Luigi Costato

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Luigi Costato
Rivista
di diritto alimentare
Sommario
anno 1, numero 0 –
Editoriale
Luigi Costato
I principi fondanti
alimentare
il
diritto
Interventi
Paolo Borghi
Food security, food safety and
international trade
Ferdinando Albisinni
Nuove regole per l’impresa
alimentare
Commenti
xxxxxxx
La Corte di giustizia e il pane
surgelato
Documenti e casi
Il D.M. Mipaaf 4 agosto 2006,
Consorzi di tutela e controlli
erga omnes per i VQPRD
La sentenza xxx della Corte di
giustizia
Il pane surgelato
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editoriale
I principi
alimentare
fondanti
il
diritto
Luigi Costato
1. L’emergere di una legislazione deputata
alla protezione del consumatore e la sua
progressiva “universalizzazione”.
Il diritto alimentare si configura come “un
complesso di regole giuridiche di origine
nazionale, comunitaria e internazionale
informate alla finalità di proteggere il
consumatore di alimenti. La protezione si
manifesta, in via generale, vietando la
messa in circolazione di alimenti i cui vizi
sono direttamente dannosi per chiunque,
anche se assunti in modiche quantità” i .
Rispetto a questo primo approccio
all’argomento
costituito
dal
“diritto
alimentare”, che consiste nell’individuazione
del diritto che soprassiede alla produzione,
allo scambio e al consumo dei prodotti
destinati all’alimentazione umana ii , sembra
opportuno compiere qualche passo ulteriore,
al fine di arrivare ad individuare una migliore
e più peculiare somma di requisiti dello
stesso, che consentano una corretta
individuazione della sua effettiva specificità.
Non c’è alcun dubbio che il susseguirsi di
norme – nazionali, comunitarie ma anche
dettate da trattati internazionali collegati alla
globalizzazione quali quelle contenute negli
Accordi
che
accompagnano
quello
costitutivo dell’Organizzazione Mondiale del
Commercio abbia comportato un
progressivo evidenziarsi della necessità di
fare perno sulla tutela del consumatore a
fronte della grande circolazione dei prodotti
alimentari, che fa sì che cibi prodotti a
migliaia di chilometri siano consumati da
una massa di persone sparse per un ampio
territorio quale può essere l’Europa, le
Americhe, l’Asia ecc. E’, tuttavia, anche vero
che sia il diritto comunitario che le norme
contenute nel trattato di Marrakech
privilegiano fortemente la circolazione dei
prodotti e propongono regole che si
oppongono ad un uso “protezionistico” di
norme sanitarie adottate formalmente con lo
scopo di tutelare il consumatore, ma che
potrebbero celare scopi più propriamente
economici degli Stati. Basti considerare da
un lato la giurisprudenza della Corte di
giustizia iii , dall’altro alcune decisioni degli
organi per la soluzione delle controversie in
sede WTO iv per rendersi conto del difficile
equilibrio fra il diritto alla protezione della
sicurezza alimentare da un lato v , e interessi
del commercio, alla libera circolazione delle
merci sia all’interno della Comunità europea
che del complesso dei Paesi facenti parte
dell’Organizzazione
mondiale
del
Commercio dall’altro.
Gli interessi del commercio mondiale
emergono oggi al punto da vincolare vi il
sistema normativo alimentare non solo dei
singoli Stati, ma anche della stessa
Comunità, come risulta chiaramente, ad
esempio, dalla formulazione data, in sede
comunitaria, del principio di precauzione
contenuto nell’art. 7 del reg. 178/2002 vii ; ma
ciò che più ancora viene evidenziato da
questa grande messe di regole, divieti, limiti
ai divieti ecc. è la peculiarità degli interessi
che coinvolgono il campo dell’alimentazione
e della conseguente produzione di norme ad
essa riferentisi. Questo fenomeno, reso
ancor più evidente dalla globalizzazione dei
commerci, si concretizza in un forte e
sostanziale spostamento dell’effettivo potere
di legiferare in materia a danno degli Stati e
delle stesse entità regionali superstatali quali
la Comunità europea, in relazione alle sue
competenze in materia commerciale, a
favore della WTO.
Ne deriva il fatto che la legislazione
alimentare che considera gli aspetti sanitari
dei prodotti diviene sempre più di tipo
universale, nel senso che essa interessa la
complessiva circolazione mondiale dei cibi,
sicché deve, tendenzialmente, assicurare gli
standard di sicurezza che vengono richiesti
a quel livello, anche rifacendosi a regole di
soft law spesso richiamate sia dalle norme
della WTO che da quelle comunitarie viii ; sul
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punto basti vedere i riferimenti al Codex
alimentarius predenti, ad esempio, nella
citata sentenza Smanor sul c.d. yogurt
surgelato.
Dunque, se è innegabile che l’intero
complesso normativo che costituisce il diritto
alimentare – considerato sia sotto il profilo
interno che quello internazionale - è fondato
sul principio generale di protezione del
consumatore e della sua salute, molte regole
sono condizionate – ferma restando la
formale primazia della tutela della salute di
chi mangia – dalle esigenze del commercio.
A proposito di universalità delle norme
alimentari si noti che, al fine di assicurare
una ragionevole libertà di circolazione dei
prodotti, in sede comunitaria non solo si è
utilizzato a fondo il principio Cassis de Dijon
ma anche sono stati superati ostacoli di
natura, appunto, sanitaria, attraverso
l’adozione di direttive su aromi ed additivi,
che individuano i prodotti ammessi e le
quantità utilizzabili degli stessi in relazione al
singoli cibi ix ; a livello WTO si sono adottati
l’art. 4 dell’Accordo SPS, che in larga misura
appare ispirato, mutatis mutandis, al mutuo
riconoscimento di origine comunitaria, e l’art.
5 dello stesso Accordo, che ammette solo
una
temporanea
sospensione
delle
importazioni nel caso di sospetti concernenti
la salubrità di prodotti importati, da eliminare
celermente o rendere rapidamente definitiva,
a seconda dei casi, a seguito del
raggiungimento o meno della certezza
scientifica della loro pericolosità.
Tuttavia la stessa etichettatura degli alimenti
non è ancora stata oggetto di accordi
internazionali di vasto respiro, così come
controversa è la protezione dei nomi dei
prodotti tradizionali anche di grande
reputazione come il vino Chianti, il formaggio
Parmigiano – reggiano ecc.
Mentre la Costituzione italiana, nella lettura
che ne da la Corte costituzionale, assicura la
tutela del consumatore di alimenti attraverso
la protezione della salute come bene
primario con l’art. 32, il trattato C.E.
esplicitamente stabilisce la protezione del
consumatore con l’art. 153, il quale, tuttavia,
non fa riferimento alla sola salute, pur
riconosciuta il primario bene da tutelare, ma
anche alla sicurezza, agli interessi
economici dei consumatori e alla loro
informazione,
il
che
si
realizza,
principalmente, con etichettature adeguate e
prevedendo l’utilizzazione di nomi dei
prodotti che non inducano in errore, per
determinare i quali si fa spesso ricorso al
citato sistema di soft law qual’è quello
contenuto nel Codex alimentarius.
La protezione della salute del consumatore
ha provocato la progressiva normazione in
materia di responsabilità del produttore da
un lato x e quella concernente l’analisi dei
pericoli e il controllo dei punti critici del
sistema produttivo e di distribuzione dei
prodotti alimentari (H.A.C.C.P.) xi . Nel primo
caso si amplia la responsabilità del
produttore, nel secondo si mira a imporre un
sistema di autocontrollo che sia capace di
prevenire, al massimo grado possibile,
produzioni di cibi difettosi sotto il profilo
microbiologico.
Infine,
si
sta
progressivamente realizzando un sistema di
norme che stabilisce a carico dei produttori
di prodotti alimentari l’obbligo di garantire la
“rintracciabilità” degli stessi, al fine di
permettere l’individuazione della fase nella
quale si dovesse verificare il difetto presente
anche in momenti successivi alla produzione
o commercializzazione dei cibi.
2. La peculiarità del cibo e la qualificazione
oggettiva del diritto alimentare
Tutte queste caratteristiche del diritto
alimentare
parrebbero,
tuttavia,
non
consentire allo stesso di essere individuato
per sue specifiche peculiarità, perché esse
appaiono incentrate sulla tutela del
consumatore e temperate dalle necessità dei
traffici commerciali, elementi che sembrano
accomunare il diritto alimentare ad altri
complessi o sistemi di norme che
progressivamente caratterizzano il nostro
ordinamento, anche sotto la spinta di
direttive comunitarie che si riferiscono ad
argomenti diversi dai cibi e dal loro
consumo.
Proprio questa constatazione, tuttavia,
consente di accertare che è riconoscibile
una sostanziale differenza fra la generica
tutela del consumatore e del commercio
interstatuale e quella riservata a chi
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consuma alimenti. Infatti proprio un
regolamento
comunitario
“sulla
cooperazione per la tutela dei consumatori” xii
evidenzia la peculiarità della materia che qui
interessa; tale regolamento limita il suo
stesso campo di applicazione ad una serie di
norme interne derivate da direttive che
hanno ad oggetto la pubblicità ingannevole, i
contratti
negoziati
fuori
dei
locali
commerciali, il credito al consumo,
l’esercizio di attività televisive, le vacanze e i
viaggi “tutto compreso”, le clausole abusive
nei contratti stipulati dai consumatori, le
cc.dd. multiproprietà, i contratti a distanza, la
pubblicità comparativa, l’indicazione dei
prezzi dei prodotti offerti ai consumatori, le
vendite e garanzie dei beni di consumo, il
commercio elettronico, il codice comunitario
relativo ai medicinali per uso umano, la
commercializzazione a distanza dei servizi
finanziari ai consumatori, il ritardo prolungato
degli aerei passeggeri xiii . Infatti l’art. 3, lett.
a), individua il campo di applicazione del
regolamento
appunto
alle
fattispecie
considerate dalle dette direttive e precisa
che per venditore o fornitore ai sensi del
regolamento deve intendersi chi “agisce
nell’ambito
della
propria
attività
commerciale, imprenditoriale, artigiana o
professionale”. Il consumatore è, dunque,
secondo questo regolamento, un soggetto
che ha rapporti con un “professionista” che
lo contatta in questa sua veste; la
preoccupazione del legislatore è, pertanto, in
questi casi, di evitare che il consumatore
venga
schiacciato
dalla
prevalente
competenza del venditore professionale.
Altro è, invece, l’approccio che il reg.
178/2002 compie al rapporto consumatore –
produttore o commerciante o, comunque,
somministratore di alimenti; infatti poco
rileva che il fornitore di alimenti svolga una
attività con scopo di lucro (art. 3 del reg.
178), interessando, invece, solo la salubrità
dell’alimento, sicché la responsabilità
dell’erogatore di cibi non è condizionata
dalla veste nella quale egli somministra il
cibo, importando solo che esso sia edibile
senza rischi ulteriori rispetto a quelli normali
dovuti ad eventuali eccessi alimentari o a
intolleranze e simili.
Emerge, quindi, la peculiarità dell’aspetto
oggettivo che caratterizza questo diritto:
esso regola produzione e commercio – o
comunque somministrazione – di beni che
non restano esterni al consumatore, ma che
sono destinati ad essere introdotti all’interno
del suo organismo, dando origine ad un
rapporto fisico del tutto specifico, che non si
manifesta in nessun altro prodotto, neppure
nel medicinale, che pure ha lo stesso
destino ma che viene assunto solo quale
rimedio “eccezionale” e non da tutti e ogni
giorno, come avviene con il cibo. La riprova
di questa distinzione la si ha, ancora, nel
citato regolamento, che prevede fra le
direttive che interessano un campo esterno
agli alimenti anche quella che interviene
sulle regole concernenti “i medicinali per uso
umano”, prodotti che sono destinati
normalmente ad entrare nel corpo umano,
ma che sono esclusi dai cibi dall’art. 2 del
reg. 178/2002; dunque non si rileva alcuna
confusione dei medicinali con gli alimenti,
ma, invece, una netta distinzione fra di essi,
sicché sotto questo profilo il diritto
alimentare inizia la dove terminano le norme
sui medicinali.
La peculiarità del rapporto dell’uomo con il
cibo trova riflessi anche nell’idea della
sacralità del pasto, che è presente in molte
religioni al punto da far ritenere, presso certi
popoli, che cibarsi del nemico possa essere
considerato un modo per appropriarsi delle
sue prerogative positive. Insomma i cibi
sono sostanze del tutto particolari, in
relazione alla loro destinazione così “intima”
per il consumatore; pertanto appare
rilevante, nel ricostruire le fondamenta del
“diritto alimentare”, l’elemento oggettivo
costituito, appunto, dalle peculiarità dei beni
considerati.
Il fatto che si possa arrivare a regolare, nel
diritto alimentare, anche i mangimi non fa
che confermare l’assunto, poiché essi
interessano in quanto destinati ad animali
che producono cibi o che sono essi stessi
destinati a diventarli, mentre i mangimi per
animali non destinati a questi scopi non
rientrano nella normativa alimentare.
Pertanto la tutela del consumatore di
alimenti assume aspetti del tutto specifici,
che giustificano una possibile ricostruzione a
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sistema delle norme alimentari contenute
nell’ordinamento comunitario e nello stesso
ordinamento interno; ciò non significa che
alcune disposizioni contenute nelle direttive
sopraccitate e trasfuse nel diritto nazionale
non siano applicabili anche a favore dei
consumatori di alimenti, ma piuttosto che in
questi casi la nozione di consumatore e
quella di produttore acquisiscono significati
particolari e, comunque, che le dette norme
si applicano anche per i consumatori di
alimenti, ma hanno una valenza orizzontale
che va ben al di là delle regole che
riguardano la produzione degli alimenti che,
se specificamente destinate a questa finalità,
assumono forme e valenze proprie.
La natura del tutto particolare del cibo, unita
alla funzione che esplica il sistema
normativo di protezione del consumatore
fanno sì che le norme alimentari
acquisiscano una tale specificità che
progressivamente le portano a poter essere
considerate un vero e proprio diritto, nel
senso che esso possiede principi propri che
ne consentono l’autointegrazione, e regole
generali quali risultano, in particolare, dal
reg. 178/2002, che qualifica, al par. 2
dell’art. 4, i disposti dei suoi artt. da 5 a 10
“un quadro generale di natura orizzontale al
quale conformarsi nell’adozione di misure”,
affermazione rafforzata, sempre nell’art. 4,
dai paragrafi 3 e 4: “3. I principi e le
procedure esistenti in materia di legislazione
alimentare sono adattati quanto prima ed
entro il 1° gennaio
2007 al fine di
conformarsi agli articoli da 5 a 10. - 4. Fino
ad allora e in deroga al paragrafo 2, è
attuata la normativa vigente tenendo conto
dei principi di cui agli articoli da 5 a 10” xiv .
Se è vero, come è stato affermato xv , che i
principi enunciati negli artt. da 5 a 10 in
buona misura riproducono, o, meglio, danno
attuazione a norme già esistenti e, dunque,
appaiono rispondere a regole che il trattato,
anche come letto dalla Corte di giustizia, già
contiene o prevede, è tuttavia innegabile che
la formulazione dell’art. 4 evidenzia le
peculiarità
dell’oggetto
“cibo”
e
la
preoccupazione del legislatore comunitario
di prevedere per esso una serie di regole
particolarmente stringenti, mirate a conciliare
l’esigenza della sicurezza alimentare con la
circolazione delle merci, preoccupazione che
si
fonda,
appunto,
sulla
specificità
dell’oggetto, il cibo, che autorizza e giustifica
un interventismo che per certi aspetti può
sembrare addirittura eccessivo.
