Periplo di Ferrara - Emiliano

Transcript

Periplo di Ferrara - Emiliano
Periplo di Ferrara
Roberto Pazzi
Poeta e scrittore
Proporre un itinerario culturale in una città come Ferrara è di una evidente
facilità, anzi pone l’imbarazzo della scelta, data l’offerta così ampia di
monumentalità e di bellezze artistiche.
A prima vista, Ferrara delude sia chi arriva con l’autostrada sia chi arriva con il
treno: il suo cuore è segreto, è all’interno del centro storico.
Chi entra nella città anzitutto si renderà conto che Ferrara conserva una
perfetta cinta muraria che in questi ultimi anni è stata oggetto di una
interessante operazione archeologica. Le mura, che erano nascoste dalla terra
che nei secoli si era accumulata (dal 1492 quando furono innalzate sotto Ercole
I d’Este con la supervisione di Biagio Rossetti), adesso sono di nuovo riemerse
alla vista, quasi tutte, e offrono uno spettacolo molto suggestivo a chi dovesse
fare il giro della città dall’esterno. Cominciamo a suggerire allora un percorso.
Chi arriva potrebbe parcheggiare in una delle zone del centro deputate, per
esempio vicino a piazza Ariostea. Abbandonata la macchina lì, si potrebbe
dirigere verso il punto più magico della città, che è il quadrivio di Ercole d’Este,
l’incrocio di corso Ercole d’Este con corso Porta Po, dove da una parte c’è il
meraviglioso Palazzo dei Diamanti, dall’altra Palazzo di Bagno e poi Palazzo
Bevilacqua e Palazzo Sacrati Prosperi.
È uno strano quadrivio; agli occhi offre il bianco candido, accecante, del
Palazzo dei Diamanti, che però ha una sua variazione di luce, perché quelle
punte, a seconda dell’esposizione del sole, offrono una diversa lettura, una
diversa luce. Chi ha studiato quell’angolo ha notato che la mente di Rossetti
deve aver calcolato anche gli effetti di spazi vuoti in quel punto, perché ci sono
mura dietro le quali non c’è niente e quindi anche il cielo, gli alberi e i vuoti
fanno parte di quel calcolato studio che ritma pieni e vuoti, vuoti e pieni.
Approfitti, chi comincia la passeggiata della città da Palazzo dei Diamanti,
dell’opportunità che gli è data di vedere lo scempio della Soprintendenza alle
Belle Arti che ha operato uno dei più discutibili restauri intonacando
completamente il palazzo nel fascione in cotto rosso che era sopra. Giuste
quindi
le
polemiche
e
rimostranze
di
chi
rifiuta
questa
violenta
rinascimentalizzazione della città, che non è legata ai materiali nobili del
granito e del marmo, che non è Venezia; vedrà che da una parte il fascione è
ancora com’era, dall’altra è candido, perché le polemiche fervono. Fra poco
sarà presa finalmente la decisione dal ministro, ma i ponteggi costano milioni
al giorno e sono fermi da ormai un anno.
Di lì si avvii per corso Ercole d’Este, quella che Piovene dichiarava la più bella
via d’Europa, e vada verso il fondo, verso la cosiddetta casa del Boia, che sta
(è stata restaurata) al punto di tangenza fra il contado e la città. Arrivato sulla
cima, si volti indietro a guardare verso il Castello Estense: guardando dalla
casa della morte, la casa del Boia, la casa della vita, che è il castello del duca,
il signore della vita e della morte, avrà già un po’ l’atmosfera metafisica di
Ferrara, la stessa in cui De Chirico e i suoi compagni, mi pare Carrà e Morandi,
nell’inverno del ’17, ricoverati insieme all’ospedale militare, cominciarono a
stabilire le basi di una scuola di pittura che è appunto quella metafisica: una
atmosfera un po’ straniata e sonnolenta, un po’ fuori dalle coordinate spaziotemporali delle altre città del Nord Italia.
Arrivato sulle mura, vedrà quella cosa splendida che è stato il restauro delle
mura monumentali, rispettate nella loro rugosità, nella loro tormentata storia
di venature, di spaccature, di distruzioni, di sprofondamenti bradisismici. Da
una parte, sulla sinistra, se va verso il mare, avrà la campagna, mentre a
quattro-cinque chilometri si indovina l’argine del Po. Ho lì immaginato, in un
mio romanzo, La malattia del tempo, l’arrivo di un’armata di tartari che da
quell’argine del Po vede la città sprofondata nella sua nebbia, anche perché
Ferrara ha una curiosa depressione, è meno dieci sotto il livello del mare, è
una città che sorge su una pianura alluvionale e ha una paura matta
dell’acqua. Noterà, infatti, che la città è avarissima di fontane, perché, secondo
me, serpeggia da secoli la paura inconscia di rimanere affogati da un’alluvione
del Po.
