Chiese

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Chiese
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rancesco |
Document�
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sacerdoti
Sacerdoti,
dono di Dio
per il bene di tutti
S
Udienza ai partecipanti al Convegno
promosso dalla Congregazione per il clero
«Un buon prete è prima di tutto un uomo con
la sua propria umanità, che conosce la propria storia, con le sue ricchezze e le sue ferite,
e che ha imparato a fare pace con essa, raggiungendo la serenità di fondo, propria di un
discepolo del Signore. La formazione umana
è quindi una necessità per i preti, perché imparino a non farsi dominare dai loro limiti».
Il 20 novembre, ricevendo in udienza i partecipanti al Convegno promosso dalla Congregazione per il clero nel 50° anniversario dei
decreti conciliari Optatam totius e Presbyterorum ordinis, Francesco ha rivolto loro alcuni pensieri sulla figura del prete secondo
la visione del Concilio: un uomo preso «fra
gli uomini», costituito «in favore degli uomini», presente «in mezzo agli altri uomini». Il
papa ha anche richiamato i vescovi a stare
vicini ai loro preti e alla residenza nelle loro
diocesi: «Se non te la senti di rimanere in diocesi, dimettiti, e gira il mondo (...). Ma se sei
vescovo di quella diocesi, residenza».
Stampa (21.11.2015) da sito web www.vatican.va.
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ignori cardinali,
cari fratelli vescovi e sacerdoti,
fratelli e sorelle,
rivolgo a ciascuno un cordiale saluto ed
esprimo un sincero ringraziamento a lei, cardinale
Stella, e alla Congregazione per il clero, che mi hanno invitato a partecipare a questo Convegno, a cinquant’anni dalla promulgazione dei decreti conciliari
Optatam totius e Presbyterorum ordinis. Mi scuso per
aver cambiato il primo progetto, che era che venissi
io da voi; ma avete visto che il tempo non c’era e anche qui sono arrivato in ritardo!
9 Lombardi sul nuovo Vatileaks
In una nota per Radio vaticana il direttore della Sala stampa della Santa Sede offre alcuni chiarimenti sul recente
caso di divulgazione di documenti vaticani riservati.
12 Parigi di fronte alla barbarie
Dopo gli attentati del 13 novembre, l’arcivescovo di Parigi, card. Vingt-Trois, celebra nella Cattedrale di Notre-Dame una messa per le vittime, le famiglie e la Francia.
15 Cremazione: riflessioni liturgiche
Il Servizio nazionale di pastorale liturgica e sacramentale dell’episcopato francese propone alcune riflessioni liturgiche relative alla pratica crescente della cremazione.
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Anno LX - N. 1223 - 27 novembre 2015
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Non si tratta di una «rievocazione storica». Questi
due decreti sono un seme, che il Concilio ha gettato
nel campo della vita della Chiesa; nel corso di questi
cinque decenni essi sono cresciuti, sono diventati una
pianta rigogliosa, certamente con qualche foglia secca, ma soprattutto con tanti fiori e frutti che abbelliscono la Chiesa di oggi. Ripercorrendo il cammino
compiuto, questo Convegno ha mostrato tali frutti e
ha costituito un’opportuna riflessione ecclesiale sul
lavoro che resta da fare in questo ambito così vitale
per la Chiesa. Ancora resta lavoro da fare!
Optatam totius e Presbyterorum ordinis sono stati ricordati insieme, come le due metà di una realtà
unica: la formazione dei sacerdoti, che distinguiamo
in iniziale e permanente, ma che costituisce per essi
un’unica esperienza di discepolato. Non a caso, papa
Benedetto, nel gennaio 2013 (motu proprio Ministrorum institutio) ha dato una forma concreta, giuridica,
a questa realtà, attribuendo alla Congregazione per
il clero anche la competenza sui seminari. In questo
modo lo stesso dicastero può iniziare a occuparsi della vita e del ministero dei presbiteri sin dal momento
dell’ingresso in seminario, lavorando perché le vocazioni siano promosse e curate, e possano sbocciare
nella vita di santi preti. Il cammino di santità di un
prete inizia in seminario!
Dal momento che la vocazione al sacerdozio è un
dono che Dio fa ad alcuni per il bene di tutti, vorrei
condividere con voi alcuni pensieri, proprio a partire
dal rapporto tra i preti e le altre persone, seguendo il
n. 3 di Presbyterorum ordinis, nel quale si trova come
un piccolo compendio di teologia del sacerdozio, tratto dalla Lettera agli Ebrei: «I presbiteri sono stati presi
fra gli uomini e costituiti in favore degli uomini stessi nelle cose che si riferiscono a Dio, per offrire doni
e sacrifici in remissione dei peccati, vivono quindi in
mezzo agli altri uomini come fratelli in mezzo ai fratelli» (EV 1/1249).
Consideriamo questi tre momenti: «presi fra gli
uomini», «costituiti in favore degli uomini», presenti
«in mezzo agli altri uomini».
«Presi fra gli uomini»
Il sacerdote è un uomo che nasce in un certo contesto umano; lì apprende i primi valori, assorbe la spiritualità del popolo, si abitua alle relazioni. Anche i preti hanno una storia, non sono «funghi» che spuntano
improvvisamente in Cattedrale nel giorno della loro
ordinazione. È importante che i formatori e i preti
stessi ricordino questo e sappiano tenere conto di tale
storia personale lungo il cammino della formazione.
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Nel giorno dell’ordinazione dico sempre ai sacerdoti, ai neo-sacerdoti: ricordatevi da dove siete stati presi, dal gregge, non dimenticatevi della vostra
mamma e della vostra nonna! Questo lo diceva Paolo a Timoteo, e lo dico anch’io oggi. Questo vuol
dire che non si può fare il prete credendo che uno
è stato formato in laboratorio, no; incomincia in
famiglia con la «tradizione» della fede e con tutta
l’esperienza della famiglia. Occorre che essa sia personalizzata, perché è la persona concreta a essere
chiamata al discepolato e al sacerdozio, tenendo in
ogni caso conto che è solo Cristo il Maestro da seguire e a cui configurarsi.
Mi piace in questo senso ricordare quel fondamentale «centro di pastorale vocazionale» che è la
famiglia, Chiesa domestica e primo e fondamentale luogo di formazione umana, dove può germinare
nei giovani il desiderio di una vita concepita come
cammino vocazionale, da percorrere con impegno e
generosità. In famiglia e in tutti gli altri contesti comunitari – scuola, parrocchia, associazioni, gruppi di
amici – impariamo a stare in relazione con persone concrete, ci facciamo modellare dal rapporto con
loro, e diventiamo ciò che siamo anche grazie a loro.
Un buon prete, dunque, è prima di tutto un uomo
con la sua propria umanità, che conosce la propria
storia, con le sue ricchezze e le sue ferite, e che ha
imparato a fare pace con essa, raggiungendo la serenità di fondo, propria di un discepolo del Signore. La
formazione umana è quindi una necessità per i preti,
perché imparino a non farsi dominare dai loro limiti,
ma piuttosto a mettere a frutto i loro talenti.
Un prete che sia un uomo pacificato saprà diffondere serenità intorno a sé, anche nei momenti faticosi, trasmettendo la bellezza del rapporto col Signore.
Non è normale invece che un prete sia spesso triste,
nervoso o duro di carattere; non va bene e non fa
bene, né al prete né al suo popolo. Ma se tu hai una
malattia, sei nevrotico, vai dal medico! Dal medico
spirituale e dal medico clinico: ti daranno pastiglie
che ti faranno bene, ambedue! Ma per favore che i
fedeli non paghino la nevrosi dei preti! Non bastonare i fedeli; vicinanza di cuore con loro.
Noi sacerdoti siamo apostoli della gioia, annunciamo il Vangelo, cioè la «buona notizia» per eccellenza; non siamo certo noi a dare forza al Vangelo
– alcuni lo credono –, ma possiamo favorire o ostacolare l’incontro tra il Vangelo e le persone. La nostra
umanità è il «vaso di creta» in cui custodiamo il tesoro di Dio, un vaso di cui dobbiamo avere cura, per
trasmettere bene il suo prezioso contenuto.
Un prete non può perdere le sue radici, resta sempre un uomo del popolo e della cultura che lo hanno
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generato; le nostre radici ci aiutano a ricordare chi
siamo e dove Cristo ci ha chiamati. Noi sacerdoti non
caliamo dall’alto, ma siamo chiamati, chiamati da
Dio, che ci prende «fra gli uomini», per costituirci «in
favore degli uomini». Mi permetto un aneddoto. In
diocesi, anni fa... Non in diocesi, no, nella Compagnia c’era un prete bravo, bravo, giovane, prete da
due anni. È entrato in confusione, ha parlato col padre spirituale, con i suoi superiori, con i medici e ha
detto: «Io me ne vado, non ne posso più, me ne vado».
E pensando a queste cose – io conoscevo la mamma,
gente umile – gli ho detto: «Perché non vai dalla tua
mamma e le parli di questo?». È andato, ha passato
tutta la giornata con la mamma, è tornato cambiato.
La mamma gli dato due «schiaffi» spirituali, gli ha
detto tre o quattro verità, lo ha messo a posto, ed è andato avanti. Perché? Perché è andato alla radice. Per
questo è importante non togliere la radice da dove veniamo. In seminario devi fare la preghiera mentale…
Sì, certo, questo si deve fare, imparare… Ma prima di
tutto prega come ti ha insegnato tua mamma, e poi
vai avanti. Ma sempre la radice è lì, la radice della
famiglia, come hai imparato a pregare da bambino,
anche con le stesse parole, incomincia a pregare così.
Poi andrai avanti nella preghiera.
«In favore degli uomini»
Qui c’è un punto fondamentale della vita e del
ministero dei presbiteri. Rispondendo alla vocazione
di Dio, si diventa preti per servire i fratelli e le sorelle.
Le immagini di Cristo che prendiamo come riferimento per il ministero dei preti sono chiare: Egli è
il «sommo sacerdote», allo stesso modo vicino a Dio
e vicino agli uomini; è il «servo», che lava i piedi e
si fa prossimo ai più deboli; è il «buon pastore», che
sempre ha come fine la cura del gregge.
Sono le tre immagini a cui dobbiamo guardare,
pensando al ministero dei preti, inviati a servire gli
uomini, a far loro giungere la misericordia di Dio, ad
annunciare la sua Parola di vita. Non siamo sacerdoti
per noi stessi e la nostra santificazione è strettamente
legata a quella del nostro popolo, la nostra unzione
alla sua unzione: tu sei unto per il tuo popolo. Sapere
e ricordare di essere «costituiti per il popolo» – popolo santo, popolo di Dio –, aiuta i preti a non pensare a
sé, a essere autorevoli e non autoritari, fermi ma non
duri, gioiosi ma non superficiali, insomma, pastori,
non funzionari.
In entrambe le Letture della Messa di oggi si vede
chiaramente la capacità di gioire che ha il popolo,
quando viene ripristinato e purificato il tempio, e inIl Regno -
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vece l’incapacità di gioia che hanno i capi dei sacerdoti e gli scribi davanti alla cacciata dei mercanti dal
tempio da parte di Gesù. Un prete deve imparare a
gioire, non deve mai perdere, meglio così, la capacita
di gioia: se la perde c’è qualcosa che non va. E vi
dico sinceramente, io ho paura a irrigidire, ho paura.
Ai preti rigidi... Lontano! Ti mordono! E mi viene
alla mente quella espressione di sant’Ambrogio, nel
IV secolo: «Dove c’è la misericordia c’è lo spirito del
Signore, dove c’è la rigidità ci sono soltanto i suoi
ministri». Il ministro senza il Signore diventa rigido,
e questo è un pericolo per il popolo di Dio. Pastori,
non funzionari.
Il popolo di Dio e l’umanità intera sono destinatari della missione dei sacerdoti, a cui tende tutta l’opera della formazione. La formazione umana, quella
intellettuale e quella spirituale confluiscono naturalmente in quella pastorale, alla quale forniscono strumenti e virtù e disposizioni personali. Quando tutto
questo si armonizza e si amalgama con un genuino
zelo missionario, lungo il cammino di una vita intera,
il prete può adempiere alla missione affidata da Cristo alla sua Chiesa.
«In mezzo agli altri uomini»
Infine, ciò che dal popolo è nato, col popolo deve rimanere; il prete è sempre «in mezzo agli altri
uomini», non è un professionista della pastorale o
dell’evangelizzazione, che arriva e fa ciò che deve –
magari bene, ma come fosse un mestiere – e poi se
ne va a vivere una vita separata. Si diventa preti per
stare in mezzo alla gente: la vicinanza. E mi permetto, fratelli vescovi, anche la nostra vicinanza di vescovi con i nostri preti. Questo vale anche per noi!
Quante volte sentiamo le lamentele dei preti: «Mah,
ho chiamato il vescovo perché ho un problema… Il
segretario, la segretaria, mi ha detto che è molto occupato, che è in giro, che non può ricevermi prima
di tre mesi…».
Due cose. La prima. Un vescovo sempre è occupato, grazie a Dio, ma se tu vescovo ricevi una chiamata di un prete e non puoi riceverlo perché hai tanto lavoro, almeno prendi il telefono e chiamalo e digli: «È urgente? Non è urgente? Quando, vieni quel
giorno…», così si sente vicino. Ci sono vescovi che
sembrano allontanarsi dai preti... Vicinanza, almeno
una telefonata! E questo è amore di padre, fraternità.
E l’altra cosa. «No, ho una conferenza in tale città e
poi devo fare un viaggio in America, e poi...». Ma,
senti, il decreto di residenza di Trento ancora è vigente! E se tu non te la senti di rimanere in diocesi,
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dimettiti, e gira il mondo facendo un altro apostolato
molto buono. Ma se tu sei vescovo di quella diocesi,
residenza. Queste due cose, vicinanza e residenza.
Ma questo è per noi vescovi! Si diventa preti per stare
in mezzo alla gente.
Il bene che i preti possono fare nasce soprattutto
dalla loro vicinanza e da un tenero amore per le persone. Non sono filantropi o funzionari, i preti sono
padri e fratelli. La paternità di un sacerdote fa tanto
bene.
Vicinanza, viscere di misericordia, sguardo amorevole: far sperimentare la bellezza di una vita vissuta
secondo il Vangelo e l’amore di Dio che si fa concreto anche attraverso i suoi ministri. Dio che non
rifiuta mai. E qui penso al confessionale. Sempre si
possono trovare strade per dare l’assoluzione. Accogliere bene. Ma alcune volte non si può assolvere. Ci
sono preti che dicono: «No, da questo non ti posso
assolvere, vattene via». Questa non è la strada. Se tu
non puoi dare l’assoluzione, spiega e dì: «Dio ti ama
tanto, Dio ti vuole bene. Per arrivare a Dio ci sono
tante vie. Io non ti posso dare l’assoluzione, ti do la
benedizione. Ma torna, torna sempre qui, che ogni
volta che tu torni ti darò la benedizione come segno
che Dio ti ama». E quell’uomo o quella donna se ne
va pieno di gioia perché ha trovato l’icona del Padre,
che non rifiuta mai; in una maniera o nell’altra lo ha
abbracciato.
Un buon esame di coscienza per un prete è anche
questo; se il Signore tornasse oggi, dove mi troverebbe? «Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore»
(Mt 6,21). E il mio cuore dov’è? In mezzo alla gente,
pregando con e per la gente, coinvolto con le loro
gioie e sofferenze, o piuttosto in mezzo alle cose del
mondo, agli affari terreni, ai miei «spazi» privati?
Un prete non può avere uno spazio privato, perché è sempre o col Signore o col popolo. Io penso a
quei preti che ho conosciuto nella mia città, quando
non c’era la segreteria telefonica, ma dormivano con
il telefono sul comodino, e a qualunque ora chiamasse la gente, loro si alzavano a dare l’unzione: non moriva nessuno senza i sacramenti! Neppure nel riposo
avevano uno spazio privato. Questo è zelo apostolico.
La risposta a questa domanda: il mio cuore dov’è?,
può aiutare ogni prete a orientare la sua vita e il suo
ministero verso il Signore.
Curare il discernimento vocazionale
Il Concilio ha lasciato alla Chiesa «perle preziose». Come il mercante del Vangelo di Matteo (13,45),
oggi andiamo alla ricerca di esse, per trarre nuovo
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slancio e nuovi strumenti per la missione che il Signore ci affida.
Una cosa che vorrei aggiungere al testo – scusatemi! – è il discernimento vocazionale, l’ammissione
al seminario. Cercare la salute di quel ragazzo, salute
spirituale, salute materiale, fisica, psichica. Una volta,
appena nominato maestro dei novizi, anno 1972, sono
andato a portare alla psicologa gli esiti del test di personalità, un test semplice che si faceva come uno degli
elementi del discernimento. Era una brava donna, e
anche un bravo medico. Mi diceva: «Questo ha questo problema ma può andare se va così…». Era anche
una buona cristiana, ma in alcuni casi era inflessibile:
«Questo non può» – «Ma dottoressa, è tanto buono
questo ragazzo» – «Adesso è buono, ma sappia che ci
sono giovani che sanno inconsciamente, non ne sono
consapevoli, ma sentono inconsciamente di essere psichicamente ammalati e cercano per la loro vita strutture forti che li difendano, così da poter andare avanti.
E vanno bene, fino al momento in cui si sentono bene
stabiliti e lì incominciano i problemi» – «Mi sembra
un po’ strano...». E la risposta non la dimentico mai,
la stessa del Signore a Ezechiele: «Padre, lei non ha
mai pensato perché ci sono tanti poliziotti torturatori?
Entrano giovani, sembrano sani ma quando si sentono
sicuri, la malattia incomincia a uscire. Quelle sono le
istituzioni forti che cercano questi ammalati incoscienti: la polizia, l’esercito, il clero… E poi tante malattie
che tutti noi conosciamo che vengono fuori».
È curioso. Quando mi accorgo che un giovane è
troppo rigido, è troppo fondamentalista, io non ho
fiducia; dietro c’è qualcosa che lui stesso non sa. Ma
quando si sente sicuro... Ezechiele 16, non ricordo il
versetto, ma è quando il Signore dice al suo popolo
tutto quello che ha fatto per lui: l’ha trovato appena
nato, e poi l’ha vestito, l’ha sposato… «E poi, quando
tu ti sei sentita sicura, ti sei prostituita». È una regola,
una regola di vita. Occhi aperti sulla missione nei seminari. Occhi aperti.
Confido che il frutto dei lavori di questo Convegno – con tanti autorevoli relatori, provenienti da
regioni e culture diverse – potrà essere offerto alla
Chiesa come utile attualizzazione degli insegnamenti
del Concilio, portando un contributo alla formazione
dei sacerdoti, quelli che ci sono e quelli che il Signore
vorrà donarci, perché, configurati sempre più a lui,
siano buoni preti secondo il cuore del Signore, non
funzionari! E grazie della pazienza.