La specificità del sistema di norme alimentari
si ricava, anche, dalla stesura di un “codice
alimentare” italiano il quale, all’art. 2, lett. b)
(si tratta del progetto di codice che può
ritenersi quasi definitivo), afferma che per
legislazione alimentare si intende “la
disciplina, di fonte comunitaria, nazionale o
regionale, avente per oggetto i prodotti
alimentari in generale e la sicurezza dei
prodotti alimentari in particolare, in relazione
alla produzione, alla conservazione, alla
circolazione, alla tutela igienico sanitaria,
alla vigilanza ed al controllo sui prodotti
alimentari stessi”; e all’art. 3 recita: “1. La
disciplina
della
produzione
e
commercializzazione dei prodotti alimentari:
a) si conforma ai principi e alle norme di
diritto comunitario con particolare riferimento
alla libera circolazione delle merci e alla
concorrenza, tenuto conto degli articoli 28,
30, 81, 82, 83, 84, 85, 86 e 95, paragrafi 4 e
5, del Trattato istitutivo della Comunità
europea, e alle norme e ai principi del
regolamento (CE) n. 178/02 del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 28 gennaio
2002;
b) tutela gli interessi relativi alla vita e alla
salute
umana,
alla
protezione
del
consumatore, all’ambiente e alla qualità dei
prodotti”.
Come si può agevolmente rilevare il codice,
che costituisce la raccolta organizzata delle
norme alimentari nazionali, mette in rilievo i
due elementi che si sono qui evidenziati, e
cioè da un lato la protezione dei
consumatori, dall’altro la peculiarità dei
prodotti considerati, dei quali si vogliono
assicurare requisiti di massima, possibile,
sicurezza, essendo essi destinati, come
appunto si diceva, a costituire addirittura i
mattoni che servono a costruire gli esseri
umani e a mantenerli in vita.
In definitiva, dunque, anche principi che
potrebbero essere comuni ad altri “diritti”
assumono, quando utilizzati per regolare
produzione, commercio e utilizzazione degli
alimenti, aspetti specifici e peculiari,
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consentendo la ricostruzione a sistema del
complesso
delle
norme
alimentari
internazionali, comunitarie e nazionali.
Esemplare è, al proposito, la formulazione e
l’applicazione del principio di precauzione, di
origine ambientalistica xvi , al settore che ci
interessa, quale risulta dall’art. 7 del reg.
178/2002 xvii . Infatti, l’art. 7 citato formula il
principio di precauzione in maniera specifica
ed autonoma rispetto ai riferimenti che ad
esso si fa in altre occasioni, ispirandosi in
larga misura a quanto contenuto nell’art. 5
dell’Accordo SPS contenuto nel trattato di
Marrakech, istitutivo dell’Organizzazione
Mondiale del Commercio.
Il così detto “allarme rapido”, d’altra parte, è
stato da tempo introdotto per gli alimenti xviii ;
in una direttiva mirante a garantire per
quanto
possibile
la
protezione
del
consumatore in generale si è ritenuto
necessario prevedere
un “Sistema
comunitario di allarme rapido per gli
alimenti”, adottando, cioè, una normativa
peculiare per la sicurezza del consumatore
di cibi. Tale sistema è oggi sostanzialmente
assorbito in analogo meccanismo previsto
dal reg. 178/2002, ma resta indubitabile il
fatto che esso sia adottato per sopperire alle
specifiche esigenze che caratterizzano
l’oggetto “cibo” xix , vero elemento capace di
individuare oggettivamente e peculiarmente
il diritto alimentare.
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interventi
Food security, food safety and
international trade
Paolo Borghi
SOMMARIO: 1. Premessa: i molteplici
significati della “sicurezza alimentare”. - 2.
La food security nel diritto internazionale. - 3.
La nozione comunitaria di sicurezza
alimentare: il libro bianco sulla sicurezza
alimentare, l’istituzione dell’EFSA, il principio
di precauzione. - 4. La food safety nel diritto
del commercio internazionale: l’Accordo
SPS. - 5. Le istanze precauzionali
nell’Accordo SPS. - 6. Diversità di approcci
al problema: sicurezza alimentare e
commercio internazionale dopo Doha.
1. Il titolo di questa relazione può trarre in
inganno, complice la ricchezza semantica di
talune
parole
nella
lingua
italiana.
L’espressione “sicurezza alimentare” è,
infatti, ambigua, rimandando ad almeno due
concetti altrove (ad es. nel linguaggio
giuridico e politico anglosassone) ben distinti
e non confondibili: quello di “food security” e
quello di “food safety”.
Il primo concetto è sintetizzabile nella
preoccupazione
di
sicurezza
delle
disponibilità
alimentari.
Una
buona
definizione testuale è quella data dal par. 1
del World Food Summit Plan of Action (1317 novembre 1996, Roma): “Food security
exists when all people, at all times, have
physical and economic access to sufficient,
safe and nutritious food to meet their dietary
needs and food preferences for an active
and healthy life”: così definita, la sicurezza
alimentare pone in primo piano le esigenze
di tipo “quantitativo” (legate cioè alla
necessità di rendere possibile un adeguato
livello di nutrizione).
La food safety è – nella definizione ora vista
– solo una componente della security: gli
alimenti di cui garantire la disponibilità
devono essere “safe”, e consentire una
“healthy life”. Al tempo stesso, essa rimane
– sul piano concettuale – una esigenza a sé:
un’istanza di salubrità presente da sempre, e
da sempre affidata all’esperienza. Ma
quest’ultima è insufficiente, oggi che la
scienza applicata all’agricoltura amplia con
ritmi un tempo sconosciuti il numero delle
varietà coltivabili, attribuisce loro sempre
nuovi
caratteri
(spesso
intervenendo
direttamente sul genoma), e scopre nuovi
collegamenti persino fra patologie già note e
prodotti alimentari tradizionali.
A tutto ciò si aggiunga la circolazione dei
prodotti alimentari la quale – per lunghi
secoli pressoché inesistente o, al massimo,
regionale – oggi, divenuta “globale” (Josling,
1999), pone problemi sempre più seri di
confronto fra standards diversi di tutela del
consumatore, sia dal punto di vista
dell’igiene degli alimenti, sia delle modalità di
presentazione e di comunicazione del loro
contenuto, del trattamento che essi hanno
subito in fase di trasformazione, ecc.
E, malgrado la safety sia elemento
costitutivo essenziale della security (sì che si
possa
parlare
di
due
obiettivi
contemporaneamente perseguibili), va detto
che di rado – purtroppo – nei contesti
economici in cui prevale il secondo tipo di
esigenza riesce a diffondersi anche una
preoccupazione approfondita per la prima: la
food safety, infatti, è una necessità che
accomuna tutto il genere umano se la si
intende nel suo significato minimo ed
essenziale (ossia quale esigenza di non
dannosità di un alimento); se, però, la si
intende come certezza “assoluta” circa la
salubrità e la totale assenza di pericoli
connessi al consumo, la food safety (oltre ad
essere un obiettivo solo tendenziale) diviene
anche una componente della qualità del
prodotto, cui tipicamente si guarda di più in
quelle
realtà
economiche
dove
l’approvvigionamento
alimentare
e
la
nutrizione si considerano problemi superati.
2. Entrambi gli aspetti della sicurezza
alimentare sono oggetto di disciplina
nell’ambito delle norme che regolano il
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commercio internazionale di prodotti agricoli.
Per quanto concerne la food security basti
rammentare la Food Aid Convention (Desta,
457 ss.), facente parte dell’International
Grains Agreement, con la quale alcuni Stati
“donatori”
si
impegnano
a
fornire
annualmente aiuti alimentari a favore di
Paesi in via di sviluppo, sotto forma di
cereali adatti all’alimentazione umana o di
denaro, con lo scopo di raggiungere gli
obiettivi fissati dalla World Food Conference.
Ma è evidente la centralità del problema
anche nell’Accordo sull’agricoltura, annesso
al Trattato istitutivo della WTO:
– all’art. 12, ad esempio, esso ammette che
gli Stati firmatari possano introdurre divieti o
restrizioni alle esportazioni, ma solo previa
valutazione degli effetti che ciò potrebbe
esplicare sulla sicurezza alimentare dei
Paesi Membri importatori e, comunque,
previa
comunicazione
al
Comitato
agricoltura e consultazione con eventuali
Paesi importatori interessati che ne facciano
richiesta;
– all’Allegato 2, n. 3, l’Accordo consente, fra
le misure di sostegno al settore agricolo
reputate non distorsive del mercato (la c.d.
“scatola verde”), e dunque non soggette ad
obblighi di riduzione, ogni agevolazione
finalizzata allo stoccaggio pubblico per la
sicurezza
dell’approvvigionamento
alimentare – cioè alla costituzione e
conservazione di scorte di prodotti nel
quadro di un programma di sicurezza
alimentare previsto dalla legislazione
nazionale (eventualmente, può trattarsi
anche di un aiuto statale allo stoccaggio
privato) – purché il volume delle scorte
corrisponda a obiettivi prefissati, la loro
costituzione avvenga secondo un processo
“finanziariamente trasparente”, l’acquisto dei
prodotti da parte dello Stato avvenga a
prezzi di mercato, e il prezzo di vendita degli
stessi non sia inferiore a quello di mercato;
– allo stesso Allegato 2, n. 4, sono
consentite le spese statali per fornire
(direttamente in natura, o mediante sussidi
monetari) alimenti alle fasce bisognose della
popolazione (c.d. aiuto alimentare interno),
purché in conformità a criteri chiaramente
stabiliti e corrispondenti a precisi obiettivi
nutrizionali.
D’altra parte, l’art. 10 – nell’ottica di impedire
distorsioni al commercio, ma anche di
favorire le iniziative realmente rivolte a
rafforzare la sicurezza alimentare dei Paesi
in difficoltà – mira ad evitare che gli “aiuti
alimentari”
nascondano
esportazioni
sovvenzionate, imponendo una serie di
vincoli e di controlli agli Stati esportatori per
assicurare che essi intendano davvero
destinare parte del loro surplus a tale scopo
umanitario.
Il tema è vastissimo, e una relazione quale
la presente – che ha lo scopo di sondare gli
aspetti giuridicamente più delicati e
problematici
correntemente
associati
all’espressione “sicurezza alimentare” –
sarebbe largamente inadeguata a trattarlo.
Basti, per concludere su questo specifico
punto, ricordare come i nuovi round
negoziali multilaterali appaiano sempre più
orientati ad attribuire centralità all’argomento
(anche sull’onda delle sempre crescenti
accuse con cui – forse non sempre, e non
del tutto, giustamente – si è attribuito alla
WTO, nei suoi primi anni di vita, il demerito
di aver trascurato le esigenze dei Paesi
meno sviluppati).
La Dichiarazione Ministeriale di Doha ( xx ),
sotto la rubrica “Agriculture”, punto 13,
riconosce che un trattamento speciale in
favore dei Paesi “in via di sviluppo”
(trattamento peraltro già previsto dall’attuale
Accordo agricolo: cfr. l’art. 15) dovrà
costituire elemento essenziale dei negoziati,
e integrato sia negli impegni e concessioni
negoziati in base alle regole oggi esistenti,
sia nelle nuove norme oggetto di trattativa, il
tutto proprio al fine di consentire a questi
Stati il raggiungimento di obiettivi essenziali,
fra cui la food security.
Nella Decisione su “Aspetti e problemi
relativi
all’implementazione”
( xxi ),
contestualmente adottata, la Conferenza
Ministeriale
prende
nuovamente
in
considerazione il problema della sicurezza
alimentare sotto diversi profili. Uno fra tutti:
essa “bacchetta” gli Stati membri, invitandoli
a limitare le contestazioni davanti all’Organo
di conciliazione della WTO, sovente mosse
nei confronti di misure di sostegno pur
quando si tratti di misure adottate da Paesi
in difficoltà aventi lo scopo di promuovere lo
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sviluppo rurale e la sicurezza alimentare.
Ciò, però, se da un lato mette in luce
deprecabili abitudini di taluni Stati, pronti ad
ostacolare con un ricorso – magari
strumentale – ai Panels anche misure utili
per lo sviluppo di Paesi poveri, evidenzia
altresì quanto sia sottile il confine fra reali
operazioni con fine umanitario, e dissimulate
violazioni
degli
obblighi
commerciali
internazionali.
Lo stesso accade ragionando di food safety.
3. La food safety è una delle principali ansie
che assillano il legislatore comunitario; e ciò
per due essenziali ordini di ragioni: anzitutto,
perché talune particolari “emergenze” (quale
ad es. la BSE, rapidamente propagatasi
all’intera Comunità grazie alla libera
circolazione delle merci fra gli Stati membri)
hanno giustamente allarmato l’opinione
pubblica, sia per la gravità degli effetti, sia
perché riguardanti un aspetto della vita –
quello dell’alimentazione – che incide in
modo diretto sulla salute di uomini e animali
(un aspetto che per qualche tempo in
Occidente, a torto, si è forse ritenuto
definitivamente al riparo da difficoltà di
ordine sanitario); in secondo luogo, quale
effetto della raggiunta ampia autosufficienza
alimentare dell’Europa, che dà modo ai
consumatori (e ai legislatori comunitari) di
porsi comunque –a prescindere da eventuali
calamità del settore, o da reali pericoli
scientificamente reputati certi – problemi di
assoluta e totale sicurezza del prodotto
alimentare, di qualità del medesimo.
L’effetto
è
ovviamente
amplificato
dall’evoluzione tecnologica, che allontana
sempre più il prodotto finale dai meccanismi
c.d. naturali di produzione, e da quella
scientifica, che consente interventi genetici
sugli organismi destinati all’alimentazione
umana e animale, nonché l’introduzione sul
mercato di nuovi cibi, ingredienti, aromi o
additivi.
La Commissione CE – tralasciando qui di
proposito ogni riferimento alle direttive e ai
regolamenti in materia di OGM e di novel
foods, le cui norme fondamentali, mirate
precipuamente a garantire la sicurezza dei
consumatori e dell’ambiente, meriterebbero
ben altra e più ampia trattazione – ha anche
recentemente affrontato il tema della
sicurezza in più occasioni: ci si riferisce
soprattutto al Libro Bianco sulla sicurezza
alimentare e alla Comunicazione della
Commissione sul principio di precauzione.
Il Libro Bianco ( xxii ) ha rappresentato, in
certo senso, un punto di arrivo e un punto di
partenza: di arrivo poiché costituisce la
summa delle posizioni comunitarie elaborate
in materia di sicurezza alimentare man mano
che la CE, da ente sovranazionale con
competenze esclusivamente economiche
qual era in origine, ha progressivamente
ampliato i propri obiettivi; un punto di
partenza, poiché delinea gli strumenti
fondamentali della futura azione comunitaria
in materia, e tra essi specialmente assegna
un ruolo centrale alla istituzione di una
Autorità europea per la sicurezza alimentare.
Dopo una preliminare enunciazione dei
principi fondamentali (elevato livello di
protezione della salute umana e di tutela dei
consumatori; approccio completo e integrato
su tutta la catena produttiva “dai campi alla
tavola”; responsabilità degli operatori del
settore; rintracciabilità; analisi del rischio e,
“ove appropriato”, principio di precauzione),
il Libro Bianco prende in esame i problemi
legati alla corretta ed efficace raccolta delle
informazioni e alla loro elaborazione
scientifica ai fini di un corretto utilizzo da
parte del legislatore, alla efficienza dei
controlli, alla tutela del consumatore e,
infine, alle implicazioni internazionali.
A quest’ultimo specifico riguardo, il Libro
Bianco, dopo aver tracciato un quadro
sommario dei principi fondanti della
disciplina del commercio internazionale in
tema di prodotti alimentari, dichiara che “la
Comunità ha l’obiettivo di chiarire e
rafforzare l’esistente quadro nell’ambito
dell’OMC per l’uso del principio di
precauzione in relazione alla sicurezza
alimentare, in particolare al fine di trovare
una metodologia concordata quanto al
raggio di azione in virtù di tale principio”. La
Commissione ammette, in sostanza, che
l’approccio precauzionale alle problematiche
di sicurezza alimentare è il punctum dolens,
ogniqualvolta si cerchi di conciliare le
esigenze di food safety e quelle del
commercio internazionale.
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Quanto al principio di precauzione, la
Comunicazione ad esso intitolata ( xxiii ) nasce
– dichiaratamente – dalla esigenza della
Commissione di stabilire orientamenti per la
sua applicazione, di elaborare una
comprensione comune dei modi in cui è
opportuno valutare, gestire e comunicare i
rischi che la scienza non è ancora in grado
di stimare pienamente e, infine, di evitare un
ricorso
ingiustificato
al
principio
di
precauzione come forma dissimulata di
protezionismo: la dimensione internazionale
del problema food safety è evidente, così
come appare evidente che, in tale
dimensione, l’approccio comunitario al
problema è, a sua volta, fonte di numerosi e
gravi problemi ulteriori.
