csm ix commissione - Ordine degli Avvocati di Milano

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csm ix commissione - Ordine degli Avvocati di Milano
CSM IX COMMISSIONE
UFFICIO DEI REFERENTI PER LA FORMAZIONE DECENTRATA
DISTRETTI DI MILANO TORINO GENOVA VENEZIA TRIESTE
Incontro di studio interdistrettuale ed interdisciplinare
“Profili critici della proprietà intellettuale
ed effettività della tutela civile e penale”
Milano, 12 – 13 febbraio 2007
BOZZA
LA TUTELA PENALE NELLA GIURISPRUDENZA
DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE •
Marina Tavassi, Corte di Cassazione
1. Il contesto storico normativo
2. La tutela penale del marchio non registrato
3. La tutelabilità penale dei diritti di proprietà intellettuale
4. La definizione normativa degli “atti di pirateria”
5. Il concorso dei reati nella giurisprudenza della Corte di Cassazione
6. La tutela del “Made in Italy”
7. Il falso grossolano
8. La tutela penale del diritto d’autore ed il problema della successione delle
leggi
1. Il contesto storico normativo
Il Codice della Proprietà Industriale approvato con Decreto legislativo 10 febbraio 2005 n.30
(pubblicato sulla G.U. n. 52 del 4 marzo 2005 - supplemento ordinario) è entrato in vigore il
19 marzo 2005, con contestuale abrogazione dei numerosi testi legislativi che disciplinavano
la materia (35 leggi, quali elencate dall’art. 246 dello stesso Codice; fra le principali basti
citare la legge marchi, la legge brevetti per invenzioni industriali, la legge modelli industriali)
e con significative innovazioni anche di ordine processuale. Ancorché l’effettiva operatività
delle nuove norme sia avvenuta secondo le scansioni volute dall’art. 245 del Codice (le
norme processuali hanno iniziato ad essere applicate dal 19 settembre 2005), si può affermare
che dette norme abbiano ormai avuto un significativo banco di prova .
A distanza di quasi due anni dall’entrata in vigore del Codice e di un anno e qualche mese
dall’operatività del nuovo rito, se può apparire prematuro fare un bilancio, è tuttavia lecito
non solo riferire cosa è cambiato nel contesto normativo rispetto alla regolamentazione
previgente, ma anche verificare se le indicazioni della giurisprudenza sviluppatasi nel vigore
•
Un sentito ringraziamento va ai colleghi Nunzia Gatto e Cesare de Sapia, nonché alla FAPAV per il contributo
offertomi nella raccolta del materiale.
1
delle norme precedenti siano o meno valide in detto mutato scenario e se i profili critici
evidenziati nel titolo del nostro incontro abbiano trovato una soluzione o piuttosto un
aggravamento.
Tale operazione risulta particolarmente interessante per la normativa penale che si occupa
della materia della proprietà intellettuale e industriale, avendo presente la distinzione che
tuttora il nostro ordinamento mantiene fra proprietà intellettuale, intesa come diritto d’autore
e diritti connessi, e proprietà industriale).
Gli appunti critici al nuovo Codice non sono mancati, pur essendo stato concordemente
riconosciuto l’importante ed impegnativo lavoro svolto dai membri della Commissione
ministeriale attraverso una difficile opera di ricognizione e coordinamento delle diverse leggi
in materia di proprietà industriale 1 .
Dopo tale sia pur breve periodo di attuazione è possibile valutare le prime reazioni della
giurisprudenza e dare conto delle soluzioni adottate a fronte delle problematiche apertesi con
l’applicazione delle nuove norme.
In termini storici può ricordarsi che il Codice si inserisce in quel processo di modernizzazione
voluto dal Governo e dal Ministero delle Attività Produttive iniziato con la presentazione del
disegno di legge 28.11.2001 C/231 recante “Misure per favorire l’iniziativa privata e lo
sviluppo della concorrenza”, sfociato nella Legge 12 dicembre 2002, n. 273 (pubblicata in
G.U. 14 dicembre 2002, n. 293, suppl. ord. n. 230, entrata in vigore il 29 dicembre
successivo), che, con il capo II intitolato “Disposizioni in materia di proprietà industriale”, ha
rappresentato la legge delega “per il riassetto delle disposizioni” in detta materia (art. 15),
“per l’istituzione di sezioni dei tribunali specializzate in materia di proprietà industriale e
intellettuale” (art. 16), per la “operabilità del diritto d’autore sui disegni e modelli industriali”
(art.17) e per “l’intervento a sostegno del settore della proprietà industriale” (art.18).
Dopo aver dato attuazione alla prima delega, mediante l’istituzione delle “Sezioni
specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale” (istituite con il D.Lgs. 27
giugno 2003 n. 168) ed a distanza di circa due anni dall’operatività delle stesse, il legislatore
ha dato attuazione anche ad un’altra previsione della legge delega 12 dicembre 2002 n. 273,
emanando, con il D.Lgs. 10 febbraio 2005 n. 30, il Codice della Proprietà Industriale.
Merita di essere ricordato che le più significative indicazioni dettate dall’art. 15 della citata
legge delega contemplavano: “ripartizione della materia per settori omogenei e
coordinamento, formale e sostanziale, delle disposizioni vigenti per garantire coerenza
giuridica, logica e sistematica”, “adeguamento della normativa alla disciplina internazionale e
comunitaria intervenuta”, “revisione e armonizzazione della protezione del diritto d’autore sui
disegni e modelli con la tutela della proprietà industriale”, “adeguamento della disciplina alle
moderne tecnologie informatiche”, “riordino e potenziamento della struttura istituzionale
preposta alla gestione della normativa”, “introduzione di appositi strumenti di semplificazione
e riduzione degli adempimenti amministrativi”.
Tali indicazioni, già di per sé ambiziose, sono state recepite dal nuovo Codice ma hanno
anche rappresentato la base sulla quale fornire, approfittando dell’occasione (e d’altra parte la
legge delega aveva dato indicazioni “per il riassetto delle disposizioni in materia di proprietà
1
In questi termini, G. Sena, Il codice della proprietà industriale, in Riv. dir. ind., 2005, III, p. 5. Più in generale
sul CPI vedi Commentario M.Scuffi, M. Franzosi, A. Fittante, Il codice della proprietà industriale, Padova,
2005, p. 1005; Atti del Convegno Aippi di Milano, del 5 febbraio 2004, in Quaderni AIDA n. 11, a cura di L.C.
Ubertazzi, 2004; L.C.Ubertazzi, Commentario breve al diritto della concorrenza, Appendice di aggiornamento,
2005, Introduzione al codice, in particolare par. VI, p. 16 e ss.; D. Palma, Il nuovo C.p.i. e la sua attinenza ai
criteri di delega, in Il Dir. Ind., N. 5/2005, p.445; A. Vanzetti, I segni distintivi non registrati nel progetto di
Codice, in Riv. dir. ind., 2004, I, p. 99; G. Casaburi - S. Di Paola, Guida al codice della proprietà industriale, in
Il Foro it. , 2005, V, 69 ss., in particolare par. 4, col. 71; Il primo anno di attuazione del Codice della Proprietà
industriale e le modifiche dell’enforcement, in Corriere Giuridico 2006.
2
industriale”), appunto un “riassetto” 2 completo di tutta la materia della proprietà industriale,
nei suoi aspetti sostanziali e processuali, secondo le linee guida della semplificazione delle
norme e delle procedure amministrative e della creazione di una raccolta organica, in grado di
ricomprendere e nello stesso tempo “riscrivere”, tutte le disarticolate norme esistenti nella
legislazione speciale, posto che tali norme, oltre ad essere numerosissime sotto il profilo
quantitativo, apparivano disomogenee sotto quello qualitativo e spesso non del tutto in linea
con le convenzioni internazionali cui l’Italia ha aderito, in alcuni casi da lungo tempo.
Tale processo riorganizzativo, tuttavia, non ha toccato la tutela penale, ovvero, più
esattamente, il legislatore è intervenuto in detto settore, ma ha omesso di cogliere l’occasione
per offrire una soluzione ai problemi di coordinamento ed ai dubbi di sovrapposizione di
fattispecie criminali che hanno da sempre contrassegnato il settore della tutela penale. Gli
interventi si sono così limitati a riscrivere alcune norme delle leggi speciali, unificandole in
una previsione unitaria (l’art. 127 CPI, naturalmente sempre con l’esclusione della materia
disciplinata dalla legge sul diritto d’autore, rimasta separatamente regolamentata), senza
tuttavia darsi carico di risolvere il contrasto o il concorso della norma penale del Codice
rispetto alle fattispecie “vicine” del codice penale. Si pensi così all’occasione mancata di fare
finalmente chiarezza sul concorso fra l’ipotesi criminosa della legge speciale (rappresentata
ora dal CPI) e quelle del codice penale di cui agli artt. 473, 474, 517, 648 cod. pen..
Ed allora, non avendo - a torto o a ragione - il CPI preso posizione su tale problematica, è
giusto trarre dalla giurisprudenza maturatasi nel vigore delle precedenti disposizioni gli
elementi per chiarire i rapporti esistenti fra le nuove norme (all’art. 127 già citato devono
essere aggiunti gli artt. 144 e seguenti, riguardanti le misure contro la pirateria, ed in
particolare l’art. 146) e quelle del codice penale.
E’ lecito chiedersi se le indicazioni di tale giurisprudenza siano tuttora valide, abbiano
ricevuto conferma ovvero siano da rivedere perché non più conciliabili rispetto al tenore del
nuovo testo normativo. La risposta a tali alternative è nel senso che le linee tracciate dalla
giurisprudenza risultano preziose anche nell’attuale contesto ed anzi offrono una valida chiave
di lettura per i dubbi che tuttora i testi normativi possono presentare.
Si impongono due riflessioni di carattere generale per quanto riguarda la tutela del marchio
non registrato (marchio di fatto) e la definizione degli atti di pirateria.
2. La tutela penale del marchio non registrato
Va considerato che il CPI tende ad una piena equiparazione sul piano sanzionatorio fra marchi
registrati e marchi non registrati, essendo stata accordata ampia tutela al marchio di fatto,
tanto che chi intende registrare un marchio è tenuto a svolgere complesse indagini, dall’esito
comunque incerto, sull’effettivo utilizzo e sulla notorietà di segni anteriori non registrati.
E’ peraltro auspicabile che la protezione del segno di fatto consegua ad una severa verifica di
una certa sua notorietà, sia pure in ambito locale e, in questo caso, limitatamente a detto
ambito.
Ora le sanzioni penali e amministrative previste dal CPI non possono, a mio avviso,
prescindere dalla loro collocazione in tale contesto, cosicché potrebbero intendersi estese
anche al marchio di fatto che abbia tuttavia raggiunto una tale notorietà, tanto da poter
accertare l’elemento soggettivo della fattispecie in termini di consapevolezza della sua
violazione da parte di colui che tale marchio abbia contraffatto, usurpato o imitato.
Sembra tuttavia da rimeditare anche il limite della registrazione del marchio, la cui prova nel
processo penale appare a volte richiesta con eccessivo rigore, a fronte di marchi notoriamente
conosciuti fra il pubblico, a livello nazionale e internazionale, sicuramente famosi al punto
tale da potersi fregiare della definizione di “marchio celebre” o notoriamente conosciuto”
2
Il termine “riassetto” ha costituito oggetto di osservazioni già nel parere del Consiglio di Stato del 25 ottobre
2004, ai paragrafi 3.3 e 7. Il parere è pubblicato in Il Dir. Ind., n.1/2005, p. 119.
3
secondo la dizione adottata dall’art. 12, I c. lett b) CPI. Spesso la contraffazione di detti
marchi non viene sanzionata penalmente, pur essendo evidente che la loro violazione e
appropriazione è avvenuta proprio in dipendenza del fortissimo potere attrattivo che detti
marchi esercitano; e non viene sanzionata perché nel processo non è stata offerta la prova
della loro registrazione, forse proprio perché si è ritenuto simile prova superflua.
3. La tutelabilità penale dei diritti di proprietà industriale e intellettuale
La tutela penale, e nello specifico la norma dedicata alle sanzioni penali e amministrative (art.