Vaticano, Sala Regia del Palazzo Apostolico, 20
novembre 2015.
Francesco
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ecumenismo
La grazia
della diversità
riconciliata
Il servizio
abbatte i muri
Visita alla comunità luterana di Roma
«Chiediamo oggi questa grazia, la grazia
di questa diversità riconciliata nel Signore, cioè nel Servo di Jahveh, (...) che lui sia
il servo dell’unità, che ci aiuti a camminare insieme. Oggi abbiamo pregato insieme.
Pregare insieme, lavorare insieme per i poveri, per i bisognosi; amarci insieme, con
vero amore di fratelli». Nel pomeriggio dello scorso 15 novembre, papa Francesco si è
recato in visita alla comunità evangelica luterana di Roma. Dopo il saluto del pastore
Jens-Martin Kruse, il papa ha risposto alle
domande di alcuni membri della comunità.
Qui ha toccato lo «scandalo della divisione»
facendo un riferimento anche ai recenti attentati di Parigi: «I muri alla fine sono come
un suicidio, ti chiudono. È una cosa brutta
avere il cuore chiuso. E oggi lo vediamo, il
dramma… Mio fratello pastore oggi ha nominato Parigi: cuori chiusi. Anche il nome di
Dio viene usato per chiudere i cuori». Nell’omelia tenuta nel corso della preghiera serale, Francesco ha sottolineato ancora la forza ecumenica del servizio agli ultimi sulle
orme dell’unico Maestro. «Dobbiamo chiederci perdono dello scandalo della divisione,
perché tutti, luterani e cattolici, siamo in
questa scelta, non in altre (...); la scelta del
servizio come lui ci ha indicato essendo servo, il servo del Signore».
Stampa (19.11.2015) da sito web www.vatican.va.
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Dialogo con i membri della comunità
Il papa parroco
– Mi chiamo Julius. Ho nove anni e mi piace molto
partecipare al culto dei bambini in questa comunità.
Sono affascinato dalle storie di Gesù e mi piace anche
come lui si comporta. La mia domanda è: che cosa ti
piace di più dell’essere papa?
La risposta è semplice. Quello che mi piace… Se
io ti domando cosa ti piace di più del pasto, tu dirai
la torta, il dolce! O no? Ma bisogna mangiare tutto.
La cosa che mi piace, sinceramente, è fare il parroco,
fare il pastore. Non mi piace fare i lavori d’ufficio.
Non mi piacciono questi lavori. Non mi piace fare interviste protocollari – questa non è protocollare, è familiare! – ma devo farlo. Perciò cosa mi piace di più?
Fare il parroco. E un tempo, mentre ero rettore della
facoltà di teologia, ero parroco della parrocchia che
c’è accanto alla facoltà, e sai, mi piaceva insegnare
il catechismo ai bambini e la domenica fare la Messa con i bambini. C’erano più o meno 250 bambini,
era difficile che tutti stessero in silenzio, era difficile.
Il dialogo con i bambini… Questo mi piace. Tu sei
un ragazzo e forse mi capirai. Voi siete concreti, voi
non fate domande campate in aria, teoriche: «Perché
questo è così? Perché…». Ecco, mi piace fare il parroco e, facendo il parroco, quello che più mi piace
è stare con i bambini, parlare con loro, e s’impara
tanto. S’impara tanto. Mi piace fare il papa con lo
stile del parroco. Il servizio. Mi piace, nel senso che
mi sento bene, quando visito gli ammalati, quando
parlo con le persone che sono un po’ disperate, tristi.
Amo tanto andare in carcere, ma non che mi portino
in galera! Perché, parlare con i carcerati… – tu forse
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capirai quello che ti dirò – ogni volta che io entro in
un carcere, domando a me stesso: «Perché loro e io
no?». E lì sento la salvezza di Gesù Cristo, l’amore di
Gesù Cristo per me. Perché è lui che mi ha salvato.
Io non sono meno peccatore di loro, ma il Signore mi
ha preso per mano. Anche questo lo sento. E quando
vado in carcere sono felice. Fare il papa è fare il vescovo, fare il parroco, fare il pastore. Se un papa non
fa il vescovo, se un papa non fa il parroco, non fa il
pastore, sarà una persona molto intelligente, molto
importante, avrà molta influenza nella società, ma io
penso – penso! – che nel suo cuore non è felice. Non
so se ho risposto a quello che tu volevi sapere.
La cena del Signore
– Mi chiamo Anke de Bernardinis e, come molte
persone della nostra comunità, sono sposata con un
italiano, che è un cristiano cattolico romano. Viviamo felicemente insieme da molti anni, condividendo
gioie e dolori. E quindi ci duole assai l’essere divisi
nella fede e non poter partecipare insieme alla Cena
del Signore. Che cosa possiamo fare per raggiungere,
finalmente, la comunione su questo punto?
Grazie, Signora. Alla domanda sul condividere
la cena del Signore non è facile per me risponderle, soprattutto davanti a un teologo come il cardinale
Kasper! Ho paura! Io penso che il Signore ci ha detto
quando ha dato questo mandato: «Fate questo in memoria di me». E quando condividiamo la cena del Signore, ricordiamo e imitiamo, facciamo la stessa cosa
che ha fatto il Signore Gesù. E la cena del Signore ci
sarà, il banchetto finale nella nuova Gerusalemme ci
sarà, ma questa sarà l’ultima. Invece nel cammino,
mi domando – e non so come rispondere, ma la sua
domanda la faccio mia – io mi domando: condividere la cena del Signore è il fine di un cammino o è il
viatico per camminare insieme? Lascio la domanda
ai teologi, a quelli che capiscono. È vero che in un
certo senso condividere è dire che non ci sono differenze fra noi, che abbiamo la stessa dottrina – sottolineo la parola, parola difficile da capire – ma io mi
domando: ma non abbiamo lo stesso battesimo? E
se abbiamo lo stesso battesimo dobbiamo camminare insieme. Lei è una testimonianza di un cammino
anche profondo perché è un cammino coniugale, un
cammino proprio di famiglia, di amore umano e di
fede condivisa. Abbiamo lo stesso battesimo. Quando
lei si sente peccatrice – anche io mi sento tanto peccatore – quando suo marito si sente peccatore, lei va
davanti al Signore e chiede perdono; suo marito fa lo
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stesso e va dal sacerdote e chiede l’assoluzione. Sono
rimedi per mantenere vivo il battesimo. Quando voi
pregate insieme, quel battesimo cresce, diventa forte;
quando voi insegnate ai vostri figli chi è Gesù, perché
è venuto Gesù, cosa ci ha fatto Gesù, fate lo stesso,
sia in lingua luterana che in lingua cattolica, ma è lo
stesso. La domanda: e la cena? Ci sono domande alle
quali soltanto se uno è sincero con se stesso e con le
poche «luci» teologiche che io ho, si deve rispondere
lo stesso, vedete voi. «Questo è il mio corpo, questo
è il mio sangue», ha detto il Signore, «fate questo in
memoria di me», e questo è un viatico che ci aiuta
a camminare. Io ho avuto una grande amicizia con
un vescovo episcopaliano, quarantottenne, sposato,
due figli e lui aveva questa inquietudine: la moglie
cattolica, i figli cattolici, lui vescovo. Lui accompagnava la domenica sua moglie e i suoi figli alla messa e poi andava a fare il culto con la sua comunità.
Era un passo di partecipazione alla cena del Signore.
Poi lui è andato avanti, il Signore lo ha chiamato, un
uomo giusto. Alla sua domanda le rispondo soltanto
con una domanda: come posso fare con mio marito,
perché la cena del Signore mi accompagni nella mia
strada? È un problema a cui ognuno deve rispondere. Ma mi diceva un pastore amico: «Noi crediamo
che il Signore è presente lì. È presente. Voi credete
che il Signore è presente. E qual è la differenza?» –
«Eh, sono le spiegazioni, le interpretazioni…». La
vita è più grande delle spiegazioni e interpretazioni. Sempre fate riferimento al battesimo: «Una fede,
un battesimo, un Signore», così ci dice Paolo, e di
là prendete le conseguenze. Io non oserò mai dare
permesso di fare questo perché non è mia competenza. Un battesimo, un Signore, una fede. Parlate col
Signore e andate avanti. Non oso dire di più.
Lo scandalo della divisione
– Mi chiamo Gertrud Wiedmer. Vengo dalla Svizzera. Sono la tesoriera della nostra comunità e sono
impegnata nel nostro progetto per i rifugiati. Porta il
nome di «Orsacchiotto» e, con esso, sosteniamo circa
80 giovani madri e i loro figli piccoli, venute a Roma
dal Nord Africa. Vediamo la miseria. Cerchiamo di
essere d’aiuto. Ma sappiamo, anche, che le possibilità
hanno una fine. Che cosa possiamo fare, come cristiani, affinché le persone non si rassegnino o non erigano nuovi muri?
Lei, essendo svizzera, essendo la tesoriera, ha
tutto il potere in mano! Un servizio… La miseria…
Lei ha detto questa parola: la miseria. Mi vengono
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da dire due cose. La prima, i muri. L’uomo, dal primo momento – se noi leggiamo le Scritture – è un
grande costruttore di muri, che separano da Dio.
Nelle prime pagine della Genesi vediamo questo. E
c’è una fantasia dietro i muri umani, la fantasia di
diventare come Dio. Per me il mito, per dirlo in parole tecniche, o la narrazione della torre di Babele,
è proprio l’atteggiamento dell’uomo e della donna
che costruiscono muri, perché costruire un muro è
dire: «Noi siamo i potenti, voi fuori». Ma in questo
«noi siamo i potenti e voi fuori» c’è la superbia del
potere e l’atteggiamento proposto nelle prime pagine della Genesi: «Sarete come Dio» (cf. Gen 3,5).
Fare un muro è per escludere, va in questa linea.
La tentazione: «Se voi mangiate questo frutto, sarete come Dio». A proposito della torre di Babele
– questo forse me lo avete sentito dire, perché lo ripeto, ma è tanto «plastico» – c’è un midrash scritto
intorno al 1200, al tempo di Tommaso d’Aquino,
di Maimonide, più o meno in quel tempo, da un
rabbino ebreo, che spiegava ai suoi nella sinagoga
la costruzione della torre di Babele, dove la potenza
dell’uomo si faceva sentire. Era molto difficile, molto costoso, perché si doveva fare il fango e non sempre l’acqua era vicina, cercare la paglia, fare l’impasto, poi tagliare, farli seccare, poi farli asciugare, poi
cuocerli nel forno e alla fine salivano e gli operai li
prendevano… Se cadeva uno di questi mattoni era
una catastrofe, perché erano un tesoro, erano costosi, costavano. Se cadeva un operaio, invece, non
succedeva niente! Il muro sempre esclude, preferisce
il potere – in questo caso il potere del denaro perché il mattone costava, o la torre che voleva arrivare
fino in cielo – e così sempre esclude l’umanità. Il
muro è il monumento all’esclusione. Anche in noi,
nella nostra vita interiore, quante volte le ricchezze,
la vanità, l’orgoglio diventano un muro davanti al
Signore, ci allontanano dal Signore. Fare i muri. Per
me, la parola che mi viene adesso, un po’ spontanea,
è quella di Gesù: come fare per non fare muri? Servizio. Fate la parte dell’ultimo. Lava i piedi. Lui ti ha
dato l’esempio. Servizio agli altri, servizio ai fratelli, alle sorelle, servizio ai più bisognosi. Con questa
opera di sostenere le 80 giovani madri, voi non fate
muri, fate servizio. L’egoismo umano vuol difendersi, difendere il proprio potere, il proprio egoismo,
ma in quel difendersi si allontana dalla fonte di ricchezza. I muri alla fine sono come un suicidio, ti
chiudono. È una cosa brutta avere il cuore chiuso.
E oggi lo vediamo, il dramma… Mio fratello Pastore oggi ha nominato Parigi: cuori chiusi. Anche il
nome di Dio viene usato per chiudere i cuori. Lei
mi domandava: «Cerchiamo di essere di aiuto alla
Il Regno -
documenti
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miseria, ma sappiamo anche che le possibilità hanno una fine. Che cosa possiamo fare come cristiani,
affinché le persone non si rassegnino o non erigano
nuovi muri?». Parlare chiaro, pregare – perché la
preghiera è forte – e servire. E servire. Un giorno, a
madre Teresa di Calcutta hanno fatto la domanda:
«Ma tutto questo sforzo che lei fa soltanto per far
morire con dignità questa gente che è a tre, quattro giorni dalla morte, che cosa è?». È una goccia
d’acqua nel mare; ma, dopo questo, il mare non è
più lo stesso. E, sempre col servizio, i muri cadranno
da soli; ma il nostro egoismo, il nostro desiderio di
potere cerca sempre di costruirli. Non so, questo mi
viene di dire. Grazie.
Roma, Christuskirche, 15 novembre 2015.
Francesco
L’ultima scelta,
quella definitiva
Omelia nella preghiera serale
Gesù, durante la sua vita, ha fatto tante scelte.
Questa che oggi abbiamo sentito sarà l’ultima scelta. Gesù ha fatto tante scelte: i primi discepoli, gli
ammalati che guariva, la folla che lo seguiva… – lo
seguiva per ascoltare perché parlava come uno che
ha autorità, non come i loro dottori della legge che si
pavoneggiavano; ma possiamo leggere chi era questa
gente due capitoli prima, al capitolo 23 di Matteo;
no, in lui vedevano autenticità; e quella gente lo seguiva. Con amore Gesù faceva le scelte e anche le
correzioni. Quando i discepoli sbagliavano nei metodi: «Facciamo che venga il fuoco dal cielo?» – «Ma
voi non sapete qual è il vostro spirito». O quando la
mamma di Giacomo e Giovanni è andata a chiedere
al Signore: «Signore, ti voglio chiedere un favore, che
i miei due figli, nel momento del tuo Regno, uno sia
a destra, l’altro a sinistra…». E lui correggeva queste cose: sempre guidava, accompagnava. Ma anche
dopo la risurrezione fa tanta tenerezza vedere come
Gesù sceglie i momenti, sceglie le persone, non spaventa. Pensiamo il cammino verso Emmaus, come li
accompagna [i due discepoli]. Loro dovevano andare
a Gerusalemme ma sono scappati da Gerusalemme,
per paura, e lui va con loro, li accompagna. E poi si
fa vedere, li recupera. È una scelta di Gesù. E poi la
grande scelta che a me sempre commuove, quando
7
F
rancesco
prepara lo sposalizio del figlio e dice: «Ma andate derci perdono di questo, dello scandalo della divisioall’incrocio delle strade e portate qui i ciechi, i sordi, ne, perché tutti, luterani e cattolici, siamo in questa
gli zoppi…». Buoni e cattivi! Gesù scelse sempre. E scelta, non in altre scelte, in questa scelta, la scelta del
poi la scelta della pecora smarrita. Non fa un calcolo servizio come lui ci ha indicato essendo servo, il servo
finanziario: «Ma, ne ho 99, ne perdo una…». No.
del Signore.
Ma l’ultima scelta sarà quella definitiva. E quali A me piace, per finire, quando vedo il Signore
saranno le domande che il Signore ci farà quel gior- servo che serve, mi piace chiedergli che lui sia il
no: «Sei andato a messa? Hai fatto una buona cate- servo dell’unità, che ci aiuti a camminare insieme.
chesi?». No, le domande sono sui poveri, perché la Oggi abbiamo pregato insieme. Pregare insieme,
povertà è al centro del Vangelo. Lui essendo ricco lavorare insieme per i poveri, per i bisognosi; amarsi è fatto povero per arricchirci con la sua povertà. ci insieme, con vero amore di fratelli. «Ma, padre,
Lui non ritiene un privilegio essere come Dio ma si è siamo diversi, perché i nostri libri dogmatici dicono
annientato, si è umiliato fino alla fine, fino alla morte una cosa e i vostri dicono l’altra». Ma un grande
di croce (cf. Fil 2,6-8). È la scelta del servizio. Gesù vostro [esponente] ha detto una volta che c’è l’ora
è Dio? È vero. È il Signore? È vero. Ma è il servo, e della diversità riconciliata. Chiediamo oggi questa
la scelta la farà su quello. Tu, la tua vita l’hai usata grazia, la grazia di questa diversità riconciliata nel
per te o per servire? Per difenderti dagli altri con i Signore, cioè nel Servo di Jahveh, di quel Dio che è
muri o per accoglierli con amore? E questa sarà l’ul- venuto tra noi per servire e non per essere servito.
tima scelta di Gesù. Ci dice tanto sul Signore questa Vi ringrazio tanto di questa ospitalità fraterna.
pagina del Vangelo. E posso farmi la domanda: ma Grazie.
5IB3DJROD/D\RXW3DJLQD
noi, luterani e cattolici, da che parte saremo, a destra
-,//!* -(-'(--&-&"/)/o a sinistra? Ma ci sono stati tempi brutti fra noi... Roma, Christuskirche, 15 novembre 2015.
Pensate alle persecuzioni fra noi! Con lo stesso bat- tesimo! Pensate a tanti bruciati vivi. Dobbiamo chieFrancesco
LUCIO GERA
JOSÉ ANTONIO PAGOLA
La religione
del popolo
Tornare a Gesù
Come rinnovare parrocchie e comunità
A CURA DI FRANCESCO STRAZZARI
Chiesa, teologia e liberazione in America Latina
F
in dai primi giorni del suo pontificato,
Francesco ha scosso e interrogato la coscienza di una Chiesa spesso paralizzata dalle
paure e distante dai problemi concreti della
gente. Per aderire a tale richiamo il libro
formula la concreta proposta dei «Gruppi di
Gesù», che intendono recuperare l’essenziale
del Vangelo al fine di rigenerare la vita
delle parrocchie.
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due contributi raccolti nel libro, pubblicati la
prima volta in Italia dalle EDB nel 1978, consentono di avvicinare la riflessione teologica di
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S
anta Sede |
vatileaks
2
Sulla divulgazione
dei documenti
riservati
Nota di p. Lombardi per Radio vaticana
sulle questioni economiche del Vaticano
L
«Si può dire che in buona parte si tratta di
informazioni già note, (...) ma soprattutto
va notato che la documentazione pubblicata
è perlopiù relativa a un notevole impegno
di raccolta di dati e di informazioni messa
in moto dal santo padre stesso per svolgere
uno studio e una riflessione di riforma e miglioramento della situazione amministrativa del Vaticano e della Santa Sede». Con
queste parole, il direttore della Sala stampa
della Santa Sede, p. Lombardi, introduce
alcune riflessioni «su un nuovo capitolo di
discussioni sulle questioni economiche del
Vaticano», pubblicate in una nota per Radio
vaticana datata 4 novembre. Facendo riferimento all’uscita recente di due libri (dei giornalisti Nuzzi e Fittipaldi), «risultato di una
divulgazione di notizie e documenti di per sé
riservati», Lombardi offre alcune lucide precisazioni sull’informazione pubblicata, per
gran parte proveniente dall’archivio della
commissione di studio creata in vista della
riforma dell’attività economico-finanziaria
del Vaticano. «Una gran quantità di informazioni di tal genere» andrebbe «studiata,
compresa e interpretata con cura, equilibrio
e attenzione», e comunque non è così che si
sostiene il coraggioso programma di riforma
del papa, che nonostante l’accaduto «continua e procede senza incertezze».