Premesso, infatti, che “il principio di
precauzione non è definito dal Trattato” (il
quale si limita a nominarlo, senza dire altro,
con riguardo alla protezione dell’ambiente:
art. 174), la Commissione deve compiere
un’opera di interpretazione del diritto
comunitario cercando di evidenziare come
“in pratica” (ma non in teoria?) la sua portata
sia molto più ampia, sicché una sua
applicazione può supporsi implicitamente in
tutti i casi in cui il diritto comunitario richieda,
quale condizione per la circolazione di un
prodotto, una preliminare valutazione
scientifica obiettiva, al fine di indicare se vi
siano ragionevoli motivi di temere possibili
effetti nocivi sull’ambiente e sulla salute degli
esseri umani, degli animali e delle piante,
incompatibili con l’elevato livello di
protezione prescelto dalla Comunità.
Sembra un modo un po’ troppo estensivo di
intendere il principio, tant’è che la
Comunicazione, nel prosieguo, corregge il
tiro, precisando che “esso comprende quelle
specifiche circostanze in cui le prove
scientifiche sono insufficienti, non conclusive
o incerte e vi sono indicazioni, ricavate da
una preliminare valutazione scientifica
obiettiva, che esistono ragionevoli motivi di
temere che gli effetti potenzialmente
pericolosi sull'ambiente e sulla salute
umana, animale o vegetale possono essere
incompatibili con il livello di protezione
prescelto”.
In realtà, fin dove il diritto comunitario
richiede una valutazione obiettiva dei rischi –
un risk assessment condotto con criteri
scientifici – non sembra ancora esserci
“precauzione”,
bensì
ricerca
di
giustificazione, di proporzionalità e di
adeguatezza di eventuali misure restrittive
alla circolazione del prodotto, trattandosi di
eccezioni al principio della libera circolazione
delle merci che devono rientrare nelle facoltà
previste dall’art. 30 Tratt. CE. Il momento
precauzionale sembra piuttosto successivo,
ossia destinato ad intervenire quando la
suddetta valutazione abbia dato risultati non
univoci, ovvero abbia evidenziato una
opinione scientifica non unanime circa i
rischi, sicché la reale necessità della
restrizione commerciale o del divieto appaia
incerta. Se lo si intende così, allora il ricorso
ad esso costituisce una scelta fondamentale
della politica della CE, tale da influenzarne in
modo diretto – e la Commissione, ancora
una volta, lo dice apertamente – la posizione
internazionale.
E’ infine noto – ed è cosa assai recente –
che all’inizio del 2002 il Consiglio ha
finalmente licenziato il regolamento istitutivo
dell’Autorità europea per la sicurezza
alimentare ( xxiv ), i cui compiti essenziali sono
di offrire consulenza e assistenza scientifica
per la normativa e le politiche della
Comunità nei campi che incidono sulla
sicurezza degli alimenti e dei mangimi; di
fornire informazioni indipendenti su tutte le
materie che rientrano in detti campi e di
comunicare i rischi (art. 22, par. 2, reg.
178/02); di raccogliere e analizzare i dati utili
alla sorveglianza dei rischi concernenti la
sicurezza degli alimenti e dei mangimi; di
offrire consulenza e assistenza scientifica
sulla nutrizione umana in relazione alla
normativa comunitaria, oltre ad altri pareri,
su richiesta della Commissione, relativi a
questioni nutrizionali, salute e benessere
degli animali, OGM, ecc.
In generale l'Autorità è chiamata a formulare
pareri scientifici costituenti la base scientifica
per l'elaborazione e l'adozione di misure
comunitarie
nelle
materie
di
sua
competenza.
Peraltro, e al di là di questo aspetto
istituzionale, il reg. 178/02 contiene una
prima parte dedicata ai principi generali della
legislazione alimentare europea, nella quale
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il tema della sicurezza riappare in varie
forme, a cominciare dall’enunciazione degli
obiettivi generali di detta legislazione, ove la
tutela della vita e della salute (umana e
animale), e la protezione dei consumatori,
vengono poste su un piano superiore agli
stessi obblighi internazionali (art. 5, par. 3),
dalla necessità di costante collegamento fra
normativa alimentare e analisi del rischio,
nonché – nuovamente – dal principio di
precauzione.
Esso trova, nel reg. 178/02, finalmente una
definizione positiva anche nel diritto
comunitario:
“Qualora,
in
circostanze
specifiche a seguito di una valutazione delle
informazioni disponibili, venga individuata la
possibilità di effetti dannosi per la salute ma
permanga una situazione d'incertezza sul
piano scientifico, possono essere adottate le
misure provvisorie di gestione del rischio
necessarie per garantire il livello elevato di
tutela della salute che la Comunità
persegue, in attesa di ulteriori informazioni
scientifiche per una valutazione più
esauriente del rischio” (art. 7, par. 1).
E’ evidente la cautela di cui è circondato il
principio, che va utilizzato “in circostanze
specifiche”,
per
adottare
“misure
provvisorie”, e soltanto in attesa di nuove
informazioni che consentano di meglio
valutare
il
rischio:
eccezionalità
dell’applicazione,
temporaneità,
provvisorietà (e, dunque, collegamento
costante alle evoluzioni delle conoscenze
scientifiche,
ciò
che
specificamente
concerne il ruolo della Autorità per la
sicurezza alimentare), cui si aggiungono (art.
7, par. 2)
la proporzionalità allo scopo,
la riduzione al minimo delle misure da
adottare, la loro “necessaria realizzabilità
tecnica ed economica”. Tutti elementi che
ridimensionano alquanto il ruolo del
principio, rispetto all’importanza che esso
parrebbe
rivestire
stando
al
21°
considerando del regolamento, alla cui
stregua “il principio di precauzione
costituisce un meccanismo per determinare
misure di gestione del rischio o altri
interventi volti a garantire il livello elevato di
tutela della salute perseguito nella
Comunità”.
4. Sul piano internazionale, la food safety è
materia trattata in svariate convenzioni
internazionali. Tra queste, quella che più di
ogni altra disciplina le possibili interferenze
con il commercio internazionale è l’Accordo
sulle misure sanitarie e fitosanitarie, o
“Accordo SPS” (facente parte del complesso
degli accordi istitutivi della WTO), il quale si
propone (cfr. la premessa, l’art. 2 e l’Allegato
A) il fine di proteggere la vita e la salute
umana, animale e vegetale, contemperando
tali esigenze con quella di evitare qualsiasi
distorsione del commercio internazionale,
attraverso un sistema di regole che
consentano l’applicazione di tali misure ai
soli casi di reali esigenze di tutela della
salute e della vita umana, vegetale e
animale, distinguendo fra motivazioni
sanitarie vere e protezionismo dissimulato
(Josling e al., p. 15).
Le misure in questione, infatti, si traducono
sempre in una limitazione più o meno
incisiva ai flussi commerciali dei prodotti
interessati, sicché – in un sistema tendente,
con le norme del GATT e dell’Accordo
agricolo, alla progressiva eliminazione di
ogni restrizione quantitativa – la loro
ammissibilità vien meno là dove cessa la
loro effettiva necessità per la sicurezza del
prodotto. Non a caso, le norme dell’Accordo
SPS sono considerate in certo modo
l’indispensabile
complemento
delle
disposizioni dell’Accordo agricolo in tema di
restrizioni quantitative – stante anche
l’amplissima coincidenza di oggetto fra i due
Accordi
–
nate
da
un’esperienza
pluridecennale di negoziati GATT durante i
quali il tentativo di ridurre barriere daziarie al
commercio di prodotti agricoli aveva
sistematicamente finito per rinforzare una
tendenza all’utilizzo di normative tecniche e
misure
“di
sicurezza”
con
scopi
protezionistici dissimulati (Josling e al., p.
15; Bidwell; Hillman, 1997, p. 1 ss.), e con
un conseguente enorme contenzioso
(Roberts, 1998, p. 27), fino a ridurre di molto
l’efficacia concreta dei tagli tariffari negoziati
in materia agricola (Normile, 1998, p. 28).
L’Accordo SPS si basa essenzialmente sul
principio della “necessità scientifica” delle
misure SPS, che da tempo i Panels
definiscono come l’inesistenza (sulla base
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delle conoscenze scientifiche disponibili) di
misure alternative meno distorsive degli
scambi, ma altrettanto efficaci a prevenire il
rischio (Thailand - Cigarettes, punto 75) ( xxv ).
Esso individua due modi per valutare una
misura
di
sicurezza
alimentare:
l’armonizzazione e l’equivalenza, in ordine di
priorità logica.
“Armonizzazione” (art. 3 dell’Accordo)
significa che la misura sanitaria restrittiva è
pienamente conforme a standards elaborati
dalle
più
importanti
organizzazioni
internazionali, ossia, per quanto concerne la
sicurezza alimentare – secondo l’Annex A,
punto 3, dell’Accordo – la Commissione
congiunta
FAO-OMS
del
Codex
Alimentarius. Tale conformità agli standards
fa presumere iuris et de iure che la misura
adottata sia compatibile con l’Accordo SPS e
con il GATT, limitando sensibilmente le
possibilità di controversia.
Il principio di armonizzazione è completato
da
quello
dell’equivalenza
(art.
4
dell’Accordo SPS), secondo cui lo Stato
importatore deve accettare, senza poterne
applicare di ulteriori, le misure sanitarie e gli
standards di sicurezza adottati dallo Stato
esportatore (e dunque, deve lasciar circolare
liberamente sul proprio territorio il prodotto
estero) tutte le volte che l’esportatore
“dimostri oggettivamente” che dette misure e
standards garantiscono un livello di tutela
pari a quello “appropriato” nello Stato
importatore. Un concetto teoricamente – e
apparentemente – chiaro, quello di
“equivalenza”. Tuttavia, le certezze presto
svaniscono se si riflette su cosa realmente
significhi “dimostrare oggettivamente” che le
proprie cautele sanitarie sono pari a quelle
“appropriate” in un altro Stato.
Il tutto nasce dalla riconosciuta possibilità
che una misura SPS, anche qualora non
fosse armonizzata, potrebbe nondimeno
ritenersi ammissibile ai sensi dell’Accordo,
che in nota all’art. 3 recita: “there is a
scientific justification if, on the basis of an
examination and evaluation of available
scientific information in conformity with the
relevant provisions of this Agreement, a
Member determines that the relevant
international standards, guidelines or
recommendations are not sufficient to
achieve its appropriate level of sanitary or
phytosanitary protection”.
La dimostrazione oggettiva dell’appropriate
level è, però, un’utopia, se si considerano le
incertezze
che
trasversalmente
caratterizzano le stesse opinioni della
comunità scientifica, persino se ci si riferisce
a quella comunemente ritenuta la “miglior
scienza”. Se, poi, il termine di confronto è
dato da ciò che è “appropriato” secondo le
libere scelte di un altro Stato – in altri
termini, una posizione “soggettiva” dello
Stato importatore – l’applicazione della
norma appare ardua in concreto, a meno di
interpretarla piuttosto estensivamente. E
così accade.
Una decisione del Comitato SPS della WTO
( xxvi ), infatti, sembra confermare in toto
questa supposizione: proprio “nell’ottica di
facilitare l’applicazione dell’articolo 4”
(espressione che suona: “per evitare oneri
probatori eccessivamente ardui”) “lo Stato
membro importatore dovrebbe spiegare
l’obiettivo e le ragioni” delle proprie misure
SPS, e “identificare chiaramente a quali
rischi la misura in questione sia indirizzata”;
così come è lo Stato importatore a dover
indicare qual è il livello appropriato di tutela
sanitaria
che
esso
pretende,
accompagnando tale spiegazione “con una
copia della valutazione del rischio su cui si
basa la misura SPS, o con una
giustificazione tecnica fondata su uno
standard, raccomandazione o linea guida
internazionale rilevante” (ossia con un
documento che dimostri che si tratta di una
misura
“armonizzata”);
il
tutto
tempestivamente, per aiutare lo Stato
esportatore a dimostrare obiettivamente
l’equivalenza delle proprie misure.
L’art. 4 dell’Accordo SPS, il quale prevede
un onere della prova a carico dello Stato
esportatore,
viene
quindi
applicato
“rovesciando” tale onere sullo Stato
importatore: è quest’ultimo a dover
dimostrare, prima di tutto, quale livello di
tutela sanitaria esso ha diritto di ritenere
“appropriato”, per escludere che eventuali
sue posizioni rigorose siano in realtà
strumentali a un protezionismo mascherato.
Se tale dimostrazione non riesce, lo Stato
che esporta si vedrà grandemente facilitato
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nel provare che le proprie misure
raggiungono il livello di tutela sanitaria
ragionevolmente esigibile da parte del
Paese importatore, il quale a sua volta
difficilmente potrà opporsi alla circolazione
del prodotto estero sul proprio territorio.
Tutto ciò, però, equivale a dire che il diritto di
ogni Membro della WTO a determinare
liberamente il livello di protezione della
salute ritenuto appropriato – diritto che pur
viene enunciato come assoluto nella prima
frase del Preambolo e nell’art. 2.1, e tale
assolutezza è ribadita anche dal rapporto
dell’Appellate Body noto come EC Asbestos ( xxvii ) – subisce nella pratica non
lievi temperamenti, soprattutto allo scopo di
“minimizzare gli effetti negativi per il
commercio”, e di evitare a) che lo Stato
importatore adotti, nelle diverse situazioni,
differenti “livelli appropriati” di tutela
sanitaria; b) che tali “diversi livelli” mostrino
differenze “arbitrarie e ingiustificabili”; e
infine c) che le misure caratterizzate da tali
differenze
si
risolvano
in
una
“discriminazione
o
una
restrizione
dissimulata al commercio internazionale”
(art. 5.4 e 5.5 dell’Accordo SPS; cfr. anche il
rapporto del Panel sul caso Australia Salmon) ( xxviii ).
Mille cautele e riserve, dunque, circondano il
diritto di applicare misure sanitarie e
fitosanitarie: altrettanti limiti all’estensione
concreta di tale diritto, che possono, a prima
vista, generare perplessità. Occorre invece
ammettere
che,
se
i
principi
di
armonizzazione e di equivalenza implicano
obblighi di tipo giuridico, e consentono una
forma (per quanto ancora problematica e
migliorabile) di controllo a posteriori di tipo –
in senso lato – giurisdizionale (Jackson,
1997), il sistema ha anche innegabili pregi:
oltre a evitare distorsioni nel commercio (ciò
che risponde al suo fine primario), esso
consente – quale ulteriore effetto – di
impedire anche prevaricazioni, quanto mai
probabili in un contesto come quello
internazionale là dove manchino regole
stringenti di origine pattizia (nel qual caso la
risoluzione dei conflitti resterebbe affidata
agli strumenti tipici del diritto internazionale
generale).
Si prenda ad esempio quanto accaduto
recentemente nei rapporti fra Comunità
europea e Kazakhstan, Paese che non fa
parte della WTO. Da esso, la Commissione
CE, con dec. 1999/244/CE ( xxix ), aveva
unilateralmente vietato l’importazione di
svariati prodotti alimentari, fra cui il caviale.
Le riserve su tale decisione, sollevate dal
principale importatore europeo di caviale
kazako e motivate dal fatto che nessuna
carenza
igienica
era
mai
stata
specificamente
accertata
per
questo
prodotto, sono state respinte dal Tribunale di
I° grado della CE ( xxx ). In effetti, la “missione
d’ispezione” dei periti della Commissione CE
– missione da cui era originata la normativa
in questione – era giunta in Kazakhstan in
periodo di chiusura degli stabilimenti di
trasformazione del caviale, ma aveva
riscontrato ben più diffusi problemi sanitari
nel trattamento di tanti altri prodotti
alimentari, da poter considerare “sistemiche”
le mancanze igieniche. Il Tribunale ha,
perciò, riconosciuto valida la dec. 1999/244
in nome della assoluta priorità, per il Trattato
CE, delle esigenze connesse alla tutela della
salute dei consumatori.