Camminando sulle mura, dunque, avrà alla sinistra la campagna e sulla destra
la città dei morti, cioè i due meravigliosi cimiteri cittadini: quello monumentale,
ottocentesco, che era l’ex convento della Certosa, e quello ebraico, splendido,
suggestivo, poetico, che sono uno accanto all’altro. Accogliendo i morti
all’interno della città dei vivi, Ferrara dimostra di essere legata a una
dimensione non solo funzionale-visiva, ma anche metaforico-ultrasensibile.
Diciamo che la presenza della morte e del passato su questa città è forte,
tant’è che ci si domanda, qualche volta, dove sia il presente, perché il presente
è piuttosto sfuggente come categoria.
Camminando sugli spalti arriverà al bastione di Porta a Mare; lì potrebbe
continuare ancora verso la prospettiva di corso della Giovecca e spingersi
ancora più avanti fino alla chiesa di San Giorgio, che era il primitivo nucleo
urbano, il borgo fluviale. Allora avrà da una parte abbandonata l’addizione
erculea e sarà entrato nella zona medievale. A quel punto scenda verso la
città, verso via XX Settembre dov’era la casa di Biagio Rossetti, e di lì, se
possibile, dia un’occhiata al restaurando museo di Spina. Attraverso via Biagio
Rossetti potrà aggettare in quel vicolo del Carbone, mi pare si chiami così, che
porta al monastero di Sant’Antonio in Polesine, dove esistono degli affreschi
trecenteschi di scuola giottesca e un cortile che ha un’atmosfera piuttosto
strana, magica, per un meraviglioso ciliegio del Giappone che, fiorito di rosa, è
immenso e quasi prende tutto il cortile. Il fiorire continuo in cui si esaurisce la
forza di quest’albero, che non offre visibili frutti, è metaforico e allusivo di
molte cose della condizione umana. Personalmente, della scelta di rimanere in
questa città, perché, nelle sue bellezze e nella sua atmosfera, ci si può anche
compiacere di abitare, sognando poi sempre di evaderne per andare a scoprire
veramente il mondo; è come una meravigliosa anticamera del desiderio che fa
sognare che il mondo sia bellissimo perché è bello qua.
In questo, Ferrara è veramente una città magica, perché tutela ancora
atmosfere e spazi che mi sembrano sempre più difficili da trovare in un’Italia
rapidamente degradata dal progresso e comunque legata a una formula
industriale ed economica che non consente facili ritiri e apartheid.
Il convento di Sant’Antonio in Polesine va assolutamente visitato. Va vista
quella meravigliosa serie di affreschi in cui c’è anche una iconografia rarissima:
il Cristo che sale da solo la croce perché nessuno può toccarlo. È il simbolo di
una regalità assoluta e di una irrazionale ieraticità che nell’iconografia
dell’Occidente non si trova mai.
Ho dimenticato di dire che la presenza ebraica in città segnala che i duchi
avevano una tolleranza e una lungimiranza straordinarie. Dopo la caduta di
Granada, nel 1492, e la cacciata degli arabi e degli ebrei dal regno cattolico di
Isabella e Ferdinando, questi ultimi furono accolti con larghissime provvidenze
di legislazione, perché gli estensi avevano capito che portavano ricchezza,
denaro e lavoro. Fu anche uno dei successi del ducato, pagato poi a caro
prezzo, perché dopo la venuta dei pontefici, Ferrara langue fino al 1859 con
un’amministrazione
miope,
ottusa
e
sonnolenta
come
era
ovunque
l’amministrazione pontificia.
Da Sant’Antonio in Polesine consiglierei di dirigersi, attraverso corso Carlo
Mayr, verso il Duomo, tenendo presente, e lo si capirà guardandosi intorno,
che siamo nella zona più antica della città, quella medievale, un tempo segnata
da vie d’acqua, perché il Po passava di lì. Si vedrà che il protagonista di questa
città è il mattone cotto, perché la città era povera di materiali nobili (torno
quindi alla necessità di conservare il fascione di mattoni rossi di Palazzo dei
Diamanti come firma della ferraresità, cioè della malta, del fango, con cui
facevano i mattoni).