127) 3 , risulta inserita nel Capo III del CPI, dedicato alla tutela giurisdizionale dei diritti di
proprietà industriale e più precisamente nella Sezione I dedicata alle disposizioni processuali.
Inquadramento evidentemente riduttivo rispetto alla portata della norma, anche se in coerente
successione rispetto alle norme dedicate alle sanzioni civili: art. 124 delle “Misure correttive e
sanzioni civili”, ulteriormente descritte nei successivi artt. 125, “risarcimento del danno e
restituzione dei profitti”, e 126, “pubblicazione della sentenza”. Il contesto delle norme
dedicate alla disciplina processualistica, nelle intenzioni del legislatore, risulta teso a
realizzare lo scopo di assicurare una tutela più celere ed efficace e nello stesso tempo di
semplificare ed unificare gli strumenti di tutela.
E’ noto che la tutela giudiziaria, in termini di norme processuali e di sanzioni di carattere
civile e penale, riveste un ruolo fondamentale nella disciplina della proprietà industriale. La
valorizzazione dell’enforcement è un dato acquisito sia a livello internazionale, con il già
ricordato Accordo TRIPs, sia a livello comunitario con la Direttiva 2004/48/CE, di recente
ratificata dall’Italia con il D.Lgs. n. 140/06, tesa proprio all’armonizzazione dei rimedi e delle
procedure per la tutela dei diritti di proprietà intellettuale.
In tale settore, cui è dedicato il Capo III del Codice, il lavoro di riunione e nello stesso tempo
di revisione (o “riassetto” per usare la terminologia scelta dalla legge delega) della normativa
previgente nel settore civile è stato più radicale, tanto da portare a forti innovazioni. Prima
significativa scelta è stata quella di ricondurre la materia nell’ambito della competenza delle
sezioni specializzate e di estendere alle controversie della proprietà industriale le forme del
rito societario di cui al D.Lgs. 17 gennaio 2003 n.5.
La competenza esclusiva delle sezioni specializzate ed il compendio normativo dato dal
nuovo Codice hanno inteso fornire gli strumenti per una più incisiva tutela del mercato
concorrenziale nella sua dimensione divenuta ormai globale, nell’intento di recuperare la
competitività del “sistema Italia”. Si può dire che l’intento sia validamente perseguito nella
misura in cui pone il nostro Paese all’avanguardia nella tutela dei diritti di proprietà
industriale e nella lotta alla contraffazione mediante l’attribuzione della materia ad un’autorità
giudiziaria specializzata (le dodici sezioni di Tribunale e di Corti d’appello istituite con il
D.Lgs. 27 giugno 2003, n. 168, in forza della delega di cui all’art. 16 della Legge 12 dicembre
2002, n. 273) e mediante l’adozione di un testo unico che comprende tutte le norme in
materia. Se poi ci si cala nell’esame delle singole norme, si può affermare che alcuni dei
rilievi critici da più parti sollevati e le incongruenze tecniche e terminologiche evidenziate dai
primi commentatori sono giustificate e necessiterebbero di una revisione, cosa che peraltro la
Commissione ha già provveduto a predisporre e che potrebbe portare in un prossimo futuro ad
una ulteriore novella del Codice, avendo presenti le significative modifiche già introdotte con
il D.Lgs. n. 140/06.
Quanto alla tutela giurisdizionale dei diritti di proprietà industriale, cui è dedicato il Capo III,
può dirsi che i primi tre articoli sono destinati rispettivamente a confermare l’autonomia dei
procedimenti di brevettazione e registrazione rispetto alle azioni giudiziarie circa la validità e
l’appartenenza dei diritti di proprietà industriale (art. 117); a disciplinare l’azione di rivendica
3
L’iter di elaborazione normativa ha visto alternarsi la soluzione di limitare la rubrica di detta norma al solo
richiamo delle sanzioni penali con quello, poi adottato, di “sanzioni penali e amministrative”.
4
dell’avente diritto (art.118), in sintonia con quanto già era previsto dagli artt. 27, 1° c. e 27 bis
l. inv., 25 l. ma.,, ma con la disposizione aggiuntiva della revoca e del trasferimento, a cura
dell’autorità di registrazione, del domain name concesso in violazione dell’altrui marchio; a
stabilire l’esclusione dell’accertamento della paternità da parte dell’U.I.B.M. (art. 119),
secondo quanto in precedenza previsto dagli artt. 27, comma 2°, e 39 l. inv., a sua volta
ispirato alla Convenzione sul Brevetto Europeo (artt. 81 e 91 n. 5, e regg. 18/19).
Alla disciplina della giurisdizione e della competenza è dedicato l’art. 120 che al 4° comma
stabilisce la competenza dei “tribunali espressamente indicati …dal decreto legislativo 27
giugno 2003, n. 168”. E’ evidente che l’utilizzo dell’espressione “tribunali” è impropria,
perché è innegabile che si sia inteso fare riferimento alle sezioni specializzate di tribunali e
corti d’appello, istituite con il D.Lgs. citato, secondo quanto è poi ribadito, con disposizione
ripetitiva e non ben coordinata, dal terzo comma dell’art. 134 dello stesso codice. Può subito
rilevarsi che tale ultima disposizione, oltre a fare riferimento alle sezioni specializzate (questa
volta richiamando l’art. 16 della legge delega), precisa la competenza di dette sezioni –
rispetto alla generica indicazione dell’art. 120 (“la competenza in materia di diritti di proprietà
industriale appartiene ai tribunali…”) – richiamando tutte le materia di cui al comma primo
del medesimo art. 134 (sul quale si tornerà in seguito), comprese quelle di cui agli artt. 64 e
65 (invenzioni dei dipendenti e dei ricercatori), 98 e 99 (informazioni segrete), e in materia di
indennità di espropriazione di diritti di proprietà industriale di cui conosce il giudice
ordinario. La competenza delle Sezioni Specializzate ha naturalmente ricadute sulla
competenza territoriale, avendo le Sezioni accorpato la competenza territoriale di più sedi di
tribunali e corti d’appello, secondo la collocazione geografica voluta dal legislatore della
legge delega.
Non si è attuata espressamente la scelta di istituire sezioni specializzate presso le Procure dei
Tribunali e delle Corti d’appello (ipotesi che pure era stata presa in considerazione nel corso
dei progetti di redazione del Codice 4 ), né di ricondurre alla competenza delle Sezioni
Specializzate anche la tutela penale, neppure limitatamente alle sanzioni di cui all’art. 127 (o
agli eventuali giudizi di opposizione). La lettura dell’art. 134 ed i richiami in esso contenuti
alle forme del codice di procedura civile e del D. Lgs. n. 5 del 2003, non lasciano spazio
neppure ad un’interpretazione estensiva che consenta tale competenza ampliata al settore
penale. L’elencazione contenuta nel terzo comma dell’art. 134 conferma poi l’impossibilità di
superare i limiti puramente civilistici delineati dalla norma, anche se una piccola apertura è
lecito cogliere nell’art. 146 “Interventi contro la pirateria” ove, occupandosi del sequestro
amministrativo della merce contraffatta su iniziativa del Ministero della Attività Produttive
(per il tramite di prefetti e sindaci) e della conseguente distruzione della merce contraffatta
sequestrata (comma II), è prevista la competenza per la necessaria autorizzazione del
presidente della sezione specializzata nel cui territorio è stato compiuto l’atto di pirateria
(comma III).
Appare tuttavia possibile de iure condendo prospettare l’opportunità di meditare sulla
soluzione che riconduca ad un unico organo giudiziario (in sintonia con le molteplici
competenze unificate attribuite alla figura dell’Alto Commissario per la lotta alla
contraffazione) le competenze in materia di tutela dei diritti di proprietà industriale e
intellettuale, siano esse di natura civile o penale, disponendo inoltre l’istituzione di pools
specializzati presso le Procure, posto che nella pratica si deve registrare che, anche in quei
pochi distretti in cui in passato erano stati istituiti gruppi specializzati di lavoro nell’ambito
delle Procure, ragioni organizzative hanno voluto che detti gruppi venissero aboliti.
4
In una delle elaborazioni del progetto del CPI all'art. 120, 4° comma ultima parte, era prevista l'istituzione di
Sezioni Specializzate del PM presso le Procure della Repubblica degli Uffici Giudiziari sede delle Sezioni
Specializzate.
5
Esaminando il contenuto dell’art. 127 CPI 5 può rilevarsi che lo stesso si articola in tre commi
(cui di recente è stato aggiunto il comma 1 bis di cui si dirà in seguito).
Il primo comma prevede una sanzione penale, mentre il secondo ed il terzo comma prevedono
sanzioni amministrative.
Il primo comma dispone innanzitutto la salvezza dell'applicazione degli artt. 473, 474 e 517
cod. pen. e sanziona la contraffazione di un titolo di proprietà industriale valido ai sensi delle
norme del Codice della Proprietà Industriale, prevedendo la multa, rimasta invariata fino ad €.
1.032,91. Riprende in sostanza la previsione di cui all'art. 88 Legge inv. sia con riferimento
alla descrizione delle condotte perseguite (ove alla espressione "spaccio" è stato sostituito il
termine "vendita"), sia con riferimento alla perseguibilità a querela di parte
dell'incriminazione.
Si differenzia tuttavia da tale norma nella salvezza prevista in esordio ("fatta salva
l'applicazione degli articoli….) laddove l'art. 88 L.inv. prevedeva "senza commettere falsità in
segni di autenticazione, certificazione e riconoscimento".
Nella bozza del Codice del dicembre 2003 la fattispecie era limitata alla "violazione di un
brevetto per invenzione industriale valido ai sensi delle norme del presente Codice",
escludendo quindi marchi, modelli, disegni, nuove varietà vegetali 6 ; nel testo definitivo è
stata scelta la soluzione di comprendere genericamente tutti i "titoli di proprietà industriale".
Una proposta di modifica al primo comma 7 suggeriva di aggiungere fra i comportamenti
sanzionati, oltre alla fabbricazione, vendita, esposizione, utilizzo industriale, introduzione
nello Stato (così l’attuale primo comma dell’art. 127) anche le ipotesi di detenzione per la
vendita e di importazione o esportazione, in tal modo completando il quadro di tutte le
possibili condotte.
Il secondo comma dello stesso art. 127 riprende la lettera dell’art. 67, comma I, legge marchi
e dell’art. 89 legge invenzioni, punendo con la sanzione amministrativa pecuniaria l'uso
illegittimo del titolo di proprietà industriale, il c.d. "mendacio sulla registrazione o
brevettazione", avendo confermato anche l’ammontare pecuniario della sanzione,
semplicemente convertito in euro (da €, 51,65 ad €. 516,46), senza accogliere le istanze di
quanti sollecitavano un aumento fino ad €. 20.000 8 .
Infine il terzo comma, facendo salva l'ipotesi in cui il fatto costituisca reato, colpisce con la
sanzione amministrativa fino ad €. 2.065,83, anche ove non vi sia danno al terzo, l'uso di un
marchio dichiarato nullo per illiceità o la soppressione del marchio del produttore o del
commerciante da cui le merci provengano. La prima previsione riproduce l'artt. 10 L. ma., ora
5
L’art. 127 recita: “Sanzioni penali e amministrative. 1. Salva l’applicazione degli articoli 473, 474 e 517 del
codice penale, chiunque fabbrica, vende, espone, adopera industrialmente, introduce nello Stato oggetti in
violazione di un titolo di proprietà industriale valido ai sensi delle norme del presente codice, è punito, a querela
di parte, con la multa fino a 1.032,91 euro.
1 bis. Chiunque si rifiuti senza giustificato motivo di rispondere alle domande del giudice ai sensi dell’articolo
121-bis ovvero fornisce allo stesso false informazioni è punito con le pene previste dall’articolo 372 del codice
penale, ridotte della metà. (comma inserito dall’art. 18 del D. lgs. 16 marzo 2006, n. 140; l’art. 372 cod. pen.
punisce la “falsa testimonianza” con la reclusione da due a sei anni)
2. Chiunque appone, su un oggetto, parole o indicazioni non corrispondenti al vero, tendenti a far credere che
l’oggetto sia protetto da brevetto, disegno o modello oppure topografia o a far credere che il marchio che lo
contraddistingue sia stato registrato, è punito con la sanzione amministrativa da 51,65 euro a 516,46 euro.