Si tralasci, ai fini di questa analisi, il merito
della decisione impugnata e della sentenza
del Tribunale, che non si ha motivo di porre
in discussione: ciò che interessa è, piuttosto,
la “morale” che se ne può trarre. Il
Kazakhstan, non potendosi avvalere di
alcuno strumento e di alcuna sede
“giurisdizionale” (poiché non è membro della
WTO), quand’anche la determinazione
europea fosse stata del tutto arbitraria, non
avrebbe comunque potuto, in alcun modo e
in alcuna sede, farne valere la pretestuosità.
Gli sarebbe, certo, rimasta la possibilità di
reagire sul piano commerciale in termini di
ritorsione:
“arma”
tipica
del
diritto
internazionale generale – il quale conosce
svariate forme di sanzione commerciale – la
cui efficacia, tuttavia, dipende in concreto dai
rapporti di forza (soprattutto economica) fra
le parti in gioco, con risultati per lo più
sfavorevoli ai Paesi (di cui il Kazakhstan
costituisce un esempio) meno sviluppati o in
via di sviluppo, soprattutto quando si trovino
a confrontarsi con realtà economiche quali
quella europea o statunitense.
Un sistema di disciplina c.d. rule oriented,
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quale può definirsi la WTO (e prima ancora,
nelle sue più recenti evoluzioni, il GATT:
Jackson, 1989, p. 85 ss.), per quanto
imperfetto e ancora pieno di inconvenienti,
può anche sortire vantaggi concreti per le
realtà nazionali più deboli, evitando di
abbandonarle in balia di un sistema c.d.
power oriented, nel quale spesso a
prevalere è semplicemente il più forte. Non
v’è dubbio che tutto ciò possa suonare
contrario a quanto vorrebbero far credere
certi giudizi assai diffusi – e quantomeno
affrettati – circa il sistema multilaterale di
regolamentazione del commercio, sovente
descritto come un contesto creato ad
esclusivo vantaggio dei Paesi più abbienti e
potenti; tali idee, certo non del tutto prive di
aspetti condivisibili, altrettanto sicuramente,
però, trascurano simili positivi risvolti.
5. Evitare che il livello di sicurezza sanitaria
“ritenuto appropriato” dallo Stato importatore
possa da quest’ultimo essere definito su
base esclusivamente soggettiva, senza una
giustificazione scientifica, mira ad impedire
che detto livello di sicurezza venga innalzato
ad arte, al solo fine di ostacolare – per scopi
evidentemente non di tutela sanitaria, ma
commerciali – le esportazioni altrui. In
definitiva, la determinazione del livello di
sicurezza richiesto ad un prodotto è ritenuta
legittima dall’Accordo SPS solo se le misure
che ad esso si pretendono applicare sono
“necessarie”, nel senso individuato dall’art.
5.6 dell’Accordo SPS, nota n. 3: deve, cioè,
esistere un pericolo reale (secondo le
conoscenze correnti), e al contempo non
deve esistere una misura diversa applicabile
al prodotto, capace di raggiungere i
medesimi risultati di sicurezza con minor
distorsione del commercio.
Subentra, a questo punto, il problema della
valutazione scientifica della misura sanitaria,
poiché solo la scienza può dire se esista tale
misura alternativa, oppure no; così come
solo
la
scienza
potrebbe
rivelare
l’inesistenza di reali motivi di pericolosità (e
dunque la totale arbitrarietà della misura). La
risposta a simile esigenze è inevitabilmente
condizionata dalla normale relatività delle
conoscenze, anche considerata l’ampia
“zona grigia” rappresentata dal rischio
scientificamente controverso. Ed è in questo
giudizio che si profila la possibilità di far
ricorso (più o meno ampiamente) al principio
di precauzione (sul cui significato si rinvia, in
generale, a Freestone - Hey, 1996, p. 3 ss.;
e più in specie, per quanto concerne il ruolo
giocato dal principio nell’ambito WTO per i
prodotti alimentari, a Noiville, 2000, p. 263
ss.), il quale – fondandosi sull’assenza di
certezza scientifica – può essere inteso e
applicato con maggiore o minor rigore: esso,
in linea di massima, tende ad attribuire
giuridica rilevanza anche a un pericolo
scientificamente non certo, ossia non da
tutta la comunità scientifica reputato
esistente e dimostrabile, fino – in estrema
ipotesi – al rischio di cui (per il momento)
nessuna teoria scientifica si è ancora spinta
a sostenere ufficialmente l’esistenza.
Appare evidente come si tratti di un principio
giuridico la cui ampiezza in concreto non
può che essere decisa in sede di
applicazione, e dunque sulla base di un
criterio eminentemente politico, ossia
rimesso ad una scelta di merito circa il livello
di tutela della salute che si vuole perseguire,
e circa l’uso che si vuol fare di tale
incertezza nell’ambito della valutazione del
rischio: “Because science is incomplete, the
scientific data set underlying any regulation
is necessarily incomplete. That, however,
does not diminish the scientific nature of the
inquiry. Indeed, the appropriate handling of
uncertainties is part of the scientific process
of risk assessment” (Wirth, 1994, p. 837).
Con una precisazione, di cui si sono mostrati
consapevoli anche i Panels: che l’incertezza
circa l’esistenza di un rischio dipende anche
dalla “qualità” delle opinioni scientifiche
dissenzienti, nel senso che “l’opinione
divergente proveniente da fonti rispettate e
qualificate” (EC - Hormones, Appellate Body
report,
punto
194)
( xxxi ),
pur
se
numericamente minoritarie, potrebbe indurre
i governanti a mutare, fino a rovesciare –
nell’uno o nell’altro senso – il proprio
orientamento sull’opportunità o meno di
adottare misure SPS, poiché “uno Stato
membro (...) non è automaticamente
obbligato a seguire quella che, in un dato
momento,
è
l’opinione
scientifica
maggioritaria” (EC - Asbestos, Appellate
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Body report, punto 178).
Un simile principio – di cui si è già
sommariamente accennata la limitata
presenza nel diritto comunitario positivo –
nell’Accordo SPS è più o meno chiaramente
espresso nell’art. 5.7, e i Panels ne hanno
analizzato la portata (per utilizzarlo o per
negarne la rilevanza nel caso concreto) in
alcune importanti controversie, prima fra
tutte quella – poco sopra citata e assai nota
– sulla carne agli ormoni, ove l’Appellate
Body (pressoché confermando il Panel di
prima istanza) ha ritenuto che le misure SPS
europee non potessero reputarsi necessarie,
per la non raggiunta prova dell’esistenza di
un rischio rilevante, e che nella specie
neppure il principio di precauzione potesse
soccorrere. L’Organo di appello, infatti,
genericamente attribuendo un contenuto
precauzionale implicito ad alcune norme
dell’Accordo SPS che testualmente, in
realtà, non vi fanno alcun richiamo, ha infine
dato un’interpretazione stretta del diritto a
determinare liberamente il proprio livello di
protezione della salute, e ha concluso che il
rischio rilevante debba, comunque, esser
sempre un rischio in qualche modo
accertabile, non potendosi istituire misure
restrittive – neppure in base ad un approccio
precauzionale – sulla base di un rischio
puramente
“teorico”
(ne
conseguì
l’inevitabile rigetto delle argomentazioni
difensive comunitarie).
In altre parole, per quanto ampia sia la sfera
del rischio cui si vuole attribuire rilevanza,
secondo l’Appellate Body esso non potrà
mai coincidere con quel rischio meramente
imputabile alla attuale incapacità della
scienza di dimostrare che un alimento non è
pericoloso, anche perché – se così si
ragionasse – un pericolo si potrebbe
supporre potenzialmente esistente per ogni
prodotto. Nel sottoporre a giudizio negativo il
maggior livello di protezione dei consumatori
generalmente accolto dalla Comunità
europea, l’Appellate Body ha applicato il
principio di equivalenza con la veduta
inversione dell’onere della prova: è stato il
Membro importatore (la Comunità europea)
a dover dimostrare su quale risk assessment
si fondasse il proprio “elevato livello di tutela
della vita e della salute” e, con ciò, la
necessità delle proprie misure SPS.
Mancata – ad avviso dell’Organo di appello
– una prova convincente, il prodotto
d’oltreoceano
è
stato
ritenuto
sufficientemente sicuro, così da far
qualificare
come
illecite,
ai
sensi
dell’Accordo SPS, le misure restrittive che la
CE adottava.
Maggior peso il principio di precauzione ha
avuto in altri rapporti dei Panels, e
soprattutto nel citato caso EC - Asbestos,
dove il Panel ha ritenuto sussistente una
sorta di “principio di prova” della pericolosità
di una esposizione minima all’amianto,
traendolo
dalla
esistenza
di
prove
scientifiche convincenti circa la pericolosità
di una esposizione maggiore, e circa la
proporzionalità diretta e costante fra
esposizione e rischio. Nel caso Australia Salmon, in primo e in secondo grado ( xxxii ) si
sono voluti ribadire confini ben precisi
distinguendo fra misure tendenti a prevenire
un rischio di cui non è in alcun modo provata
l’esistenza, e misure tendenti ad azzerare
totalmente il rischio: le prime illegittime, nella
misura in cui pongano alla propria base
l’esistenza del rischio come un assioma; le
seconde legittime, in quanto la c.d. opzione
“zero risk” – intesa come pericolo
accertabile, ma da annullare – rientra fra le
facoltà degli Stati membri della WTO. Infine,
posizioni più rigide sono nuovamente state
espresse nel caso Japan - Varietals ( xxxiii ),
richiedendosi la dimostrazione di un actual
causal link fra i rischi temuti e le misure
adottate, e censurando una normativa
commerciale giapponese rea di esser stata
emanata sulla base di sperimentazioni
ritenute imprecise.
6. Emergono quindi, in sintesi, nel confronto
fra prospettiva comunitaria e prospettiva
internazionale – in specie, della WTO – due
approcci normativi assai differenti al
problema della food safety: i risvolti più
conflittuali, secondo i più attenti osservatori
della
materia,
devono
probabilmente
attendersi soprattutto nel settore dei prodotti
agricoli di origine biotecnologica (Roberts Orden - Josling, 1999, p. 20; Sheldon Josling, 2002). Due “segnali”, quanto mai
esemplari, indicano tale evoluzione:
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- le prime “lamentele informali” (ad esempio,
nell’ottobre 2001) in sede di Comitato SPS
da parte di Paesi nei quali il prodotto
geneticamente
modificato
circola
liberamente,
ed
è
normativamente
considerato alla stregua del prodotto c.d.
tradizionale;
- il fatto che dalla fine del 1998 nessuna
autorizzazione sia stata più concessa dalla
Comunità europea per l’immissione in
commercio di nuovi prodotti geneticamente
modificati, mentre diverse richieste risultano
giacenti, il che, secondo taluno, può
somigliare ad un “embargo” de facto;
contemporaneamente, più di uno Stato
membro (in specie, Austria, Lussemburgo,
Francia, Grecia, Germania e Regno Unito)
ha fatto ricorso all’art. 16 della direttiva
90/220/CEE (la quale, onde consentire una
fase di transizione alla più recente dir.
2001/18/CE, è rimasta in vigore fino al 17
ottobre 2002), per tentare di impedire
mediante la c.d. “clausola di salvaguardia” la
circolazione di prodotti agricoli biotecnologici
già autorizzati; in tutti questi casi, il Comitato
scientifico sulle piante ha ritenuto che le
informazioni scientifiche cui si richiamavano
gli Stati denuncianti non fossero tali da
giustificare il bando di detti prodotti.
Sembra riproporsi, in prospettiva, fra
Comunità europea e WTO un divario
sensibile fra le scelte di fondo in materia di
food safety. Un divario non identico, ma per
certi versi analogo a quello che separa la
Comunità dai Paesi che più rapidamente
hanno consentito sul proprio territorio la
diffusione di OGM (principalmente Stati
Uniti, Canada e Argentina, i quali nel 2001
avevano, insieme, il 96% della superficie
mondiale seminata a colture g.m.); una
distanza che separa le legislazioni ispirate
ad un modello basato sul principio di
equivalenza ed altre ispirate a un principio
precauzionale. Le prime tendono ad
affrontare a posteriori il problema della
possibile pericolosità di un prodotto,
mediante
una
normativa
che
tuteli
soprattutto sul piano risarcitorio, limitandosi
– ex ante – a tradurre in norme restrittive
solo quelle preoccupazioni unanimemente
condivise dalla comunità scientifica, in quei
soli casi in cui, dato un prodotto tradizionale
generalmente ritenuto sicuro (“generally
regarded as safe”), il prodotto g.m. non
possa ritenersi – sotto il profilo della
sicurezza – “sostanzialmente equivalente”;
le seconde tengono in maggior conto anche
opinioni scientifiche minoritarie, sulla cui
base prediligono una regolamentazione
preventiva, prevedono meccanismi capaci di
adeguare continuamente le regole al mutare
delle conoscenze scientifiche, e non
reputano che la “sostanziale equivalenza” ad
un prodotto c.d. tradizionale generalmente
considerato sicuro sia sinonimo di sicurezza
(Sheldon - Josling, 2002, p. 2 ss.).
Peraltro, ad oggi, nessuno scontro diretto fra
i suddetti principali attori del commercio
internazionale è stato registrato in materia di
prodotti biotecnologici. La prima controversia
in materia resta per il momento in fase di
consultazioni fra le parti interessate ( xxxiv ) ed
ha ad oggetto limiti posti dall’Egitto
all’importazione dalla Thailandia di tonno in
scatola, conservato con olio di soia g.m.
Occorre precisare, al riguardo, che non è
l’adozione dell’uno o dell’altro tipo di
normativa a costituire, in sé e per sé, un
problema ai sensi degli accordi WTO, bensì
soltanto il fatto che dette discipline possano
eventualmente
tradursi
in
restrizioni
quantitative sulle importazioni vietate dal
GATT, in misure SPS vietate dal relativo
accordo, o ancora in prescrizioni tecniche
incompatibili con l’Accordo sugli ostacoli
tecnici al commercio (Accordo TBT). E che
ciò sia possibile lo si è già considerato.
Piuttosto, occorre dire che talvolta restrizioni
vietate dagli Accordi WTO potrebbero
essere consentite – ed anzi imposte – da
altri trattati e convenzioni: si prenda quale
esempio – proprio in materia di OGM – il
Protocollo di Cartagena sulla Biosicurezza, il
quale obbliga gli Stati firmatari a istituire un
sistema di controlli e restrizioni alla
circolazione internazionale di questi prodotti.
Una
dottrina
che
si
è
occupata
dell’argomento ha ritenuto di poter vedere
nella firma di tali convenzioni una sorta di
waiver, o deroga convenzionale, ai vincoli
derivanti dal Trattato di Marrakech: i Membri
della WTO, assumendo con accordi diversi e
successivi obblighi di limitare la circolazione
dei prodotti biotech (ma anche altri impegni
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restrittivi per altri tipi di prodotti, sempre a
scopo di tutela sanitaria o ambientale),
avrebbero cioè implicitamente derogato, con
tale firma, alle norme dell’Accordo SPS
(Hudec, 1996, p. 95 ss.; Sheldon - Josling,
2002, p. 11); soluzione interessante, che
tuttavia non tiene conto di quanto espresso
nel preambolo del Protocollo di Cartagena,
secondo il quale i membri sottolineano che
“this Protocol shall not be interpreted as
implying a change in the rights and
obligations of a Party under any existing
international agreements”; e che comunque
non varrebbe più quando uno dei due
Membri WTO coinvolti nella controversia (lo
Stato esportatore) non abbia firmato il
Trattato che consente (o impone) le
restrizioni quantitative, poiché allora tale
Paese non può ritenersi avere acconsentito
ad alcuna deroga convenzionale, e
difficilmente lo Stato importatore potrebbe
pretendere da esso la stessa tolleranza
(verso le proprie misure restrittive) che gli è
riservata da altri Stati, firmatari dell’accordo
limitativo (il tema è affrontato dalla
Dichiarazione Ministeriale di Doha del
novembre 2001, la quale, al punto 31, ne fa
uno degli oggetti dei futuri negoziati
multilaterali).