Stampa (11.11.2015) da sito web it.radiovaticana.va.
Titolazione redazionale.
Il Regno -
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a pubblicazione di due libri che hanno
per argomento istituzioni ed attività economiche e finanziarie vaticane è oggetto
di curiosità e di commenti largamente
diffusi. Facciamo alcune osservazioni.
Com’è noto, una buona parte di ciò che è stato
pubblicato è il risultato di una divulgazione di notizie e documenti di per sé riservati e quindi di un’attività illecita che viene quindi perseguita penalmente
con decisione dalle competenti autorità vaticane.
Ma non è di questo che vogliamo ora parlare, dato
che è già oggetto di molta attenzione.
Ci interessa ora riflettere piuttosto sul contenuto
delle divulgazioni. Si può dire che in buona parte
si tratta di informazioni già note, anche se spesso
con minore ampiezza e dettaglio, ma soprattutto va
notato che la documentazione pubblicata è perlopiù
relativa a un notevole impegno di raccolta di dati e
di informazioni messa in moto dal santo padre stesso per svolgere uno studio e una riflessione di riforma e miglioramento della situazione amministrativa
del Vaticano e della Santa Sede.
Letture diverse
a partire dagli stessi dati
La Commissione referente di studio e indirizzo
sull’organizzazione delle strutture economico-amministrative della Santa Sede (COSEA), dal cui
archivio proviene buona parte dell’informazione
pubblicata, era stata infatti istituita dal papa il 18
luglio 2013 a tale scopo e poi sciolta dopo il compimento del suo incarico. Non si tratta quindi di
informazioni ottenute in origine contro la volontà
del papa o dei responsabili delle diverse istituzioni,
ma generalmente di informazioni ottenute o fornite
con la collaborazione di queste stesse istituzioni, per
concorrere allo scopo positivo comune.
Naturalmente, una gran quantità di informazioni di tal genere va studiata, compresa e interpretata
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S
anta Sede
Fondazione Bambino Gesù: nuovi consiglieri
L
o scorso 4 novembre, la Fondazione Bambino
Gesù ha diramato un comunicato stampa che
registra la prima riunione del nuovo Consiglio
direttivo della ONLUS dell’Ospedale pediatrico
della Santa Sede, uno degli enti coinvolti nel secondo episodio di divulgazione di documenti vaticani riservati. Tra i 7 nuovi consiglieri – nominati
dal segretario di stato, card. Parolin – figurano
anche l’ex direttore del Corriere della sera Ferruccio De Bortoli e l’ex presidente della RAI Anna
Maria Tarantola. La Fondazione ha rinnovato contestualmente il suo Statuto e la sua mission (www.
ospedalebambinogesu.it).
La Fondazione Bambino Gesù volta pagina
Si è riunito questa mattina a Roma per la prima
volta il nuovo Consiglio direttivo della ONLUS dell’Ospedale pediatrico della Santa Sede, nominato direttamente dal cardinale segretario di stato Pietro Parolin. Nuovi consiglieri, nuovo Statuto e nuova mission: «Un obiettivo – dichiara la presidente Mariella
Enoc – cui ho lavorato fin dal primo giorno del mio
insediamento per garantire trasparenza, solidarietà e
innovazione».
I nuovi consiglieri sono sette, compresa la presidente Enoc: Pietro Brunetti, Ferruccio De Bortoli,
Maria Bianca Farina, Caterina Sansone, Anna Maria
Tarantola e Antonio Zanardi Landi.
«Ringrazio il cardinale segretario di stato – dichiara Mariella Enoc – che mi è stato vicino e mi ha
sostenuto in questo lungo percorso di riforma, che si
inaugura formalmente oggi con la prima riunione del
Consiglio direttivo e l’approvazione del nuovo Statuto. Ringrazio le persone che hanno accettato di far
con cura, equilibrio e attenzione. Spesso sono possibili letture diverse a partire dagli stessi dati. Un
esempio è quello della situazione del Fondo pensioni, sul quale sono state espresse in successione
di tempo valutazioni molto diverse, da quelle che
parlano con preoccupazione di un grande «buco»,
a quelle che forniscono invece una lettura rassicurante (come risultava nei comunicati ufficiali autorevolmente pubblicati tramite la Sala stampa della
Santa Sede).
Com’è ovvio vi è poi tutto il discorso sulle finalità e gli impieghi dei beni che appartengono alla
Santa Sede. Beni che presi nel loro complesso si
presentano come ingenti, sono in realtà finalizzati
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parte di questa avventura, che volta decisamente pagina rispetto al passato. La Fondazione sarà una casa
di vetro che avrà il compito di raccogliere fondi per
l’Ospedale da destinare alla ricerca, all’innovazione,
alle iniziative di solidarietà anche in campo internazionale».
Parolin: sostegno
e fraterno incoraggiamento
Non potendo essere presente di persona alla riunione, il cardinale segretario di stato Pietro Parolin
ha rivolto ai membri del Consiglio un messaggio di
vicinanza e ringraziamento «per aver accettato questo non facile compito, mossi da quel nobile spirito
di servizio, umile e disinteressato, che deve contraddistinguere i discepoli di Gesù e, nel nostro caso,
quanti lavorano, ai diversi livelli, nell’Ospedale del
papa. Non dubito che questi sentimenti, insieme
all’alto profilo morale e professionale che vi contraddistingue, vi saranno di efficace aiuto nello svolgimento della missione che è affidata alla Fondazione e
alla quale voi siete chiamati a dare volto e contenuti
concreti».
«Oggi» prosegue il cardinale, la Fondazione
Bambino Gesù ONLUS inizia la sua attività «completamente rinnovata». «Per questo – aggiunge – vi
esprimo il mio sostegno e il mio fraterno incoraggiamento. E, soprattutto, vi assicuro la mia preghiera.
Credo che, insieme tra noi e insieme alle migliaia di
persone che guardano all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù con profonda simpatia e speranza, potremo davvero trasformarlo in quella “grande opera
di carità” che papa Francesco, sulla scia dei suoi predecessori, desidera sia e diventi sempre più».
a sostenere nel tempo attività di servizio vastissime
gestite dalla Santa Sede o istituzioni connesse, sia a
Roma sia nelle diverse parti del mondo. Le origini
delle proprietà di questi beni sono varie, e vi sono
a disposizione da tempo anche strumenti adatti per
conoscerne la storia e gli sviluppi (ad esempio, è
bene informarsi sugli accordi economici fra Italia
e Santa Sede nel contesto dei Patti lateranensi e
sull’opera di impostazione di un’efficace amministrazione, svolta da Pio XI con l’aiuto di ottimi
ed esperti collaboratori, opera comunemente riconosciuta come saggia e lungimirante anche negli
aspetti di investimenti all’estero e non solo a Roma
o in Italia).
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S
anta Sede
L’Obolo di San Pietro
Per quanto riguarda l’Obolo di San Pietro è necessario osservare che i suoi impieghi sono vari, anche a seconda delle situazioni, a giudizio del santo
padre, a cui l’obolo viene dato con fiducia dai fedeli
per sostenere il suo ministero. Le opere di carità del
papa per i poveri sono certamente una delle finalità essenziali, ma non è certo intenzione dei fedeli escludere che il papa possa valutare egli stesso le
urgenze e il modo di rispondervi, alla luce del suo
servizio per il bene della Chiesa universale. Il servizio del papa comprende anche la curia romana – in
quanto strumento del suo servizio –, le sue iniziative fuori della diocesi di Roma, la comunicazione
del suo magistero per i fedeli nelle diverse parti del
mondo anche povere e lontane, l’appoggio alle 180
rappresentanze diplomatiche pontificie sparse nel
mondo, che servono le Chiese locali e intervengono
come gli agenti principali per distribuire la carità
del papa nei diversi paesi, oltre che come rappresentanti del papa presso i governi locali. La storia
dell’Obolo dimostra tutto ciò con chiarezza.
La strada della buona amministrazione
procede senza incertezze
Nel corso del tempo queste tematiche ritornano
periodicamente, ma sono sempre occasione di curiosità o di polemiche. Bisognerebbe avere la serietà
per approfondire le situazioni e i problemi specifici,
in modo da saper riconoscere il molto (assai più di
quanto generalmente non si dica, e sistematicamente taciuto dal genere di pubblicazioni di cui stiamo
parlando) che è del tutto giustificato e normale e
ben amministrato (compreso il pagamento delle
tasse dovute) e distinguere dove si trovano inconvenienti da correggere, oscurità da illuminare, vere
scorrettezze o illegalità da eliminare.
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Proprio a questo è indirizzato il faticoso e complesso lavoro iniziato per impulso del papa con la
costituzione della COSEA, che ha compiuto da
tempo il suo lavoro, e con le decisioni e iniziative
che sono tuttora in corso di sviluppo e attuazione (e
che almeno in parte sono seguite appunto a raccomandazioni della stessa COSEA alla fine del suo lavoro). La riorganizzazione dei dicasteri economici,
la nomina del Revisore generale, il funzionamento
regolare delle istituzioni competenti per il controllo delle attività economiche e finanziarie ecc., sono
una realtà oggettiva e incontrovertibile.
Una pubblicazione alla rinfusa di una grande
quantità di informazioni differenti, in gran parte
legate a una fase del lavoro ormai superata, senza la necessaria possibilità di approfondimento e
valutazione obiettiva raggiunge invece il risultato – purtroppo in buona parte voluto – di creare
l’impressione contraria, di un regno permanente
della confusione, della non trasparenza se non addirittura del perseguimento di interessi particolari
o scorretti.
Naturalmente ciò non rende in alcun modo ragione al coraggio e all’impegno con cui il papa e i
suoi collaboratori hanno affrontato e continuano ad
affrontare la sfida di un miglioramento dell’uso dei
beni temporali al servizio di quelli spirituali. Questo
invece è ciò che andrebbe maggiormente apprezzato e incoraggiato in un corretto lavoro di informazione per rispondere adeguatamente alle attese del
pubblico e alle esigenze della verità. La strada della
buona amministrazione, della correttezza e della
trasparenza, continua e procede senza incertezze. È
questa evidentemente la volontà di papa Francesco
e non manca certo in Vaticano chi vi collabora con
piena lealtà e con tutte le sue forze.
4 novembre 2015.
Federico Lombardi,
direttore della Sala stampa della Santa Sede
11
C
hiese nel mondo |
francia
Di fronte
alla cieca barbarie
Omelia dell’arcivescovo di Parigi
nella messa per le vittime
degli attentati del 13 novembre
I
«In che cosa il nostro modo di vivere ha potuto provocare un’aggressione così barbara?
(...) Come è possibile che dei giovani formatisi nelle nostre scuole e nelle nostre città conoscano una disperazione tale da rendere il
fantasma del Califfato e della sua violenza
morale e sociale un ideale in grado di mobilitarli?». Dopo i terribili attentati che hanno
insanguinato la città di Parigi nella notte del
13 novembre, il card. André Vingt-Trois ha
raccolto la comunità cristiana della sua città
in una messa per le vittime, le famiglie e la
Francia, celebrata domenica 15 novembre
nella Cattedrale di Notre-Dame. Nella sua
omelia, il vescovo ha dato voce al cordoglio
e alle domande di tanti, credenti e non, rimasti sgomenti di fronte all’irruzione di una
tale cieca violenza. «Da che cosa si riconoscono un uomo o una donna di speranza?», si
è domandato. «Dalla capacità di assumere
la prova e di combattere contro le forze della
distruzione con serenità e fiducia», ha detto,
richiamando i cristiani al loro compito di testimoniare la speranza nella prova in favore
di tutti grazie al dono della fede, che è «una
luce sul cammino della vita, ma non soltanto
per noi. Essa è una luce che consente di comprendere la storia umana, e di illuminarla
anche nel suo svolgimento enigmatico».
Stampa (20.11.2015) da sito web www.paris.catholique.fr. Nostra traduzione dal francese.
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tragici avvenimenti che hanno colpito il nostro paese in questi giorni – e in modo particolare Parigi e Saint-Denis – gettano i nostri
concittadini nel terrore e nello stupore. Essi ci
pongono due terribili domande: in che cosa il
nostro modo di vivere ha potuto provocare un’aggressione così barbara? A questa prima domanda
volentieri rispondiamo con il nostro attaccamento
ai valori della Repubblica; ma quanto è accaduto ci
obbliga a interrogarci sul prezzo da pagare per questo attaccamento e a un esame di tali valori.
La seconda domanda è ancora più spaventosa,
perché essa instilla un sospetto in molte famiglie:
come è posssibile che dei giovani formatisi nelle nostre scuole e nelle nostre città conoscano una disperazione tale da rendere il fantasma del Califfato e della
sua violenza morale e sociale un ideale in grado di
mobilitarli? Sappiamo che la risposta evidente delle
difficoltà nell’integrazione sociale non basta a spiegare l’adesione allo jihadismo di un certo numero di
persone, anche se esse si sottraggono apparentemente all’esclusione sociale. Come può questo cammino
della barbarie divenire un ideale? Cosa dice questo
capovolgimento dei valori che noi difendiamo?
La fede cristiana può esserci di qualche aiuto nel
caos che si è abbattuto su di noi? Alla luce delle letture bibliche che abbiamo ascoltato vorrei proporvi
tre elementi di riflessione.
«Solo in te è il mio bene» (Sal 15)
Il Salmo 15, come molti altri Salmi, è un grido
di fede e di speranza. Per il credente nello sconforto, Dio è l’unico ricorso affidabile: «Sta alla mia
destra, non potrò vacillare». È poca cosa dire che
le uccisioni selvagge di questo venerdì nero hanno
gettato nella disperazione famiglie intere. E questa
disperazione è tanto più profonda per la mancanza
di spiegazioni razionali che giustifichino l’esecuzione cieca di decine di persone anonime. Ma se
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C
hiese nel mondo
Fare questo in nome di Dio è una bestemmia!
L
a reazione di papa Francesco agli attentati
terroristici che lo scorso 13 novembre hanno
colpito Parigi e la Francia, è stata affidata il giorno
stesso a poche parole in un’intervista telefonica
concessa a TV2000. Domenica 15 novembre, il
papa è poi tornato sulla vicenda esprimendosi
con parole di ferma condanna e di cordoglio dopo
la preghiera dell’Angelus. Riportiamo di seguito
le parole di papa Bergoglio (it.radiovaticana.va;
www.vatican.va).
Nell’intervista telefonica a TV2000
«Sono commosso e addolorato e non capisco…
ma queste cose sono difficili da capire, fatte da esseri
umani. Per questo sono commosso e addolorato e
prego. Sono tanto vicino al popolo francese, tanto
amato, sono vicino ai familiari delle vittime e prego
per tutti loro (...). Non ci sono giustificazioni per queste cose. Questo non è umano. È per questo che sono
vicino a tutti quelli che soffrono e a tutta la Francia,
cui voglio tanto bene».
All’Angelus di domenica 15 novembre
«Desidero esprimere il mio dolore per gli attacchi
terroristici che nella tarda serata di venerdì hanno in-
l’odio e la morte hanno una logica, essi non hanno
razionalità. Certo, noi abbiamo bisogno di trovare
delle parole; abbiamo bisogno di dire parole e di
ascoltarle; ma sentiamo che tutte queste parole non
vanno oltre un sollievo immediato. Con l’irruzione
cieca della morte è la situazione di ciascuno di noi
a farsi inaggirabile.
Il credente, come tutti, è posto innanzi a una realtà ineluttabile, vicina o lontana, ma certa: la nostra esistenza è segnata dalla morte. Si può tentare
di non ricordarla, di eluderla, di volerla dolce e leggera. Ma lei è là. La fede, nessuna fede, permette
di sfuggirle. E noi siamo intimamente costretti a rispondere di noi stessi: verso chi rivolgersi in questa
prova? Fare affidamento ai palliativi, più o meno efficaci o duraturi, oppure affidarsi al nostro Dio, che
è il Dio della vita? Il salmista ci mette sulle labbra la
preghiera della fede e della speranza: «Non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo
fedele veda la fossa».
In questi giorni di prova, ciascuno di coloro che
credono in Cristo è chiamato a dare testimonianza della speranza per sé e per quelli che cerca di
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documenti
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sanguinato la Francia, causando numerose vittime.
Al presidente della Repubblica francese e a tutti i cittadini porgo l’espressione del mio fraterno cordoglio.
Sono vicino in particolare ai familiari di quanti hanno
perso la vita e ai feriti.
Tanta barbarie ci lascia sgomenti e ci si chiede
come possa il cuore dell’uomo ideare e realizzare
eventi così orribili, che hanno sconvolto non solo la
Francia ma il mondo intero. Dinanzi a tali atti, non
si può non condannare l’inqualificabile affronto alla
dignità della persona umana.
Voglio riaffermare con vigore che la strada della
violenza e dell’odio non risolve i problemi dell’umanità e che utilizzare il nome di Dio per giustificare
questa strada è una bestemmia!
Vi invito a unirvi alla mia preghiera: affidiamo
alla misericordia di Dio le inermi vittime di questa
tragedia. La vergine Maria, madre di misericordia,
susciti nei cuori di tutti pensieri di saggezza e propositi di pace.
A lei chiediamo di proteggere e vegliare sulla
cara nazione francese, la prima figlia della Chiesa,
sull’Europa e sul mondo intero.
Tutti insieme preghiamo un po’ in silenzio e poi
recitiamo l’Ave Maria».
accompagnare e di confortare. Proprio mentre ci
avviciniamo all’apertura, tra qualche settimana,
dell’Anno della misericordia vorremmo, con le nostre parole e i nostri gesti, essere messaggeri della
speranza nel cuore della sofferenza umana.
«Mi indicherai il sentiero della vita» (Sal 15)
Questa speranza definisce un modo di vivere in
coloro che la ricevono. Essa ci indica il cammino
della vita. Per fortuna non tutti devono misurarsi
con l’orrore patito dalle vittime del fanatismo, come
quelle di venerdì scorso. Ma tutti, senza eccezione,
ciascuno e ciascuna di noi deve affrontare avvenimenti e periodi difficili nella sua esistenza. Da che
cosa si riconoscono un uomo o una donna di speranza? Dalla capacità che essi hanno di assumere
la prova e di combattere contro le forze della distruzione con serenità e fiducia. Tale forza interiore
consente a uomini e donne normali, come siamo io
e voi, di non piegarsi, di fare scelte difficili, perfino
eroiche, ben oltre le proprie forze.