Il Duomo è di una bellezza che si nomina da sé. È curioso ricordare che è sorto
come una sfida e un augurio di espansione nel punto estremo della città a
nord, quando la città era tutta sviluppata verso sud. Non so se consigliare di
entrare nel Duomo perché dentro è brutto, è stato distrutto da incendi e
terremoti e non è rimasto molto. È il Duomo dove ho fatto il chierichetto, è un
luogo un po’ triste, oggetto di visite di vecchie signore, con formale messa
delle dodici. Il campanile, disegnato da Leon Battista Alberti, è bello ma
incompleto. C’è un presagio di Venezia nella piazza affiancata; piazza Trento e
Trieste sembra quasi un campiello veneziano.
Si entri anche nella piazza parallela, quella del Comune, dal Volto del Cavallo
con le statue dei due marchesi cari all’Ariosto, Niccolò III e Dorso V, di fronte
al Duomo; nella piazza c’è, oltre il Volto guardando a destra, una scala
ricoperta con cupolino, quattrocentesca e bellissima. Lì intorno ci sono molte
cose gradevoli da vedere. Sarebbe interessante andare in Comune, salire la
scala che ho detto e farsi dare le chiavi per poter visitare il cortile segreto delle
duchesse, che sta oltre quello visibile dei duchi, un cortile che è un regno delle
fate, pieno di erbe e di alberi abbandonati.
Proseguendo di lì, uscendo su corso Martiri della Libertà, c’è il Palazzo
Arcivescovile, restaurato velocemente, in pochi giorni e poche notti, per la
visita di un papa. Ne parlo in La città del dottor Malaguti. Davanti al Palazzo
Arcivescovile,
guardando
in
alto,
in
corrispondenza
del
balcone
dell’arcivescovo, c’è una bella lapide anticlericale, apposta dal consiglio
comunale nel 1860-61, che commemora il fausto evento della caduta della
signoria dei pontefici. Quando arrivò il papa e dormì proprio nell’appartamento
di fronte, ho notato che quella lapide è rimasta sporca e non è stata restaurata
come le altre.
Poco più avanti, a esempio di anticlericalismo più antico, fine Ottocento
crispino, il monumento a Girolamo Savonarola, che era ferrarese.
Nella piazzetta, dove fino a poco tempo fa si radunavano i giovani della città,
c’è il Volto della Biscia, mi pare si chiami così. La città è ricca di Volti e di
Volte; avrei dovuto nominare prima via delle Volte, quella meravigliosa via di
cui parla Bacchelli nel Mulino del Po, dove c’era tutto il traffico illecito della
prostituzione, i ladri, eccetera: una via fatta di tante volte, trecentesca, che se
si percorre adesso, di sera, illuminata molto sapientemente con lumi gialli, è di
una bellezza suggestiva e fuori del tempo.
Presso il Volto della Biscia, c’era la porticina da cui fuggì il Tasso nel 1578,
dopo avere scagliato il coltello verso un servitore perché credeva che lo
spiasse; fu poi catturato e messo in carcere all’arcispedale di Sant’Anna per
sette
anni.
A
questo
proposito
suggerisco
di
andare
al
conservatorio
Frescobaldi e farsi dare le chiavi dal custode – ho scritto sul “Corriere della
Sera” un articolo di protesta per questo – per andare a visitare le carceri del
Tasso, le quali sono in uno scantinato con una caldaia che riscalda le scuole. È
interessante vedere questa segreta, questo orrendo posto buio dove il Tasso è
stato sette anni, con la lapide che ricorda i versi inglesi di Byron. Ho pensato
che in vita e in morte, Tasso ha la stessa sorte: in vita i ferraresi lo fecero
pazzo, in morte continuano a considerarlo così.
Proseguiamo nella piazza oggi della Repubblica, ieri Vittorio Emanuele, la
piazza del Castello. Lì De Chirico ha ambientato il suo famoso Le muse
inquietanti. È una piazza la cui bellezza può ricordare certe piazze di Mantova,
di Pisa, di Urbino, di Cortona, si sentono le città del silenzio, tutto è molto
quattro-cinquecentesco. È anche il punto più alto della città (c’è un’erta
leggera, di tre-quattro metri), perché il Castello sorse nel punto più elevato, il
punto del potere. Il Castello ha la sciagura di ospitare prefettura e
amministrazione provinciale e di essere visibile per meno di un terzo; si
auspica che questi servizi governativi siano sloggiati al più presto [i restauri
conclusi nel 2003 hanno restituito all’edificio i suoi spazi, ndr]. Il Castello è di
una bellezza assoluta, non c’è visitatore passato di qua che non sia rimasto
ammirato; per Carlo Michelstaedter e per Goethe fu l’unica cosa bella vista in
città. Goethe non amò Ferrara, ci rimase forse per una notte. Michelstaedter si
annoiò da morire, andò al Teatro Nuovo dove davano una scadente opera, vide
gente male in arnese, con un’aria dimessa, sfaccendata, plantigrada; i morti
che vivono nel mio romanzo sono ancora qui, insomma.