Si aggiunga che:
1) in assenza di standards riconosciuti dalle
organizzazioni internazionali e di prove
scientifiche ritenute sufficienti dagli organi
WTO circa la pericolosità di un prodotto
nuovo o biotecnologico, quest’ultimo deve
ritenersi – ai sensi del GATT – un “like
product”, ossia un prodotto del tutto
equivalente a quelli convenzionali: la sua
ritenuta “diversità” non acquista alcuna
rilevanza giuridica, e qualsiasi limite alla sua
circolazione
(soggezione
a
controlli,
autorizzazioni, obblighi di etichettatura
specifica, ecc.) potrebbe essere interpretato
come una discriminazione fra prodotto
nazionale (convenzionale) e prodotto estero
(non convenzionale); dunque, una diretta
violazione del principio fondamentale del
GATT (clausola del trattamento nazionale,
art. III);
2) simile problema sarebbe certo di più facile
soluzione se si potesse reputare pienamente
accolto un principio di precauzione anche
nell’Accordo SPS, ma le misure che questo
consente su basi precauzionali (art. 5.7)
sono meramente provvisorie, temporanee,
ed accompagnate dall’obbligo di raccogliere
ulteriori informazioni;
3) infine, occorre anche considerare che un
numero non irrilevante di persone può
essere contraria all’uso di determinati
prodotti (ad esempio, g.m.) non per
comprovate ragioni scientifiche ma solo per
motivi etici, religiosi, ecc. Tali motivazioni
(cui dà spazio, ad esempio, la recente
direttiva 2001/18/CE) trovano nell’art. XX
GATT un riconoscimento troppo generico
(Sheldon - Josling, 2001, p. 14), e nessuna
sostanziale menzione nell’accordo SPS.
Vi sono tutti i “semi” di un futuro grave
dissidio all’interno dell’organismo di governo
del commercio internazionale. Le premesse
del nuovo negoziato, peraltro, sul punto non
sono le migliori: la citata Dichiarazione
Ministeriale di Doha si limita a dire – nel
punto dedicato alla futura trattativa agricola
– che i rappresentanti prendono atto dei
“problemi di natura non commerciale” quali
si evincono dalle proposte negoziali degli
Stati membri, e che di tali problemi “si terrà
conto”, mentre il Comitato su Commercio e
Ambiente della WTO, nello studio delle
possibili interazioni fra preoccupazioni
ambientali e distorsione del commercio, non
potrà toccare i diritti e gli obblighi derivanti
dall’Accordo
SPS,
né
il
reciproco
bilanciamento fra tali diritti e obblighi (punto
32 della Dichiarazione).
D’altra
parte,
la
Decisione
sugli
“Implementation-Related
Issues
and
Concerns” (WT/MIN(01)/W/10, adottata dalla
Conferenza Ministeriale in quella stessa
sede),
malgrado
si
preoccupi
–
opportunamente – di vari aspetti relativi
all’applicazione dell’Accordo SPS, quali ad
esempio la necessità di maggiori tolleranze
nel caso di misure sanitarie riguardanti
prodotti che interessano le esportazioni dei
Paesi in via di sviluppo, e la necessità di
assicurare, fra la pubblicazione di nuove
misure sanitarie e la loro applicazione, un
intervallo di tempo sufficiente a consentire
agli Stati esportatori interessati di adeguarsi
(e di valutare l’eventuale opportunità di una
reazione, o complaint), per quanto riguarda
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l’art. 4 dell’Accordo si limita a prendere atto
della citata Decisione G/SPS/19 del
Comitato SPS, invitandolo a “sviluppare in
tempi brevi il programma specifico di
attuazione dell’art. 4”.
Ben poco, a fronte delle nuove sfide che si
profilano, nelle quali si intersecheranno,
plausibilmente, interessi economici di
enorme rilievo, problemi di tutela della
biodiversità, opposte visioni etiche ed
opposte concezioni di protezione della
salute, oltre a possibili nuove prospettive di
soluzione di problemi nutrizionali per ampie
aree del mondo, secondo taluni collegate
proprio all’utilizzo su larga scala di varietà
vegetali nuove, più resistenti, ecc. Ancora
una volta, se così fosse, food safety e food
security rappresenterebbero – anche se in
un senso alquanto diverso da ciò che si è
evidenziato in apertura di relazione – due
aspetti inscindibili, due lati di una stessa
medaglia.
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interventi
Nuove regole per l’impresa
alimentare
Ferdinando Albisinni
SOMMARIO: 1. Il regolamento n.178 come
legislazione del cambiamento – 2. Una
peculiare definizione di consumatore – 3.
L’impresa alimentare – 4. Non soltanto
regole di prodotto e di produzione – 5. Le
regole di organizzazione – 6. Le regole di
relazione – 7. Le regole di responsabilità.
1.- Indagare sulle nuove regole di impresa
nel sistema europeo di diritto alimentare
assume quale condivisa ipotesi di lavoro
l’esistenza di un quadro sistematico, ed
impone di cercare risposte a due essenziali
quesiti: quali imprese? e quali regole?
Le novità con cui devono confrontarsi i
giuristi e le imprese sono, insieme, novità nei
soggetti e nel metodo, oltre che nel merito,
della regolazione.
Prima ancora che per le singole scelte
disciplinari, nel suo stesso impianto l’intero
regolamento n.178/2002 si connota come
momento esemplare di quella legislazione
del cambiamento, del pragmatismo e
dell’innovazione, che è stata individuata
come elemento connotante del tempo
presente ( xxxv ).
Pragmatismo e innovazione si manifestano
già nella plurima base giuridica assunta, lì
ove sono invocati congiuntamente gli artt. 37
(agricoltura), 95 (ravvicinamento delle
legislazioni – sanità pubblica ed ambiente),
133 (politica commerciale comune), 152,
para 4, lett.b) (misure nei settori veterinario e
fitosanitario).
Ne risulta una trasversalità della disciplina,
che investe plurime aree di bisogni e plurimi
comparti di disciplina, e per ciò stesso
assume modelli e strumenti di regolazione
nuovi o innovativamente configurati: i
tradizionali confini fra regole di produzione e
regole di commercio appaiono assottigliati, e
la distinzione fra basi giuridiche in ragione di
competenze di specifica attribuzione assume
rilievo sempre più modesto, risultando
piuttosto generalizzato a decisivo canone
istituzionale quello della funzionalizzazione
dell’esercizio di competenze di regolazione e
di governo.
L’analisi della più recente legislazione
europea in tema di sicurezza alimentare,
ripropone così – su base territoriale e
disciplinare più ampia – quesiti analoghi a
quelli che sono stati posti all’interprete,
quanto al diritto interno, dalla riforma del
Titolo
V
della
costituzione,
con
un’individuazione
di
ambiti
materiali
difficilmente riducibili entro la tradizionale
partizione per materie (), xxxvi sicché - come è
stata osservato dalla Corte costituzionale in
una delle prime pronunce successive alla
riforma del 2001: «Il primo problema da
risolvere riguarda … l’individuazione della
“materia” … A questo riguardo va però
precisato che non tutti gli ambiti materiali
specificati nel secondo comma dell’art.117
possono, in quanto tali, configurarsi come
“materie” in senso stretto, poiché in alcuni
casi si tratta più esattamente di competenze
del legislatore statale idonee ad investire
una pluralità di materie» ( xxxvii ).
Il congiunto esercizio di plurime
competenze finisce per tale via con il
dislocare confini e contenuti di una materia,
la sicurezza alimentare appunto, non
collocabile appieno in alcuna delle partizioni
sin qui abituali, e piuttosto essa stessa
espressione di una diversa integrazione (e
percezione) di bisogni e di interessi.
2.- Quanto ai soggetti, vi sono novità di
rilievo sul versante istituzionale e su quello
delle imprese e degli altri soggetti privati.
Altri relatori hanno riferito sull’Autorità per la
sicurezza alimentare e sul Comitato
scientifico ( xxxviii ). Rinviando a tali relazioni, è
sufficiente qui ricordare, accanto ai soggetti
pubblici di nuova istituzione e di originale
competenza, i nuovi e penetranti poteri di
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intervento assegnati alla Commissione, che
non riguardano soltanto la gestione delle
emergenze e delle crisi, e che in qualche
misura concorrono a configurare in modo
originale la stessa collocazione istituzionale
di questo decisivo soggetto.
Ma è sui soggetti privati che l’attenzione
deve qui fermarsi.
Destinatari e protagonisti del regolamento n.
178 sono, sul versante delle soggettività
private, i consumatori e le imprese.
La categoria di «consumatore» non è nuova
per il diritto comunitario ( xxxix ). Va anzi
riconosciuta proprio al diritto comunitario
l’iniziativa per l’introduzione sempre più
frequente di tale figura all’interno di
numerosi settori dell’ordinamento ( xl ); e da
ultimo anche il tentativo di riportare ad unità
tali discipline, almeno sotto il profilo della
tutela collettiva in giudizio, con la direttiva
del 1998 ( xli ), che ha previsto un sistema
uniforme di tutela degli interessi collettivi dei
consumatori, attribuendo alle associazioni
dei consumatori legittimazione ad ottenere
provvedimenti inibitori in riferimento a nove
direttive unitariamente considerate, da quella
del 1984 sulla pubblicità ingannevole, a
quella del 1997 sui contratti negoziati a
distanza.
Resta peraltro tuttora assente una generale
ed uniforme definizione di consumatore, sia
nel diritto interno che nel diritto comunitario
( xlii ), anche se è possibile cogliere alcuni
elementi comuni, per i quali nella
maggioranza delle direttive comunitarie il
consumatore è «la persona fisica che agisce
per un uso che può considerarsi estraneo
alla propria attività professionale» ( xliii ).
Rispetto agli elementi comuni soprarichiamati, il regolamento n.178 introduce
alcuni profili di novità, lì ove fa riferimento al
«consumatore finale», così definito:
«il consumatore finale di un prodotto
alimentare che non utilizzi tale prodotto
nell'ambito di un'operazione o attività di
un'impresa del settore alimentare» ( xliv ).
Di «consumatore finale» aveva già parlato la
direttiva del 1978 sull’etichettatura dei
prodotti alimentari ( xlv ), ed in questo senso è
possibile cogliere una linea di continuità
nelle concettualizzazioni presenti nella
disciplina degli alimenti, siccome connotate
dalla destinazione finale, l’ «estomac» come ha suggestivamente osservato uno
studioso francese ( xlvi ). La destinazione
finale (l’estomac, l’ingestione del prodotto), e
dunque l’elemento funzionale, assume il
valore di canone distintivo della disciplina e
di criterio di qualificazione delle stesse
definizioni.
Due ulteriori elementi meritano di essere
segnalati
in
questa
definizione
di
consumatore finale.
Anzitutto non compare nel testo del
regolamento n.178 l’esplicito richiamo alla
persona fisica, quale unico consumatore
possibile. Anche in questo caso ritorna un
elemento già presente nella direttiva del
1979 sull’etichettatura dei prodotti alimentari,
lì ove questa non assume quale solo
destinatario possibile le persone fisiche, ma
prevede una possibile (e dal 1989 cogente)
applicazione della disciplina anche ai
prodotti destinati a soggetti quali ristoranti,
mense ed altre collettività, sicché - come è
stato osservato con riferimento alla direttiva
sull’etichettatura: «Si affaccia una nozione
più ampia di consumatore, che va al di là
della persona fisica, e che travalica il
soddisfacimento delle esigenze individuali e
familiari»( xlvii ).
Nella definizione di consumatore introdotta
dal regolamento n.178 c’è però un ulteriore
elemento distintivo, che appare originale,
rispetto sia alle definizioni comunemente
contenute nelle direttive appartenenti ad
altre aree disciplinari, sia alla stessa
definizione
contenuta
nelle
direttive
sull’etichettatura degli alimenti.
Abbiamo ricordato che solitamente per il
diritto comunitario è escluso dalla nozione di
consumatore il soggetto, che acquisti o
comunque utilizzi un prodotto o servizio
nell’ambito delle sue attività commerciali,
professionali o d’impresa ( xlviii ); mentre
viceversa le direttive sull’etichettatura si
applicano anche a favore dei soggetti
collettivi che acquistano i prodotti nell’ambito
della loro attività di ristorazione.
Nel regolamento n.178/2002, invece, la
nozione di consumatore comprende – come
si è visto – qualunque «consumatore finale
di un prodotto alimentare che non utilizzi tale
prodotto nell’ambito di un’operazione o
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attività di impresa del settore alimentare»
( xlix ).
Se ne potrebbe concludere, a contrario, che
chi utilizza un prodotto alimentare per
un’operazione od un’attività di impresa, che
non si configuri come «operazione o attività
di impresa del settore alimentare», non
sarebbe escluso dalla tutela apprestata in
favore del consumatore finale di alimenti.
Una risposta a tale ipotesi di lettura potrà
venire dalla giurisprudenza della Corte di
giustizia, che ha sin qui contribuito a mettere
a fuoco la figura del consumatore come
«parte economicamente più debole» ( l )
protetto rispetto alle pretese dell’impresa (o
del professionista, secondo il linguaggio del
legislatore comunitario), laddove in sede di
applicazione del regolamento n.178 potrà
essere
chiamata
ad
individuare
il
consumatore di alimenti come soggetto
portatore di un interesse attivo, legittimato a
pretendere
dalle
imprese
alimentari
comportamenti conformi alle finalità del
sistema ( li ).
Ne deriva un possibile spazio di applicazione
della disciplina e dei suoi strumenti,
sostanziali e processuali ( lii ), che potrebbe
andare ben oltre i confini abitualmente
assegnati alla categoria del consumatore.
La partizione fra soggetti presente nel
regolamento n.178 sembra così esprimere
uno scenario, che è insieme peculiare
quanto al contenuto, e specifico quanto alla
natura dei fini perseguiti: da una parte
vengono collocati coloro che assumono
responsabilità
di
soggetti
attivi
dell’alimentare, in una dimensione sistemica
( liii ), che attrae in un quadro di responsabilità
di impresa anche per la sola partecipazione
ad un’attività connessa ad una fase ( liv ),
dall’altra l’intero variegato universo di coloro
che utilizzano gli alimenti e rinviano alla
categoria costituzionale di «persona» come
soggetto attivo di diritto ( lv ).
3.- Sotto questo profilo la definizione di
«impresa alimentare» assume rilievo anche
perché concorre a definire il concetto di
consumatore ai fini della disciplina sulla
sicurezza alimentare e sui suoi istituti.
Quanto alla dichiarata identificazione delle
«imprese» attratte nelle regole del sistema di
diritto alimentare, non è una novità che la
definizione di impresa nel diritto comunitario
( lvi ) non coincide con quella introdotta dal
codice civile, e così comprende sia strutture
che per il diritto interno non sono imprese
perché prive di fine di lucro, sia figure che il
diritto interno classifica come proprie delle
professioni liberali.
La novità è piuttosto nella definizione di
«impresa alimentare», contenuta nell’art. 3,
n.2 del reg. n.178, per la quale è «impresa
alimentare» « ogni soggetto pubblico o
privato, con o senza fini di lucro, che svolge
una qualsiasi delle attività connesse ad una
delle fasi di produzione, trasformazione e
distribuzione degli alimenti» ( lvii ).
La legislazione comunitaria ha da tempo
affrontato il tema dell’individuazione dei
destinatari della disciplina sull’igiene dei
prodotti alimentari, attraverso l’adozione di
definizioni intese a garantire un’uniforme
applicazione, prescindente dalle specificità
nazionali ( lviii ).
In particolare la direttiva del 1993 sulla
produzione e vendita di sostanze alimentari
e bevande ( lix ) ha previsto:
«Articolo 2. Ai fini della presente direttiva si
intende per:
- igiene dei prodotti alimentari, in appresso
denominata «igiene»: tutte le misure
necessarie per garantire la sicurezza e
l'integrità dei prodotti alimentari. Le misure
comprendono tutte le fasi successive alla
produzione primaria (quest'ultima include tra
l'altro la raccolta, la macellazione e la
mungitura), vale a dire: preparazione,
trasformazione, fabbricazione, confezionamento, deposito, trasporto, distribuzione,
manipolazione e vendita o fornitura al
consumatore;
- industria alimentare: ogni impresa, pubblica
o privata che, a scopo di lucro oppure no,
esercita una qualsiasi o tutte le seguenti
attività:
preparazione,
trasformazione,
fabbricazione, confezionamento, deposito,
trasporto,
distribuzione,
manipolazione,
vendita o fornitura di prodotti alimentari;
- alimenti integri: alimenti adatti al consumo
umano in termini di igiene».
