MESSAGGIO IN BOTTIGLIA Sono le tre di un pomeriggio di
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MESSAGGIO IN BOTTIGLIA Sono le tre di un pomeriggio di
MESSAGGIO IN BOTTIGLIA Sono le tre di un pomeriggio di dicembre a Malindi. Il mare è una tavolozza di verdi chiaro e blu intensi. Soffia il Kazkasi da nord. Insiste. Mi tuffo nell’acqua tiepida prevedendo la piacevole sensazione. Sono sola, nessuno intorno, la pace della canicola. Una bottiglia galleggia oltre la barca ormeggiata e mi viene incontro, spinta dalla marea e dal vento che soffia increspando la superficie. La fantasia si accende sul messaggio che potrebbe contenere. Non era la bottiglia di quel Sauvignon Blanc del Sud Africa della sera prima, in quella cena inaspettata con un giornalista, che quand’ero bambina raccontava la storia in diretta tv da terre lontane. Quattro generazioni a confronto, io e il mio uomo, lui con una giovane nipote, sedevamo ad un piccolo tavolo con la tovaglia bianca che ci accarezzava i piedi, le candele ci accendevano i volti e le piccole aragoste. Luca aveva scelto quali sorsi aggiungere alla sua cena sotto le stelle, un modo per sentirsi appagato pescando nei suoi racconti da corrispondente. Era quel tipo di uomo che avrebbe potuto mettere un messaggio in bottiglia da un mare lontano, sapendo di poterlo ritrovare un giorno, magari nell’Oceano Indiano, che ha eletto oggi come suo punto preferito di osservazione dei fatti del mondo. Il bagliore del sole e il cullare dell’acqua mi riportano all’istante all’inizio della mia storia con Mario, a quella stessa luce di un pomeriggio di cinque anni prima, quando non sarei più tornata in ufficio la mattina successiva al mio rientro dal Kenya. Forse il messaggio l’aveva lasciato lui, perché sentiva che sarei tornata. Cerco le sensazioni di allora guardando le stesse palme, con nuovi frutti e foglie bruciate dal sole, i tetti in makuti del villaggio e le buganvillee fucsia. Non sapevo che vivesse lì a pochi metri dal mio bungalow, fino a quando mi era passato davanti al bar con un piatto di crepes al cioccolato. Che sentimenti avevo allora nel cuore, quali sospiri e aspettative dalla vita ancora carica di perché. Non avrei mai immaginato che oggi avrei vissuto con lui. All’improvviso la bottiglia mi tocca e mi sveglia dal mio torpore, penso che oggi non ho controllato il telefono italiano. Rientro a casa e nella penombra, lo accendo: eccolo, un messaggio ricevuto. Sintetico, freddo e tutto in maiuscolo, come scrive sempre Giovanni: E MORTA MAURA. Sento immediatamente la voce pacata della mia amica, come se fosse seduta lì anche lei sul pilipili, con la sua dolce cantilena genovese. L’sms è di ieri 13 dicembre, che fatalità, come la zia, trent’anni fa, di quel male che si porta via molte donne. Entrambe non avevano figli, ma un uomo accanto che le amava. E’ il tramonto e siamo seduti in silenzio al solito piccolo bar sul lungomare. Ho bisogno di parlare con l’oceano, per mettere in ordine i pensieri. Mario ordina qualcosa da mangiare. Davanti a noi la vita africana che ogni giorno si spegne con la luce. Arriva un piatto di riso pilau con dei gamberi, due piccole samosa fritte alla verdura e delle banane matoke cotte, nel loro sugo morbido e denso. Raramente bevo vino, però Mario mi asseconda e l’unica bottiglia che si abbina è come quella che c’era in mare. Due ragazze musulmane con il bui-bui nero, si alzano il velo per bere una coca cola. Il vento ci muove i capelli e a loro il velo nero, come piccole suore. Ho la netta sensazione che le anime passino tutte sull’oceano, come piccoli dawho veloci con le vele tese. Lì non ci sono barriere. Forse ci sono anche le anime di tutti i pescatori annegati nei secoli e arrivati al pilar di Vasco de Gama, sbattuti sugli scogli neri dalle onde. Forse ci sono anche le nostre anime, che non vivono dentro di noi, ma lì sul mare quando lo fissiamo. E loro guardano noi, sorridono di noi oppure ci pesano sul cuore.