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hiese nel mondo
Dopo momenti di dura prova ci è dato di riconoscere che alcuni uomini e donne hanno tenuto senza cedimenti, perché la loro convinzione interiore
era abbastanza forte da affrontare pericoli possibili
o reali. Per noi cristiani questa forza viene dall’affidamento a Dio e dal nostro appoggiarci a lui. Ma
possiamo spingerci oltre: la fede in una reale trascendenza dell’essere sostiene un certo numero di uomini
e di donne. Persino se non condividono con noi la
fede in Dio, essi condividono però uno dei suoi frutti, che è il riconoscimento del valore unico di ogni
esistenza umana e della sua libertà. Possiamo vedere
nella calma e nel sangue freddo mostrato dai nostri
connazionali un segno della convinzione che la nostra società non può giustificarsi che per il rispetto
indefettibile della dignità della persona umana?
Di fronte alla cieca barbarie, ogni incrinatura in
questo fondamento delle nostre convinzioni sarebbe
una vittoria dei nostri aggressori. Non possiamo rispondere alla ferocia barbara se non attraverso una
crescita della fiducia nei nostri simili e nella loro
dignità. Non è decapitando che si mostra la grandezza di Dio; ma è lavorando al rispetto dell’essere
umano fino nelle sue estreme debolezze.
«Quando vedrete accadere queste cose...»
(Mc 13,29)
Il nostro affidamento a Dio è una luce sul cammino della vita, ma non soltanto per ciascuno di
noi, nella sua personale esistenza. Esso è una luce
che consente di comprendere la storia umana, di illuminarla anche nel suo svolgimento enigmatico. Il
Vangelo di Marco che abbiamo ascoltato annuncia
il ritorno del Figlio dell’uomo, il Salvatore, attraverso dei segni terrificanti nel cielo e sulla terra. Non
siamo più abituati a questo modo di scrutare i segni,
Il Regno -
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sebbene alcuni facciano commercio di un tale esercizio. Ma mi sembra che la cosa più importante per
noi sia attingere dalle letture due insegnamenti.
Anzitutto, nessuno conosce né il giorno né l’ora
della fine dei tempi. Solo il Padre li conosce. Non conosciamo neppure il giorno e l’ora della nostra fine
e sappiamo che questa ignoranza tormenta molti.
Ma tutti vediamo – e gli avvenimenti di queste settimane ce lo ricordano crudelmente – che l’opera
della morte non si ferma mai e colpisce, talvolta ciecamente.
Inoltre, gli avvenimenti drammatici o terrificanti della storia umana possono essere interpretati e
compresi come dei segni per tutti. «Quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli [il Figlio
dell’uomo] è vicino, è alle porte» (Mc 13,29). Questa capacità di interpretare la storia non è un modo
di negare la realtà. È il modo di scoprire che la storia ha un senso. Essa annuncia qualcuno che bussa
alla porta, a ciascuna delle nostre porte. E questo
qualcuno è il Cristo.
Così non possiamo fermarci alle disgrazie della
vita né alle sofferenze che sopportiamo, come se
queste non avessero alcun senso. Attraverso queste
vicende ci è dato di scoprire che Dio bussa alla nostra porta e che desidera chiamarci ancora alla vita,
che egli vuole aprire cammini di vita. Questa speranza noi dobbiamo portarla e testimoniarla a consolazione di coloro che soffrono e farne un appello
per tutti a verificare i veri valori della vita.
Vi chiedo ora di unirvi intensamente alla preghiera per i defunti che canteremo.
Parigi, Cattedrale di Notre-Dame, 15 novembre
2015.
✠ André card. Vingt-Trois,
arcivescovo di Parigi
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francia
La cremazione:
riflessioni
liturgiche
Servizio nazionale
di pastorale liturgica e sacramentale
della Conferenza dei vescovi di Francia
La pastorale delle esequie si trova in questi
anni sfidata dalle evoluzioni in corso nella
nostra società. «Innanzitutto, il modo di affrontare e trattare la morte e i suoi riti si è
sempre più professionalizzato», perché oggi
sono spesso le imprese di onoranze funebri
che «si occupano dello svolgimento complessivo del processo funerario». L’altra importante evoluzione riguarda «l’aumento delle
richieste di cremazione». Questi due fenomeni stanno profondamente cambiando
lo svolgimento tradizionale delle esequie.
«Come si deve porre la Chiesa in questo
nuovo scenario? Come tener conto di questa
nuova cultura della morte e dei fini ultimi per
annunciarvi la buona novella della salvezza
in Gesù morto e risorto?». Sono alcuni degli
interrogativi con i quali si confronta questo
studio elaborato da un gruppo di lavoro del
Servizio nazionale di pastorale liturgica e
sacramentale della Conferenza dei vescovi
di Francia, pubblicato lo scorso anno. Come
celebrare una liturgia esequiale al crematorio, o in chiesa in presenza di un’urna cineraria? Quali riti e quali segni sono adeguati?
Il testo presenta un’analisi svolta in 13 diocesi francesi e offre alcune riflessioni pastorali su questioni emergenti, proponendo in
conclusione anche due schemi possibili di
celebrazione liturgica.
Documents épiscopat (2014)6. Nostra traduzione
dal francese.
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documenti
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P
remessa
Da alcuni anni in gran parte delle nostre diocesi viene dedicata molta attenzione alla pastorale
delle esequie, in particolare con la costituzione di
gruppi che collaborano con i presbiteri per l’accompagnamento delle famiglie in lutto e per la
celebrazione dei funerali, e con la cura della loro
formazione, poiché questo servizio richiede un’autentica competenza ma anche un profondo radicamento spirituale. Sono in tanti ad affermare come
tale servizio alle persone in lutto abbia portato a
un rinnovamento nella loro vita cristiana e spirituale.
Ma la pastorale delle esequie si trova ora ad
affrontare le evoluzioni in corso nella società. Se
ne possono individuare specialmente due. Innanzitutto il modo di affrontare e trattare la morte e
i suoi riti si è sempre più professionalizzato e, lo
si voglia o no, oggi sono le imprese di onoranze
funebri che si occupano dello svolgimento complessivo del processo funerario. L’altra importante
evoluzione riguarda l’aumento delle richieste di
cremazione. Insieme, questi due fenomeni cambiano profondamente lo svolgimento tradizionale
delle esequie nel quale la Chiesa rivestiva un ruolo
principale. Come si deve porre la Chiesa in questo nuovo scenario? Come tener conto di questa
nuova cultura della morte e dei fini ultimi per annunciarvi la buona novella della salvezza in Gesù
morto e risorto? Sono questi, tra gli altri, gli interrogativi che queste evoluzioni suscitano.
Su mandato della Commissione episcopale per
la liturgia e la pastorale sacramentale, il Servizio
nazionale ha creato un gruppo di lavoro specificamente dedicato alla cremazione. Questo numero
di Documents épiscopat ne è il frutto. Esso non ha
la pretesa di dare risposta a tutte le domande poste
alla pastorale delle esequie dalla pratica crescente
della cremazione. Sulla base di un’inchiesta con-
15
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hiese nel mondo
dotta presso un certo numero di diocesi, che permette di illustrare una varietà di opzioni pastorali,
il documento vuole offrire elementi di riflessione
per un discernimento: riflessioni antropologiche e
teologiche, ma anche pastorali e liturgiche.
Nella speranza che questo documento sia di arricchimento per la riflessione e la prassi di quanti
lo leggeranno, rivolgo i miei sentiti ringraziamenti
a tutti coloro che hanno partecipato alla sua elaborazione.
✠ Bernard-Nicolas Aubertin,
arcivescovo di Tours,
presidente della Commissione episcopale
per la liturgia e la pastorale sacramentale
I
ntroduzione
Il problema della cremazione come prassi funeraria non si è realmente posto per la Chiesa prima
della fine del XIX secolo. Benché fosse una pratica
corrente nel mondo romano e nell’Oriente pre-cristiano, le prime comunità cristiane sono rimaste
fedeli al costume ebraico di seppellire i morti, con
il suo riferimento alla sepoltura di Cristo (cf. Gv
19,40-42) e questa tradizione si è imposta naturalmente insieme alla cristianizzazione.
Quando, alla fine del XIX secolo, si sviluppò la
moderna tecnica dell’incenerimento,1 essa venne
presentata come un modo di manifestare, contro
la Chiesa, posizioni legate alle correnti del libero
pensiero e all’ateismo militante. Questo spiega la
reazione vigorosa della Chiesa e la severità del canone 1203 del Codice di diritto canonico del 1917.
Tuttavia, nel corso del XX secolo, quando la
cremazione non parve più riferirsi esclusivamente
a un rifiuto della speranza cristiana, la Chiesa cattolica ammorbidì questa posizione. L’istruzione del
Sant’Uffizio dell’8 maggio 1963 certamente ricorda
la netta preferenza per la sepoltura del corpo, ma
«i sacramenti e le pubbliche esequie non dovranno
essere rifiutati a coloro che avranno richiesto l’incinerazione del proprio corpo, a meno che non risulti
evidente che tale richiesta sia stata fatta per motivi
indicati sopra, contrari alla vita cristiana».2
1 Manteniamo
deliberatamente questo termine nel suo
riferimento storico. In seguito parleremo più di cremazione
che di incenerimento.
2 Rito delle esequie, n. 18. il Rito in uso nella Chiesa di
Francia è diverso da quello italiano. Di seguito, le citazioni
dal Rito francese sono state tradotte senza cercare le cor-
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Da una trentina d’anni, in Francia come in altri paesi europei, il diffondersi della cremazione
rappresenta un’importante modifica di comportamento rispetto alla morte. Dallo 0,5% nel 1980, la
cremazione è passata al 30% nel 2010 e si prevede
che nel 2020 ne farà richiesta il 50% dei francesi.
Di conseguenza, il numero dei crematori è passato
da 9 nel 1978 a 152 nel 2013. Se ne prevedono
400 nel 2020.3
Questo nuovo scenario non è senza conseguenze per le prassi abituali della Chiesa cattolica, specialmente se si va ad aggiungere a un’altra
evoluzione, quella della richiesta di celebrazione
cristiana al crematorio senza passaggio in chiesa.
La Chiesa come deve allora accogliere e accompagnare questi sviluppi e tenerne conto nella propria
missione di presenza al mondo, di evangelizzazione e di annuncio della speranza cristiana? Alle famiglie che domandano una presenza ecclesiale in
questo luogo, senza che si passi per la chiesa, occorre dare risposta? E se sì, come? Quali sono gli
effetti dal punto di vista antropologico, ecclesiale
e liturgico? Come deve assumere questa novità la
Chiesa?
Il presente documento vorrebbe essere un tassello nella riflessione della Chiesa in Francia su
questi interrogativi.4 Il primo capitolo traccerà a
grandi linee alcuni aspetti delle evoluzioni in corso, sia nella società sia nella Chiesa. In un secondo
capitolo vedremo come il Rito delle esequie implichi
un’antropologia e una teologia del corpo umano;
è a partire da questo e in riferimento a questo che
la Chiesa annuncia la speranza della risurrezione
futura. Infine, gli ultimi due capitoli offriranno
alcuni elementi di interesse e di orientamento sul
piano pastorale e liturgico per celebrazioni al crematorio.
Un documento che riguarda questo argomento
non può non trattare inoltre, anche se rapidamente,
rispondenti nel Rito italiano, che spesso non esistono. Qui
si tratta del n. 15 del Rito delle esequie italiano, nel quale
si afferma: «A coloro che avessero scelto la cremazione del
loro cadavere si può concedere il rito delle esequie cristiane,
a meno che la loro scelta non risulti dettata da motivazioni contrarie alla dottrina cristiana: tutto questo, in base a
quanto stabilito dall’Istruzione della Sacra Congregazione
del Sant’ Uffizio, De cadaverum crematione, in data 8 maggio
1963, nn. 2-33» (ndt).
3 Cf. i due studi di OGF/PFG (cf. nota 5 – ndr) che riguardano approssimativamente il 30% delle esequie dell’aprile
2008 e del giugno 2013, come pure un sondaggio del 2-3 ottobre 2008 condotto su 1004 persone.
4 Il documento cita qui gli Allegati 1 e 2, che non abbiamo
riportato (ndr).
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la celebrazione in chiesa alla presenza di un’urna
cineraria. A questo è dedicata un’Appendice alla
fine del quarto capitolo.
I.
Evoluzioni della società
favorevoli alla cremazione
Una certa concezione del corpo
A
spetti delle evoluzioni in corso
Alcuni dati statistici
Le statistiche del giugno 2013 elaborate dall’OGF/PFG5 confermano il profondo cambiamento in
corso nelle pratiche funerarie in Francia.
Nel giugno 2013 il 70% delle esequie era religioso. Se la percentuale è ancora alta, si rileva tuttavia
una diminuzione del 7% in 5 anni. Il 95% è rappresentato da funerali cattolici celebrati per il 95%
in chiesa. Ma vi sono tratti diversi a seconda delle
regioni, come segue, a titolo di esempio.
Per quanto riguarda i funerali civili (il 30% a livello nazionale), vanno dal 13% di Metz al 46% di
Essonne. Se per la Francia nel suo complesso il 68%
dei funerali in chiesa a cui segue una inumazione è
celebrato da un ministro ordinato (prete o diacono),
la cifra sale all’86% nel Sud-Est e scende al 56% nel
Rhône-Alpes. Ancora, in media il 69% dei funerali
cattolici celebrati fuori dell’edificio chiesa è accompagnato da laici, con scarti fra il 47% nell’Île-deFrance e il 5% nell’Ovest.
Le motivazioni per la scelta della cremazione
sono varie:6
– il 35% lo fa per non essere di peso alla famiglia
al momento delle esequie;
– il 24% per motivi ecologici;
– il 9% per timore della decomposizione e del
disfacimento del corpo;
– il 5% per sopprimere il corpo il più rapidamente possibile.
Queste cifre illustrano bene che la scelta della
cremazione non è più legata a un anticlericalismo o
a un rifiuto della fede nella risurrezione. Essa dev’essere posta in rapporto con gli sviluppi culturali della
società detta postmoderna e con differenti concezioni del corpo, della morte e della gestione dei funerali.
Si rilevano di seguito alcuni elementi che effettivamente giocano in favore della cremazione.
5 Il gruppo OGF (Omnium de gestion de financement),
chiamato comunemente OGF/PFG, è un raggruppamento di
enti funerari fra cui le Pompes funébres générales (PFG).
6 Cf. studio statistico Chambre syndicale nationale de
l’art funéraire-Centre de recherche pour l’étude et l’observation des conditions de vie, «Les français et les obsèques»,
del giugno 2007.
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Nella nostra cultura, contrassegnata tra l’altro
dalla moderna medicina e dall’ideale di salute che
essa permette, il corpo è fatto oggetto di molta cura.
Basti vedere l’aumento costante delle spese relative
alla salute, le cure di bellezza che le riviste promuovono, lo sport praticato intensivamente per mantenere la forma fisica, gli interventi chirurgici per tentare di arrestare «l’irreparabile oltraggio» del tempo
che passa ecc. Quando sopraggiunge la morte, lo
smarrimento – talvolta anche la rivolta – che provano i congiunti è tanto più vivo.
In relazione a questo ideale la morte (ma anche
la vecchiaia) può essere percepita come uno scacco,
addirittura una perdita di senso. Si prova repulsione
all’idea del degrado del corpo, della sua corruttibilità, della sua putrefazione. Far sparire rapidamente
questo corpo morto, accelerare per mezzo della cremazione il processo che gli darà il suo stato definitivo di cenere, di resti, appare come la risposta più
efficace di fronte al malessere del degrado corporeo.
Anche il progresso della medicina e delle diverse
tecnologie (fra cui l’informatica) modifica la concezione del corpo. Esso offre la possibilità di riparare
gli organi difettosi, ma presto potrà anche permettere di aumentarne le capacità.7 Il sociologo David Le
Breton, nella sua opera L’adieu au corps,8 constata
che a causa del progresso tecnologico si può arrivare
a considerare il corpo come una «bozza» da trasformare, rettificare, perfezionare, addirittura arrangiare diversamente. Questa concezione del corpo,
che lo relativizza, gioca ampiamente in favore della
cremazione. Vi si può rinvenire la forma moderna
dell’idea del corpo come rivestimento o accessorio,
o strumento dell’essere, che attraversa tutta la storia
della filosofia e delle scienze umane o positive.
Il pensiero ebraico e cristiano si è sviluppato attorno a un’altra prospettiva, secondo la quale il corpo partecipa pienamente all’essere personale e alla
sua manifestazione. Citiamo queste righe di Bernard Sesbouë: «Con il corpo umano è stata varcata
una soglia nuova e radicale. Senza dubbio esso assume tutti gli “stadi” inferiori dell’essere corporeo.
Siamo fatti di atomi, di molecole, di cellule, di sistemi vegetativi e nervosi. Il nostro corpo obbedisce a
tutte le leggi della biologia. Tuttavia, le oltrepassa in
7 Cf.
J.-G. Xerri, «Le transhumanisme, ou quand la
science-fiction devient réalité», Documents épiscopat (2013)9.
8 D. Le Breton, L’adieu au corps, Métailié, Paris 2013.
17
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maniera decisiva per mezzo della coscienza riflessa,
per mezzo della ragione, per mezzo della capacità di
linguaggio. Non è possibile qui separare facilmente
il corpo e l’anima. Poiché tutto ciò che viviamo è
indissociabile dal nostro corpo. È per mezzo di questo che lavoriamo e possiamo agire sulla natura e
trasformare il mondo. Che pensiamo e parliamo,
entrando così in relazione con gli altri. La nostra
parola è immateriale quanto al senso ma anche molto materiale, poiché la nostra bocca articola dei suoni con il fiato. Quando scriviamo, è ancora con la
mediazione del corpo che formiamo le lettere sulla
carta o che battiamo sui tasti di un computer (…). È
con il corpo che amiamo. I gesti dell’amore passano
per esso, esprimendo un sentimento che va ben al
di là delle sensazioni corporee. E in generale è nel
nostro corpo che proviamo gioia e piacere».9
Il corpo è solamente cosa materiale oppure esprime la verità del nostro essere? Esitiamo, noi contemporanei, fra queste due affermazioni? La nostra
società sopravvaluta il corpo, ne fa un vero oggetto
di culto. Ma il corpo è anche mediazione della relazione con gli altri: è per mezzo del corpo che appariamo agli altri. Noi non «abbiamo» un corpo, ma
piuttosto «siamo» il nostro corpo. È il primo luogo
di relazione, di comunicazione.