La definizione così introdotta dalla direttiva
del 1993 è più ampia rispetto a quella del
nostro diritto interno, che limita la propria
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area applicativa «stabilimenti, laboratori di
produzione, preparazione e confezionamento di prodotti alimentari» ( lx ), ma
comunque non investiva l’intera filiera.
Gli anni ’90 hanno reso manifesta
l’insufficienza di una siffatta delimitazione dei
soggetti investiti, ed hanno marcato
l’esigenza di un approccio «from farm to
table», secondo il programma proposto nel
White paper on food safety ( lxi ). Nel testo
italiano del Libro bianco tale formula è stata
tradotta come «dai campi alla tavola» ( lxii ),
ma è traduzione inadeguata, perché trascura
l’aspetto organizzativo, di azienda, di
impresa, reso dall’espressione «farm»
utilizzata nella versione in lingua inglese del
Libro bianco. Non sono i campi, in una loro
astratta ed ideale naturalità ad essere
investiti, ma è la farm, l’azienda agricola, che
entra a pieno titolo in un quadro complessivo
di regolazione e di responsabilità.
Quest’ispirazione, sistemica e di intera
filiera, si è tradotta in disciplina operativa con
la definizione introdotta dall’art.3, n.2 del
regolamento n.178/2002.
Ulteriore novità di rilievo introdotta dal
regolamento è nell’espresso richiamo allo
svolgimento di attività connesse ad una fase,
e così ad una possibile impresa di fase, vale
a dire ad un soggetto d’impresa, che riceve
qualificazione e regime in ragione non dello
svolgimento di un intero ed omogeneo
comparto di attività, ma semplicemente dal
fatto di investire una delle fasi, pur ove
strutturata attraverso attività per altri versi fra
loro disomogenee.
Il riferimento alla fase (già presente, anche
se in modo non compiuto – come si è detto –
nella precedente normativa europea in tema
di igiene e sanità) non è estraneo al nostro
diritto interno, e così si rinviene nel nuovo
testo dell’art.2135 sull’impresa agricola
(come modificato dal decreto legislativo
n.228/2001) ( lxiii ). Esso si accompagna ai
concetti di filiera e di rete, assegnando
rilievo
giuridico
a
categorie
sinora
considerate solo economiche ( lxiv ).
Siamo innanzi ad un ambito definitorio, per il
quale un soggetto può acquistare la qualità
di impresa alimentare, con gli obblighi e le
responsabilità
conseguenti,
anche
a
prescindere dalla generale attività esercitata,
ma in ragione della partecipazione ad una
delle fasi di produzione, trasformazione e
distribuzione degli alimenti. Ancor di più: è
sufficiente a conferire tale qualificazione,
determinando la soggezione alle relative
regole, il semplice svolgimento di «una
qualsiasi delle attività connesse ad una delle
fasi» ( lxv ).
Sul piano dei soggetti, ne risulta una
categoria, quella dell’impresa alimentare,
che comporta regimi, modi organizzativi,
precetti di organizzazione e di azione, che
attraversano le distinzioni tradizionali.
In altre parole, l’oggetto della regolazione
(l’alimento) ed il fine della regolazione (la
sicurezza alimentare) hanno indotto il
legislatore europeo a prendere atto che non
può essere efficace una regolazione
puntiforme, per categorie scisse di soggetti,
e che occorrono piuttosto regole uniformi,
che qualificano il soggetto non in ragione di
una sua astratta qualificazione, ma
semplicemente in ragione della sua
partecipazione (quale essa sia) a questa
sfera del produrre o del distribuire ( lxvi ).
Conferma esemplare ne è venuta di recente
dalla bozza di regolamento CE sull’igiene dei
prodotti alimentari n.438/2001 ( lxvii ), e dalla
bozza di regolamento per la riforma di metà
periodo della PAC, lì ove questa impone
anche agli agricoltori il rispetto delle regole
di azione e di organizzazione poste dal
regolamento n. 178/2002 ( lxviii ).
4.- Alla dimensione sistemica dei soggetti
investiti si accompagna la dimensione
relazionale del modello di intervento.
Gli artt.53 e 54 del regolamento n.178 ( lxix )
segnano un’evidente discontinuità rispetto
ad una linea, risalente ed ancora di recente
confermata proprio in tema di generale
sicurezza dei prodotti non alimentari, di coammistrazione fra Comunità e Stati
nazionali,
e
così
«amministrazione
comunitaria indiretta» non exécutante ( lxx ).
Queste
norme
attribuiscono
alla
Commissione il potere di intervenire
direttamente, e di propria iniziativa,
adottando misure che riguardano singoli
prodotti, e dunque specifici produttori, e che
sono di particolare intensità, potendo
tradursi in sospensione dell’immissione sul
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mercato degli alimenti o dei mangimi, in
prescrizione di modalità particolari, e più in
generale nell’adozione di “qualsiasi altra
misura provvisoria adeguata”, con una
latitudine davvero rilevante.
E’ evidente la differenza rispetto a
precedenti meccanismi, ad esempio quelli
previsti dalle direttive del 1992 e del 2001
sulla sicurezza generale dei prodotti ( lxxi ):
secondo quelle direttive la Commissione
poteva al più imporre ai singoli Stati membri
l’obbligo
di
prendere
provvedimenti
temporanei, ma non poteva intervenire
direttamente sui singoli prodotti o produttori.
Ai sensi dell’art.53 del regolamento n.178,
invece, la Commissione interviene in prima
persona, con la capacità di investire le
situazioni di rischio, senza dover attendere
l’attività delle amministrazioni nazionali.
Le autorità nazionali potranno intervenire, ex
art.54, solo in seconda battuta, qualora la
Commissione, pur informata, non abbia
adottato direttamente misure urgenti per il
caso in questione.
Ne risulta una sorta di sussidiarietà
capovolta, per la quale il soggetto adeguato
di intervento urgente per tutte le situazioni di
rischio alimentare per la salute umana, la
salute degli animali e l’ambiente, viene
individuato in linea di principio nella
Commissione, e solo l’eventuale inerzia
della Commissione legittima l’iniziativa dello
Stato membro.
L’origine di una scelta così radicale va
ricercata – come è facile immaginare - nelle
gravi vicende di cronaca degli ultimi anni,
che dalla BSE ai polli alla diossina, hanno
visto autorità nazionali piuttosto restie (per
evidenti
ragioni
di
politica
interna)
nell’adottare le severe misure, imposte dalla
gravità dei rischi connessi agli alimenti.
Giova da ultimo ricordare che le norme sulle
misure urgenti sono tra quelle entrate
immediatamente in vigore, ai sensi
dell’art.65 del regolamento n.178/2002.
Certo due articoli non sembrano per sé soli
sufficienti a costruire un compiuto sistema
operativo di intervento nelle situazioni di
urgenza, né possono intendersi come
«proposta legislativa completa» secondo
quanto annunciato nel Libro bianco. E’
prevedibile che i prossimi anni vedranno
nuovi interventi regolatori, intesi a meglio
disegnare una trama attuativa dei principi
enunciati in materia, secondo l’approccio di
progressiva addizione, in progress, che
caratterizza larga parte del regolamento
n.178. Ne dovranno meglio emergere anche
i
profili
di
necessaria
garanzia,
procedimentale e giudiziaria, dei privati
interessati (imprese, oltre che consumatori),
rimasti largamente in ombra nell’attuale
disposto degli artt. 53 e 54.
Resta il fatto che questi due articoli segnano,
unitamente
all’istituzione
dell’Autorità
europea per la sicurezza alimentare,
momenti di indubbio rafforzamento dei
soggetti centrali di governo, espressione di
una ricerca di sicurezza innanzi ad una
crescente globalizzazione, rispetto alla quale
la dimensione nazionale ha manifestato
palese inadeguatezza.
Nel medesimo tempo le norme del
regolamento
n.178/2002
possono
(e
debbono) essere fatte valere anche dalle
autorità nazionali, siccome costituiscono
elemento di interpretazione ed attuazione
della disciplina vigente ( lxxii ).
Questa costituisce una novità rilevante della
nuova disciplina, non solo rispetto al nostro
risalente sistema di regole, ma anche
rispetto allo stesso sistema europeo di
igiene alimentare, pur profondamente
rinnovato dall’introduzione del sistema
HACCP con la direttiva del 1993.
In questo senso sembra di poter dire che nel
settore alimentare, alle tradizionali regole di
prodotto e di produzione, che si traducono in
requisiti
fisico-chimici
dei
prodotti,
quantificabili in valori assoluti e misurabili
attraverso analisi di laboratorio o comunque
attraverso esami rivolti all’oggetto, ovvero in
caratteristiche dei luoghi di produzione e
modalità della produzione (anch’esse
traducibili in elementi fisici ed obiettivi), si
accompagna un insieme di regole che
attiene al modo stesso di essere e fare
impresa.
Si possono proposito distinguere (con
l’arbitrarietà sempre sottesa ad ogni
tentativo di classificazione):
- regole di organizzazione;
- regole di relazione;
- regole di responsabilità.
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Quanto alle regole di organizzazione, il
primo elemento da considerare è che le
imprese, tutte le imprese alimentari (e
questo decisamente unifica la categoria ed il
modello, secondo quanto si è già osservato),
sono tenute ad adottare le peculiari modalità
organizzative, che risultano dall’applicazione
degli artt.14-21 del regolamento n.178 ( lxxiii ).
Giova sottolineare un singolare processo. Le
regole di controllo della qualità, elaborate su
base
volontaria
dagli
organismi
di
certificazione, divengano regole di diritto,
cogenti e non più solo volontarie.
Sui contenuti di queste regole di
organizzazione è sufficiente osservare che
la rintracciabilità ed il principio di
precauzione costituiscono in qualche misura
i canoni guida intorno ai quali le imprese
sono chiamate ad organizzare la propria
attività.
Si è parlato molto in questi anni, ed ancora
di recente (a proposito del contenzioso
insorto fra USA ed Europa su taluni prodotti
alimentari ed agricoli), del principio di
precauzione ( lxxiv ).
In realtà questo principio, nel disegno del
regolamento n.178/2002, non regola soltanto
l’attività dei pubblici poteri e soggetti, ma
anche l’attività delle imprese; è regola di
impresa ed in questo senso è evidentemente
regola
di
organizzazione,
siccome
costituisce il criterio alla stregua del quale
operare il sindacato dell’attività di impresa,
dell’adeguatezza
delle
modalità
organizzative.
L’elemento nuovo, che sembra vada
sottolineato a chi dovrà operare per dare
consulenza alle imprese, è che non è
sufficiente che il prodotto sia sano e sicuro;
che i luoghi di produzione, trasferimento,
conservazione, distribuzione, commercializzazione, siano salubri; che le produzioni e le
tecniche produttive siano corrette; occorre
che l’intera struttura sia organizzata secondo
modalità precise.
Illuminante in questo senso l’art.17 del
regolamento n.178, che nel testo italiano
reca la rubrica «Obblighi», mentre nel testo
tedesco la rubrica recita “Zuständigkeiten”,
vale a dire “Competenze” ( lxxv ). Tale articolo
disegna e distribuisce le competenze
assegnate agli operatori e quelle proprie
degli Stati membri; sicché la rubrica in lingua
tedesca ne chiarisce immediatamente
l’oggetto.
Recita l’art.17: «1. Spetta agli operatori del
settore alimentare e dei mangimi garantire
che nelle imprese da essi controllate gli
alimenti o i mangimi soddisfino le
disposizioni della legislazione alimentare
inerenti alle loro attività in tutte le fasi della
produzione, della trasformazione e della
distribuzione e verificare che tali disposizioni
siano soddisfatte….».
L’operatore del settore alimentare deve
dunque
verificare
che
nell’attività
dell’impresa alimentare le procedure e le
modalità organizzative dell’impresa siano
coerenti a quanto è necessario per
soddisfare le disposizioni del reg. n.178.
Il meccanismo non è ignoto all’ordinamento.
Da ultimo il decreto legislativo 8 giugno
2001, n.231 ( lxxvi ), nel disciplinare la
responsabilità delle persone giuridiche per
gli illeciti amministrativi dipendenti da reato,
ha previsto come causa di esclusione di
responsabilità per la persona giuridica,
l’adozione
di
idonei
«modelli
di
organizzazione e gestione» e l’attivazione di
protocolli e meccanismi di vigilanza ( lxxvii ).
6. Il principio di precauzione segna un ponte
con un secondo gruppo di regole, quelle di
relazione.
Il legislatore europeo ha preso atto che la
sicurezza alimentare non si esaurisce nella
produzione e distribuzione.
L’atto negoziale della vendita non esaurisce
l’area delle attività dell’impresa alimentare; le
regole necessariamente investono il prima,
la comunicazione rivolta al consumatore, ed
il dopo, l’attenzione al prodotto anche dopo
la sua immissione nel mercato.
E’ stato efficacemente scritto che «Il diritto
dei consumatori si delinea come una
disciplina di informazioni. … Il regime
giuridico delle informazioni costituisce
fondamento, insieme, di responsabilità
dell’impresa, che le rifiuti o le alteri, e di
auto-responsabilità del consumatore» ( lxxviii ).
Di qui le regole di cui all’art.16 del
regolamento.
Sotto un altro profilo, sono regole di
relazione anchr quelle di cui agli artt.19 e 20
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quanto agli obblighi di monitoraggio e di ritiro
dei prodotti già immessi sul mercato.
Queste disposizioni riguardano una fase
successiva alla produzione e prevedono
obblighi di ritiro dal mercato e di «richiamo
dei prodotti già forniti ai consumatori», per il
caso in cui «l'alimento non si trova più sotto
il controllo immediato di tale operatore del
settore alimentare» ( lxxix ), disegnando una
fattispecie differenziata ed apparentemente
più ampia rispetto a quella prevista dalla
normativa in tema di responsabilità per danni
da prodotti difettosi, che fa riferimento alla
«messa in circolazione del prodotto»( lxxx ).
L’impresa alimentare non può disinteressarsi
del prodotto dopo l’alienazione, ma è tenuta
ad esercitare una vigilanza sull’intero
mercato su cui opera, e nello stesso tempo
deve esercitare la sua relazione con il
mercato, attraverso una comunicazione
rispettosa di regole, che sono anzitutto
regole di verità e non decettività.
7. Il quadro si chiude con le regole di
responsabilità
La scarna disposizione dell’art. 21 assicura
un meccanismo di tutela, costruendo una
relazione fra la nuova disciplina sulla
sicurezza alimentare, e la ben più risalente
disciplina in tema di responsabilità per
danno da prodotto difettoso, che per un
verso contribuisce a meglio intendere i
caratteri
innovativi
del
processo
di
normazione in cui si colloca il regolamento
n.178/2002, per altro verso concorre a
confermare la natura di progressiva
costruzione di una regolazione non riducibile
entro
schemi
collaudati
del
diritto
comunitario ( lxxxi ).
Il contenuto immediato della disposizione
non è felicemente reso nel testo italiano, lì
ove questo recita «Le disposizioni del
presente capo si applicano salvo il disposto
della direttiva 85/374/CEE», con formula che
può far pensare all’enunciazione di un
criterio di risoluzione di conflitti fra discipline,
tale da determinare in ipotesi la
disapplicazione del regolamento n.178/2002,
in caso di contrasto di questo regolamento
con la direttiva 85/374/CEE ( lxxxii ).
Un’interpretazione letterale della formula
dell’art.21 e della preposizione «salvo»
potrebbe indurre a concludere che le
disposizioni degli artt.4-20 del regolamento
n.178 (cioè proprio quelle dedicate alla
“legislazione alimentare generale”) non si
applichino nei casi regolati dalla direttiva n.
85/374/CEE, così segnando una netta
delimitazione di confini fra aree di
applicabilità, in ragione di un criterio di
specialità delle discipline.
In realtà l’art.21 intende semplicemente
evitare interpretazioni, che in ipotesi
ipotizzino un’abrogazione implicita di norme
della direttiva n.374 del 1985 ad opera del
regolamento n.178 del 2002, mentre ben
resta possibile una congiunta applicazione
dei due complessi di regolazione.
