Sempio O, Marchetti A. (a cura di), Il Pensiero dell’altro. Contesto,
conoscenza e teorie della mente. Milano: Ed. Raffaello Cortina Editore
1995.
Rocca R, Stendoro G. L’immaginario teatro delle nostre emozioni. Bologna: Ed. Clueb 2001.
Rocca R, Stendoro G. Psicosomatica, una risposta dall’Immaginario.
Roma: Armando Editore 2005.
Tacchi EM. L’anziano e la sua casa. Milano: Franco Angeli 1995.
Troppo futuro: siamo pronti a gestire le
nuove fasi che si aggiungono alla vita?
S. Lera
“Fondazione Don C. Gnocchi” Onlus-Centro IRCCS, Pozzolatico, Fac. di
Psicologia Università di Firenze
Il marcato invecchiamento della popolazione si configura come uno
dei maggiori progressi e al tempo stesso come problema per eccellenza delle società moderne.
Si sostiene ormai una ripartizione dell’invecchiamento in demografico, biologico e sociale, a causa
di un crescente gap tra la vecchiaia biologica e quella sociale e ciò
prevede la necessità di una revisione, non solo demografica, ma anche sociale, politica ed economica, della soglia di accesso alla classe
degli anziani (Cagiano de Azevedo, 2004).
349
Infatti come sostengono Lewontin e Levins (1978) l’evoluzione non
è né un fatto né una realtà, ma solo un modo di organizzare la
conoscenza del mondo.
Oggi sembra affermarsi con sempre maggiore intensità il paradigma
di vecchiaia di successo (Successfull ageing), che prevede un’efficace antagonizzazione dei fattori di rischio per l’insorgenza della
malattia, un livello di salute percepito soddisfacente e alti gradi di
autonomia fisica e psicologica. Al modello biomedico sembra sempre
più affiancarsi il modello psicologico-esistenziale che prevede la
possibilità di sperimentare ancora la capacità di gioire, in equilibrio
tra il desiderare e l’accettare di potere appagare desideri in forma
ridotta.
In fondo si suggerisce una visione del mondo “pacificata”, un senso
di dignità ed apprezzamento personale della propria vita, inclusa
l’accettazione della propria mortalità.
In accordo con Tramma (2000), la persona che invecchia “si renderà conto che la sua terza età è tutta da inventare, da costruire, da
immaginare, proverà cioè l’esile e gravoso piacere della libertà in
una via nella quale non si contemplano patetici e inutili consigli
su come invecchiare bene, né discutibili inviti a pensarsi saggi e
rassegnati.
In accordo con Galimberti, se il fine di invecchiare fosse quello di
morire, avrebbe ragione Montanelli: una bella eutanasia al momento giusto come gesto di restituzione della dignità dell’individuo nei
confronti delle indifferenti leggi di natura. Ma Hillman … giustamente sostiene che il fine di invecchiare non è quello di morire, ma
di svelare il nostro carattere che ha bisogno di una lunga gestazione
per apparire, a noi stessi prima che agli altri.
Con queste premesse la mia relazione cercherà di indagare quelle
dimensioni di libertà, creatività, inventività, indispensabili per la
vecchiaia più che per ogni altra età.
Bibliografia
Galimberti U. La lunga durata: che cosa significa invecchiare. In: La
Repubblica 6 gennaio 2001.
Cagiano de Azevedo R, (a cura di). The european welfare in a counterageing society. Roma: Ed. Kappa 2004.
Lewontin RC, Levins R. Evoluzione. In: Enciclopedia. Torino: Einaudi 1978.
Galimberti U. La lunga durata: che cosa significa invecchiare. In: La
Repubblica 6 gennaio 2001.
Tramma S. Inventare la vecchiaia. Roma: Meltemi 2000, p. 113.
350
4° Corso per psicologi
La capacità conversazionale, risorsa e strumento nella
coppia caregiver-paziente
cognitivi e, all’intera famiglia la possibilità di ricreare una nuova sintonia
nella relazione che la malattia aveva interrotto.