3. Salvo che il fatto costituisca reato, è punito con la sanzione amministrativa fino a 2.065,83 euro, anche quando
non vi sia danno al terzo, chiunque faccia uso di un marchio registrato, dopo che la relativa registrazione è stata
dichiarata nulla, quando la causa di nullità comporta la illiceità dell’uso del marchio, oppure sopprima il marchio
del produttore o del commerciante da cui abbia ricevuto i prodotti o le merci a fini commerciali”.
6
Per un commento critico sul punto vedi RONCAGLIA, Le sanzioni penali e amministrative nel codice della
proprietà industriale, in Quaderni di AIDA, Milano, 2004, pp. 74 e segg..
7
Sempre ad opera della Commissione di cui alla nota precedente.
8
Così il decreto correttivo al CPI proposto dalla medesima Commissione che ha elaborato il Codice.
6
recepita nell'art. 21, 2° c., CPI, mentre la seconda riprende l'art. 12 L. ma., ora art. 21, 3° c.,
CPI.
Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha avuto modo di occuparsi per la prima (e
allo stato unica) volta dell'art. 127 CPI.
La V Sezione, con la sentenza n. 19512 del 26/4/2006 9 , imputato Zhu, occupandosi appunto
del reato di cui al primo comma dell'art. 127 D.Lgs. n. 30 del 2005 e di un caso in cui era
ravvisabile la somiglianza del prodotto contraffatto rispetto al prodotto originale, idonea a
generare confusione, ha ritenuto che in tema di sequestro preventivo, il reato in parola, pur
costituendo un'ipotesi sussidiaria rispetto a quelle previste dagli artt. 473, 474 e 517 cod. pen.,
tuteli esclusivamente il patrimonio privato, con la conseguenza che il relativo accertamento
sia legato a parametri diversi da quelli richiesti dalle citate norme codicistiche, le quali
assorbono lo specifico interesse patrimoniale in altro collettivo di maggior rilievo (fede
pubblica e mercato). Secondo la V sezione, da tale natura della norma consegue che, non
trattandosi di un'ipotesi minore di imitazione del marchio, ai fini della sua configurabilità, non
rileva la mera somiglianza del prodotto contraffatto con quello originale, idonea a generare
confusione, ma è necessario ravvisare un carattere del prodotto industriale, relativo a progetto
o a struttura, componenti, assemblaggio, confezione od altro che, al di là del marchio, ne
renda esclusiva la fabbricazione ed il commercio. Si trattava in concreto di una fattispecie
relativa al sequestro di articoli di pelletteria importati dall'estero motivato dalla loro
somiglianza con i prodotti originali recanti il marchio "Louis Vuitton", idonea a generare
confusione.
Vale la pena di riportare il testo della breve motivazione resa dal provvedimento, che così
recita:.
"Va premesso che il D.Lgs. n. 30 del 2005, art. 127, comma 1 prevede, a tutela della proprietà
industriale, reati punibili a querela di parte, fuori di quelli di falso di cui agli artt. 473 e 474
c.p., o di vendita di prodotti industriali con segni mendaci ai sensi dell'art. 517 c.p..
Si tratta perciò di ipotesi sussidiarie espressamente limitate alla tutela del patrimonio privato,
il cui accertamento è legato a parametri diversi, se si vuole residui rispetto ai parametri
richiesti dalle norme incriminatici del Codice, le quali assorbono lo specifico interesse
patrimoniale in altro collettivo di maggior rilievo (fede pubblica e mercato).
La norma difatti tutela il prodotto industriale solo e proprio in quanto coperto da titolo di
proprietà (per es. un brevetto) relativo a progetto, struttura, componenti, assemblaggio,
confezione o altro che, al di là del marchio, ne renda esclusiva la fabbricazione ed il
commercio. E non configura una ipotesi minore di imitazione del marchio, o di confondibilità
degli acquirenti circa l'origine o la qualità di una merce (artt. 473 o 517 c.p.), per quanto tali
aspetti possano essere sintomi di lesione di un diritto altrui di proprietà industriale.
Fatta questa premessa di diritto sostanziale, va affermato che non compete al Tribunale di
riesame del sequestro, non solo probatorio (cfr. Cass., Sez. 5^, n. 7228/01 e 29909/02), ma
anche preventivo, la verifica di procedibilità riservata al Giudice del merito. Ma è evidente
che il tenore della querela offre elementi di fatto per l'identificazione di un diritto industriale
violato, per nulla semplice da ravvisare, se si è a fronte di un prodotto di consumo ordinario.
Ed è questo, in effetti, il senso della doglianza sotto tale profilo.
Nella specie il Tribunale, fa propria la giustificazione resa dal GIP circa l'apparente
somiglianza dei prodotti. E mantiene il sequestro per il pericolo che le cose restituite
potrebbero essere messe in vendita, ritenendo la merce confiscabile ai sensi dell'art. 240 c.p.,
comma 2, ex art. 324 c.p.p., comma 7. Sennonché la sostenuta somiglianza del prodotto con
altri, non consente di ritenerne un vizio intrinseco, al punto di renderla sottratta al commercio.
Pertanto risulta necessario nuovo esame, che abbia per fermi i seguenti punti di principio: a)
9
Sent. depositata il 7/06/2006, rv. 234405, imputato: Zhu; ha annullato in parte con rinvio, Trib.lib. Genova, 2
febbraio 2006.
7
va innanzitutto verificato se, al momento del sequestro, la merce era posta in vendita; b) in
ipotesi di cui agli artt. 473, 474 e 517 c.p., non compete al Giudice di riesame, bensì a quello
di merito stabilire il livello della capacità imitativa di un marchio, e cioè se si sia in presenza
di un falso punibile o grossolano, o comunque sussista pericolo di confusione per l'acquirente;
c) ai fini di cui al D.Lgs. n. 30 del 2005, art. 127, la mera somiglianza dei prodotti è un indice
insufficiente se non incongruo; mentre è necessario che si ravvisi un carattere del prodotto
relativo a progetto o a struttura, componenti, assemblaggio, confezione o altro, che ne renda
esclusiva la fabbricazione ed il commercio".
Senza voler prendere qui posizione su alcuni limiti all'art. 127 indicati dal provvedimento
sopra riportato, più che dal testo della norma del CPI, sembra opportuno esaminare il
contenuto delle altre disposizioni del CPI sopra richiamate riguardanti le misure contro gli atti
di pirateria.
4. La definizione normativa degli “atti di pirateria”
Nella legge 16 agosto 2000 n. 248, la c.d. legge antipirateria che ha innovato la legge sul
diritto d’autore, apportandovi innovazioni significative, non è stata data una definizione degli
atti di pirateria. Tale definizione risulta invece espressa nell’art. 144 del CPI, che indica per
tali “le contraffazioni e le usurpazioni di altrui diritti di proprietà industriale, realizzate
dolosamente in modo sistematico”.
Si può notare innanzitutto come tale definizione si riferisca espressamente ai diritti di
proprietà industriale e non a quelli di proprietà intellettuale (e non poteva essere
diversamente stante i limiti del Codice che, come si è detto, non si occupa del diritto
d’autore). Inoltre l’art. 144 esordisce con lo stabilire un limite alla rilevanza della definizione
data, mediante l’espressione “agli effetti delle norme contenute nella presente sezione”. Si
deve quindi ritenere che il sequestro conservativo, il blocco dei conti bancari e dei beni,
l’ordine di esibizione della documentazione inerente (art. 144 bis CPI, inserito con il D. Lgs.
16 marzo 2006 n. 140) ed i poteri concessi al Ministero delle attività produttive, ai Prefetti ed
ai Sindaci (art. 146 CPI) possano essere invocati solo a fronte di atti di pirateria come definiti
dall’art. 144.
E’ necessario quindi provare il dolo, mentre tale elemento non è richiesto per le sanzioni
civilistiche previste dal medesimo CPI (vedi artt. 124 e segg.) e per la disciplina della
concorrenza sleale dettata dagli artt. 2598 e segg. cod. civ. (vedi in particolare l’art. 2600).
Non basta poi la prova della contraffazione o della usurpazione, ma occorre anche dimostrare
che dette violazioni siano realizzate “in modo sistematico”. Si deve supporre quindi che sia
necessario dimostrare una certa organizzazione o quantomeno una certa continuità (anzi una
forte continuità) posto che il richiamo alla sistematicità fa supporre una ripetizione costante e
serrata. Viene in mente qualcosa di simile all’imitazione servile di cui all’art. 2598 n. 1,
seconda ipotesi, cod. civ..
Il limite è stato considerato eccessivo, tanto che in sede di proposte correttive del Codice PI si
era formulata l’ipotesi di abolire tout court l’inciso “realizzate in modo sistematico”. Tale
proposta tuttavia per il momento non è stata recepita dal D. Lgs. n. 140/06, che pure ha
accolto molte indicazioni del decreto correttivo elaborato dalla Commissione.
5. Il concorso dei reati nella giurisprudenza della Corte di Cassazione
Va considerato che il quadro normativo del settore penale si completa con le seguenti norme:
- l’art. 473 c.p., che recita: “Contraffazione, alterazione o uso di segni distintivi di opere
dell’ingegno o di prodotti industriali. - Chiunque contraffà o altera i marchi o segni distintivi,
nazionali o esteri, delle opere dell’ingegno o dei prodotti industriali, ovvero, senza essere
concorso nella contraffazione o alterazione, fa uso di tali marchi o segni contraffatti o alterati,
è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 2.065.
8
Alla stessa pena soggiace chi contraffà o altera brevetti, disegni o modelli industriali,
nazionali o esteri, ovvero, senza essere incorso nella contraffazione o alterazione, fa uso di tali
brevetti, disegni o modelli contraffatti o alterati.
Le disposizioni precedenti si applicano sempre che siano state osservate le norme delle leggi
interne o delle convenzioni internazionali sulla tutela della proprietà intellettuale o
industriale”.
- l’art. 474 c.p., che recita: “Introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi.
- Chiunque, fuori dei casi di concorso nei delitti preveduti dall’articolo precedente, introduce
nel territorio dello Stato per farne commercio, detiene per vendere, o pone in vendita, o mette
altrimenti in circolazione opere dell’ingegno o prodotti industriali, con marchi o segni
distintivi, nazionali o esteri, contraffatti o alterati, è punito con la reclusione fino a due anni e
con la multa fino a euro 2.065.
Si applica la disposizione dell’ultimo capoverso dell’articolo precedente”.
- l’art. 517 c.p. , che recita: “Vendita di prodotti industriali con segni mendaci. - Chiunque
pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell’ingegno, o prodotti industriali,
con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri, atti a indurre in inganno il compratore
sull’origine, provenienza o qualità dell’opera o del prodotto, è punito, se il fatto non è
preveduto come reato da altre disposizioni di legge, con la reclusione fino a un anno e con la
multa fino a ventimila euro” (tale sanzione è stata aumentata dai precedenti €. 1.032 ad €.
20.000 dall’art. 1 c. 10 del D.L. n. 35 del 2005, conv. in L. n. 80 del 2005).
Esiste poi una disciplina specifica per i prodotti a denominazione di origine controllata 10 ,
concepita come circostanza aggravante rispetto all’ipotesi di cui al citato art. 517 (nonché agli
artt. 515 e 516), rappresentata dall’art. 517 bis, che dispone: “Le pene stabilite dagli articoli
515, 516 e 517 sono aumentate se i fatti da essi previsti hanno ad oggetto alimenti o bevande
la cui denominazione d’origine o le cui caratteristiche sono protette dalle norme vigenti”. In
tal caso il secondo comma dello stesso articolo prevede che il giudice, con il provvedimento
di condanna, possa disporre, se il fatto è di particolare gravità o in caso di recidiva specifica,
la chiusura dello stabilimento o dell’esercizio in cui il fatto è commesso da un minimo di
cinque giorni ad un massimo di tre mesi, ovvero la revoca della licenza, dell’autorizzazione o
dell’analogo provvedimento amministrativo che consenta lo svolgimento dell’attività
commerciale in detto stabilimento o esercizio.