La relazione tra produttore e consumatore,
esplicitamente presente sul piano dei principi
in numerosi articoli del regolamento, che
operano lungo il versante che dall’impresa
va verso il consumatore disegnandone
obblighi e doveri ( lxxxiii ), si manifesta così
anche lungo il versante opposto, che dal
consumatore va verso il produttore, nel
senso di confermare la legittimazione del
consumatore all’azione per responsabilità
civile, individuando i presupposti per un
controllo diffuso, che si accompagna a
quello assegnato alle autorità dei singoli
Stati membri, sulla base della distribuzione
di competenze operata dall’art.17.
Resta da scrutinare un possibile rapporto fra
complessi normativi, per accertare se le
norme in materia di responsabilità per danno
da prodotti difettosi, quando applicate agli
alimenti ed ai mangimi, debbano o meno
essere
interpretate
alla
luce
delle
disposizioni introdotte nel capo II del
regolamento n. 178.
La risposta positiva sembra obbligata ove si
consideri che per determinare se un prodotto
è difettoso e dà luogo alla responsabilità di
cui al D.P.R. 224/1988 ed alla direttiva
85/374/, occorre tenere «conto di tutte le
circostanze, tra cui:
a) il modo in cui il prodotto è
stato messo in circolazione, la
sua
presentazione,
le
sue
caratteristiche palesi, le istruzioni
e le avvertenze fornite;
b) l’uso al quale il prodotto può
essere ragionevolmente destinato
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e i comportamenti che, in
relazione ad esso, si possono
ragionevolmente prevedere;
c) il tempo in cui il prodotto è
stato messo in circolazione»
( lxxxiv ),
e che la responsabilità del produttore è, fra
l’altro, «esclusa:
d) se il difetto è dovuto alla
conformità del prodotto a una
norma giuridica imperativo o a un
provvedimento vincolante;
e) se lo stato delle conoscenze
scientifiche
e
tecniche,
al
momento in cui il produttore ha
messo in circolazione il prodotto,
non
permetteva
ancora
di
considerare il prodotto come
difettoso;
f) nel caso del produttore o
fornitore di una parte componente
o di una materia prima, se il
difetto è interamente dovuto alla
concezione del prodotto in cui è
stata incorporata la parte o
materia prima o alla conformità di
questa alle istruzioni date dal
produttore che l’ha utilizzata»
( lxxxv ).
Già con riferimento alla disciplina anteriore
al regolamento n.178/2002, era stato
sottolineato che «Quando si tratta di prodotti
agricoli ed alimentari, le direttive sulla
responsabilità per prodotto difettoso non
possono essere studiate in modo isolato»
( lxxxvi ).
Con l’adozione del regolamento n.178/2002
la dimensione integrata si fa dichiarata, la
finalità di apprestare «una base comune»
diviene esplicita ( lxxxvii ).
Su un piano generale, gli artt.1 e 4
affermano espressamente che i principi
contenuti nel regolamento costituiscono
canoni di applicazione ed attuazione
dell’intera normativa vigente in una materia,
la «legislazione alimentare» che - siccome
fra l’altro intesa ad assicurare tutela al
consumatore, ed estesa a comprendere tutte
le fasi di produzione e distribuzione - con ciò
stesso
investe
l’interpretazione
della
disciplina della responsabilità per danni da
prodotti alimentari difettosi.
Ma è soprattutto nel capo II del regolamento
n.178 ( lxxxviii ), che si rinviene una possibile
specifica
«base
comune»
della
responsabilità civile nel diritto alimentare.
Gli artt. 14 e 15 del regolamento definiscono
«requisiti di sicurezza degli alimenti e dei
mangimi», introducendo norme imperative e
di diretta applicazione ( lxxxix ), e con ciò
determinando le caratteristiche che devono
essere presenti perché un alimento possa
essere definito sicuro.
La «difettosità» del prodotto alimentare, ai
sensi delle direttive del 1985 e del 1999, a
sua volta fa riferimento a «la sicurezza che
ci si può legittimamente attendere» ( xc ).
Se ne può concludere che la “difettosità” o
meno di un prodotto alimentare dovrà essere
determinata alla stregua delle prescrizioni
del regolamento n.178, e così degli obblighi
che questo pone a carico degli operatori del
settore ai fini della sicurezza.
Il presupposto essenziale dei diritti e delle
azioni, riconosciute al consumatore ai fini del
risarcimento dei danni da prodotti difettosi, si
determina dunque in ragione della «base
comune» quale stabilita dal regolamento
n.178.
Reciprocamente, la relazione consumatoreimpresa, sul versante attivo dei diritti del
consumatore, pur non espressamente
delineata nel regolamento n.178, emerge
come componente sistemica, in ragione
della formalizzazione quali regole di diritto di
un insieme di prescrizioni che, in riferimento
specifico agli alimenti, costituiscono le basi
condivise dell’intera regolazione.
Sul piano del diritto interno, tale conclusione
rinvia a risalenti esperienze maturate nel
nostro ordinamento, quanto al contenuto da
assegnare
alla
responsabilità
penale
disegnata dall’art. 516 cod.pen., che punisce
quale “Vendita di sostanze alimentari non
genuine come genuine” il comportamento di
“Chiunque pone in vendita o mette altrimenti
in commercio come genuine sostanze
alimentari non genuine”. La giurisprudenza
( xci ) ha chiarito che - ai fini di questa
responsabilità – il concetto di «genuinità»
non è soltanto quello «naturale», ma anche
quello «normativo» o «formale» fissato dal
legislatore, a prescindere da considerazioni
su una pretesa naturalità dell’alimento ( xcii );
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sicché anche l’oggetto della norma penale si
determina in ragione delle prescrizioni del
diritto alimentare.
Se ne può concludere che, se le azioni del
consumatore sono fatte salve ed anzi
rafforzate dall’art.21, reciprocamente la
norma sulla responsabilità per danno da
prodotto difettoso estesa agli alimenti,
costituisce uno degli elementi centrali di
chiusura e di presidio per l’intero sistema di
sicurezza alimentare e lungo l’intera filiera
agroalimentare ( xciii ), siccome legittima
l’iniziativa del consumatore, attivando
strumenti privatistici a titolarità diffusa
accanto agli strumenti del controllo pubblico
e della certificazione.
In questo senso, sembra ragionevole
osservare che il regolamento n. 178, con la
sua singolare molteplicità di basi giuridiche,
di fini, di strumenti di intervento, di date di
entrata in vigore, se in parte sconta la
difficoltà di dare ordine ad un settore
complesso, per le tensioni che lo
attraversano e per le regole che lo
investono, soprattutto esprime un modo
peculiare di fare diritto europeo in senso
proprio, dando vita ad un sistema di governo
di interessi e di attività, nel quale si
intersecano piano nazionale e piano
comunitario, responsabilità dei privati ed
interventi di soggetti dotati di autorità
persuasiva e scientifica, piuttosto che di
poteri nel senso classico, riducibili ad unità
solo ove letti attraverso il canone di
sussidiarietà (e di complessità dei soggetti
regolatori), in una duplice declinazione,
verticale ed orizzontale.
L’impresa ne risulta destinataria di regole, e
nello stesso tempo ne viene legittimata a
farsi essa stessa fonte di regole, di
autoregolazione ed autoresponsabilità, in un
dialogo che assume la sicurezza alimentare
come decisivo canone dello statuto
normativo della concorrenza nel mercato
degli alimenti.
i
V. L, Costato, I principi del diritto alimentare, in
Studium iuris, 2003, p. 1051.
ii
Il diritto comunitario tende a comprendere nel diritto
alimentare anche le regole relative alla produzione ed
al consumo di mangimi destinati ad animali che
costituiscono essi stessi o che producono alimenti per
l’uomo, a causa della stretta connessione esistente fra
alimento dell’animale e caratteristiche del prodotto
alimentare derivato.
iii
A cominciare dalla sentenza Dassonville, per
seguire con la Cassis de Dijon, brevemente citate e
commentate nel mio Compendio di diritto alimentare,
cit., p. 177 ss.
iv
Esemplare, al proposito, la vicenda c.d. della carne
agli ormoni, a proposito della quale v. P. Borghi,
L’agricoltura nel trattato di Marrakech (prodotti
agricoli e alimentari nel diritto del commercio
internazionale) Milano, 2004, p. 165.
v
Si fa riferimento, qui alla sicurezza dei cibi, e non
alla sicurezza di avere cibi a sufficienza, problema
questo diverso che tormenta una parte rilevante del
nostro pianeta.
vi
Si tratta di vincoli non applicabili direttamente,
come ha più volte affermato la Corte di giustizia, ma
di obblighi internazionali che Comunità e Stati
membri, ciascuno per la sua competenza, sono tenuti a
rispettare; sul punto v. da ultimo, la sentenza in causa
C-377/02 del 1° marzo 2005, Léonn Van Oaris NV –
BIRB, pubblicata solo, per ora, nel sito della Corte,
ove anche rinvii alla precedente giurisprudenza.
vii
Sull’arg.v. L. Gradoni, Commento all’art. 7, in in
La sicurezza alimentare nell’Unione europea
(commento articolo per articolo al reg. 178/2003), a
cura dell’IDAIC, in Le nuove leggi civili commentate,
2003, p. 188 ss.; per una lettura parzialmente diversa
mi permetto di rinviare a quanto affermo nel presente
volume, p. 85 ss.
viii
A proposito di soft law mi permetto di rinviare a L.
Costato, Il soft law nel diritto agrario e alimentare, in
Lavoro e diritto, 2003, p. 37 ss.
ix
Sull’arg. mi permetto di rinviare al mio Compendio
di diritto alimentare, II edizione, cit., p. 343 ss.
x
Con la dir. 85/374 del Consiglio del 25 luglio 1985,
in GUCE L 201 del 1985, integrata e modificata da
ultimo dalla dir. 1999/34 del Parlamento europeo e del
Consiglio del 10 maggio 1999, in GUCE L 141 del
1999, attuate in Italia rispettivamente dal d.P.R. 25
maggio 1988, n. 224 e dal d. lgs. 2 febbraio 2001, n.
25.
xi
V. il reg. 852/2004 cit, che sostituisce la dir. 93/43
del Consiglio del 14 giugno 1993, in GUCE L 175 del
1993; sulla direttiva citata v. il mio Compendio di
diritto alimentare, cit., p. 337, ove bibliografia.
xii
Il reg. 2005/2004 del 27 ottobre 2004, del
Parlamento europeo e del Consiglio, è rubricato ‘sulla
cooperazione delle autorità nazionali responsabili
dell’esecuzione della normativa che tutela i
consumatori (“Regolamento sulla cooperazione per la
tutela dei consumatori”)’, in GUUE L364 del 9
dicembre 2004, p. 1 ss.
xiii
Sul punto v. l’allegato al reg. 2005/2004.
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xiv
Sull’argomento v. G. Sgarbanti, Commento all’art.
4, in La sicurezza alimentare nell’Unione europea
(commento articolo per articolo al reg. 178/2003), a
cura dell’IDAIC, in Le nuove leggi civili commentate,
2003, p. 188 ss.
xv
Da G. Sgarbanti, op. loc. cit.
xvi
V., al proposito, la disamina fatta dalla
Commissione C.E. nella Comunicazione sul principio
di precauzione, on COM (2000) def. del 2 febbraio
2000.
xvii
V., per quanto si riferisce ai riferimenti
bibliografici, quanto segnalato a nota 10.
xviii
Dalla dir. 99/59 del 29 luglio 1992 relativa alla
sicurezza generale dei prodotti.
xix
Sul sistema di allarme rapido come costruito dal
reg. 178/2002 v. L. Petrelli, Commenti agli artt.. 50 e
ss., in La sicurezza alimentare nell’Unione europea
(commento articolo per articolo al reg. 178/2003), a
cura dell’IDAIC, in Le nuove leggi civili commentate,
2003, p. 428 ss., ove anche riferimenti al sistema
adottato con la dir. 92/59 cit.
(xx) Del 14 novembre 2001, adottata a conclusione
della Conferenza Ministeriale ivi svoltasi WT/MIN(01)/DEC/W/1.
(xxi) WT/MIN(01)/W/10.
(xxii) COM(1999) 719 def. del 12 gennaio 2000.
(xxiii) COM(2000) 1 del 2 febbraio 2000.
(xxiv) Reg. (CE) n. 178/02 del Consiglio, del 28
gennaio 2002, che stabilisce i principi e i requisiti
generali della legislazione alimentare, istituisce
l'Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa
procedure nel campo della sicurezza alimentare (in
GUCE L 31 del 1 febbraio 2002).
(xxv) Rapporto del Panel istituito nell’ambito del
GATT: Thailand - Restrictions on importation of and
internal taxes on cigarettes, DS10/R - 37S/200.
(xxvi) Decision on the implementation of article 4 of
the Agreement on the application of Sanitary and
Phytosanitary Measures, del 24 ottobre 2001 G/SPS/19.
(xxvii) EC - Measures affecting asbestos and asbestoscontaining products, WT/DS135/AB/R, 12 marzo
2001, punto 168.
(xxviii) Australia - Measures affecting importation of
salmon, WT/DS18/R, 12 giugno 1998, punto 8.108.
(xxix) Dec. 1999/244/CE del 26 marzo 1999, in GUCE
L 91 del 1999.
(xxx) Sent. 23 ottobre 2001, in causa T-155/99,
Dieckmann & Hansen.
(xxxi) EC Measures concerning meat and meat
products (Hormones), WT/DS26/AB/R WT/DS48/AB/R, del 16 gennaio 1998.
(xxxii) Australia - Measures affecting importation of
salmon, WT/DS18/R, e WT/DS18/AB/R.
(xxxiii) Japan - Measures affecting agricultural
products (Varietals), WT/DS76/R, e WT/DS76/AB/R.
(xxxiv) Egypt - Import Prohibition on Canned Tuna
with Soybean Oil, Request for Consultations by
Thailand, WT/DS205/1.
xxxv
) V. per tutti M.R.FERRARESE, Il diritto al
presente. Globalizzazione e tempo delle istituzioni,
Bologna, 2002.
xxxvi
) V. Il governo dell’agricoltura nel nuovo titolo V
della costituzione, Atti dell’incontro di studio
dell’IAIC di Firenze, 13 aprile 2002, a cura di
A.GERMANO’, Milano, 2003, e v. ivi, a p.67, in
particolare la relazione di A.JANNARELLI,
L’agricoltura tra materia e funzione: contributo
all’analisi del nuovo art.117 Cost.
xxxvii
) Così Corte Cost. 26 luglio 2002, n.407, in
materia di limiti di inquinamento, prescritti dalla legge
reg. Lombardia che ha introdotto limiti più severi di
quelli nazionali.
xxxviii
) V. le relazioni di D.GORNY, L’autorità per la
sicurezza alimentare, e di F.LUBRANO, L’attività
dell’autorità ed i controlli, nel medesimo convegno
UAE di Pescara, in q. Riv., infra.
xxxix
) Già nel testo originario del Trattato del
1957, l’art.39 (ora 33) individua fra le
finalità della politica agricola comune quella
di “e) assicurare prezzi ragionevoli nelle
consegne al consumatore”, e l’art.86 (ora 82)
vieta le pratiche abusive consistenti “b) nel
limitare la produzione, gli sbocchi o lo
sviluppo tecnico, a danno del consumatore”.
L’Atto Unico europeo del 1987 ha poi
aggiunto l’art.100A (ora 95), lì ove si
prevede un livello di protezione elevato “in
materia di sanità, sicurezza, protezione
dell’ambiente e protezione dei consumatori”.
Sulla nozione di consumatore nel diritto
comunitario v. A.GERMANO’ - E.ROOK
BASILE, Commento all’art.3, in La
sicurezza alimentare nell’Unione europea
(commento al reg.178/2002), a cura
dell’IDAIC, in Le nuove leggi civ.comm.,
2003, ____.
xl
) Con esiti anche quanto alle categorie dei
beni ed all’individuazione di new properties;
v. per tutti A. JANNARELLI, Beni, interessi,
valori. Profili generali, e la disciplina
dell’atto e dell’attività: i contratti tra
imprese e tra imprese e consumatori, in
Diritto privato europeo, a cura di N.Lipari,
Padova, 1997, I, p.373, e II, p.489.
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xli
) Direttiva 98/27/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 19 maggio 1998, relativa a
provvedimenti inibitori a tutela degli interessi dei
consumatori; per l’Italia v. la legge 30 luglio 1998, n.