Un sguardo diverso sulla morte
Insieme a un’idea di corpo in piena «rivoluzione», vi è anche lo sguardo che la società occidentale
volge sulla morte. Che cos’è oggi la «buona morte»?
L’allungamento della speranza di vita, i cambiamenti nelle cause di morte, i successi della medicina
che permettono di allontanarne il momento e così
via fanno sì che essa sia concepita meno come un
esito naturale e più come la conseguenza di un’aggressione esterna (malattia, incidente ecc.). La morte ha sempre una causa, ed essa diviene sinonimo di
scacco e di frattura.10
Qualche decennio fa, la «buona morte» era una
morte vissuta «al suo momento», quando il defunto
aveva avuto il tempo di trasmettere la propria esperienza, il proprio mestiere, i propri beni. Oggi, la
morte «ideale» è una morte «senza soffrire», «all’improvviso», «senza accorgersene». Si osserva anche
un paradosso: la morte ha una marcata sovraesposizione nei media (così che un quattordicenne può
9 B.
Sesboüe, Croire. Invitation à la foi catholique per les
femmes et les hommes du XXI siècle, Droguet et Ardant, Paris
1999, 309.
10 Notiamo a questo proposito che a metà del XX secolo la dizione «morte naturale» è stata soppressa nei certificati
medici.
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assistere a 20.000 morti attraverso serie poliziesche,
telegiornali e videogiochi), ma è una morte lontana,
virtuale e inimmaginabile di per sé. Sovrarappresentata nell’immagine, la morte è spesso nascosta come
avvenimento reale: si muore all’ospedale, lontani da
casa e dalle relazioni abituali, e la regola diventa l’anonimato o almeno la più grande discrezione.
Perdita dei punti di riferimento
che circondavano la morte
I sociologi sono allarmati: nella nostra società la
morte per tanti è concepita come «una finestra che
dà sul nulla»11 (o su di un «a parte» indefinibile e
senza legame con coloro che ci hanno preceduti o
con l’altro) e i riti funebri sono «in panne»,12 meno
collegati al mondo religioso. Compaiono nuovi riti
tanto in ambito religioso quanto in ambito «laico»
(specialmente al crematorio),13 che lasciano molto
spazio alla personalizzazione, alla privatizzazione e
alla soggettivizzazione. Così la dimensione sociale
della morte tende a sfumarsi.
Notiamo, infine, con il diminuire della pratica religiosa, la perdita dei punti di riferimento ancestrali
che aprivano uno scenario quanto al futuro del defunto. Sembra si faccia fatica a trasmettere l’idea del
passaggio dalla morte alla vita con Cristo, dell’attesa
della risurrezione, del destino ultimo dove regna l’amore di Dio, di un aldilà fatto di relazioni personali,
mentre non vengono più tenute in considerazione
la teologia e le devozioni dei secoli passati che descrivevano i luoghi dell’aldilà: paradiso, purgatorio,
inferno.
Una legislazione
sulla destinazione delle ceneri
Queste incertezze si sono tradotte nella varietà
delle pratiche relative alla conservazione o alla dispersione delle ceneri di un defunto dopo la cremazione. A tal punto che il legislatore ha stimato necessario intervenire con una proposta di legge sulla
destinazione delle ceneri dopo la cremazione, legge
11 V. Jankelevitch citato da D. Le Guay, Qu’avons-nous perdu en perdant la mort?, Cerf, Paris 2003, 21.
12 L.-V. Thomas, Rites de mort, Fayard, Paris 1985, 94.
13 All’inizio degli anni Settanta del secolo XX la cremazione si riassumeva in una modalità tecnica, senza raccoglimento.
La famiglia attendeva durante la cremazione, poi recuperava
le ceneri. Nel 1986 (al crematorio del cimiero Père Lachaise
a Parigi) si abbozzò una prima forma di cerimonia con un
momento di raccoglimento e qualche parola pronunciata.
Infine, nel 1998 il momento di raccoglimento è stato organizzato con diverse fasi – entrata, musica, raccoglimento, gesto di
omaggio, partenza della bara –, e una vera e propria ridefinizione del ruolo del maestro di cerimonia.
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comunemente denominata «loi Sueur», adottata nel
dicembre 2008.14
Quanti hanno condotto tale iniziativa si sono
consapevolmente collocati in una prospettiva filosofica nella quale è possibile discernere due grandi
principi. Innanzitutto, l’affermazione della dignità
dei resti umani, anche al di là della morte e della
distruzione del corpo. Le ceneri sono ancora i resti
di una persona umana, meritano dunque rispetto
e dignità, il che include il rispetto della sua unità
fisica; non si dividono le ceneri. Per il legislatore è
fondamentale questo criterio, che segna qualunque
civiltà dalla notte dei tempi. Il titolo della proposta
della legge: «Serenità dei vivi e rispetto dei defunti»
ne riassume bene la forza.
D’altro canto, la legge approvata stabilisce il
principio fondamentale secondo il quale i resti umani non sono una proprietà privata. L’urna non è
un possesso che si eredita, e dunque non la si può
conservare a casa, né si può disperdere le ceneri in
un giardino privato. La collocazione appropriata è
quella di uno spazio pubblico, che lasci a chiunque
la libertà di andarsi a raccogliere in un luogo dato
alla memoria. Sono dunque previste quattro destinazioni possibili secondo la volontà del defunto: dispersione delle ceneri in un giardino della memoria,
oppure nella natura, deposizione nel cimitero pubblico in una tomba di famiglia, oppure in un colombario. Ed è fatto obbligo di dichiarare al Comune di
nascita l’indirizzo ove le ceneri sono state deposte
affinché se ne conservi memoria e, se possibile, si
iscriva in questo luogo il nome del defunto per permettere di raccogliervisi.15
La complicazione dei percorsi funerari
Fra il domicilio, l’ospedale, la camera mortuaria
(o la casa di riposo dove si trova il corpo del defunto), la chiesa, il cimitero o crematorio il corpo di un
defunto conosce diversi spostamenti. Talvolta questi
comportano distanze notevoli. Ricordiamo di passaggio che tali spostamenti sono regolati strettamente dalla legge. In tutto ciò va anche considerato che
in molti casi i membri di una stessa famiglia e le
relazioni del defunto si trovano distanti.
Nelle aree urbane questi spostamenti sono resi
difficili dall’ingombro della circolazione e richiedo14 J.-P. Sueur, J.-R. Lecerf, senatori. La proposta e la legge («Serenità dei vivi e rispetto dei defunti») sono disponibili
sul sito del Senato francese: www.senat.fr/propositions-de-loi/
sueur_jean_pierre01028.html.
15 Notiamo che questi principi corrispondono a quelli
della Chiesa, salvo il fatto che essa rifiuta la dispersione delle
ceneri.
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no tempo. Vengono assicurati dalle pompe funebri
e hanno un’incidenza sul costo delle esequie. Vi è
dunque l’esigenza di limitare gli spostamenti, sia
della bara, sia dei partecipanti al funerale:
– quando la celebrazione e l’inumazione debbono avvenire in un comune lontano, si richiede un
momento di preghiera alla camera ardente con i
parenti prossimi;
– quando la scelta è orientata verso la cremazione, lo spostamento al crematorio richiede talvolta
un tragitto relativamente lungo e costoso; da qui la
richiesta di «fare tutto nello stesso posto»;
– si nota poi questo ulteriore passaggio per le
famiglie, quello del ricevimento dell’urna cineraria,
che raramente avviene il giorno stesso della cremazione.
In Francia la maggior parte dei crematori dispongono di una sala cerimoniale, e dunque la scelta della cremazione con una celebrazione sul posto
offre una semplificazione del circuito funerario.
Un rapporto differente
col tempo e con le relazioni
Nella scelta della cremazione, le analisi sociologiche rilevano l’influenza della concezione del tempo che è caratteristica del mondo contemporaneo,
quella del «subito», «senza perdere tempo». La cremazione si trova allora su questo lato «breve» del
tempo moderno: fare in fretta nella morte, come
nella vita odierna. Ciò s’intensifica con la visione di
un passato troppo doloroso da accettare, della difficoltà a scorgere il futuro generazionale e così via.
La cremazione è anche sintomatica della vita
relazionale del nostro tempo: fluttuazione delle relazioni, indebolimento delle radici familiari, scioglimento e ricomposizione delle famiglie... Allora,
molto spesso, quando si prevede il proprio decesso si
preferisce organizzare le cose «per non disturbare»,
anche dopo la morte; per non essere – ancora! – un
peso per gli eredi. E i sociologi di nuovo suonano
l’allarme: se si nutre questa coscienza sociale di essere «di troppo» o di «non aver trovato il proprio posto», non vi è forse un’affinità naturale col divenire
cenere, e non occupare troppo spazio?
Siamo ben lontani oggi da l’Enterrement à Ornans che Gustave Courbet dipingeva nel 1849,
e si potrebbe riprendere con qualche nostalgia la
canzone di Georges Brassens Les funérailles d’antan! Questo paesaggio sconvolto e complesso della
società di fronte alla morte di fatto contribuisce al
diffondersi della cremazione. Ma tale atteggiamento
si ritrova anche nella Chiesa nell’esitazione ad accogliere la pratica della cremazione.
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La variegata risposta della Chiesa
In tredici diocesi francesi è stata condotta un’inchiesta sulla presenza cristiana al crematorio e lo
svolgimento di una celebrazione quando, per motivi
diversi, non vi è passaggio in chiesa. Tale inchiesta
fa emergere nelle risposte esitazioni e complessità,
come pure un certo disagio rispetto ai riti da adottare. Si possono distinguere tre tipi di risposta, che
vanno dalla scelta deliberata di celebrare al crematorio fino al rifiuto per principio, passando per situazioni più o meno gestite caso per caso.16
Presenza deliberata e organizzata
della Chiesa al crematorio
Questo primo caso corrisponde in prevalenza
alle diocesi a intensa urbanizzazione, nelle quali i legami con la parrocchia e la comunità sono allentati.
Il modello è caratterizzato da alcuni tratti comuni.
Una decisione «diocesana»
In queste diocesi il vescovo ha deliberato di creare
un’équipe di persone che egli ha designato e mandato
per celebrare una liturgia cattolica al crematorio o al
centro funerario: «Nella diocesi di B., fino all’autunno 2009, due persone erano destinate a questo servizio e assicuravano tutte le celebrazioni nel centro
funerario ove si operavano delle cremazioni. Il nuovo
vescovo ha nominato un responsabile delle équipe per
il culto cattolico al centro funerario».
Talvolta si tratta di ufficializzare o di dare continuità a una situazione di fatto: «La presenza al
crematorio di D. è stata decisa dal vescovo per un
anno, a titolo di esperimento, al fine di regolarizzare
la situazione di un cristiano che esercitava freelance.
All’arrivo del nuovo vescovo è stato deciso di ufficializzare questa presenza cattolica».
16 La nostra analisi si basa su un certo numero di risposte
fornite da persone o servizi incaricati di questo ambito missionario in Francia nel corso dell’anno 2013. L’inchiesta non è
stata sistematica in tutte le diocesi, dunque non si può affermare che essa illustri le scelte pastorali delle diocesi o delle parrocchie nella totalità del territorio francese. Tuttavia, i lineamenti
proposti possono permettere a ciascuna diocesi di collocarsi
in questo scenario e di misurare le ripercussioni delle proprie
decisioni riguardo alla presenza accanto alle famiglie in un
contesto di «nuova evangelizzazione». Per discrezione, il nome
delle diocesi è sostituito da una lettera attribuita a caso. Le diocesi che hanno voluto partecipare all’inchiesta sono le seguenti: Bayeux, Chambéry, Coutances, Créteil, Laval, Le Havre,
Nantes, Nice, Rennes, Pontoise, Rouen, Saint-Brieuc, Séez.
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Infine, la decisione può essere operativa senza essere stata debitamente ponderata e assunta: «Nella
diocesi di E. non si è avuta una riflessione pastorale o diocesana previa, che è in corso. Per quanto
riguarda il crematorio più antico, fin dall’inizio la
parrocchia anima un momento di preghiera quando
le famiglie ne esprimono il desiderio. Per il secondo
crematorio, da un anno due persone, membri della
Pastorale liturgica e sacramentale, rispondono per
quanto possibile alle richieste delle famiglie. Per il
terzo che si sta per aprire l’organizzazione deve essere ancora messa a punto».
Un’équipe responsabile,
riconosciuta e organizzata
In alcune diocesi un’équipe diocesana che opera al crematorio è stata costituita per iniziativa del
vescovo e della Pastorale liturgica e sacramentale.
In altre si è realizzato un coordinamento diocesano.
«A C. la responsabile è stata nominata dal vescovo
con una lettera di mandato. Ella è membro dell’équipe diocesana delle esequie, senza legame specifico
con la (o le) parrocchia(e)». «A B. si accolgono ogni
anno 350 celebrazioni cattoliche. Quaranta persone
di diverse parrocchie si recano al centro funerario
per condurre le esequie. Esse seguono dei corsi di
formazione diocesani. Hanno tutte una lettera di
mandato firmata dal vicario episcopale. Una piccola équipe di cinque persone è pronta a intervenire
in caso di non disponibilità delle équipe locali». In
questa diocesi, la relazione con le parrocchie è assicurata da queste persone. Altrove l’équipe è nata
piuttosto per iniziativa della parrocchia, ma interviene con l’assenso o l’appoggio della diocesi: «Nella
diocesi di D. le équipe dei crematori dipendono dai
responsabili del settore di riferimento sotto la guida
del responsabile diocesano».
La risposta da offrire richiede alla Chiesa la messa
in opera di un’organizzazione efficiente e una grande disponibilità. È necessario che una persona fissa,
facilmente raggiungibile, assicuri il coordinamento.
Sono talvolta persone con un incarico ufficiale e una
retribuzione, almeno a tempo parziale, come a B. o
a F. Esse possono essere volontarie come a D. Nella
diocesi di A. questo servizio è assicurato dal servizio
d’accoglienza del vescovo e a G. da una comunità
religiosa.
Una collaborazione con i professionisti
dei servizi di onoranze funebri
La presenza della Chiesa al crematorio in prevalenza fa seguito a una richiesta dei gestori dei crematori, o delle imprese di pompe funebri: «La richiesta
20
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hiese nel mondo
è giunta dagli operatori dei crematori. Le relazioni
sono cordiali e aperte, ognuno assicura una parte del
momento della celebrazione. (…) In concreto, tutte le agenzie del onoranze funebri del dipartimento
hanno il numero di telefono della responsabile. Le
relazioni sono eccellenti. Ognuno rispetta il lavoro
dell’altro».
Altrove le relazioni con i crematori sono più
complesse o dipendono dall’apertura religiosa dei
responsabili: «Nella diocesi di D. i crematori sono
municipali. Uno dei crematori è gestito dalle Pompes funébres générales. Gli impiegati delle Pompes
funébres générales ascoltano e rispettano le richieste cattoliche. Il secondo crematorio è gestito da un
operatore municipale, ateo e anche piuttosto anticlericale. Le relazioni sono più difficili».
In molti luoghi la Chiesa è riconosciuta come interlocutore e partecipa alla concertazione, persino a
un comitato etico. La condizione giuridica del crematorio, privato o municipale, determina l’interlocutore: in molti luoghi è il Comune l’interlocutore privilegiato, senza trascurare la necessaria relazione con
l’insieme delle imprese private di pompe funebri.
Un vero servizio alle famiglie
Appare molto chiaramente che la prima richiesta arriva dalle famiglie, che desiderano «qualcosa
di religioso» ma sono riluttanti al «passaggio» in
chiesa, che sembra troppo «pesante», da un punto
di vista sia pratico sia simbolico. Le qualità relazionali di ascolto e di disponibilità si giocano allora allo
stesso modo che nell’accompagnamento per una celebrazione in chiesa. Nella diocesi di C. «la presenza
della Chiesa al crematorio permette ai cristiani che
ne stanno al margine – che non andrebbero mai in
una chiesa – di accorgersi che la comunità cristiana
non li lascia soli e che viene detta loro una parola
di speranza. È davvero una nuova evangelizzazione
che avviene».
Una liturgia «alleggerita»
Fra le testimonianze raccolte figurano molte domande a proposito della liturgia realizzata in questo luogo neutro, privato o adattabile a qualunque
culto. Globalmente la liturgia si basa sul Rito delle esequie e sulla guida pastorale Dans l’espérance
chrétienne.17 Gli interrogativi si riferiscono al rito da
celebrare, sia a causa del tempo limitato – generalmente trenta minuti – ma anche dell’opportunità di
17 Association episcopale liturgique pour les pays fran-
(AELF), Dans l’espérance chrétienne, célébrations
pour les défunts, Desclèe-Mame, Paris 2008. La guida è normalmente citata con l’acronimo DEC.
cophones
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riprodurre dei riti previsti in origine per lo spazio
sacro della chiesa. Nella diocesi di B. «la celebrazione è per il momento la stessa che in parrocchia.
La domanda che si pone è: si deve fare al centro
funerario la medesima celebrazione che si svolge in
chiesa?». La diocesi di D. ha «pubblicato un opuscolo approvato dal vescovo e intitolato Guide pour
la prière publique pour les défunts dans les athanées,
funérariums et crématoriums. Essa riprende essenzialmente le proposte della guida Dans l’espérance
chrétienne, omettendo le preghiere di lode».
Nella diocesi di E. e G. si mantiene il rito della
luce senza il cero pasquale o il rito della croce. Nella diocesi di H. è stato elaborato uno svolgimento
rituale che integra una benedizione dell’acqua. Vi
è sempre la parola di Dio, seguita da un breve commento (o da un momento di meditazione con sottofondo musicale). A seconda dei luoghi, il rito della
luce o quello dell’incenso possono essere vietati (o
tollerati) per questioni di sicurezza e di regole interne del crematorio.
Dubbi o difficoltà
Al di là della soddisfazione espressa quanto alla
relazione con le famiglie e la validità di questo accompagnamento, nelle testimonianze si percepisce
un insieme di dubbi o di difficoltà suscitati dalla presenza di operatori pastorali in questi luoghi.
– Legame con la parrocchia e con la comunità
cristiana. L’organizzazione di B. permette un collegamento con le comunità locali per tramite degli
operatori che fondamentalmente provengono dalle
parrocchie ove risiedevano i defunti. Altrove questo
legame è più tenue o inesistente, e ci si interroga sul
rischio di indebolire ulteriormente la relazione delle
famiglie con la comunità. Qui o là si tenta di rimediare alla mancanza. Nella diocesi di E. ci si chiede
«come essere presenti al crematorio pur sostenendo
l’importanza del funerale in chiesa, per il defunto,
la famiglia e la comunità parrocchiale? Che legame
assicurare con una comunità parrocchiale quando
la famiglia, e spesso il defunto stesso, non ne avevano alcuno?».