Può subito rilevarsi la diversa collocazione sistematica delle norme citate nell’ambito del
codice penale, dove gli artt. 473 e 474 risultano collocati nel Capo II, intitolato “Della falsità
in sigilli o strumenti o segni di autenticazione, certificazione o riconoscimento”, del Titolo
VII “”Dei delitti contro la fede pubblica”, mentre gli artt. 517 e 517 bis fanno parte del Titolo
VIII “Dei delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio” ed in particolare nel
capo II “Dei delitti contro l’industria e il commercio”. Tale differente collocazione, come si
vedrà meglio in seguito, non è priva di significato, rappresentando uno dei criteri di
riferimento per il coordinamento fra le diverse norme.
Rimane poi da considerare che nel Titolo XIII (“Dei delitti contro il patrimonio”), e più
precisamente fra i “delitti contro il patrimonio mediante frode” (Capo II), è collocata un’altra
importante norma che va a rafforzare gli strumenti di repressione del fenomeno della
contraffazione: l’art. 648 relativo al delitto di ricettazione.
Tale norma, pur essendo collocata tra i delitti contro il patrimonio, richiama comunque il
concetto di lesione alla fede pubblica, mediante il concetto di “frode” inserito nel titolo del
Capo II, cui appunto l’art. 648 appartiene. Come è noto, tale norma punisce con la reclusione
da due a otto anni e con la multa da euro 516 a euro 10.329 chi, senza essere concorso nel
reato presupposto, “al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta
denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farli
10
Inserita dal D.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507.
9
acquistare, ricevere od occultare”. La pena è della reclusione sino a sei anni e della multa sino
a euro 516 “se il fatto è di particolare tenuità”.
Interessante rilevare che tale norma può ancora rappresentare un importante strumento di
azione nella lotta alla contraffazione proprio perché l’art. 127 CPI prevede la perseguibilità a
querela per la sanzione pecuniaria disposta, laddove il terzo comma dell’art. 648 consente di
fare ricorso alle disposizioni del medesimo articolo, sopra richiamate (primo e secondo
comma), anche quando manchi una condizione di procedibilità riferita al delitto da cui il
denaro o le cose oggetto della ricettazione provengano.
In relazione ai rapporti fra l’art. 648 e gli artt. 473 e 474 cod. pen., si deve ricordare che in
passato parte della dottrina e della giurisprudenza avevano escluso che tale figura di reato –
che risulta afferente alla sfera patrimoniale e ad ambito non direttamente gravitante attorno ai
segni distintivi ed ai diritti di proprietà intellettuale - potesse in qualche modo essere utilizzata
a maggior tutela degli stessi. Nel giugno 2001, tuttavia, le Sezioni Unite Penali della Suprema
Corte, con la pronuncia n. 23427 (sent. 9.5/7.6.01, PM, proc. imp. Ndiaye Papa, CED rv.
218870 e 218071, pubblicata in Giur. ann. dir. ind., 2001, n. 4208 e in Riv. Pen, 2002, I, pp.
57 e 139), hanno riconosciuto che, in caso di beni recanti segni o marchi contraffatti, il reato
di ricettazione può concorrere con quello di commercio dei medesimi di cui all’art. 474 c.p.,
fugando così ogni dubbio in merito alla concreta operatività anche di questa figura di reato nel
settore della proprietà industriale11 .
La citata sentenza ha dettato due importanti principi, così formulati:
a) Il delitto di ricettazione è configurabile anche nell'ipotesi di acquisto o ricezione, al fine di
profitto, di cose con segni contraffatti nella consapevolezza dell'avvenuta contraffazione,
atteso che la cosa nella quale il falso segno è impresso - e che con questo viene a costituire
un'unica entità - è provento della condotta delittuosa di falsificazione prevista e punita dall'art.
473 cod. pen..
b) Il delitto di ricettazione (art. 648 cod. pen.) e quello di commercio di prodotti con segni
falsi (art. 474 cod. pen.) possono concorrere, atteso che le fattispecie incriminatrici descrivono
condotte diverse sotto il profilo strutturale e cronologico, tra le quali non può configurarsi un
rapporto di specialità, e che non risulta dal sistema una diversa volontà espressa o implicita
del legislatore.
La sentenza in esame è intervenuta a risolvere il contrasto di giurisprudenza che si era
delineato fra le pronunce delle diverse sezioni della Corte Suprema ed indirettamente fra le
contrastanti opinioni espresse dai giudici di merito.
Alcuni precedenti, infatti, avevano ritenuto di poter affermare il concorso fra il reato di
ricettazione e quello di commercio di prodotti con segni falsi, nell’assunto dell'inapplicabilità
del principio di specialità di cui all'art. 15 c.p., in considerazione della eterogeneità sia
dell'elemento materiale che di quello psicologico delineati dalle menzionate disposizioni (art.
648 e art. 474 cod. pen.) nonché della diversità del bene tutelato da dette norme.
In tal senso si erano espresse le sentenze: Cass. 30.6.88 n. 7505, rv. 178739; Cass. 13.12.88 n.
12249, rv. 179899; Cass. 15.2.89 n. 2307, rv. 180501; Cass. 26-5-89 n. 7692, rv. 181408;
Cass. 12.10.89 n. 13498, rv. 182239; Cass. 31.5.90 n. 7613, rv. 184490; ed altre ancora fino
alle più recenti sent. 27.7.96 n. 3154, rv. 205594; Cass. 6.3.97 n. 2098, rv. 206998; Cass.
17.12.99 n. 14277, rv. 215801). In particolare tali pronunce avevano osservato:
- l'elencazione di cui all’art. 474 c.p. non considera i comportamenti attraverso i quali si
realizza la ricettazione;
11
Per un’analisi approfondita di questa pronuncia si rinvia a RONCAGLIA, La tutela penale del marchio: nuovi
sviluppi alla luce delle più recenti pronunce di legittimità e di merito, in AA. VV., Studi di diritto industriale in
onore di Adriano Vanzetti, Milano, 2004, pp. 1299 e ss.; dello stesso autore, Le sanzioni penali e amministrative
nel codice della proprietà industriale, in Quaderni di AIDA, Milano, 2004, già citato, e Capacità distintiva e
confondibilità ai fini della tutela penale.
10
- la commercializzazione delle opere ovvero dei prodotti con marchi o segni contraffatti non
esige nel momento della ricezione la consapevolezza della falsità, elemento invece costitutivo
per il reato di ricettazione;
- la ricettazione riguarda una condotta che offende il patrimonio mentre l’introduzione nello
Stato ed il commercio di prodotti con segni falsi tutela la pubblica fede commerciale.
La contraria opinione era rappresentata da alcune sentenze (le seguenti: Cass. 27.4.98 n. 1315,
rv. 210602; Cass. 14.1.2000 n. 5525, rv. 215569; Cass. 16.12.99 n. 5526, rv.. 216377) che
avevano invece ritenuto che tra gli artt. 474 e 648 c.p. sussistesse un rapporto di specialità e
che la norma in tema di segni contraffatti fosse quella che meglio qualificava il fatto, anche se
presidiata da pena minore. Gli argomenti utilizzati a sostegno erano stati i seguenti:
- l'art. 474 c.p. è diretto a tutelare non solo la pubblica fede, ma altresì il patrimonio e
precisamente il monopolio sull'opera o sul marchio: di conseguenza il delitto ivi sanzionato
non può concorrere con la ricettazione, offendendo questa un bene (il patrimonio) che è già
garantito.
- le attività di acquisto o di ricezione sono presupposto necessario della detenzione per la
vendita e pertanto esse assumono rilevanza penale solo in tale occasione, altrimenti realizzano
un antefatto non punibile.
Ma un altro rilievo porterebbe ad escludere la configurabilità concorrente della ricettazione,
ovvero la considerazione che quest’ultima non sarebbe configurabile in relazione ad opere
abusive o con marchi contraffatti perché mancherebbe il requisito essenziale di questa figura
criminosa, ossia la circostanza che la cosa (ricevuta o acquistata) provenga da delitto, posto
che detti beni rappresenterebbero "prodotto" e non "provento" del reato. Parimenti veniva
considerato che l'acquisto di beni recanti segni falsi non potesse rientrare nella previsione
dell'art. 648 c.p. non pregiudicando gli interessi alla correttezza del mercato né quelli del
titolare dei segni stessi.
In senso contrario, anche su questo specifico punto, si è invece espresso l'opposto indirizzo
giurisprudenziale, sottolineando che la frase "cose provenienti da qualsiasi delitto" va riferita
all'apprensione di ogni tipo di bene derivante da attività delittuosa e che le cose con segni
contraffatti sono provenienti da delitto, atteso che il contrassegno si immedesima nel prodotto
per cui, una volta impresso, diviene impossibile una distinzione concettuale tra prodotto e
segno (in questi termini, da alcune risalenti pronunce, Cass. 18.2.88 n.2060, rv. 177638; Cass.
30.6.88 n. 7505, rv. 178739; Cass. 13.12.88 n. 12249, rv. 179899; fino alla più recente Cass.
28.10.2000 n. 11083, rv. 217381).
Un importante passo della sentenza Ndiaye si può cogliere nell’osservazione che il
legislatore, nel sanzionare ex art. 648 c.p. l'acquisto o la ricezione di cose "provenienti da
qualsiasi delitto" ovvero l'intromissione in simili attività, ha inteso colpire ogni acquisizione
patrimoniale consapevolmente ottenuta o procurata in virtù di beni aventi origine delittuosa;
in codesta visione e considerato altresì il fine di profitto nel quale si concreta il richiesto dolo
specifico ("fine di procurare a se o ad altri un profitto"), trova spiegazione l'inserimento della
figura tra i reati contro il patrimonio, dovendosi al contempo riconoscere che la condotta
tipica è idonea a rafforzare l'offesa arrecata con il fatto criminoso presupposto. Quest'ultimo,
peraltro, può essere di qualsiasi natura e non necessariamente contro il patrimonio: il che è
confermato dal termine "qualsiasi" e corrisponde alla ratio dell'incriminazione, come sopra
definita 12 .
12
La giurisprudenza di legittimità si è ripetutamente pronunciata in tal senso, ravvisando ad esempio la
ricettazione con riguardo ad una pistola con matricola abrasa, ad opere cinematografiche e musicassette
abusivamente riprodotte, ad assegni turistici falsi, a sigilli contraffatti, a moduli falsificati di identità (Cass. 3011-83 n. 10251; Cass. 6-5-93 n. 4625, rv. 194158; Cass. 12-1-94 n. 148, rv. 197027; Cass. 29-12-95 n. 12788, rv.
203148; Cass. 16-4-97 n. 3527 rv. 207227; Cass. 15-5-97 n. 2667, rv. 207833).
11
Continua ancora la sentenza Ndiaye osservando che, con riferimento all’espressione “cose
provenienti da reato” di cui all’art. 648 cod. pen., non vi sono ragioni per ritenere che la stessa
si debba intendere limitata al “profitto” e non al “prodotto” del reato. Al contrario - osservano
ancora le Sezioni Unite - è indubbio che l'apposizione di un segno contraffatto su un bene
(fattispecie delittuosa ai sensi dell'art. 473 c.p.) funga da fonte rispetto alla cosa così
realizzata, nella quale il segno si fonde: ne deriva che acquisizione del tutto, con la
consapevolezza della sua contraffazione, integra una condotta rilevante ai sensi della suddetta
previsione. La tesi contraria è priva di aderenza al dato normativo, testualmente e
razionalmente inteso; in particolare non può sostenersi che attraverso l'acquisto della cosa
avente il segno contraffatto non si arrechi offesa al diritto del titolare dell'esclusiva ed alla
correttezza del mercato. Così ragionando si confonde l'oggettività giuridica del reato di
ricettazione con quella del delitto presupposto di cui all'art. 473 c.p., mentre in realtà è
innegabile che un acquisto del genere realizzi l'offesa tipica del primo. E’ sufficiente rilevare
che gli acquirenti o più in generale i destinatari ricevono la cosa con un attributo di cui la
stessa non ha diritto di avvalersi, attributo che per di più viene valutato dal mercato in termini
positivi e la cui attribuzione impropria rappresenta un’ingerenza indebita nell'altrui creazione
e diritto di esclusiva. Riconosciuto dunque che l'apprensione di entità con segni o marchi
falsificati è in astratto riconducibile alla ricettazione, può passarsi all'esame dell'ulteriore
questione. Sussiste concorso fittizio di nome qualora una pluralità di disposizioni sia
apparentemente applicabile nei confronti di un determinata condotta, mentre in effetti una sola
di esse può operare perchè altrimenti verrebbe addebitato più volte un accadimento
unitariamente valutato dal punto di vista normativo, in contrasto col principio del ne bis in
idem sostanziale, posto a fondamento degli artt. 15, 68, 84 cod. pen..