La qualità della vita in questa città non è all’altezza della sua grandezza
monumentale; la gente è diffidente del nuovo, soporifera, calunniatrice,
mormoratrice, pettegola, incapace di credere in qualsiasi suo cittadino che
emerga: se emerge, è sospetto, inquietante, e lo emarginano, sono, cioè,
diffidenti di una visione calvinista di ricerca del successo o di alacrità di lavoro
perché significa rifiuto della loro resa fatalistica a una vita al cinque per cento.
È veramente un male morale di questa città; mi sono interrogato molto spesso
sulle ragioni, ma non sono facili da capire. D’altra parte, bisogna dire che se la
città è rimasta così bella, forse è anche perché la gente è in questo modo:
cioè, dieci Donigaglia l’avrebbero distrutta; meno male che ce n’è uno solo e
sta ad Argenta. Qui c’è terziario, agricoltura e un po’ d’industria, poca: c’è la
zona industriale della Montedison o Enimont, credo che coinvolga trequattromila persone, forse di più. Avevamo una fabbrica di scarpe tra le più
belle d’Europa, la Zenit, avevamo i dolci della Fis, fabbrica italo-svizzera che
non c’è più. Non ci sono case editrici, le librerie stanno chiudendo, è fallita
Spazio Libri, che era una catena di dieci-quindici librerie. Pare, però, che
adesso riaprirà l’ex Taddei, ed è una consolazione; era una bella casa editrice
negli anni Venti, che pubblicò De Pisis e Ravegnani.
Siamo comunque al Castello; direi di guardarlo dentro: ci sono sale
interessanti e soprattutto il cortile. Si è così ritornati al corso Ercole d’Este, ma
è rimasta invece inevasa la parte dal Castello ai Diamanti, che è splendida: ci
sono palazzi, uno più bello dell’altro, scanditi da paracarri candidi e dalla
meravigliosa proibizione di fare negozi e infatti non ci sono botteghe, non ci
sono commercianti, e questo le restituisce tutta la sua nobiltà di via
aristocratica e privata.
Altri gioielli da visitare in città: la Palazzina di Marfisa in fondo a corso della
Giovecca, dove l’ultima discendente estense (siamo a fine Cinquecento - primi
Seicento) viveva in leggende di amore-odio dell’uomo, con amanti che poi
faceva fuori, ma l’immaginario popolare sui signori è maligno.
Da quelle parti sono anche interessanti, in via Mortara, l’ex Lazzaretto, che
adesso ospita l’Università, e le case che gli estensi ebbero la lungimiranza di
costruire, le cosiddette “case delle vedove”, che erano a disposizione delle
vedove degli ex dipendenti e dei dipendenti della casa estense, e che oggi sono
case per studenti.
C’era un’altra via molto bella, la via Voltapaletto o via Savonarola, che non è
lontana rispetto alla zona di Marfisa e di via Mortara. Lì si può vedere il palazzo
di Renata di Francia, oggi sede centrale dell’Università, dove la duchessa si
ritirò una volta morto il marito, perché era calvinista e non poteva stare in
castello. Di fronte al palazzo, c’è la meravigliosa Casa Romei, una casa trequattrocentesca rimasta perfettamente intatta, che va visitata. Ci sono anche,
poco più avanti, la chiesa di San Francesco, costruita da Biagio Rossetti, e non
lontano Palazzo Paradiso, antica sede dell’Università di Ferrara, dove è la
tomba dell’Ariosto...
Ecco, io credo che questo periplo possa essere sufficiente.
[“IBC”, I, 1993, 6, pp. 64-67 (testo raccolto da Isabella Fabbri; dossier: Grand
Tour Emilia-Romagna - A spasso con Astolfo. 6 scrittori per 6 itinerari, a cura
di Valeria Cicala, Isabella Fabbri, Flavio Niccoli)]