Nella diocesi di D. «al termine della celebrazione
l’officiante annuncia che verrà celebrata una messa
la domenica successiva in parrocchia. Il problema è
che per la maggior parte queste famiglie ignorano
quale sia la loro parrocchia».
– Legame con il ministero ordinato. In generale le
équipe che intervengono nei crematori sono composte di laici, sotto la supervisione di un prete, per lo
21
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hiese nel mondo
più membro o responsabile della Pastorale liturgica
e sacramentale. Si constata che i preti delle parrocchie vi sono poco coinvolti. Mai – nelle informazioni attualmente raccolte – si riferisce che venga celebrata l’eucaristia.
Nella diocesi di B. «il referente è un prete, cappellano dell’ospedale. Egli segue le équipe e interviene solo se lo richiede una famiglia in quanto ha
accompagnato il defunto come cappellano dell’ospedale. Anche se un prete è amico di famiglia può
celebrare al centro funerario».
– La questione economica. In molte diocesi il servizio reso richiede un sostegno economico per le équipe funerarie. Questo aspetto non trascurabile ha richiesto un protocollo di accordo con le agenzie di
onoranze funebri e presuppone un dialogo con le
famiglie. Questa decisione è stata presa per ovviare
al rischio di abuso da parte di persone non designate
dalla Chiesa che profittavano monetariamente della
situazione (è avvenuto in diverse diocesi dell’Île-deFrance). «I membri dell’équipe ricevono un’indennità telefonica, come pure il rimborso chilometrico
alla tariffa diocesana (...). Questa presenza della
Chiesa permette anche di respingere i falsi preti o
diaconi che imperversano nella diocesi di D. A tal
proposito l’offerta richiesta alle famiglie è gestita
dalla segretaria parrocchiale che versa questi soldi
sul conto diocesano. Per il momento ciò non pone
alcun problema alle parrocchie». Nella diocesi di B.
«le famiglie che possono danno l’obolo (150 €). È ripartito come segue: 16 € per la messa, celebrata più
tardi in parrocchia (per il prete); 67 € per la diocesi;
67 € per la parrocchia della persona che conduce le
esequie. Lo gestisce un tesoriere».
Altre, come la diocesi di I., accolgono la celebrazione delle esequie in un’antica cappella dell’ospedale
vicino al funerario-crematorio. Presbiteri, diaconi o
laici vi celebrano secondo il rituale abituale, compresa l’eucaristia.
Una presenza della Chiesa
secondo le singole situazioni
In questo dipartimento vi è un solo crematorio
situato nella città principale. Anche qui i trasporti
funebri provengono da più dipartimenti vicini, e le
cremazioni rappresentano circa il 29% del totale.
Il direttore del crematorio è conosciuto come «cristiano praticante». Vi si propongono dei momenti di
preghiera adattati secondo la religione della persona.
Il 39% delle cerimonie religiose cattoliche viene
innanzitutto celebrato in chiesa. Talvolta, dopo la
celebrazione, dei preti o dei laici accompagnano la
famiglia al crematorio. Caso particolare, un anziano
prete operaio di ottantatré anni guida regolarmente
dei momenti di preghiera direttamente al crematorio. Per evitare l’aspetto freelance, viene assistito da
una persona che ha avuto mandato dalla diocesi per
celebrare le esequie.
Una presenza discreta e garantita
In certe diocesi (E., J.) la parrocchia vicina al crematorio ha già preso l’iniziativa di rispondere favorevolmente alle richieste di intervento.
Uno dei crematori della diocesi di J. ha operato
820 cremazioni nel 2011 e circa 900 nel 2012, ossia circa il 35% dei funerali. Esso copre una zona
geografica molto ampia che si estende su diversi
dipartimenti limitrofi. Una piccola équipe della parrocchia vicina interviene al crematorio quando la
famiglia richiede una celebrazione cristiana, il che
avviene nel 10% delle cremazioni. All’inizio sono
intervenuti dei presbiteri, ma molto presto hanno
lasciato ai laici di accompagnare le famiglie: «Siamo in buone relazioni con le agenzie di pompe funebri. Ma bisogna che la cosa non duri più di trenta
minuti: una presentazione del defunto, una lettura
biblica, un commento “leggero”, una preghiera dei
fedeli con risposta, il Padre nostro, la benedizione
del corpo, il gesto di commiato, poesie, musiche (soprattutto classiche) o canti registrati. Si conservano
i riti propri della chiesa: benedizione, luce, ma non
col cero pasquale». Questa équipe interviene così
col sostegno dei preti della parrocchia e della Pastorale liturgica e sacramentale diocesana. D’altra
parte, la zona geografica che fa riferimento a questo
crematorio riguarda almeno quattro diverse diocesi, il che rende complesso il legame con le comunità
parrocchiali.
Una presenza «tollerata»: l’esempio di K.
È difficile ricondurre a un modello le altre situazioni incontrate poiché le soluzioni offerte dalla
Chiesa sono varie: vanno da una presenza garantita, ma che resta relativamente marginale, al rifiuto
sistematico, spesso per decisione del parroco della
parrocchia, ostile a una celebrazione al crematorio.
Un luogo di celebrazione
nelle vicinanze del crematorio
Fra gli esempi citati in precedenza, la diocesi di
G. segnala che si è tentato di proporre delle celebrazioni in chiese o cappelle vicine al crematorio. Ma
la proposta per il momento non ha avuto seguito.
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C
hiese nel mondo
Un’assenza della Chiesa
deliberata e motivata
Diverse diocesi che hanno partecipato all’indagine indicano il rifiuto di intervenire regolarmente per
condurre la preghiera al crematorio in sostituzione
di una celebrazione in chiesa. La ragione spesso presentata è che le celebrazioni in chiesa si diradano e
sia le relazioni sociali sia il legame con la comunità
si indeboliscono. Questa situazione si trova piuttosto
nelle diocesi rurali, ma talvolta anche in zone a forte
densità di popolazione.
Il crematorio di L. ne è un buon esempio. È situato in un piccolo villaggio rurale nelle vicinanze
di una città di medie dimensioni e pratica circa 750
cremazioni all’anno, ossia il 40% dei funerali (nel
2007, quando è stato aperto, erano il 20%). Oltre
due terzi dei trasporti funebri sono prima «passati»
in chiesa, e avviene talora (raramente) che un laico sia presente per una preghiera al momento della
cremazione.
Il crematorio propone sistematicamente un rito
«universale», qualunque sia l’origine religiosa della persona, anche quando vi sia stata in precedenza una celebrazione in chiesa. La proposta figura
in una «raccolta» che la famiglia può rifiutare.18
Tale rito è officiato dall’équipe delle pompe funebri
del crematorio. Dà soddisfazione alle persone senza religione o lontane dalla Chiesa. In compenso,
indispone profondamente i cristiani praticanti che
esprimono il proprio malessere, addirittura la propria rivolta: «Eravamo usciti pacificati dalla chiesa,
siamo usciti straziati dal crematorio!». Senza dubbio
questo aspro sentimento è dovuto al fatto che i riti
officiati appaiono, per i credenti, come una pallida
copia dei riti cristiani oppure riti vuoti di speranza.
Finora la Chiesa locale si è rifiutata di essere presente al crematorio per assumervi direttamente il
servizio della preghiera. Molti preti sarebbero pronti a fare questo passo, ma li trattiene la difficoltà a
trovare le persone da incaricare per questa missione.
Inoltre, la questione non è stata affrontata nel suo
complesso dalla diocesi.
Dal punto di vita delle famiglie e secondo il direttore del complesso, queste desidererebbero un
momento di preghiera: «Si desidererebbe che la
parrocchia ci seguisse al crematorio o vi guidasse il
momento della celebrazione soltanto in alcuni casi
ben precisi. Molti dei contratti stipulati per le esequie prevedono il passaggio diretto al crematorio.
18 È il termine usato in loco per designare la cerimonia
non religiosa.
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Per noi le porte sono aperte. È un problema della
Chiesa: occorrerebbero persone appositamente formate. L’importante è andare incontro alla famiglia
e il crematorio è pronto a collaborare. Basterebbe
incontrarsi» (parole del direttore del crematorio).
La diocesi di O. ha condotto una riflessione al
riguardo, nella prospettiva della costruzione prossima di due crematori nel dipartimento. Sulla base
del Rito delle esequie (nn. 18 e 228) gli orientamenti
diocesani manifestano una certa riluttanza, pur lasciando aperta la possibilità di una celebrazione al
crematorio.
Il rifiuto talvolta sistematico, più o meno motivato, di una presenza della Chiesa al crematorio pone
tuttavia due problemi.
– Questa posizione è sostenibile a lungo termine? Non si rischia di perdere definitivamente contatto con una parte importante dalla popolazione
francese che, ancora oggi, si rivolge alla Chiesa a
motivo della sua capacità e competenza, ma più
ancora in ragione del messaggio di speranza che la
celebrazione cristiana comporta? Al contrario, non
si rischia di spostare definitivamente i riti del lutto
dalla sfera pubblica a quella privata, dalla chiesa a
un luogo neutro?
– D’altro canto, un certo numero di imprese
che gestiscono i crematori desiderano un maggiore
coinvolgimento della Chiesa. Esprimono forse un
puro interesse commerciale da parte delle agenzie
di onoranze funebri, oppure il desiderio sempre più
esplicito delle famiglie stesse?
II.
Il corpo del defunto
nella celebrazione delle esequie
È possibile pensare che l’attuale interesse per cremazione non sia senza legame con una visione del
corpo e un comune sentire che di volta in volta lo
esaltano oppure lo emarginano come insignificante.
Vedremo invece come la liturgia delle esequie vada
contro quel sentire. Il corpo del defunto – questo
corpo spogliato della coscienza e delle relazioni, che
va verso il degrado e perde la forma umana – dice
tutta la vulnerabilità e tutta la finitezza dell’uomo.
Eppure tutta la liturgia delle esequie si svolge attorno a questo corpo per attestarne la grande dignità,
ed è partendo da esso e a suo riguardo che annuncia
la speranza della risurrezione futura. È dunque importante valutare la portata teologica e antropologica di questo Rito e della sua celebrazione.
23
C
hiese nel mondo
La presenza del corpo nel Rito delle esequie
Il Rito rende testimonianza
alla dignità del corpo
Il Rito delle esequie presta grande attenzione al
corpo del defunto. Nella celebrazione, gli conferisce
un posto speciale, per non dire centrale. Ad esempio, al momento dell’accoglienza alla porta della
chiesa colui che presiede la celebrazione è chiamato
a raccogliersi «davanti al corpo del defunto» (n. 44)
compiendo al contempo un gesto (segno di croce,
atto di benedizione). Inoltre il Rito invita a collocare
il corpo «in modo da facilitare il radunarsi dell’assemblea e da permettere che tutti vedano bene i gesti compiuti attorno a esso» (n. 47).
Occorre anche far notare i termini utilizzati per
indicare il corpo, «il defunto» oppure «il corpo del
defunto», che designano una persona, contrariamente ai termini «cadavere», «ceneri» oppure «resti». Il Rito dice ancora a suo riguardo «nostro fratello, nostra sorella»; accendendo i ceri ai lati del feretro, si dice di «rianimare questa fiamma presso N.,
nostro fratello, nostra sorella» (n. 55). Più ancora,
al momento dell’incensazione del corpo, l’officiante si rivolge direttamente al defunto: «Ecco questo
incenso, segno di rispetto per te, N. Salga davanti a
Dio con la nostra preghiera» (n. 119).
Questo rispetto mostrato dalla liturgia per il corpo del defunto richiama la stima biblica per il corpo, inscritta non soltanto nella creazione che porta il
segno della bontà del Creatore, ma anche nel modo
stesso in cui Dio ha scelto di rivelarsi, «per mezzo
di uomini, alla maniera umana».19 Ma più ancora,
è alla luce del Verbo incarnato che va compreso
l’uomo nella sua realtà corporea. Fin dalle origini,
contro le correnti gnostiche e docetiste, per le quali la realtà corporale era incompatibile con la trascendenza immateriale di Dio e per le quali la realtà
corporea del Cristo non era che apparenza, la Chiesa ha dovuto difendere la verità del corpo di Gesù
senza il quale non vi sarebbe stato un vero uomo. E
questa realtà umana trova il suo pieno compimento in lui, nella sua resurrezione corporea, promessa
della nostra. Paolo dirà che Cristo risorto è «primogenito di tutta la creazione» (Col 1,15). Il rispetto
per il corpo del defunto, particolarmente marcato
negli antichi riti delle esequie attraverso le cure che
gli sono prodigate, «fa cogliere che esso non cade
puramente e semplicemente nell’insignificanza».20
19 Concilio ecumenico
Vaticano II, cost. dogm. Dei
Verbum, n. 12; EV 1/891.
20 P. Fresson, «Le corps, enjeu eschatologique dans
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Respinge ogni forma di dualismo
Il rispetto e i riti che circondano il corpo, la maniera in cui il Rito interpella il defunto compiendo
dei gesti sul suo corpo (cf. il rito dell’incensazione),
l’insistenza delle orazioni sull’assunzione di tutto
l’uomo in Dio,21 respingono qualunque concezione
dualista dell’uomo. Il Rito è del tutto coerente con
ciò che afferma la costituzione Gaudium et spes a
questo riguardo: «Unità di anima e di corpo, l’uomo
sintetizza in sé, per la stessa sua condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi
attraverso di lui toccano il loro vertice e prendono
voce per lodare in libertà il Creatore. Non è lecito
dunque disprezzare la vita corporale dell’uomo. Al
contrario, questi è tenuto a considerare buono e degno di onore il proprio corpo, appunto perché creato da Dio e destinato alla risurrezione nell’ultimo
giorno» (n. 14; EV 1/1363).
Alla concezione frammentata del corpo umano, che è dominante nella nostra cultura, la fede
nella resurrezione oppone e valorizza la dignità
del corpo e soprattutto l’integrità della persona
umana, corpo e anima: corpo animato, spirito incarnato. La persona umana non è dunque soltanto
qualcuno che ha un corpo, ma qualcuno che è il
suo corpo, luogo di relazione, di comunicazione
fra l’esteriorità e l’interiorità. È quanto mette in
evidenza questo testo della Conferenza episcopale
tedesca, in una riflessione sulla pratica della cremazione: «Il corpo privo di vita ha anch’esso la
sua dignità (…). È il corpo della madre o del padre
a cui i figli devono la vita; il corpo dell’amico, la
cui vicinanza era comunicazione di relazione e di
amore; è il corpo che conserva i segni del lavoro
fisico, o mediante il quale si è praticato il lavoro
intellettuale; il corpo che nella sua vita ha portato le stimmate della malattia e delle sofferenze,
dell’handicap, dell’età e della decadenza, ferite
che nella trasfigurazione della carne risorta ricevono valore eterno».22
le Rituel francophone des funérailles», La Maison-Dieu
220(1999)4, 105-118, qui 116.
21 Ad esempio: «Concedi al nostro amico la gioia che
riservi ai tuoi fedeli: liberalo da tutto ciò che lo tiene lontano
da te, donagli di vedere il tuo volto il giorno della risurrezione» (n. 80). O ancora: «Signore, il nostro fratello ha partecipato alle sofferenze del tuo Figlio nella malattia e nelle prove.
Ha completato nella sua carne ciò che manca alla passione di
Cristo. Concedigli di condividere la gloria della sua risurrezione» (n. 72).
22 «Le prassi funerarie e di accompagnamento alle persone in lutto. Riflessioni della Conferenza episcopale tedesca (1994)», Documentation catholique, n. 2123 (15.11.1995),
1002ss.
24
C
hiese nel mondo
Evoca una presenza-assenza
che è nell’ordine del segno
Con molto tatto il Rito suggerisce, nella maniera
di considerare il corpo, una presenza-assenza che
rimanda alla categoria del simbolo: non è più la presenza di colui o colei che sono dipartiti; e tuttavia
continua a significare il loro essere presenti. Davanti alla frattura che la morte costituisce, il Rito delle esequie, prendendosi cura del corpo del defunto,
conferma che è impossibile immaginare un’anima
totalmente indipendente dal suo corpo; «né l’antropologia teologica, né una conseguente teologia della
creazione possono risolversi a vederlo corrompersi
completamente e definitivamente».23 In altre parole, solo la visione dell’uomo nell’integralità della sua
natura, indissolubilmente carnale e spirituale, può
esprimere ciò che realmente è l’uomo e quale sia
la sua dignità. Tutta la liturgia delle esequie invita
dunque a considerare il corpo del defunto non come
un semplice resto o addirittura uno scarto, un involucro di cui il defunto si sarebbe spogliato, ma come
«luogo» di attesa del mistero della risurrezione della
carne.
Nel suo modo di considerare il corpo del defunto e di porlo in mezzo a un’assemblea di viventi, la
liturgia lo designa come portatore del mistero della
resurrezione promessa, come depositario della speranza cristiana. Senza disconoscere l’opera ineluttabile della corruzione della carne, i credenti continuano a leggere, in ciò che resta di un corpo che fu
vivente, il mistero della sua speranza: la risurrezione
dei morti.
Una liturgia battesimale
Occorre sottolineare il carattere battesimale della liturgia delle esequie. Il defunto è infatti accolto
alla porta della chiesa come lo fu per il battesimo.
Come per il battesimo, il cero pasquale è la sorgente
della luce che attornia il suo corpo, luce del Cristo
risorto. La croce da cui fu segnato al battesimo è
deposta sul feretro; la croce, non già innanzitutto segno di sofferenza, ma, come esprime la monizione
che accompagna il gesto, segno dell’amore personale di Cristo che ha dato la vita per noi: «Ricordati,
Signore Gesù, che ci hai amati fino a morire per noi;
questa croce sia dunque ai nostri occhi il segno del
tuo amore per N. e per ognuno di noi» (n. 58).
Al momento dell’ultimo saluto, il corpo è benedetto con l’aspersione dell’acqua, ricordo dell’acqua
battesimale per mezzo della quale lo Spirito di Dio
23 Fresson,
«Le corps, enjeu eschatologique dans le Rituel
francophone des funérailles», 117.
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gli ha donato la vita nuova in Cristo. E se l’incenso non entra nella celebrazione del battesimo, nella
liturgia eucaristica esso onora i battezzati, membri
del popolo di Dio, che già hanno parte alla santità di
Cristo, formando in lui il tempio dello Spirito Santo.