281, «Disciplina dei diritti dei consumatori e degli
utenti».
xlii
) Per ulteriori indicazioni v. G.CHINÈ, Il
consumatore, in Diritto privato europeo, cit., I, p.164,
e Il diritto comunitario dei contratti, in Il diritto
privato dell’Unione europea, a cura di A.Tizzano,
Torino, 2000, I, p.607.
xliii
) Direttiva n. 577/85 sui contratti stipulati fuori dai
contratti commerciali, attuata in Italia con d.leg.vo 15
gennaio 1992, n. 50; v. anche le direttive del 1987 sul
credito al consumo, del 1993 sulle clausole abusive e
del 1997 sui contratti a distanza.
xliv
) Art.2, n.18) del reg. n.178/2002.
xlv
) Direttiva 79/112/CEE del Consiglio del 18
dicembre 1978, relativa al ravvicinamento delle
legislazioni degli Stati membri concernenti
l’etichettatura e la presentazione dei prodotti
alimentari destinati al consumatore finale, nonché la
relativa pubblicità, poi modificata dalla direttiva
n.89/395/CEE del Consiglio del 14 giugno 1989, che
ne ha previsto la generalizzata applicazione anche ai
prodotti destinati alle collettività. V. oggi la direttiva
2000/13/CE del 20 marzo 2000, che ha codificato la
materia; per ulteriori indicazioni in argomento sia
consentito rinviare al mio Le norme sull’etichettatura
dei prodotti alimentari, in Trattato di diritto agrario
nazionale e comunitario, diretto da L.Costato, Padova,
2003, III ed., 631.
xlvi
) D. GADBIN, La qualité de la production du
produit de base en droit communautaire agricole, in
Le produit agro-alimentaire et son cadre juridique
communautaire, Rennes, 1996, il quale ha rimarcato
che “le consommateur entretient évidemment un
rapport plus intime avec sa nourritoure qu’avec les
produits non alimentaires”.
xlvii
) M.TAMPONI, La tutela del consumatore di
alimenti: soggetti, oggetti e relazioni, in Agricoltura e
alimentazione tra diritto, comunicazione e mercato,
Atti del convegno IDAIC di Firenze, 9-10 novembre
2001, a cura di E.Rook Basile e A.Germanò, Milano,
2003, p.301, a p.311.
xlviii
) V. A.GERMANÒ-E.ROOK BASILE, Commento
all’art.3, cit.
xlix
) Art.2, n.18, reg. 178/2002.
l
) Così la Corte di giustizia nelle sentenze 3 luglio
1997 in causa C-269/95, e 19 gennaio 1993, in causa
C-89/91, entrambe significativamente pronunciate non
su regolamenti o direttive, ma sull’interpretazione
della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968
sulla competenza giurisdizionale, in particolare per
quanto attiene al foro riservato al consumatore.
li
) Secondo linee che sembrano aver trovato eco anche
nella più recente giurisprudenza della Corte italiana di
legittimità, lì ove questa ha dichiarato la
legittimazione ad opporsi al provvedimento di
archiviazione in tema di sospetta qualità dell’acqua
minerale contenuta in una bottiglia anche alla parte
privata, siccome portatrice di un interesse
giuridicamente protetto ad ottenere giustizia a tutela
della salute (Cass., sez. pen., sentenza n.25726 del
2003).
lii
) Basti pensare alla legge italiana sulle associazioni
dei consumatori; v. la relazione di S.MASINI, Il diritto
all’informazione e l’etichettatura dei prodotti agroalimentari, nel medesimo convegno UAE di Pescara,
in q. Riv., infra.
liii
) Cfr. A. JANNARELLI, L’impresa agricola nel
sistema agro-industriale, in Dir.giur.agr.amb., 2002,
p.213.
liv
) Per ulteriori indicazioni sia consentito rinviare al
mio Dai distretti all’impresa agricola di fase, Viterbo,
2002.
lv
) N.LIPARI, Il mercato: attività privata e regole
giuridiche, in Agricoltura e diritto. Scritti in onore di
Emilio Romagnoli, Milano, 2000, I, p.37.
lvi
) V. già La nozione di impresa nell’ordinamento
comunitario, a cura di P.VERRUCOLI, Milano, 1977;
più di recente, per ulteriori riferimenti, L.DI VIA,
L’impresa, in Diritto privato europeo, cit., I, 252.
lvii
) V. anche le definizioni di «… 3) "operatore del
settore alimentare", la persona fisica o giuridica
responsabile di garantire il rispetto delle disposizioni
della legislazione alimentare nell'impresa alimentare
posta sotto il suo controllo; … 7) "commercio al
dettaglio", la movimentazione e/o trasformazione
degli alimenti e il loro stoccaggio nel punto di vendita
o di consegna al consumatore finale, compresi i
terminali di distribuzione, gli esercizi di ristorazione,
le mense di aziende e istituzioni, i ristoranti e altre
strutture di ristorazione analoghe, i negozi, i centri di
distribuzione per supermercati e i punti di vendita
all'ingrosso;
8) "immissione sul mercato", la
detenzione di alimenti o mangimi a scopo di vendita,
comprese l'offerta di vendita o ogni altra forma,
gratuita o a pagamento, di cessione, nonché la vendita
stessa, la distribuzione e le altre forme di cessione
propriamente detta; … 16) "fasi della produzione,
della trasformazione e della distribuzione", qualsiasi
fase, importazione compresa, a partire dalla
produzione primaria di un alimento inclusa fino al
magazzinaggio, al trasporto, alla vendita o erogazione
al consumatore finale inclusi e, ove pertinente,
l'importazione, la produzione, la lavorazione, il
magazzinaggio, il trasporto, la distribuzione, la
vendita e l'erogazione dei mangimi», tutte contenute
nell’art.2 del reg. n.178.
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lviii
) Sul diffuso utilizzo delle definizioni nel diritto
comunitario v., per ampi riferimenti, A.GERMANO’ E.ROOK BASILE, Commento all’art.3, cit.
lix
) Direttiva 93/43/CEE del Consiglio, del 14 giugno
1993, sull’igiene dei prodotti alimentari, che ha
previsto la generalizzata adozione del sistema
HACCP, e che è stata attuata in Italia con il decreto
legislativo 26 maggio 1997, n.155.
lx
) Secondo quanto prevede la legge n.283 del 30
aprile 1962, «Disciplina igienica della produzione e
della vendita delle sostanze alimentari e delle
bevande».
lxi
) Commission of the European Communities, COM
(1999) 719 final, Brussels, 12 January 2000, p.8
lxii
) Commissione delle Comunità Europee, COM
(1999) 719, Bruxelles, 12 gennaio 2000, p.9.
lxiii
) Sui precedenti normativi in argomento e sulle
novità introdotte non solo dal decreto legislativo di
orientamento del settore agricolo, n.228/2001, ma
anche dal decreto legislativo di orientamento del
settore forestale, n.227/2001 (in particolare agli artt.7
ed 8), sia consentito rinviare al mio Dai distretti
all’impresa agricola di fase, cit.
lxiv
) V. L. COSTATO, Dall’impresa agricola alla
filiera e ai distretti, in Trattato breve di diritto agrario
italiano e comunitario, diretto da L.Costato, 3^ ed.,
Padova, 2003, p.12, ed il mio Distretti e sistemi
produttivi locali in agricoltura: dal fondo al territorio,
ivi, p.13.
lxv
) Così l’art.3, n.2 reg. n.178/2002, che recita: «Ai
fini del presente regolamento si intende per: … 2)
“impresa alimentare”, ogni soggetto pubblico o
privato, con o senza fini di lucro, che svolge una
qualsiasi delle attività connesse ad una delle fasi di
produzione, trasformazione e distribuzione degli
alimenti». Significativo ricordare che il medesimo
art.3, al n.5, nel definire la «impresa nel settore dei
mangimi», non richiede neppure lo svolgimento di una
fase ma ritiene sufficiente ad identificare tale
«impresa» il semplice svolgimento di «una qualsiasi
delle operazioni», così disponendo: «Ai fini del
presente regolamento si intende per: … 5) “impresa
nel settore dei mangimi”, ogni soggetto pubblico o
privato, con o senza fini di lucro, che svolge una
qualsiasi delle operazioni di produzione, lavorazione,
trasformazione,
magazzinaggio,
trasporto
o
distribuzione dei mangimi, compreso ogni produttore
che produca, trasformi o immagazzini mangimi da
somministrare nel suo fondo agricolo ad animali».
lxvi
) Può risultare efficace a chiarire la latitudine della
nuova disciplina (solo apparentemente paradossale) un
semplice test, il «test del caffè dell’avvocato»
(soggetto doverosamente scelto perché il convegno di
Pescara, per il quale è stata preparata questa relazione,
era organizzato appunto da un’associazione europea di
avvocati): un avvocato, il quale offra a clienti del
proprio studio un caffè, non rientrava nella definizione
di «industria alimentare» di cui alla direttiva del 1993
richiamata alla precedente nota 25, ma verosimilmente
rientra nella definizione di «impresa alimentare»
quale introdotta dal reg. n.178/2002, nella misura in
cui svolge un’attività di trasformazione e distribuzione
di un prodotto alimentare; ne segue che anche
l’avvocato dovrà preoccuparsi di rispettare le regole di
organizzazione, relazione e responsabilità appresso
discusse, ad esempio predisponendo idonei e
documentati modelli di organizzazione e controllo, ed
acquisendo e conservando la documentazione richiesta
dall’applicazione del principio di tracciabilità.
lxvii
) Su cui v. R.VITOLO, Il diritto alimentare
nell’ordinamento interno e comunitario, Napoli, 2003,
p.84.
lxviii
) V. la proposta di “Regolamento del Consiglio,
che stabilisce norme comuni relative ai regimi di
sostegno diretto nell’ambito della politica agricola
comune e istituisce regimi di sostegno a favore dei
produttori di talune colture”, presentata dalla
Commissione delle Comunità europee il 21 gennaio
2003, COM (2003) 23 def. (non ancora approvata nel
testo definitivo al momento della redazione di queste
note), che nell’Allegato III, fra i “Criteri di gestione
obbligatori” posti a carico di tutti gli agricoltori che
intendono beneficiare di pagamenti diretti, sono
indicati espressamente gli artt.14, 15, 18, 19, e 20 del
regolamento n.178/2002.
lxix
) In argomento, per ulteriori indicazioni e
riferimenti, sia consentito rinviare al mio Commento
agli artt.53 e 54, in La sicurezza alimentare
nell’Unione europea (commento al reg.178/2002), a
cura dell’IDAIC, in Le nuove leggi civ.comm., 2003,
____.
lxx
) In generale, sulle novità introdotte nei modelli di
amministrazione nazionale, dall’introduzione dei
meccanismi di amministrazione comunitaria, diretta e
indiretta, v. per tutti S.CASSESE, Diritto
amministrativo comunitario e diritti amministrativi
nazionali, in Trattato di diritto amministrativo
europeo, diretto da M.P.CHITI e C.GRECO, Milano,
1997, I, p.3.
lxxi
) V. la Direttiva 92/59/CEE del Consiglio del 29
giugno 1992, «relativa alla sicurezza generale dei
prodotti», il decr. leg.vo di attuazione 17 marzo 1995,
n.115, e da ultimo la direttiva 2001/95/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, che ha sostituito
la direttiva 92/59, rinviandone però l’abrogazione al
15 gennaio 2004; in argomento v. P. DI MARTINO,
La tutela dei consumatori: sulla sicurezza e qualità
dei prodotti, anche alimentari, in Scritti in memoria di
Giovanni Cattaneo, Milano, 2002, I, p.507; A.
GERMANO’, La responsabilità del produttore
agricolo, in Trattato breve, cit., p.743.
lxxii
) V. l’art.4, comma 3, del reg. n.178.
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lxxiii
) Ex art. 65 del regolamento, gli artt.14-20 avranno
applicazione dal 1 gennaio 2005, laddove l’art.21 è di
immediata applicazione.
lxxiv
) V. in argomento la relazione di P.BORGHI, Il
principio di precauzione tra diritto comunitario e
accordo S.P.S., al convegno AICDA di Pestum del 3031 maggio 2003.
(lxxv) Conformemente nel testo spagnolo le rubriche
degli artt.19 e 20 recitano “Responsabilidades
respecto a …” mentre quella dell’art.21 recita
“Responsabilidad civil”, e nel testo inglese le rubriche
degli artt.19 e 20 recitano “Responsibilities for …”
mentre quella dell’art.21 recita “Liability”.
(lxxvi) «Disciplina della responsabilità amministrativa
delle persone giuridiche, delle società e delle
associazioni anche prive di personalità giuridica, a
norma dell’art.11 della legge 29 settembre 2000,
n.300»; significativo rilevare che la legge delega 29
settembre 2000, n.300, ratifica e dà esecuzione della
Convenzione del 1995 sulla tutela degli interessi
finanziari dell’Unione europea, a conferma
dell’ispirazione comunitaria del modello di
regolazione adottato.
(lxxvii) Art.6 del decreto leg.vo 8 giugno 2001, n.231;
v. A.FRIGNANI – P.GROSSO –G.ROSSI, I modelli
di organizzazione previsti dal d.leg. n. 231/2001 sulla
responsabilità degli enti, in Società, 2002, p.143.
(lxxviii) N.IRTI, la concorrenza come statuto normativo,
in Scritti in onore di Giovanni Galloni, Roma, 2002,
Ii, p.934, a p.942.
(lxxix) Art.19, comma 1, del regolamento.
(lxxx) Cfr. l’art.7 del D.P.R. 224/1988.
lxxxi
) In argomento, per ulteriori indicazioni, sia
consentito rinviare al mio Commento all’art.21, in La
sicurezza alimentare nell’Unione europea, cit., p. ___
lxxxii
) Direttiva 85/374/CEE, modificata dalla Direttiva
del Parlamento e del Consiglio 34/99/CE del 10
maggio 1999, ed attuata in Italia con D.P.R. 24
maggio 1988, n.224, come modificato dal decr. leg.vo
2 febbraio 2001, n.25, per un commento, con ampi
riferimenti, v. A.GERMANO’, La responsabilità del
produttore agricolo, in Trattato breve, diretto da
L.COSTATO, cit., p.743; P. DI MARTINO, La tutela
dei consumatori, cit.
(lxxxiii) Cfr. gli artt.1, 3 n.13), 5, 8, da 14 a 20.
(lxxxiv) Art.5 D.P.R. 224/1988; cfr. l’art.6, comma 1,
della direttiva 85/374/CEE. Cfr. anche le definizioni
di “prodotto sicuro” contenute nella direttiva
92/59/CEE del Consiglio del 29 giugno 1992,
«relativa alla sicurezza generale dei prodotti», nel
decr. leg.vo di attuazione 17 marzo 1995, n.115, e da
ultimo nella direttiva 2001/95/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio, che ha sostituito la direttiva
92/59, rinviandone però l’abrogazione al 15 gennaio
2004.
(lxxxv) Art.6 D.P.R. 224/1988; cfr. l’art.7, della
direttiva 85/374/CEE.
(lxxxvi) Cfr. A.GERMANO’, op.ult.cit., p.747.
(lxxxvii) V. il 5^ considerando.
(lxxxviii) All’interno di questo capo, rilevante appare
soprattutto la sez.IV, «Requisiti generali della
legislazione alimentare», artt. 14-21.
(lxxxix) Pur con tutte le incertezze legate a talune
formule non sufficientemente definite, quale quella sui
possibili danni alla salute dei «discendenti».
(xc) Art.5 D.P.R. 224/1988.
(xci) Cfr. Cass., 7 marzo 1984, Pau; Cass., 17
novembre 1994, Manni; Cass., 18 ottobre 1995,
Pittarello; Cass., 22 maggio 1996, Lionetti; in
argomento, secondo differenziate prospettive, v.
A.BERNARDI, La disciplina sanzionatoria della
produzione agricola e del mercato agro-alimentare, in
G.PICA, Illeciti
Trattato breve, cit., p. 1101;
alimentari, in Enc.dir., aggiorn., VI, Milano, 2002, p.
443.
(xcii) Di talché si è parlato di una «doppia genuinità».
(xciii) In argomento, per ulteriori indicazioni, sia
consentito rinviare al mio Sistema agroalimentare, in
Digesto disc. priv., sez. civ., Aggiornam., IV, Torino,
2003, p.1244.