L. Borgia, L.A. Nava
Bibliografia
A.M.A.P. Associazione Malattia D’Alzheimer Padova in collaborazione con C.S.V.
Provincia di PD
Scopo. Il Conversazionalismo distingue nell’attività del linguaggio, due
funzioni autonome: la funzione comunicativa e la funzione conversazionale. Nell’Alzheimer fin dalle prime fasi della malattia la funzione comunicativa si frammenta, al contrario la funzione conversazionale, fino a fasi molto
avanzate, si mantiene intatta, con la possibilità per il paziente di intrattenere
conversazioni, in cui le regole della cortesia conversazionale siano facilmente osservate 1. La possibilità più importante che il Conversazionalismo ci
propone, è quella di considerare il malato di Alzheimer come “conversante”
a pieno titolo, e di individuare nelle sue parole delle linee di senso non immediatamente evidenti che, se colte e restituite al paziente (nella forma della
restituzione del “motivo narrativo”) permettono di “accompagnarlo nel
suo mondo possibile” 2. Lo scopo di questo lavoro è quello di ristabilire una
relazione comunicativa tra la paziente e chi se ne prende cura, dove malattia
e razionalità si possano amalgamare lasciando spazio a un contatto più
emotivo e più possibile. L’intervento si è svolto con la paziente attraverso un
ciclo di colloqui basati sulla tecnica conversazionale e parallelamente con i
caregivers attraverso il sostegno psicologico, la formazione e l’addestramento all’approccio conversazionale.
Materiali e metodi. L’intervento ha interessato una signora di 72 anni con
diagnosi di A.D. da cinque anni e la coppia di caregivers, figlia e genero che
se ne prende cura. La paziente è stata sottoposta a valutazione neuropsicologica pre e post trattamento (Esame Neuropsicologico Breve, MMSE T0 19,03
T1 16,03) dalla quale è emerso un peggioramento nelle prestazioni delle
diverse abilità, soprattutto a carico della memoria episodica e di lavoro, è
preservata la comprensione del linguaggio mentre la capacità di produzione
linguistica seppure alterata al confronto con la prima valutazione appare
meno compromessa rispetto al quadro generale. I colloqui conversazionali
con la psicologa sono stati audioregistrati e successivamente trascritti parola
per parola ai fini dell’analisi degli indicatori testuali. Il bisogno espresso dai
caregivers di essere informati sulla malattia e aiutati a comprenderla nelle
sue diverse manifestazioni, di essere sostenuti psicologicamente e soprattutto
di essere aiutati a ristabilire una nuova relazione comunicativa ed emotiva
con la paziente, ci ha portato a strutturare l’intervento attraverso le seguenti
fasi: colloqui di sostegno, inserimento nei gruppi psicoeducazionali e addestramento alla tecnica conversazionale.
Per valutare il carico di stress dovuto all’assistenza ai caregivers è stato
somministrato il Caregiver Burder Inventory.
Risultati. I colloqui conversazionali con la signora hanno portato ad un
miglioramento di alcuni indicatori conversazionali. Dall’analisi dei testi si
evidenzia un aumento progressivo della durata dei colloqui, cosi come un
numero maggiore di parole e di turni verbali. Risultati che si sono tradotti
in una variazione positiva del Tasso dei Nomi (T0 7%, T1 11%) e dell’Indice
di Riferimento (T0 0,49 T1 0,93). I risultati al Caregiver Burder Inventory
in merito al lavoro svolto con i caregivers evidenziano una diminuzione del
carico assistenziale percepito (T0 49/96 T0 58/96; T1 42/96 T1 53/96).
Conclusione. La conversazione da prima più incoerente, ripetitiva ed
interrotta, povera di parole (onomapenia), diventa con l’applicazione della
tecnica conversazionale più fluida, si registra un maggior utilizzo di nomi.