Il carattere battesimale delle esequie è dunque,
come si vede, un tono pasquale. La liturgia celebra
il mistero pasquale di Cristo (cero pasquale e croce)
al quale il defunto, fin nel suo corpo, è già stato configurato nel battesimo. Si può notare qui come, per
parlare della vita nuova che ci è offerta nel battesimo, Paolo riprende il simbolismo della deposizione
nel sepolcro: «Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché,
come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della
gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo
saremo anche a somiglianza della sua risurrezione»
(Rm 6,4-5).
Il defunto e il corpo di Cristo
Notiamo inoltre che le esequie cristiane hanno
anche un carattere eucaristico. Senza cercare di illustrarne tutte le armoniche, ci si limiterà al legame
fra il defunto e il corpo di Cristo, corpo personale
del Risorto e corpo ecclesiale di Cristo. Di questo
corpo, l’eucaristia è il sacramento.24 La liturgia delle
esequie attesta che il defunto appartiene sempre al
corpo di Cristo che è la Chiesa. Essa lo fa in molti
modi.
La presenza del corpo del defunto in mezzo
all’assemblea è essa stessa significativa. Una nota
all’inizio del Rito precisa: «Secondo l’opportunità,
si conserverà l’usanza di disporre il corpo nella posizione che esso occupava abitualmente nell’assemblea liturgica, ossia: per un fedele, volto verso l’altare; per un presbitero o un diacono, volto verso il
popolo» (n. 47). Così è reso manifesto il posto ecclesiale che esso continua a occupare nella comunione
dei santi di cui l’assemblea liturgica è il segno. È ciò
che sottolinea una delle preghiere di inizio del Rito:
«Signore Gesù, tu hai voluto che proprio colui che
ci ha appena lasciato, sia oggi colui che ci raduna»
(n. 66).
Nel corso della preghiera eucaristica la Chiesa
prega in comunione con i santi, e prega per i fratelli
e sorelle defunti, e in particolare per il tale o la tale
che vengono raccomandati. La raccomandazione
dei defunti nel cuore della grande preghiera di ren24 Ricordiamo
tuttavia che il sacramento dei morenti è la
comunione al corpo di Cristo data nel viatico, sacramento del
passaggio ultimo insieme a Cristo.
25
C
hiese nel mondo
dimento di grazie e di supplica della Chiesa li indica
come parte sempre integrante del corpo ecclesiale
di Cristo. Il battesimo e la comunione che essi hanno ricevuto nel corso della vita terrena preparano
sempre, in essi come in noi, l’ultima comunione con
Dio per mezzo di Cristo e in lui. Da questo punto
di vista, poiché la celebrazione dell’eucaristia si è
fatta più rara nello svolgimento dei funerali, è una
pratica importante invitare le famiglie a partecipare
a un’eucaristia domenicale ove si pregherà specialmente per il loro defunto.
Infine, il Rito delle esequie insiste particolarmente
sul ritrovarsi con il defunto (cf. nn. 107, 108, 125).
Questa speranza si poggia sul già della comunione
dei santi. Al termine della celebrazione, al momento dell’ultimo saluto, il Rito afferma: «Anche se la
morte sempre comporta una separazione, i cristiani,
come membra di Cristo, non possono essere separati, poiché sono uno in lui» (n. 99).
Nei gesti e nei testi che prevede attorno al corpo
del defunto, tutto il Rito è continuamente attraversato dalla proclamazione della fede fondamentale
che la legge apparente della morte è soltanto temporanea: «Con rispetto e affetto affidiamolo/la alla
misericordia del Padre nella speranza di ritrovarlo/
la un giorno, quando l’amore di Cristo, vittorioso di
ogni male, avrà trionfato sulla morte» (n. 105; ripreso in Dans l’espérance chrétienne, n. 234).
Riferendosi alle parole di Cristo nel discorso sul
pane di vita al capitolo 6 del Vangelo di Giovanni,
alcuni testi del Rito pongono in relazione la vita sacramentale del defunto, messa in pratica mediante il
corpo, e la sua realizzazione escatologica: «Per mezzo del battesimo è divenuto/a figlio/a di Dio, per
mezzo dell’eucaristia è stato/a nutrito/a dal corpo
di Cristo: trovi ora posto al banchetto del cielo, che
riceve in eredità coi santi, l’eternità promessa» (n.
108; ripreso in Dans l’espérance chrétienne, n. 233).
Nel mistero, la risurrezione della carne è già in
gestazione in questa vita, come Paolo esprime ricorrendo all’immagine del seme: «È seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; è seminato corpo animale,
risorge corpo spirituale» (1Cor 15,43-44).
Nel cuore del mondo e della vita di ogni uomo,
attraverso l’esperienza stessa della morte, germoglia
la realtà del Regno.
Inumazione e cremazione
Ci si può limitare qui al significato dell’inumazione (seppellimento del corpo in una fossa scavata
nella terra; ndr) e della deposizione nella tomba per
la fede cristiana. Si sa che i racconti della PassioIl Regno -
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ne terminano con la deposizione nel sepolcro; san
Giovanni ci dice che era un sepolcro nuovo, e che
si trovava in un giardino. Da quel sepolcro sorgerà
il mondo nuovo, il nuovo Adamo definitivamente
vittorioso sulla morte. Al mattino di Pasqua questo
sepolcro vuoto, dove si constata con stupore che i
teli sono riposti a parte, sarà per Pietro e per il discepolo amato il primo segno dell’inaudito: il Signore è
risorto.
L’inumazione lascia che il tempo compia il suo
lavoro. Per i congiunti del defunto, deporne il corpo
nella tomba è acconsentire a lasciare la presa sul suo
avvenire; è, nella speranza, rimetterlo a Dio. Il simbolo della deposizione nella tomba è così potente che
– come si è detto sopra – Paolo lo riprende a proposito del battesimo dei cristiani. Allo stesso modo, nella
lettera ai Corinzi, per rispondere a quanti dubitano
della risurrezione dei morti, egli collega alla sepoltura la metafora del seme: «È seminato nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità» (1Cor 15,42). Nel
Vangelo di Giovanni si ritrova ugualmente questa
metafora del seme, questa volta sulla bocca di Gesù
che parla della propria morte: «In verità, in verità
io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non
muore, rimane solo; se invece muore, produce molto
frutto» (Gv 12,24).
Si comprende dunque facilmente la preferenza della Chiesa per l’inumazione.25 Come afferma
l’orazione di benedizione della tomba, da quei tre
giorni in cui il Signore ha riposato nella terra, «la
tomba degli uomini è divenuta, per i credenti, segno
di speranza nella risurrezione» (n. 263).
Se la pratica della cremazione non reca danno al
mistero cristiano in sé, essa richiede tuttavia ai pastori una valutazione particolare dei riflessi che essa può
avere sulla rappresentazione della fede cristiana. Vi è
reale tensione fra i riti funebri coi quali la Chiesa avvolge il corpo del defunto e la cremazione, nella misura in cui questa è un atto volontario e violento, che
accelera il processo di distruzione e di disfacimento
del corpo. Ciò non deve comunque portare a sminuire questi riti, anche se a essi segue la cremazione. Si
comprende tuttavia perché la Chiesa richieda di non
disperdere le ceneri e che queste siano conservate
nell’urna deposta al cimitero o in un colombario.26
25 «Pur rispettando la libertà delle persone e delle famiglie,
non si perderà di vista la tradizionale preferenza che la Chiesa
accorda al modo in cui nostro Signore stesso è stato seppellito»
(Rito delle esequie, vol. I, n. 18).
26 Su questo punto le disposizioni della legge francese
(Legge Sueur) non coincidono. Cf. Congregazione per il
culto divino, nota L’incinerazione, indicazioni e norme, febbraio 2012.
26
C
hiese nel mondo
L’inchiesta condotta nelle diocesi (c. I) e la riflessione antropologica e teologica alla luce del Rito
delle esequie (c. II) mostrano ampiamente come la
cremazione richieda una specifica valutazione pastorale e liturgica. Le ultime due parti di questo documento vogliono offrire alcuni elementi di interesse o di orientamento.
III.
Celebrare al crematorio:
riflessioni pastorali
Dialogo e concertazione
La Chiesa non è più l’interlocutore privilegiato
né l’unico attore nello svolgimento delle esequie e
nei rituali che vanno definendosi per accompagnare la morte. Al momento in cui avviene un decesso
le famiglie si rivolgono innanzitutto alle imprese di
onoranze funebri, alle quali viene sempre più demandata la conduzione globale delle esequie e i suoi
passaggi. Fra le proposte di queste agenzie vi sono
anche elementi di omaggio al defunto, perfino rituali di commiato. Da ciò risulta evidente l’importanza del dialogo e della concertazione con i differenti
operatori e professionisti: i servizi di pompe funebri,
i responsabili del crematorio.
La Chiesa, dal canto suo, deve interrogarsi sulla
comunicazione e l’identificazione (o la leggibilità) del
proprio messaggio cristiano e sulla sua collocazione.
In questa prospettiva diversi vescovi hanno pubblicato
orientamenti diocesani per la pastorale delle esequie.
L’elaborazione di questi orientamenti è avvenuta a
partire dal dialogo con i servizi diocesani di pastorale
liturgica e di pastorale delle esequie, con le équipe locali e anche con i responsabili di dei servizi di pompe
funebri. È fortemente consigliabile che la Chiesa sia in
grado localmente di offrire un messaggio chiaro e una
pastorale coerente sulle modalità della propria presenza (o le ragioni della propria assenza) nei crematori.
Questo va anche a vantaggio delle famiglie.
Si può notare che l’evoluzione delle pratiche
funerarie è talmente rapida da interpellare gli operatori del settore tanto quanto la Chiesa. È allora
urgente lavorare e riflettere insieme, specialmente
sulle implicazioni etiche di tali cambiamenti. La
composizione del Comitato nazionale di etica funeraria27 è un buon esempio. Esso è infatti formato di
27 Il Comitato nazionale di etica funeraria, creato nel febbraio 2001 dalla Società di tanatologia e dalla Confederazione
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36/2015
professionisti del funerario, di sociologi, di personale sanitario, ma anche di membri di diverse religioni. È inoltre vicino al Comitato nazionale di etica.
La partecipazione della Chiesa a queste istanze è da
incoraggiare.
La posizione e il riconoscimento
delle équipe funerarie dei crematori
Dall’inchiesta condotta nelle diocesi emerge talvolta una certa indeterminatezza riguardo alla posizione delle persone che intervengono per un momento di preghiera al crematorio. La presenza di
una équipe funeraria in questi luoghi non è riconosciuta in maniera sistematica. Per dare consistenza
sia alla visibilità della Chiesa sia alla legittimità delle
persone sarebbe bene che fosse ufficialmente creata
un’équipe per le esequie a cui dare specifico mandato. Una simile équipe è infatti spesso formata di laici,
ma vi hanno un ruolo anche i ministri ordinati, preti o diaconi, in quanto quegli ambienti sono anche
ambiti di evangelizzazione.
Consolidare i legami con la comunità cristiana
La richiesta di preghiera e di celebrazione delle
esequie al crematorio è spesso avanzata da persone
che non hanno legami o riferimenti nelle comunità
parrocchiali. La preghiera al crematorio rischia allora di essere percepita come una preghiera soltanto
familiare e privata. Per quanto possibile è bene che
si stabiliscano contatti e che circolino le informazioni fra quanti intervengono al crematorio e la parrocchia della famiglia o del defunto. Questo legame
con la Chiesa si favorisce innanzitutto grazie alla
qualità del rapporto e all’incontro con la famiglia
prima della celebrazione.
Come si è già detto, le esequie cristiane non
possono essere completamente separate dall’eucadei professionisti dell’imprenditoria funeraria e cimiteriale ha
lo scopo di condurre una riflessione etica sull’esercizio della
professione e di avanzare proposte accettabili per tutti (congiunti in lutto e professionisti) in un’ottica pluridisciplinare.
Suo obiettivo e sua ragione d’essere sono fissare nuove regole
morali d’esercizio di queste professioni senza disconoscerne
le caratteristiche commerciali. Si tratta di fare coesistere in
modo armonioso ed equo l’equilibrio economico delle imprese di onoranze funebri con la dimensione umana e sociale che
questa professione così particolare deve possedere. Il Comitato
nazionale di etica funeraria è formato di personalità note per
le competenze e l’interesse per le questioni etiche. Si veda il sito
www.ethique-funeraire.com.
27
C
hiese nel mondo
ristia. Anche se la famiglia è lontana dalla Chiesa e dalla pratica religiosa, estendere un invito
ai congiunti per l’eucaristia domenicale ove la comunità pregherà in maniera speciale per il defunto
e lo ricorderà personalmente non è un passaggio
da trascurare. Questo richiede ovviamente che,
quel giorno, dei membri della comunità parrocchiale abbiano cura di accoglierli e di stare loro
vicini.
Essere e fare Chiesa
in un ambiente come il crematorio
Riflessioni sul luogo della cremazione
In Francia si è soliti celebrare le esequie nella
chiesa del paese o del quartiere. Sta ora accadendo che a causa della mobilità o della scristianizzazione i legami fra i battezzati e la comunità locale
di riferimento si siano indeboliti, e che molti cattolici se ne siano allontanati. Essi dunque ignorano
qual è la loro parrocchia e la chiesa nella quale si
raduna la comunità cristiana. Questo dato di fatto,
al quale si possono aggiungere considerazioni pratiche o economiche, porta sempre più le famiglie a
scartare la celebrazione alla chiesa, pur desiderando che venga organizzato un momento di preghiera al crematorio.
La chiesa è il luogo dell’ecclesia, ossia del radunarsi dei credenti per affermare la propria fede e
la vita fraterna che ne consegue. È inoltre il luogo
della lode e dell’offerta. Il crematorio è in realtà un
ambiente unicamente dedicato alle esequie, ove le
persone si recano per dare un ultimo saluto al defunto; non ha quindi e non può avere la densità
simbolica ed ecclesiale della chiesa.
Sorge inoltre un interrogativo: come può questo
luogo neutro, adattabile a ogni tipo di cerimonia
religiosa o civile, divenire uno spazio degno per
una preghiera cristiana? A quali condizioni questo
spazio può essere «trasformato» al fine di permettere a un’assemblea, anche se poco numerosa, di
trovare delle condizioni favorevoli per riconoscere
la presenza di Cristo?
È bene ricordare che il termine «Chiesa» designa innanzitutto l’assemblea dei credenti che, nella comunione dello Spirito, professa Cristo e loda
Dio per le sue meraviglie. È da questa assemblea
che il luogo di raduno e di culto trae il suo nome.
La Chiesa è il tempio edificato da pietre vive dove
il Padre è adorato in spirito e verità. In ogni luogo
è dunque possibile formare una Chiesa. Trattandosi del crematorio, tutto dipende allora dalla maIl Regno -
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36/2015
niera di «abitare» il posto, di porvisi cristianamente nella fede e la speranza, di fare sì che esso sia un
luogo di incontro con Cristo risorto.
Una ritualità necessaria
I sociologi osservano che, rispetto al XIX o all’inizio del XX secolo, i riti che accompagnano la
morte sono andati perdendo l’antica importanza.
Allo stesso tempo, tuttavia, si rileva un’aumentata
consapevolezza della funzione essenziale del rito,
che è funzione sociale, psicologica, spirituale. I vivi
non possono restare soli e come nudi di fronte alla
morte del parente o dell’amico. Le imprese di onoranze funebri inoltre hanno molto lavorato sul cerimoniale da porre in atto nel corso delle esequie e
intendono offrire un autentico servizio rituale alle
persone in lutto. È in questo nuovo contesto che
occorre riflettere riguardo alla preghiera cristiana
di commiato per un defunto, celebrata al crematorio, senza passaggio in chiesa.
La questione è complessa poiché le richieste di
celebrazione in questi casi spesso provengono da
congiunti poco familiari con la fede cristiana ma
che voglio ugualmente «un qualcosa» che sia legato alla tradizione cattolica. Il rischio o la tendenza
sarebbero di limitarsi a un «omaggio» reso al defunto; occorre invece anche aiutare l’assemblea riunita attorno a lui a volgersi a Dio e verso il futuro
che egli ci apre. Per chi guida la preghiera, anche
se consapevole che non tutti in quell’assemblea
condividono la fede cristiana, si tratta di onorare
il desiderio espresso dalla famiglia. La natura degli elementi fondamentali di una liturgia o di una
ritualità cristiana, lungi da essere un ostacolo, al
contrario permettono questo ritorno di fede e di
speranza.
Si possono indicare tre elementi fondamentali
della liturgia adatti a una preghiera al crematorio i
quali, coniugati insieme, consentono di dare identità a una celebrazione cattolica.
Permettere ai convenuti
di divenire un’assemblea
Al crematorio esiste il rischio che l’officiante sia
percepito solo come un prestatore di servizi e che i
presenti siano soltanto individui che assistono, poiché non hanno più alcuna cultura cristiana. Occorre dunque trovare il modo di coinvolgere i presenti
in quanto partecipanti e non soltanto come assistenti (senza dimenticare che anche la comunione, nel
silenzio e nel raccoglimento, è un modo di parte-
28
C
hiese nel mondo
cipare all’azione che si compie). Il rito, con i suoi
gesti (segno della croce, benedizione) e le sue parole
(risposte, preghiere e in particolare il Padre nostro)
è una via per questa partecipazione. Chi guida la
preghiera non dimenticherà che una celebrazione
non è una rappresentazione, ancor meno una manipolazione; essa è una mistagogia in cui le parole,
i gesti, ma anche il silenzio e il raccoglimento sono
una strada per entrare in sé stessi e dirigersi verso
quel luogo dove Dio parla al cuore, nella convinzione che anche dei non credenti possano incamminarvisi. «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome,
lì sono io in mezzo a loro», dice il Signore ai suoi
discepoli (Mt 18,20).
Il posto della parola di Dio
proclamata e commentata
La riforma liturgica, in piena coerenza con la costituzione sulla divina rivelazione, ha voluto ridare
alla parola di Dio tutto il posto che le spetta nella
liturgia. I brani che vengono letti non sono in primo
luogo testi per far pensare, ma piuttosto una parola di vita da udire e da ricevere, parola di Dio che
suscita la risposta della fede e della preghiera. È per
questo che si privilegerà sempre la proclamazione
di un testo biblico anziché la lettura di testi profani.
Si tratta di intendervi la promessa stessa di Dio, promessa che apre un orizzonte nuovo ai defunti, alla
nostra comunione con essi nell’ora stessa in cui la
morte appare come una conclusione.
Va da sé che questa liturgia della Parola può essere semplice, anche breve (poiché capita che il tempo
al crematorio sia limitato). Si farà tanta più attenzione alla qualità della Parola; e anche alla qualità
del libro da cui si trae la parola di Dio: la Bibbia, il
lezionario. I responsori brevi che si trovano nel Rito
delle esequie o nella guida Dans l’espérance chrétienne
sono perfettamente adeguati per questi momenti di
preghiera.