Osserva ancora la Corte che una tale convergenza ricorre in primo luogo quando, ai sensi
dell'art. 15 c.p., due norme regolino "la stessa materia", ossia qualifichino una identico
contesto fattuale, nel senso che una di esse comprenda in sé gli elementi dell'altra, oltre ad
uno o più dati specializzanti: in questo caso dovrà prevalere, salvo che sia altrimenti stabilito,
la previsione speciale, ossia quella che descrive la situazione con maggiori particolari. Posto
che il citato criterio presuppone una relazione logico-strutturale tra norme, ne deriva che la
locuzione "stessa materia" va intesa come fattispecie astratta - ossia come settore, aspetto
dell'attività umana che la legge interviene a disciplinare - e non quale episodio in concreto
verificatosi sussumibile in più norme, indipendentemente da un astratto rapporto di genere a
specie tra queste. In base a quanto sopra è da escludersi che gli artt. 648, 474 c.p.
attribuiscano rilevanza penale alla stessa materia.
Ritiene poi la Corte che il richiamo alla natura del bene protetto - effettuato, con divergente
valutazione, sia dalle sentenze che affermano una situazione di specialità sia da quelle che la
negano - non pare decisivo. Riconosce la Corte che vari precedenti delle stesse Sezioni Unite,
ai fini della nozione che qui interessa, si sono riportati a detto dato, ma rileva che, in ogni
caso, esso non è stato preso in considerazione quale unico fattore, ma unitamente agli aspetti
comportamentali, oggettivi e soggettivi, della fattispecie (Cass. S.U. 30.4.76 n.10 imp.
Canidu, rv. 13365; Cass. S.U. 7.7.81 n. 6713 imp. Santamaria rv. 149667; Cass. S.U. 19-1-82
n. 420, imp. Emiliani, rv. 151618; Cass. S.U. 8-1-98 n. 119 imp. Deutsch, rv. 20912). Ricorda
tuttavia che più di recente le stesse Sezioni Unite hanno chiaramente sottolineato, in tema di
individuazione di continuità normativa o meno tra reati, la necessità di accertare ed
identificare, secondo le regole proprie del concorso apparente di norme, gli elementi
strutturali delle ipotesi tipiche, con riguardo alla natura ed alla modalità dei comportamenti
nonché ai caratteri del dolo (Cass. S.U. 7-11-00 n. 27 imp. Di Mauro, rv. 217031; Cass. S.U.
15-1-00 n. 35 imp. Sagone, rv. 217374).
E’ importante osservare come la Corte dia atto che il riferimento alla identità o diversità dei
beni tutelati può dare adito a dubbi nel caso di reati plurioffensivi; a ciò aggiungasi che le
parole "stessa materia" sembrano utilizzate in luogo di "stessa fattispecie" o "stesso "fatto",
12
per comprendere nel dettato dell'art. 15 c.p.p. anche il concorso di norme non incriminatrici
che altrimenti resterebbe escluso.
In conclusione, con riguardo ai rapporti tra l'art. 648 c.p. e l'art. 474 c.p., la sentenza Ndiaye
considera che nella ricettazione viene incriminato l'acquisto e più in generale la ricezione
(ovvero l'intromissione in tali attività) di cose provenienti da reato, mentre l'art. 474 c.p.
sanziona invece la detenzione per la vendita o comunque la messa in circolazione di beni con
marchi o segni contraffatti e non contempla il momento dell'acquisto; l'azione raffigurata nella
prima norma è istantanea, mentre la detenzione a fini di vendita è permanente ed interviene
successivamente.
Dal predetto raffronto emerge quindi che le condotte delineate sono ontologicamente nonché
strutturalmente diverse e che esse non sono neppure contestuali, essendo ipotizzabile una
soluzione di continuità anche rilevante. Neppure vale assumere che l'una presuppone l'altra:
infatti, se la detenzione implica per sua natura un'apprensione, questa non integra sempre la
ricettazione, ben potendosi verificare un acquisto senza la consapevolezza del carattere
contraffatto dei segni (elemento essenziale della ricettazione), con posticipata presa di
conoscenza e deliberazione di porre in circolazione i relativi prodotti. In tal caso la
ricettazione non sarà addebitabile, non certo perchè vi sia concorso apparente di norme, bensì
perchè gli estremi della medesima non risultano realizzati; di converso potrebbe accadere che
la ricezione del bene con marchio contraffatto integri detto reato, ma non si addivenga all'altro
ed allora è ovvio che si risponderà solo di ricettazione.
Infine, facendo riferimento alla (da alcuni) prospettata consunzione, e precipuamente alla
configurazione della ricettazione quale "ante factum" non punibile, nell’assunto che la
detenzione a fini di vendita - se non necessariamente, quantomeno secondo l'id quod
plerumque accidit - passa attraverso una ricettazione, per cui il legislatore si sarebbe
rappresentato una tale evenienza con previsione globale sotto il profilo sanzionatorio, la
sentenza in esame osserva che “una siffatta operazione interpretativa di giudizi di valore, onde
evitare che venga pregiudicata la fondamentale esigenza di determinatezza in campo penale,
postula che la considerazione abbinata delle vicende tipiche sia resa oggettivamente evidente
e detta risultanza non può che essere individuata nella maggiore significatività della sanzione
inflitta per il reato consumante o assorbente; quando invece sia più grave la pena sancita per
quello che andrebbe assorbito, la consunzione va negata, dovendosi ravvisare un intento di
consentire, attraverso un effettivo autonomo apprezzamento del disvalore delle ipotesi
criminose, il regime del concorso dei reati. Invero, l'avere sottoposto a più benevolo
trattamento il fatto/reato che potrebbe per la sua struttura essere assorbente, sta a dimostrare
che della fattispecie eventualmente assorbibile non si è tenuto conto: pertanto la norma che la
punisce è applicabile in concorso con l'altra, senza incorrere in duplicità di addebito”.
Concludono quindi le Sezioni Unite rilevando che, posto che la ricettazione è punita più
gravemente rispetto al commercio di prodotti con segni contraffatti, non ricorrono gli estremi
per l'assorbimento del primo delitto nel secondo.
Enunciano infine i seguenti principi:
- La ricettazione è configurabile con riguardo a condotta che abbia ad oggetto beni con segni
o marchi falsi.
- Il reato di ricettazione dei suddetti beni può concorrere con quello di commercio dei
medesimi.
I principi così enunciati sono stati condivisi dalle Sezioni semplici della Corte di Cassazione
(sez. 2, sent. n. 11764 del 20.1.03, rv. 223902, imp. Corneti e al.; sez. 3, sent. n. 23636 del
7.5.2002, imp. Diop Sergigne Mbacke; più di recente sent. n. 39914/06 del 25.10.06, imp.
Nardelli) ed anche di recente ribaditi con alcune ulteriori osservazioni sollecitate da arguti
rilievi ed approfondimenti della giurisprudenza di merito (si veda sent. Corte d’appello di
Milano n. 5276 del 30.10.02/27.2.03, imp. Qdadri Bouzekri e Mohammed). Così nel caso da
13
ultimo citato si è espressa la sez. II della Corte di Cassazione (sent. n. 3541/07, del
25.10.06/30.1.2007, PG in proc. Qdadri Bouzekri e Mohammed).
In tale ultima pronuncia la Corte ha affermato di non condividere l’affermazione secondo cui
“la ricettazione sia reato posto a tutela del patrimonio e soltanto del patrimonio”, posto che
l’ipotesi incriminatrice in parola può perseguire anche l’intento di sanzionare un
comportamento che tramite la condotta descritta dalla medesima norma, consegua un qualsiasi
vantaggio, non necessariamente di natura patrimoniale e non necessariamente provocando un
pregiudizio di natura patrimoniale per la parte offesa dal reato presupposto.
L’opinione di autorevole dottrina (Antolisei, Mantovani, Fiandaca-Musso) ravvisa nella
ricettazione un reato plurioffensivo. L’incriminazione, infatti, mira ad impedire che,
verificatosi un delitto, persone diverse dagli autori del reato o da coloro che siano concorsi
nella commissione (“fuori dai casi di concorso nel reato”) si interessino delle cose provenienti
dal delitto medesimo per trarne un qualunque vantaggio. L’intervento del ricettatore
rappresenta inoltre una minaccia sotto il profilo sociale, perché porta alla dispersione delle
cose di origine delittuosa e nello stesso tempo rende più difficile il loro recupero, consolidando
in tal modo gli effetti del reato presupposto ed aggravando il pregiudizio subito dalla vittima,
nonché ostacolando l’opera di accertamento dei reati e la punizione dei colpevoli. Nella
sentenza da ultimo citata la sez. II della Corte ha ritenuto quindi sicuramente ravvisabile un
danno di natura patrimoniale per il titolare dei marchi oggetto della contraffazione.
I marchi, infatti, hanno un’indubbia valenza economica per i titolari, rappresentando parte del
patrimonio dell’impresa, suscettibile di rivalutazione e svalutazione (si pensi in particolare, a
fronte di ripetuti episodi di contraffazione, a fenomeni quali l’annacquamento o la
volgarizzazione del marchio), con la conseguenza che la loro contraffazione rappresenta una
perdita di clientela per il titolare ed una perdita di valore del marchio stesso.
Inoltre, la vendita di prodotti con marchi contraffatti mina la fiducia riposta dai cittadini nella
genuinità dei segni distintivi, ingenerando confusione fra i prodotti dell’una impresa e
dell’altra (con riferimento alla funzione di indicazione di provenienza dei marchi), e fra la
qualità dei prodotti contraffatti rispetto a quelli originali (con riferimento alla sempre più
ricorrente funzione di garanzia di una certa qualità attribuita ai marchi).
E’ noto infatti che, oltre che alla funzione distintiva, il marchio assolva alla funzione di
indicazione di provenienza e di garanzia della sostanziale omogeneità tecnica, merceologica,
qualitativa del prodotto contrassegnato.
Il marchio rappresenta pertanto un “valore” di notevole consistenza sul mercato, nel rilievo –
sottolineato da autorevole dottrina civilistica 13 – che, in un mercato in cui la standardizzazione
della produzione cancella o attenua le differenze qualitative fra i prodotti dello stesso genere,
la concorrenza finisca con limitarsi ad un quid pluris, rappresentato spesso dalla “firma”
apposta sui prodotti stessi.
Altri principi di rilievo della giurisprudenza della Cassazione attengono all’applicazione
dell’art. 473, essendo stato affermato che integra il delitto di cui all’art. 473 cod. pen. la
falsificazione del marchio, anche a prescindere dall’apposizione del segno falso sul singolo
prodotto industriale, atteso che la previsione incriminatrice mira a tutelare il marchio in sé,
nella sua funzione identificativa della provenienza di un determinato prodotto, tanto che
assume autonoma rilevanza penale la semplice riproduzione non autorizzata di marchi
registrati su pezzi di stoffa o adesivi destinati ad essere utilizzati su capi di abbigliamento
(sez. II, n. 39914 del 25.10/4.12.06, Nardelli; sez. V, 15.7.1997, Bonzi, rv. 209618; sez. V,
25.6.2004, Bonzi, rv. 230635).
13
VANZETTI-DI CATALDO, Manuale di diritto industriale.