L’esperienza di una conversazione felice, una situazione in cui il paziente
non viene giudicato, non viene corretto, non viene interrotto, non si sente
inadeguato, è un’esperienza che sembra creare uno stato di grazia nel paziente e che lascia una traccia profonda positiva e durevole 3. Nella nostra
esperienza abbiamo potuto notare come l’approccio conversazionale e le
attività di sostegno e psicoeducazionali rivolte ai caregivers abbiano mitigato l’impatto negativo del loro comunicare. L’intervento ha permesso di
ritrovare alla pz. un senso di libertà comunicativa, pur negli evidenti limiti
1
2
3
Liscio MR, Cavallo MC. La comunicazione non verbale nel malato di Alzheimer. Milano: McGraw-Hill 1999.
Lai G. Cambiamenti nella teoria della conversazione e cambiamenti nella
relazione con i pazienti Alzheimer. Psicoterapia e Scienze Umane 2001;2:56-68.
Vigorelli P. La conversazione possibile con il malato Alzheimer. Milano:Franco
Angeli 2004.
Terapia psicologica risocializzante in gruppo:
l’esperienza con pazienti geriatrici in lungodegenza
F. Pecci
Unità Psicologica Casa di Cura Nepi (VT)
Scopo. La psicoterapia e la psicologia applicata agli anziani e ai grandi
anziani è stata per lungo tempo trascurata; esistevano infatti seri dubbi sulle
potenzialità di qualunque trattamento psicologico, in termini di incisività e
di efficacia, di agire su persone di età avanzata. Attualmente, però, comincia
ad esserci accordo sul fatto che i disturbi psichici delle persone anziane non
si distinguano particolarmente da quelli delle persone più giovani, ne per
le cause, che per i sintomi e come non sia vero che alle persone anziane
manchi la capacità di riflettere e di ragionare criticamente sulla propria esistenza. In particolare, l’approccio gruppale ha acquistato molta importanza
nel trattamento di numerosi disturbi psichici e nella gestione del passaggio
all’istituzionalizzazione del soggetto anziano.
Lo scopo di questo lavoro è presentare il Gruppo di Risocializzazione psicologica, nelle sue caratteristiche strutturali e in quelli che sono gli scopi
clinici che si prefigge. L’obiettivo fondamentale dell’intervento è: favorire
e stimolare l’aspetto della socializzazione in gruppo, contrastare e limitare
la tendenza dell’anziano all’isolamento, attivare il soggetto attraverso gli
interessi per gli stimoli ambientali, potenziare le sue abilità sociali e di relazione, contribuire a migliorare e regolarizzare il tono dell’umore dell’anziano. Questa tecnica è particolarmente indicata per coloro che risiedono in
strutture geriatriche e che manifestano sintomi depressivi e deficit cognitivi
lievi, ma che sono in grado di affrontare agevolmente una conversazione.
Materiali e metodi. Gli incontri di gruppo si tengono con costanza da due
anni presso la Casa di Cura “Nepi”, due volte a settimana per la durata di
un’ora ciascuno e sono condotti dalla psicologa; si rivolgono ad un gruppo
aperto, che oscilla di volta in volta dalle 10 alle 15 persone. Per la loro realizzazione, viene utilizzato un approccio integrato, che prende ispirazione
dalla Terapia di Reminescenza di Butler 1, in cui gli eventi del passato,
soprattutto quelli positivi, vengono rievocati per stimolare le risorse mestiche residue e per recuperare il ricordo di esperienze piacevoli, cosi da agire
positivamente sul tono dell’umore e sull’autostima. Inoltre, l’intervento di
Risocializzazione si avvale del contributo della terapia di Rimotivazione di
Weiner et al. 2, ovvero una tecnica strutturata in cui si discute in gruppo di
temi di attualità, con lo scopo di riattivare nel paziente anziano gli interessi
per gli stimoli ambientali e, basandosi sul “qui ed ora”, aiutarlo a migliorare le sue abilità sociali e di relazione.