Il riconoscimento di un officiante
che ha ricevuto un mandato ecclesiale
È importante che chi guida la preghiera e il rito
sia riconosciuto come persona che ha ricevuto un
mandato ecclesiale e opera in rappresentanza della
Chiesa, e non a titolo proprio, a titolo individuale o in ragione di qualifiche personali. Talvolta la
preghiera è condotta da due persone insieme. In
ogni modo, nella maniera di presentarsi e di guidare
il momento, occorre mostrare che si agisce, che si
ascolta, che si prega nella comunione e nel legame
con la Chiesa in quanto comunità di fede, di speranza e di carità.
Il Regno -
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IV.
Celebrare al crematorio:
riflessioni liturgiche
L’inchiesta condotta presso le diocesi ha mostrato
che esistono dubbi in relazione allo svolgimento dei riti
nei crematori. Quanti guidano i momenti di preghiera
si chiedono: «È bene realizzare al crematorio la medesima liturgia che si celebra in chiesa?». La risposta è
complessa poiché molto spesso, come abbiamo detto
sopra, le richieste di celebrazione provengono da congiunti poco familiari con la fede cristiana che vogliono
comunque un rito cattolico. Come rispettare la richiesta delle famiglie, senza svuotare il rito dell’espressione
della fede cristiana in un luogo – e in un tempo – che
non è la chiesa, ovvero che non è lo spazio abituale per
compiere il rito cristiano?
Si evidenzia anche un altro punto delicato: sempre
più i servizi di onoranze funebri, nella sollecitudine ad
accompagnare il lutto delle famiglie, propongono un
cerimoniale delle esequie a partire da un «servizio-tipo» nel quale potrebbe essere possibile inserire elementi cristiani.28 Ora, il rito cristiano è un insieme di parole
e di gesti orientati non solo al ricordo del defunto e alla
consolazione delle famiglie, ma più ancora alla manifestazione della presenza di Dio alla nostra umanità sofferente. È per questo che, per un momento di preghiera
in un luogo come il crematorio (ma ugualmente nelle
camere ardenti), occorre includere in un rituale cristiano dei punti di riferimento chiari e senza equivoci.
Anche se è possibile personalizzare le esequie, è comunque indispensabile basarsi sul Rito e sulla sua dinamica propriamente cristiana. I gesti e i simboli della
liturgia infatti sono «collaudati», ci precedono e non ci
appartengono. Invitati a compiere gesti e pronunciare
parole che generazioni di credenti hanno a loro volta
adottato nel tempo, i congiunti in lutto possono cogliere che essi non sono i soli a vivere questa situazione.
Come abbiamo visto, la liturgia cristiana delle esequie ha un carattere battesimale. Ciò si mostra fondamentalmente nell’itinerario che traccia e nei gesti e
simboli che pone in essere. Al crematorio occorre essere attenti a questo aspetto.
Un itinerario da rispettare
La struttura della celebrazione delle esequie
mostra una certa logica: aiutare i dolenti a spostare
28 Si veda al riguardo F. Michaud-Nérard, Une révolution
rituelle: accompagner la crémation, Éditions de l’Atelier, Paris
2012, 107ss, su una «spiritualità laica».
29
C
hiese nel mondo
lo sguardo dal defunto a Cristo, a passare dalla tristezza della perdita alla speranza e alla promessa di
vita che è Cristo. Così l’avvenimento della morte è
sostituito nella dinamica del «passaggio», della Pasqua, orientando i dolenti, come il defunto, verso il
destino ultimo: l’ingresso nel regno di Dio. La sequenza accoglienza / parola di Dio / raccomandazione del defunto a Dio e ultimo saluto va dunque
rispettata.
L’accoglienza:
passare dallo sguardo sul defunto
allo sguardo rivolto a Cristo
Questo momento fondamentale manifesta tanto la sollecitudine della Chiesa per le famiglie nella
varietà delle loro situazioni, quanto la presenza di
Cristo e la dimensione ecclesiale della celebrazione. L’arte di chi guida la preghiera sarà aiutare la
famiglia a passare dallo sguardo sul defunto (farne
memoria) allo sguardo verso Cristo («volgiamoci
verso...»). È la funzione delle parole d’accoglienza e
dei riti d’accoglienza.
Si comprende bene qui il necessario contatto con
la famiglia (per quanto possibile) prima della celebrazione. È anche dando importanza a un segno
della croce ben fatto, è invitando a guardare la croce
di Cristo e così via che si servirà al meglio sia l’attesa
dei congiunti sia la fede cristiana.
La liturgia della parola di Dio:
ascoltare colui che dà senso
La riforma liturgica ha permesso di ritrovare il
posto fondamentale della parola di Dio in qualunque celebrazione liturgica. Il n. 88 dei Praenotanda del Rito ne fa eco: «Nelle celebrazioni per i defunti la liturgia della Parola riveste un ruolo molto
importante. Essa proclama il mistero pasquale,
nutre la speranza di ritrovarsi nel regno di Dio,
rende manifesti i legami profondi che uniscono i
morti e i viventi, esorta alla testimonianza di una
vita cristiana».
Nel caso in cui il momento di preghiera avvenga
soltanto al crematorio, la parola di Dio è fondamentale, tanto più che certe famiglie sono poco abituate
alla fede cristiana e tuttavia richiedono un sostegno,
una spiegazione, una risposta alle domande sul senso della vita e della morte che i cristiani possono
offrire. La parola di Dio non è dunque sostituibile
con testi profani.29 Questi non possono, allo stesso
titolo delle sacre Scritture, essere questa Parola viva
29 Essi hanno piuttosto un posto all’inizio del momento di
preghiera.
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che Dio rivolge all’assemblea, una Parola che salva,
nella quale, ci dice Sacrosanctum concilium al n. 7,
Cristo stesso è presente.
Dio ha parlato con i suoi figli e desidera la comunione con loro; per questo motivo la preghiera universale, la preghiera di azione di grazie, la recita del
Padre nostro sono momenti favorevoli alla risposta
dei congiunti.
L’ultimo saluto: con fiducia,
raccomandare il defunto a Dio
Nel quadro del Rito delle esequie, il commiato
vuole raccomandare il defunto a Dio, accompagnarlo nel suo passaggio con la preghiera, rimetterlo
con fiducia fra le mani del Padre e rinviare i viventi
a questo mondo. Questa parte del rito va dunque
conservata nel caso di un momento di preghiera al
crematorio.
Simboli e gesti da non edulcorare
Vi è spazio al crematorio per la croce, il rito della
luce, l’aspersione, l’incenso, in breve per questi gesti
e simboli che il Rito delle esequie contempla?
La croce
La croce, segno e strumento della nostra salvezza, è a volte rifiutata dalle famiglie in lutto poiché significa chiaramente la morte. Tuttavia, essa ha certamente il proprio posto nel momento di preghiera
al crematorio. Iniziare infatti con questo segno forte
ricorda il luogo ove Dio ci parla e ci raggiunge / si
unisce a noi: nella sua sofferenza e nella sua morte.
Di conseguenza, sarà necessario che al crematorio
durante il momento di preghiera sia presente una
croce. È possibile darle rilievo ponendole accanto
una candela.
Il rito della luce
Nel funerale celebrato in chiesa i ceri che circondano la bara sono accesi a partire dal cero pasquale che brilla nel presbiterio. Questo rito ricorda il cero consegnato al nuovo battezzato, acceso
anch’esso al cero pasquale, «perché egli avanzi
nella vita come figlio della luce (…) per andare
incontro a Cristo nel suo Regno» (Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti, n. 227; anche questo
citato nell’edizione francese, ndt). Con questo simbolo, alle esequie, la Chiesa riafferma il proprio
desiderio che la luce di Cristo illumini i dolenti
affinché essi «non piangano come quelli che sono
senza speranza» (cf. 1Ts 4,13).
30
C
hiese nel mondo
Portare un cero pasquale al crematorio?
Ogni simbolo s’inscrive in un contesto, in una
liturgia particolare in seno a una comunità di credenti che si raduna regolarmente in un luogo preciso. È in questo quadro che acquista il suo senso.
Il cero pasquale s’inscrive nella liturgia della Veglia
pasquale. È la luce di Cristo, morto e risorto, che
dissipa le tenebre; nella chiesa, luogo privilegiato del
radunarsi dei credenti, esso rende manifesto che è il
Risorto che li convoca. È qui che ormai brilla il cero
pasquale. Uscire da questo luogo significa rischiare di alterare il senso e la dignità di questo simbolo
di Cristo vivente, di ridurlo semplicemente a un bel
cero, pratico per accendere i lumini.
Sembra dunque inopportuno trasportare il cero
pasquale al crematorio. Ciò non impedisce tuttavia
l’utilizzo di candele (del tipo da candelabro). Queste,
ed eventualmente lo svolgimento del rito della luce,
prenderanno significato allora dalle parole del salmista: «Lampada per miei passi, luce sul mio cammino» (cf. Sal 118,105). Queste candele possono poi
essere offerte ai congiunti, alla fine del momento di
preghiera, come si dona il cero del battesimo ai padrini e ai genitori del battezzato affinché la luce di
Cristo sia loro guida.
In riferimento alle esequie, tutto ciò non vale per
l’acqua e l’incenso. L’acqua può venire benedetta
per un utilizzo specifico nel corso di un’azione liturgica. Quanto all’incenso, esso può essere impiegato in qualunque occasione. Questi due simboli
non sono dunque legati a una celebrazione speciale
come il cero pasquale lo è alla veglia pasquale.
I riti del commiato
Aspersione e benedizione
Dato il significato battesimale di questo rito,
sembra opportuno che l’officiante lo mantenga. Ha
senso con la preghiera di raccomandazione che lo
segue. In tanti ambienti è d’uso che i partecipanti
si uniscano al gesto di benedire il corpo. È un atto
di fede. La saggezza e la delicatezza richiedono che
siano proposti anche gesti diversi per consentire a
ognuno di sentirsi a proprio agio, di essere vero e
sincero in quel momento: ad esempio porre la mano
sulla bara al modo in cui si pone una mano sulla
spalla dell’altro, o inchinarsi in segno di rispetto, deporre un fiore e così via. Sta all’officiante di orientarli verso la speranza di ritrovarsi in Dio.
L’incenso al crematorio?
Al momento del commiato, il rito dell’incenso –
che resta facoltativo – ricorda che il corpo del batIl Regno -
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tezzato è tempio dello Spirito Santo.30 Ma l’incenso
ha anche un altro significato, quello di esprimere la
preghiera dell’assemblea, in riferimento al Salmo
140,2: «La mia preghiera stia davanti a te come incenso». Resta da considerare l’opportunità di questo rito in un crematorio, per ragioni pratiche e per
la percezione che ne possono avere i convenuti. Se il
rito si compie, sarà bene evocarne il senso con qualche parola.
Schema per un possibile
momento di preghiera al crematorio
Sulla base di schemi proposti dalle équipe, dalla guida pastorale Dans l’espérance chrétienne, dal
Rito delle esequie come pure di tracce per celebrazioni cristiane tratte dal Rito delle esequie di alcuni altri paesi, in particolare l’Italia, proponiamo
la seguente struttura per un momento di preghiera nel caso non sia possibile una celebrazione in
chiesa.
Accoglienza
– Segno di croce e saluto liturgico;
– monizione di accoglienza e ricordo della vita
del defunto riletta alla luce di Cristo;
– orazione.
Parola di Dio
– Prima lettura (ad esempio, Gb 19,1.23.27b;
oppure 2Cor 4,14-5,1);
– salmo responsoriale (ad esempio, Sal 114-115);
– acclamazione al Vangelo e Vangelo (ad esempio, Gv 6,37-40);
– breve commento;
– silenzio (accompagnato o meno da un sottofondo musicale);
– preghiera universale / dei fedeli e di rendimento di grazie;
– Padre nostro.
Raccomandazione del defunto a Dio
– Monizione;
– rito di commiato;
– preghiera di raccomandazione del defunto a
Dio; annuncio di una celebrazione eucaristica per
il defunto nel luogo parrocchiale del defunto o della
famiglia o dell’équipe.
30 Cf. AELF, Dans l’espérance chrétienne, n. 287: «Ecco questo incenso, segno di rispetto per il tuo corpo che fu tempio dello
Spirito Santo».
31
C
hiese nel mondo
Questo schema è naturalmente da adattare a seconda delle persone o del tempo consentito. Se il
tempo è limitato, è raccomandabile privilegiare la
proclamazione del Vangelo, la preghiera del Padre
nostro, la raccomandazione del defunto a Dio.
C
elebrare in presenza
di un’urna cineraria
Sempre più sovente quanti si occupano delle esequie cristiane ricevono la richiesta di una celebrazione in chiesa alla presenza di un’urna cineraria.
Ci sembra utile di vederne qui le ragioni principali e
di fornire uno schema tipo di celebrazione.
Ragioni principali
Tre ragioni giustificano il fatto che la cremazione possa avere luogo prima della celebrazione in
chiesa:
– ragioni indipendenti dalla volontà della famiglia o del defunto: morte sopravvenuta all’improvviso lontano dal paese d’origine, malattie degenerative che richiedono la cremazione per ragioni igieniche ecc.;
– ragioni economiche: costo elevato del trasporto del corpo dall’ospedale alla chiesa, dalla chiesa al
crematorio, dal crematorio al cimitero;
– orari del crematorio incompatibili con una
celebrazione in chiesa, che obbligano le famiglie a
«passare» prima al crematorio.
Adattare lo svolgimento
In una lettera del 4 giugno 1986 la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti
ammette la possibilità di celebrare in presenza di
un’urna, ma in ogni caso va richiesta l’autorizzazione dell’ordinario del luogo.
Nel febbraio 2012 la medesima Congregazione
ha fornito alcune indicazioni normative nel caso
della cremazione: «In questo caso, il rito delle esequie in chiesa può comportare la celebrazione della
messa o della liturgia della Parola. L’urna contenente le ceneri è accolta alla porta della chiesa e
viene deposta su un tavolo, collocato nello spazio
antistante l’altare, fuori del presbiterio. Si devono
tralasciare l’aspersione con l’acqua benedetta e
Il Regno -
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l’incensazione, riservate al corpo del defunto. Il ministro deve rendersi disponibile per accompagnare
l’urna funeraria e guidare la preghiera di benedizione del sepolcro» (nostra traduzione dal testo
francese; ndt).
Notiamo qui alcuni elementi molto importanti,
specialmente per ciò che si riferisce allo spazio e ai
simboli:
– l’urna cineraria è accolta alla porta della chiesa, come la bara;
– l’urna cineraria è collocata fuori del presbiterio, in prossimità di una croce astile. Se non vi è la
croce, l’urna è disposta di fianco, e non nel posto
centrale riservato abitualmente alla bara, per una
buona integrazione del «volume» occupato dall’urna nello spazio liturgico. Precisiamo che ciò non
è segno di una considerazione di minor dignità o
minor rispetto, ma della volontà di adattarsi a una
realtà differente;
– il cero pasquale è acceso prima della processione di ingresso, conservando così la forza simbolica di Cristo-luce che accoglie i suoi figli;
– i riti dell’aspersione e dell’incensazione riguardano il corpo e non le ceneri. Sarà allora importante dare manifestazione visibile alla preghiera dei
congiunti in altro modo. Ad esempio, ognuno depone un fiore in un vaso per farne un mazzo, o dei
grani d’incenso in una ciotola.
Schema possibile
di celebrazione in presenza di un’urna
Accoglienza
– L’urna cineraria è accolta sul sagrato della
chiesa ed è deposta vicina al presbiterio, di fianco
(con fiori, foto ecc.);
– la croce e il cero pasquale acceso sono in prossimità, nel presbiterio;
– segno di croce e saluto liturgico;
– monizione d’accoglienza e ricordo della vita
del defunto riletta alla luce di Cristo;
– orazione.
Parola di Dio
– Prima lettura;
– salmo responsoriale;
– acclamazione al Vangelo e Vangelo;
– breve commento;
– silenzio (accompagnato da sottofondo musicale);
– preghiera universale;
– eucaristia, se è prevista, o preghiera di azione
di grazie che termina con il Padre nostro.
32
C
hiese nel mondo
Raccomandazione del defunto a Dio
– Monizione;
– eventuale gesto di raccoglimento;
– preghiera di raccomandazione del defunto a
Dio e canto;
– annuncio di una celebrazione eucaristica per
il defunto nella chiesa parrocchiale del defunto, o
della famiglia o dell’équipe.
C
onclusione
Al termine di questa riflessione comprendiamo
chiaramente che, riguardo a tutta questa materia, la
Chiesa cerca e «si» cerca. La riflessione e il discernimento, a livello tanto pastorale quanto liturgico,
devono proseguire. Ma a questo punto possiamo già
elaborare due considerazioni.
Innanzitutto, è importante e sempre necessario
ricordare la preferenza della Chiesa per l’inumazione e per una celebrazione delle esequie alla chiesa
secondo il Rito vigente. I pastori devono avere cura
di spiegarne le ragioni profonde ai fedeli. Tuttavia
è oggi impossibile fare resistenza a questa tendenza alla cremazione, che rovescia il panorama della
morte e del suo accompagnamento, o trascurare il
crematorio. Come abbiamo visto, esso diventerà per
Il Regno -
documenti
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molti l’unico ambito possibile per un momento di
preghiera in occasione delle esequie. Ciò non è privo d’importanza per la Chiesa cattolica nel momento in cui essa invita i cristiani a riflettere sul modo di
proporre il Vangelo oggi, nelle sue «periferie».
Infine, è importante e sempre necessario cogliere l’importanza del luogo e della liturgia che vi si
può svolgere. Non è possibile celebrare nell’identico
modo in presenza del corpo e in presenza dell’urna.
Ma non va dimenticato che al crematorio si prega
ancora davanti a un corpo. È allora possibile svolgere riti e utilizzare simboli cristiani, tranne il cero
pasquale ed evidentemente l’eucaristia, per i quali
la collocazione naturale resta il presbiterio delle nostre chiese. Tutti i riti che manifestano l’onore reso
al corpo si possono svolgere anche in un altro luogo. Le sole condizioni restano che l’officiante che vi
rappresenta la Chiesa sia da questa adeguatamente
riconosciuto; che vi si ascolti la parola di Dio; che
lo spazio della preghiera riveli, per gli oggetti o per
i segni compiuti, che siamo nel corso di una celebrazione cristiana; che gli stessi siano quelli che la
Chiesa ci dà tradizionalmente.
Se tutto ciò è osservato, la fede si può annunciare… anche in questo spazio! L’importante per la
Chiesa non è solamente celebrare secondo norme
corrette; è innanzitutto evangelizzare, annunciare il
Vangelo in ogni tempo e in ogni luogo.
33