14
La norma di cui all'art. 517 cod. pen., che punisce più genericamente la vendita di prodotti
industriali con segni mendaci, è stata interpretata nei suoi rapporti rispetto alle altre norme
finora esaminate. La giurisprudenza recente ha ritenuto che, mentre l'art. 473 cod. pen.
(contraffazione, alterazione o uso di segni distintivi di opere dell'ingegno o di prodotti
industriali) esige la contraffazione (che consiste nella riproduzione integrale, in tutta la sua
configurazione emblematica e denominativa, di un marchio o di un segno distintivo) o la
alterazione (che ricorre quando la riproduzione è parziale, ma tale da potersi confondere col
marchio originario o col segno distintivo), la disposizione di cui all'art. 517 prescinde dalla
falsità, rifacendosi alla mera, artificiosa equivocità dei contrassegni, marchi ed indicazioni
illegittimamente usati, tali da ingenerare la possibilità di confusione con prodotti similari da
parte dei consumatori comuni. In una fattispecie relativa alla detenzione per la vendita di capi
di abbigliamento e oggetti vari con marchi contraffatti delle ditte "Ferrari", "Harley
Davidson", "Champion" ed altri, affermando il predetto principio, la Cassazione ha
confermato la configurabilità concorrente dei due reati 14 .
A tale proposito merita di essere ricordata l’opinione 15 secondo cui “l’art. 517 c.p. non
descrive una contraffazione ‘minore’, né per il criterio di valutazione (il grado di imitazione o
di capacità confusoria), né per il contesto (superficiale attenzione agli scambi quotidiani). Si
tratta invece di una condotta aggressiva di un bene omologo a quello tutelato dalla
contraffazione - ossia l’aspettativa ad un uso non decettivo dei segni - in una prospettiva che
assume come oggetto da valutare l’intera presentazione ‘informativa’ del prodotto”.
La sentenza già citata (sez. II, n. 39914 del 25.10.06, imp. Nardelli, relativa al marchio Loro
Piana ed all’utilizzo di etichette autentiche recanti tale marchio originale, su tessuto di
provenienza e qualità diversa), ha ritenuto che la condotta contestata come riferita dalla Corte
di appello alla commercializzazione di capi con tessuto originale, ma di qualità diversa da
quella risultante dalle etichette, e perciò sussunta dal giudice di merito nell’ipotesi criminosa
di cui all’art. 517 c.p., dovesse al contrario ritenersi assorbita - atteso che detta qualità era
certificata da marchio registrato contraffatto - nel delitto di cui all’art. 473 c.p.; delitto il
quale, ove ricorrente, secondo la già consolidata giurisprudenza della Corte, esclude la
configurabilità di quello meno grave, che non richiede l’estremo della registrazione e del
riconoscimento internazionale dei segni distintivi e prescinde dalla falsità, rifacendosi alla
mera artificiosa equivocità dei contrassegni (precedenti in tal senso: sez. V, 3.12.1974,
Calvanico, rv 129459; sez. V, 27.2.1973, Astarita, rv 124063; sez. V, 13.1.1984, D’Orsi, rv
162528; sez. V, 26.6.1996, Pagano, rv 205552; sez. V, 9.3.2005, Lauri, rv 233072). Quindi,
nel caso concreto la II sezione della Cassazione ha ritenuto che, realizzando i fatti contestati ai
sensi dell’art. 473 (sub b del capo di imputazione) e quelli contestati a norma dell’art. 517
(capo sub d) un’unica condotta di contraffazione puntualmente qualificabile ex art. 473, primo
comma, seconda parte, cod.pen., dovesse essere esclusa, stante l’assorbimento in detta
condotta di quella descritta al capo d), la pena come determinata a titolo di continuazione per
quest’ultima contestazione.
L'art. 517 in rassegna ha dato luogo ad alcune incertezza per quanto riguarda la definizione
della condotta con riferimento all'espressione "mette altrimenti in circolazione". La più
recente opinione giurisprudenziale si è espressa nel senso che, in tema di delitto di vendita di
prodotti industriali con segni mendaci, la condotta concretatasi nella presentazione alla
dogana di merci con nomi, marchi o segni distintivi atti ad indurre in inganno il compratore
sull'origine, provenienza o qualità del prodotto, integri il reato di cui all'art. 517 cod. pen. a
livello di tentativo, atteso che la presentazione della merce per lo sdoganamento costituisce
14
Sez. 5, Sentenza n. 38068 del 9/3-19/10/2005, rv. 233072, imputato Lauri; conforme sent. n. 7720 del 1996,
rv. 205552.
15
ALESSANDRI, Tutela penale dei segni distintivi, in Dig. disc. pen., XIV, Torino, 1999, pp. 442-444 e 462-463.
15
atto idoneo, tenuto conto della qualità del soggetto che lo effettua, a porre in vendita o mettere
altrimenti in circolazione i prodotti in questione 16 .
Più in generale già in precedenza era stato affermato 17 che in tema di elemento oggettivo del
delitto di vendita di prodotti industriali con segni mendaci, la condotta di messa in vendita o
di messa in circolazione si verifica quando il prodotto esce dalla sfera di custodia del
fabbricante per un qualsiasi scopo che non escluda la possibilità di circolazione (nel caso di
specie i prodotti recanti segni mendaci erano detenuti nel deposito di un centro commerciale
in attesa della loro distribuzione finale nei punti vendita). Tale affermazione risulta in linea
con una precedente sentenza della Suprema Corte 18 che aveva sottolineato che la condotta
descritta con l'espressione "mette altrimenti in circolazione" era formulata dalla norma in
posizione alternativa a quella di "porre in vendita", sicché doveva ritenersi che essa si riferisse
a qualsiasi attività con cui si mirasse a far uscire a qualsiasi titolo la "res" dalla sfera giuridica
e di custodia del mero detentore, ossia a qualunque operazione di movimentazione della
merce. Ne conseguiva che la mera presentazione di prodotti industriali con segni mendaci alla
dogana per lo sdoganamento, poteva, tenuto conto delle circostanze del caso concreto,
integrare la condotta prevista dall'art. 517 cod. pen. con l'espressione "mette altrimenti in
circolazione".
Ma si devono registrare anche orientamenti contrari all'indirizzo sopra riportato, ancorché più
risalenti nel tempo. Così la Sez. 3, con la sentenza n. 26754 del 26/04/2001 19 ha escluso che
la presentazione della merce alla dogana per l'operazione di sdoganamento potesse costituire
atto di messa in circolazione dei prodotti, per tale dovendosi intendere ogni atto diffusivo
della merce, cosicché la sola presentazione alla dogana non poteva quindi integrare l'elemento
oggettivo del reato. La questione è stata risolta dalla legge finanziaria del 2004 (legge 24
dicembre 2003 n. 350) che ha ampliato l’ipotesi di reato di cui all’art. 517, fornendo anche le
precisazioni di cui al paragrafo che segue.
6. La tutela del “Made in Italy”
Come è noto, il comma 49 dell'articolo 4 della legge 24 dicembre 2003 n. 350 (la legge
finanziaria per il 2004) ha esteso il contenuto dell'articolo 517 del codice penale,
riconducendo a detta ipotesi di reato l'importazione e l’esportazione ai fini della
commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza, nonché alla
commercializzazione degli stessi.
La portata dell'articolo 517 cod. pen. è stata successivamente ampliata, avendo il comma 9
dell'articolo 1 del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35 (il cosiddetto «decreto competitività»,
convertito in L. 14 maggio 2005 n. 80) stabilito che venissero assoggettate all'applicazione
della sanzione penale di cui all'articolo 517 (le cui sanzioni sono state peraltro aumentate ad
€. 20.000 dall’art. 1 c. 10 del medesimo D.L. n. 35/05) non solo l'importazione e
l'esportazione a fini di commercializzazione, ovvero la commercializzazione di prodotti
16
Sez. 3, sentenza n. 28372 del 11/7-8/8/2006, rv. 234951, imputato Di Matteo; conforme sent. n. 23514 del
14.6/6.7.2006, rv. 234487, imputato Amato; in senso invece difforme si erano pronunciate Cass. sent. n. 4374
del 1996 rv. 204196, n. 26754 del 2001, rv. 219216.
17
Sez. 3, sentenza n. 14644 del 23/2-20/4/2005, rv. 231611, imputato Di Castri.
18
sez. 3, sentenza n. 11671 del 27/05/1999-13/10/1999, rv. 215549, PG in proc. Desaler.
18
sentenza depositata il 2/07/2001, rv. 219216, imputato Andolfo M.; conforme sent. n. 4374 del 1996, rv
204196
16
recanti false o fallaci indicazioni di provenienza, ma anche quelli che presentassero false o
fallaci indicazioni di origine.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione, in tema di tutela delle indicazioni di origine, ha
interpretato le disposizioni sopra richiamate nel modo più favorevole alle imprese italiane che
si avvalgano per la cosiddetta «delocalizzazione» del procedimento produttivo, facendo
fabbricare i propri prodotti in Paesi stranieri. Con la sentenza n. 13712, datata 17 febbraio
2005 20 , la Corte ha ritenuto che l'articolo 517, nonostante l'intervento dovuto alla legge
350/2003, abbia la funzione di tutelare non tanto l'origine e la provenienza di un prodotto,
quanto quelle di un produttore, vale a dire del soggetto che ha la responsabilità in merito alla
realizzazione della merce. La giurisprudenza di merito ha in passato chiarito che, per la
configurabilità del delitto previsto dall'articolo 517, è necessaria l'inequivoca attitudine della
merce oggetto dell'incriminazione ad ingannare l'eventuale compratore in ordine alla sua
origine, alla sua provenienza o alla qualità del bene (Corte d'appello di Perugia, sentenza 24
febbraio 1994). Facendo così riferimento al tenore letterale della norma, la Corte ha stabilito
che si dovesse ritenere assicurata la garanzia in merito all'origine ed alla provenienza della
merce «non da un determinato luogo, bensì da un determinato produttore» (Cassazione
penale, sentenza 7 luglio 1999 n. 2500).
Con particolare riferimento alla differenza con la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 4,
comma 49 della Legge n. 350 del 2003, al rapporto di sussidiarietà di detta norma rispetto a
quella di cui all'art. 517 cod. pen., la citata sentenza n. 13712/2005 ha affermato che il reato di
cui all'art. 517 punisce la commercializzazione di prodotti industriali (oltre che di opere
dell'ingegno) recanti marchi o segni distintivi fallaci, ossia atti a trarre in inganno sull’origine,
provenienza o qualità del prodotto ed ha carattere sussidiario rispetto al reato introdotto
dall'art. 4 comma 49 indicato, avendo questo un'estensione più ampia, sia sotto il profilo
dell'oggetto materiale del reato, che in relazione alla condotta, in quanto punisce la
commercializzazione di prodotti industriali, agricoli o alimentari, i quali abbiano
un'indicazione di origine o di provenienza falsa, ossia non corrispondente alla realtà, ovvero
fallace, ossia atta a trarre in inganno, e questo anche se le indicazioni consistano in segni
distintivi, emblemi o denominazioni non registrati, né riconosciuti giuridicamente.
La stessa sentenza n. 13712 del 17/02/2005 ha ritenuto che, con riferimento alla tutela penale
dei prodotti dell'industria e del commercio, commette il reato di cui all'art. 4, comma 49
chiunque commercializza prodotti industriali, agricoli o alimentari, recanti l'indicazione di
origine o di provenienza falsa, ossia non corrispondente alla realtà, ovvero fallace, ossia atta a
trarre in inganno, a prescindere dal fatto che le indicazioni consistano in segni distintivi,
emblemi o denominazioni registrati o riconosciuti giuridicamente. Nel caso di specie la Corte
ha ritenuto non integrata la fattispecie di cui trattasi nella condotta di commercializzazione da
parte di una società italiana di prodotti tessili recanti l'indicazione della società italiana
produttrice - ma fabbricati in Cina a seguito di delocalizzazione del processo produttivo posta
in essere dalla società - per l'irrilevanza della mancata indicazione del luogo estero della loro
fabbricazione, operando un distinguo circa la tipologia dei prodotti nell’assunto che i prodotti
tessili non vengono identificati in base all'origine geografica, ossia all'ambiente territoriale
ove il processo produttivo si svolge, essendo la loro qualità assicurata dalla materia prima e
dalla tecnica produttiva usate, elementi questi sicuramente riconducibili alla società
produttrice.