Inoltre, l’intervento di gruppo cerca di fornire ai pazienti dei modelli per
incoraggiare lo sviluppo personale, l’elaborazione emotiva e l’autosservazione; lavora con tutti i membri del gruppo, affinché, di volta in volta, ognuno
di essi possa cercare ed esporre la soluzione ad uno o più problemi che
quotidianamente si presentano; contribuisce ad esporre l’anziano a nuove
stimolazioni sociali, così da favorire la verbalizzazione delle emozioni e la
meta-riflessione. Durante gli incontri, è possibile avvalersi di materiali di
supporto, quali fotografie, quotidiani, riviste, supporti audio e cinevisivi,
ovvero di quanto contribuisca a stimolare cognitivamente i soggetti, a tenere
vigile la loro attenzione e il coinvolgimento emotivo.
4° Corso per psicologi Risultati. Per valutare l’efficacia dell’interevento, al termine del secondo
anno di attività è stato somministrato all’interno del reparto un questionario creato ad hoc ed indirizzato sia al personale medico, che infermieristico, con lo scopo di valutare una serie di variabili (andamento della
sintomatologia medica, tono dell’umore e comportamento, compliance al
trattamento farmacologico, socializzazione, comunicazione, autonomia ed
attività), come indicatori dell’efficacia dell’intervento di Risocializzazione
sui pazienti partecipanti, rispetto a quelli che non partecipano abitualmente
o assiduamente al gruppo.
Dall’analisi delle valutazioni, è emerso come il gruppo, nella sua dimensione socializzante, di scambio e di confronto, rappresenti un valido sostegno
per controbilanciare i vissuti di solitudine e di depressione, spesso legati alla
stessa condizione di anzianità e di istituzionalizzazione e come l’anziano,
potendosi confrontare con altre persone che presentano problemi simili ai
suoi e vissuti analoghi, ridimensioni la sensazione di sentirsi incompreso o
isolato e riesca cosi a “decentrarsi”, a favore dell’acquisizione di pensieri
alternativi.
Conclusione. Possiamo dire che l’importanza dell’attuazione di un interevento psicologico Risocializzante in gruppo è legato al fatto che l’invecchiamento è da considerarsi come l’espressione di una interazione fra la persona
e il contesto in cui vive: vi è cioè una interdipendenza fra abilità fisiche,
cognitive, affettive e risorse sociali, contesto e supporti. La complessità dell’invecchiamento è data proprio dal fatto che, oltre cha dalle determinanti
biologiche, dipende anche da quelle eco-psicologiche, quali l’ambiente, le
relazioni sociali, il livello di attività, elementi che sono ritenuti fondamentali per la qualità della vita e per la soddisfazione autoriferita.
Bibliografia
1
2
Butler RN. The Life Review: an Interpretation of Reminescenze in the Aged.
Psychiatry 1963;26:65-76.
Weiner MA, Brock A, Snowdosky A. Working with the Aged. New York:AppletonCentury-Croft 1987.
Prevenzione del caregiver burden: effetto di un
intervento psicologico di gruppo rivolto ai familiari di
pazienti affetti da Malattia di Alzheimer
S. Sampietro, A. Coin, L. Borgia*, A. Girardi, M. Najjar, G. Orrù, S. Catanzaro,
S. Sarti, E.M. Inelmen, E. Ruggiero, G. Enzi
Clinica Geriatrica, Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Università di
Padova; *Associazione Malattia di Alzheimer Padova
Scopo. Scopo del nostro lavoro è indagare gli effetti sul carico assistenziale
percepito, di un percorso psico-educazionale e di sostegno psicologico in
gruppo, rivolto ai familiari caregiver di pazienti affetti da Malattia di Alzheimer. Si è voluto inoltre valutare se l’intervento sui familiari contribuisca
alla riduzione dei disturbi cognitivi e comportamentali nel paziente affetto
da Malattia di Alzheimer.