Deve poi ricordarsi che recentemente è stato apportato alla L. n. 350/2003 un ulteriore
correttivo con la legge finanziaria per il 2007 (L. 27 dicembre 2006 n. 296) che ha stabilito (al
comma 941 dell’art. 1) che, in relazione a quanto previsto dal comma 61 dell'articolo 4 della
legge 24 dicembre 2003, n. 350, al secondo periodo del comma 49 del medesimo articolo 4,
20
Sez. 3, sentenza n. 13712 del 17/2-14/4/2005 , rv. 231830 e 231831, P.M. in proc. Acanfora.
17
siano aggiunte, in fine, le seguenti parole: "incluso l'uso fallace o fuorviante di marchi
aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli".
In conseguenza di tale modifica l’attuale testo dell’art. 4 citato al comma 49, così recita:
“L’importazione e l’esportazione a fini di commercializzazione ovvero la
commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza costituisce
reato ed è punita ai sensi dell’articolo 517 del codice penale. Costituisce falsa indicazione la
stampigliatura «made in Italy» su prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della
normativa europea sull’origine; costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata
l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l’uso di segni, figure, o quant’altro
possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana,
incluso l’uso fallace o fuorviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche
commerciali ingannevoli (la sottolineatura riguarda l’ipotesi aggiunta con la Finanziaria
2007). Le fattispecie sono commesse sin dalla presentazione dei prodotti o delle merci in
dogana per l’immissione in consumo o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio. La
fallace indicazione delle merci può essere sanata sul piano amministrativo con l’asportazione
a cura ed a spese del contravventore dei segni o delle figure o di quant’altro induca a ritenere
che si tratti di un prodotto di origine italiana. La falsa indicazione sull’origine o sulla
provenienza di prodotti o merci può essere sanata sul piano amministrativo attraverso l’esatta
indicazione dell’origine o l’asportazione della stampigliatura «made in Italy»”.
Nella fattispecie in esame sono individuabili due distinte ipotesi: quella relativa alla “falsa
indicazione”, che si può concretizzare nell’apporre il “made in Italy” su prodotti e merci che
non abbiano un’origine italiana (dovendosi per tale accezione fare riferimento alle specifiche
disposizioni doganali comunitarie in tema di origine non preferenziale di cui al Reg. CEE
2913/1992, Codice doganale comunitario, artt. da 22 a 26); e quella relativa alla “fallace
indicazione” consistente nell’apporre, su prodotti sia provvisti che privi di indicazioni di
origine, segni, figure e quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere detti prodotti di
origine italiana.
Tale ultima ipotesi poi (quella riconducibile alla fallace indicazione), rispetto alla
formulazione originaria sopra brevemente ricordata, appare oggi ampliata dal comma 941
dell’art. 1 della Finanziaria per il 2007 (Legge 27 dicembre 2006, n. 296 – G.U. Suppl.
ordinario n. 244 del medesimo 27 dicembre) venendo, appunto, questa ad includere “l’uso
fallace o fuorviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali
ingannevoli”. A proposito della portata del richiamo alla “disciplina delle pratiche
commerciali ingannevoli”, si può concordare con i primi commenti alla disposizione della
Finanziaria che hanno evidenziato da subito alcuni problemi interpretativi, specie per quanto
concerne l’utilizzo dei termini “fallace” e “fuorviante” che, accompagnati dal richiamo alle
pratiche commerciali sleali, parrebbero volersi riferire alla Direttiva 2005/29/CE sulle
pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno, peraltro non ancora
recepita dal nostro ordinamento. Tale Direttiva ha lo scopo di reprimere le pratiche
commerciali sleali attuate, in particolare, attraverso azioni o omissioni ingannevoli. Secondo
l’art. 6 della stessa, deve considerarsi “ingannevole una pratica commerciale che contenga
informazioni false e sia pertanto non veritiera o in qualsiasi modo, anche nella sua
presentazione complessiva, inganni o possa ingannare il consumatore medio, anche se
l’informazione è di fatto corretta, riguardo a uno o più dei seguenti elementi e in ogni caso lo
induca o sia idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non
avrebbe altrimenti preso: ...”. Nell’elencazione che segue tale disposizione viene fra l’altro
indicata l’origine geografica o commerciale del prodotto, per la quale quindi può affermarsi
che, ai fini della disamina della disposizione in commento, assume certamente rilevanza.
La disposizione risulta fare riferimento all’utilizzo di un marchio aziendale (in questo caso,
indifferentemente dal fatto che sia registrato o meno) che in qualche modo contenga un
richiamo diretto o indiretto ad una presunta origine nazionale dei prodotti o servizi ai quali si
18
riferisce, e che in tal modo induca in errore il consumatore, inducendolo all’acquisto del
prodotto o servizio in questione, che altrimenti non avrebbe scelto, facendo affidamento sulla
qualità rappresentata dall’origine italiana. Non si intende quindi punire i marchi aziendali
italiani applicati a prodotti che hanno subito la lavorazione sostanziale all'estero, bensì di
punire il marchio aziendale “che possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la
merce sia di origine italiana”, mediante un uso "fallace o fuorviante", tale cioè da indurre in
inganno il consumatore circa la corretta origine dei prodotti stessi.
Sul tema del “made in Italy” è infine da segnalare che il Tribunale di Milano, con una recente
sentenza in data 29.9.2006 (sez. X pen., G. mon. dott. Patrizia Lacaita) ha escluso che la
dicitura "Styled in Italy" per un prodotto (t-shirts) posto in vendita in Italia con provenienza
dall'estero, asseritamente in violazione dell'Accordo di Madrid (D.P.R. n. 656/68), possa
violare le disposizioni del Trattato di Madrid, ovvero le norme penali italiane (art. 517 cod.
pen., art. 4 c. 49 della legge n. 350 del 2003), osservando che la dicitura in questione non
poteva essere considerata falsa in quanto effettivamente la società dell’imputato aveva curato
il design degli abiti che aveva fatto poi realizzare all’estero, avendo chiesto anche la piena
conformità ai modelli trasmessi. Tale indicazione non determina induzione in errore del
futuro acquirente, dal momento che non suggerisce una produzione in territorio italiano ma
sono che l’indumento è stato designato in Italia.
Merita di essere ricordato che al contrario la Cassazione ha ritenuto che la semplice dicitura
“Italy” ricadesse nella previsione di cui al citato art. 4 comma 49. Sempre la 3^ sezione, con
la sentenza n. 2648 del 9/11/2005 21 ha ravvisato il reato di vendita di prodotti industriali con
segni mendaci nella commercializzazione di beni del settore abbigliamento con la dicitura
"Italy", che pur essendo prodotti da una ditta italiana su disegno e tessuto italiano, siano
confezionati all'estero da maestranze locali, osservando che “in questo particolare settore
l'Italia gode di un prestigio internazionale, fondato anche sulla particolare specializzazione
delle maestranze impiegate, e pertanto, il sottacere tale dato fattuale o il fornire fallaci
indicazioni, ha l'intento di conferire al prodotto una maggiore affidabilità, promovendone
l'acquisto”.
In altra pronuncia (Sez. 3, sentenza n. 34103 del 19/04/2005) 22 è stato ritenuto che integrasse
il reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci (artt. 517 cod. pen. e 4, comma 49,
legge 24 dicembre 2003 n. 350) la messa in vendita con la dicitura "made in Italy" di un
prodotto che non poteva considerarsi di origine italiana, in quanto la disciplina di settore (art.
4, comma sessantunesimo, legge 350 del 2003), considerava tale marchio posto a tutela di
merci integralmente prodotte sul territorio italiano o assimilate ai sensi della normativa
europea in materia di origine. In tale caso risultava essere stato messo in commercio, con la
dicitura "made in Italy", un prodotto fabbricato all'estero per conto di un produttore italiano
che aveva inviato prodotti semilavorati per l'assemblaggio secondo un modello predefinito;
nell'occasione la Corte ha precisato che secondo gli artt. 23 e 24 Regolamento CEE n. 2913
del 12 ottobre 1992, il marchio "made in Italy" può essere utilizzato quando il prodotto è
interamente fabbricato in Italia o in Italia sia avvenuta l'ultima trasformazione o lavorazione
sostanziale, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo, o abbia
rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione.
7. Il falso grossolano
In questo contesto è necessario riferire circa il dibattito suscitato da un certo orientamento
giurisprudenziale sul falso grossolano, dibattito incentratosi in particolare sull'individuazione
dell'oggetto tipico della tutela nella fattispecie di cui all'art. 474, e chiusosi, dopo alcune
21
22
depositata il 20/1/2006, rv. 232961 imputato: Giordani (rigetta, Trib. lib. Trieste, 5 Maggio 2005).
depositata il 23/09/2005, rv. 232397, imputato: Tarantino (rigetta, Trib. lib. Trieste, 11 Novembre 2004).
19
incertezze con l'orientamento maggioritario espresso dalla Cassazione circa l'irrilevanza della
configurabilità del c.d. falso grossolano a fronte di un'ipotesi di contraffazione.
La "pietra dello scandalo" era costituita da quel certo indirizzo, in verità minoritario, espresso
da alcune pronunce di merito e confortato da talune isolate sentenze della Corte di Cassazione
che avevano individuato il bene giuridico protetto dalla norma citata nella tutela della libera
determinazione dell'acquirente. In particolare era stata la sentenza della V sezione della Corte,
n.2119, datata 23 febbraio 2000, ric. Diaw Papa 23 a suscitare lo "scandalo".
La sentenza affermava che un marchio contraffatto può trarre in inganno un compratore, così
da integrare, in caso di vendita della merce, il reato di cui all’art. 474 cod. pen., solo se la
provenienza prestigiosa del prodotto costituisce l'unico elemento qualificatore o comunque
quello prevalente per determinare nell'acquirente di media esperienza la volontà di acquistare
il prodotto stesso. Qualora viceversa altri elementi del prodotto, quali l’evidente scarsità
qualitativa del medesimo o il suo prezzo eccessivamente basso rispetto al prezzo comune di
mercato, siano rivelatori agli occhi di un acquirente di media esperienza del fatto che il
prodotto non può provenire dalla ditta di cui reca il marchio, la contraffazione di quest'ultimo
cessa di rappresentare un fattore sviante della libera determinazione del compratore. Nella
fattispecie la Corte ha ritenuto che la grossolanità della contraffazione era evidente per la
diversita' del colore dei marchi, i loro contorni, la loro collocazione sul prodotto, le cuciture,
la grafica stessa, il materiale usato (cartone anziché pelle) ed ha escluso la ricorrenza delle
condizioni per affermare la sussistenza del reato.
La reazione della dottrina e dei commentatori ed i già esistenti diversi orientamenti della
stessa Corte indussero a rimeditare tali indicazioni, limitandole a distinguo più sottili ovvero
totalmente disattendendole proprio in relazione al bene giuridico protetto dalla norma .
Fu così affermato, da un lato, che in tema di commercio di prodotti aventi marchi o segni
distintivi contraffatti o alterati, il reato fosse configurabile, qualora la falsificazione, anche
imperfetta e parziale fosse idonea a trarre in inganno i terzi, ingenerando errore circa l'origine
e la provenienza del prodotto e, quindi, la confusione tra contrassegno e prodotto
originali, e quelli non autentici; dall'altro, che la contraffazione grossolana non punibile era
soltanto quella riconoscibile "ictu oculi", senza necessità di particolari indagini, tale da
concretarsi in un'imitazione così ostentata e macroscopica per il grado di incompiutezza, da
non poter ingannare nessuno 24 .
Ma la corretta soluzione al problema è pervenuta tramite una rimeditazione circa il bene
giuridico protetto dalla norma (l'art. 474 cod. pen.) da parte della seconda e della terza sezione
della Corte, che hanno avuto modo di considerare che la fattispecie di reato prevista dall'art.