Materiali e metodi. È stato effettuato un confronto tra gruppo sperimentale e gruppo di controllo, entrambi valutati al tempo zero e a 12 mesi di
distanza (tempo 1). Il gruppo sperimentale è costituito da 14 caregiver di
pazienti affetti da malattia di Alzheimer che si sono rivolti all’Associazione
Malattia di Alzheimer di Padova, e che hanno partecipato ad un percorso
psico-educazionale per la gestione del familiare malato e di sostegno psicologico in gruppo. Il gruppo di controllo è costituito da 14 caregiver di
pazienti affetti da Malattia di Alzheimer che non hanno intrapreso alcun
tipo di percorso psicologico, reclutati tra i soggetti afferenti all’Unità Valutativa Alzheimer (UVA) della Clinica Geriatria, presso l’Ospedale di Padova.
Ogni gruppo è formato da coppie paziente-caregiver principale. Al caregiver
sono stati somministrati: il CBI (Caregiver Burden Inventory), il BDI (Beck
Depression Inventory) e l’NPI-dp (NeuroPsychitric Inventory Caregiver
Distress Scale). Al paziente sono stati somministrati: il MMSE (Mini Mental
351
State Examination) e l’ADAS-cog (Alzheimer’s Disease Assessment Scale),
ADL (Basic Activity of Daily Living) e IADL (Instrumental Activity of Daily
Living), la GDS (Geriatric Depression Scale) e la Scala Cornell per la Depressione, l’NPI (NeuroPsychitric Inventory). L’analisi statistica dei dati è
stata condotta mediante il software SPSS per Windows, versione 15.0.
Risultati: Per quanto riguarda il CBI, emergono differenze significative tra i
due gruppi, tra il tempo 0 e il tempo 1; nel gruppo sperimentale, infatti, il
carico evolutivo (GS =-0,8 ± 2,3 vs. GC=1,5 ± 2,9, p < 0,05) fisico (GS = -3,4
± 3,7 vs. GC = 0,7 ± 1,5 p < 0,01 ) ed emotivo (GS = -1,5 ± 2,4 vs. GC = 0,3
± 1,7 p < 0,05) si sono ridotti (Fig. 1). Il punteggio totale del BDI aumenta significativamente nel gruppo di controllo, dal tempo 0 al tempo 1 (GS = -1,4 ±
4,5 vs. GC = 3,5 ± 2,3 p < 0,01). Relativamente ai disturbi comportamentali,
dal tempo 0 al tempo 1, si rileva un aumento dell’attività motoria aberrante
nel gruppo di controllo (GS = -1,7 ± 3,1 vs. GC = 0,2 ± 1,3 p < 0,05).
Conclusione. I nostri risultati, in accordo con precedenti ricerche 1
indicano che intraprendere un percorso psicoeducazionale e di sostegno
psicologico in gruppo riduce il livello del carico percepito dal caregiver,
in particolare il carico evolutivo, il carico fisico e quello emotivo. Lo stato
depressivo dei caregiver e i disturbi comportamentali nei pazienti del gruppo
di controllo aumentano, mentre nel gruppo sperimentale viene mantenuta
una condizione di stabilità, rispetto a questi due livelli. Esistono studi che
dimostrano una riduzione della depressione nei caregiver 2 e dei disturbi
comportamentali nei pazienti, in seguito ad un intervento di sostegno psicologico con i caregiver 3 4.
Bibliografia
1
2
3
4
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health effects, and support strategies. Am J Geriatr Psychiatry 2004;12:240-9.
Gitlin LN, Belle SH, Burgio LD, et al. Effect of multicomponent interventions on
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Nobili A, Riva E, Tettamanti M, et al. The effect of a structured intervention on
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Dröes RM, Breebaart E, Meiland FJM, et al Effect of Meeting Centres Support
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