474 cod.pen.(introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi) e' volta a
tutelare, in via principale e diretta, non la libera determinazione dell'acquirente ma la
pubblica fede, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi o segni distintivi, che
individuano le opere dell'ingegno o i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione.
Trattasi quindi di reato di pericolo, per la cui configurazione non è necessaria l'avvenuta
realizzazione dell'inganno. Ne consegue che non può parlarsi, con riguardo alla fattispecie
in questione, di reato impossibile per il solo fatto che l'asserita grossolanità della
contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità che gli
acquirenti vengano tratti in inganno 25 .
Più precisamente è stato detto 26 che il reato in parola è volto a tutelare, non la libera
determinazione dell'acquirente, ma la pubblica fede, intesa come affidamento dei
consumatori nei marchi, quali segni distintivi della particolare qualità e originalità dei
23
CED rv. 215473;vedi anche Guida al diritto, 2000, n. 11, pagg. 83 e ss..
Vedi sent. Sez. V, n. 3336 del 26/01/2000 - 16/03/2000, ric. Dame, rv. 215583.
25
In tal senso Sez. II, sent. n. 13031, dell' 11/10-14/12/2000, rv. 217506, ric. Ndong; Sez. III n. 7046 del
24/9/2001-21/2/2002; sent. n. 36565 del 24/9-10/10/2001, rv. 220406, ric. Dieng El Hadij .
26
Sez. II, sent. n. 39863, del 2/10/2001 - 08/11/2001, rv. 220236, ric. Fall Babacar.
24
20
prodotti messi in circolazione; ne consegue che non può parlarsi di reato impossibile per il
solo fatto che la grossolanità della contraffazione sia riconoscibile dall'acquirente in
ragione delle modalità della vendita (prezzo eccessivamente basso rispetto a quello dei
prodotti originali, vendita effettuata in mercatini rionali o ambulanti), in quanto l'attitudine
della falsificazione ad ingenerare confusione deve essere valutata non con riferimento al
momento dell'acquisto, ma in relazione alla visione degli oggetti nella loro successiva
utilizzazione.
Ancor più chiaramente si sono pronunciate sentenze recenti 27 che hanno ormai consolidato
l'orientamento da ultimo riferito, nell'assunto che l'interesse giuridico tutelato dalle fattispecie
incriminatrici di cui agli artt. 473 e 474 cod. pen. è la "pubblica fede" in senso oggettivo,
intesa come affidamento dei cittadini nei marchi e nei segni distintivi che individuano le opere
dell'ingegno o i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione, e non l'affidamento del
singolo, cosicché non è necessario per l'integrazione del reato, che si sia realizzata una
situazione tale da indurre il cliente in errore sulle genuinità del prodotto. Anzi il reato può
sussistere anche se l'acquirente è a conoscenza della non autenticità del marchio.
8. La tutela penale del diritto d’autore
ed il problema della successione delle leggi
Come è noto la materia del diritto d’autore non è stata recepita nel Codice della Proprietà
Industriale, essendo rimasta a questo estranea, posto che la Legge 22 aprile 1941 n. 633, al
contrario delle leggi speciali della proprietà industriale, non è stata abrogata, ma ha subito nel
tempo una serie di significative modifiche (come si vedrà a volte oscillanti) nell’intento (non
sempre realizzato efficacemente) di dare attuazione alle disposizioni della normativa
comunitaria e delle convenzioni internazionali cui l’Italia ha aderito 28 . Da ultimo la legge sul
diritto d’autore è stata emendata in dipendenza del recepimento della Direttiva Enforcement
(Dir. 29 aprile 2004, n. 2004/48/CE), mediante il D. Lgs. 16 marzo 2006 n. 140.
La tutela penale della proprietà intellettuale è affidata agli artt. 171- 174 quinquies della
legge d.aut.. Non è possibile qui esaminare analiticamente le diverse norme che sanzionano
penalmente i comportamenti attuati in violazione del diritto d’autore. Ci si limiterà ad
esaminare due problematiche che di recente hanno avuto risvolti significativi.
Le disposizioni utili alla comprensione della casistica che segue sono le seguenti:
Art. 171 (le parti sottolineate sono quelle modificate di recente)
“Salvo quanto disposto dall'art. 171-bis e dall'articolo 171-ter è punito con la multa da euro
51,00 a euro 2.065,00 chiunque, senza averne diritto, a qualsiasi scopo e in qualsiasi forma:
a) riproduce, trascrive, recita in pubblico, diffonde, vende o mette in vendita o pone altrimenti
in commercio un'opera altrui o ne rivela il contenuto prima che sia reso pubblico, o introduce
e mette in circolazione nel regno esemplari prodotti all'estero contrariamente alla legge
italiana;
a-bis) mette a disposizione del pubblico, immettendola in un sistema di reti telematiche,
mediante connessioni di qualsiasi genere, un’opera dell’ingegno protetta, o parte di essa;
(…omissis…)
27
Sez. II, sent. n. 27303 del 9/5-24/6/2003, ric. Sambe, in Cass. pen., 2005, pagg. 843 e segg., con nota di D.
BARILLA', Marchi contraffatti e tutela della fede pubblica; sent. 5/3/2004, ric. Serigne, in Guida al diritto,
2004, n. 27, pag. 58 e segg.; sent. 12/4-15/5/2005, n. 17113, ric. D'Isanto, in Riv. pen. 2006. n. 6,pagg. 701 e
segg., con nota di A. BANA, Impossibilità del falso grossolano nella contraffazione dei marchi; sent. n. 45545
del 15/11-15/12/2005, rv. 232832, PG in porc. Nguer Khadim; n. 518 del 15/11/2005-10/1/2006, rv. 233168,
imp. Seye.
28
In tema di diritto d’autore ed in prticolare della legge n. 248/2000, mi permetto di richiamare due miei scritti:
Le nuova legge sul diritto d’autore: ampliamento della tutela civilistica o occasione mancata?, in Riv. dir. ind.,
2001, I, pagg. 5 e ss.; e Il primo anno di attuazione del Codice della Proprietà industriale e le modifiche
dell’enforcement, in Corriere Giuridico 2006, già citato.
21
Chiunque commette la violazione di cui al primo comma, lettera a-bis), è ammesso a pagare,
prima dell’apertura del dibattimento, ovvero prima dell’emissione del decreto penale di
condanna, una somma corrispondente alla metà del massimo della pena stabilità dal primo
comma per il reato commesso, oltre le spese del procedimento. Il pagamento estingue il
reato.”
Art. 171 ter
(…omissis…)
“2. È punito con la reclusione da uno a quattro anni e con la multa da 2.582,00 a 15.493,00
euro chiunque, per fini di lucro e per uso non personale:
a) riproduce, duplica, trasmette o diffonde abusivamente, vende o pone altrimenti in
commercio, cede a qualsiasi titolo o importa abusivamente oltre cinquanta copie o esemplari
di opere tutelate dal diritto d'autore e da diritti connessi;
a-bis) in violazione dell'art. 16, a fini di lucro, comunica al pubblico immettendola in un
sistema di reti telematiche, mediante connessioni di qualsiasi genere, un'opera dell'ingegno
protetta dal diritto d'autore, o parte di essa;
b) esercitando in forma imprenditoriale attività di riproduzione, distribuzione, vendita o
commercializzazione, importazione di opere tutelate dal diritto d'autore e da diritti connessi, si
rende colpevole dei fatti previsti dal comma 1.”
Art. 173
“Le sanzioni previste negli articoli precedenti si applicano quando il fatto non costituisce
reato più grave previsto dal codice penale o da altre leggi.”
Rilevante è anche ricordare le norme recanti sanzioni amministrative applicabili a chi, per
esempio, utilizza opere scaricandole dalla rete
Art. 174-ter
1.Chiunque abusivamente utilizza, anche via etere o via cavo, duplica, riproduce, in tutto o in
parte, con qualsiasi procedimento, anche avvalendosi di strumenti atti ad eludere le misure
tecnologiche di protezione, opere o materiali protetti, oppure acquista o noleggia supporti
audiovisivi, fonografici, informatici o multimediali non conformi alle prescrizioni della
presente legge, ovvero attrezzature, prodotti o componenti atti ad eludere misure di protezione
tecnologiche è punito, purché il fatto non concorra con i reati di cui agli articoli 171, 171-bis,
171-ter, 171quater, 171-quinquies, 171-septies e 171-octies, con la sanzione amministrativa
pecuniaria di euro 154 e con le sanzioni accessorie della confisca del materiale e della
pubblicazione del provvedimento su un giornale quotidiano a diffusione nazionale.
2. In caso di recidiva o di fatto grave per la quantità delle violazioni o delle copie acquistate o
noleggiate, la sanzione amministrativa è aumentata sino ad euro 1032,00 ed il fatto è punito
con la confisca degli strumenti e del materiale, con la pubblicazione del provvedimento su
due o più giornali quotidiani a diffusione nazionale o su uno o più periodici specializzati nel
settore dello spettacolo e, se si tratta di attività imprenditoriale, con la revoca della
concessione o dell'autorizzazione di diffusione radiotelevisiva o dell'autorizzazione per
l'esercizio dell'attività produttiva o commerciale.
Esaminando le problematiche più interessanti può dirsi che anche con riferimento alle ipotesi
criminose di cui alla legislazione speciale sul diritto d’autore si è posto il problema del
concorso rispetto alle fattispecie del codice penale.
In particolare le Sezioni Unite della Cassazione sono intervenute con la sentenza Marino 29 a
29
sent. n. 47164 del 20/12-23/12/2005, rv. 232302, est. Nappi, ric. Marino (annulla in parte con rinvio, App.
Palermo, 10 novembre 2004).
22
dirimere il contrasto delineatosi circa la possibilità di configurare o meno il concorso fra l’art.
171 ter l. dir. aut. e la ricettazione. Tale sentenza ha affermato che in materia di tutela del
diritto di autore sulle opere dell'ingegno, è configurabile il concorso tra il reato di ricettazione
(art. 648 cod. pen.) e quello di commercio abusivo di prodotti audiovisivi abusivamente
riprodotti (art. 171-ter Legge 22 aprile 1941, n. 633), quando l'agente, oltre ad acquistare
supporti audiovisivi fonografici o informatici o multimediali non conformi alle prescrizioni
legali, li detenga a fine di commercializzazione. La Corte ha precisato che il principio
affermato deve applicarsi alle condotte poste in essere successivamente all'entrata in vigore
del D.Lgs. 9 aprile 2003, n. 68, che ha abrogato l'art. 16 della Legge n. 248 del 2000,
sostituendolo con il nuovo testo dell'art. 174-ter Legge n. 633 del 1941.
A tale proposito, quindi, la sentenza in esame ha stabilito che la condotta di acquisto di
supporti audiovisivi, fonografici o informatici o multimediali, non conformi alle prescrizioni
legali, posta in essere prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 68 del 2003, anche se
finalizzata al commercio, integra l'illecito amministrativo di cui all'art. 16 della Legge 18
agosto 2000, n. 248, che, in virtù del principio di specialità previsto dall'art. 9 Legge 24
novembre 1981, n. 689, prevale in ogni caso sul reato di ricettazione 30 .
Le diverse sezioni della Corte si sono conformate alle indicazioni della sentenza Marino,
operando quindi un distinguo a seconda che la fattispecie si fosse realizzata anteriormente o
successivamente all’inserimento nella legge dir aut. dell’art. 174 quater operato dal D. Lgs. 9
aprile 2003 n. 68. Così la seconda sezione, che già prima della pronuncia delle Sezioni Unite
aveva preso posizione favorevole all’esclusione del concorso fra reato di ricettazione e reato
previsto dalla legislazione speciale, a seguito dell’intervento della sentenza Marino, ha
ribadito il proprio precedente orientamento in altre diverse pronunce (vedi sent. n.
23769/2005, n. 12489/2005, rv. 231774; sent. n. 12489 del 10/3/2005 - 4/4/2005, est.
Diotallevi, ric. Zinna). Nell’ultima sentenza citata in particolare era stato rilevato che nel
vigore della legge n. 248 del 2000, integrava un semplice illecito amministrativo la condotta
di acquisto o noleggio di supporti audiovisivi abusivamente riprodotti, condotta punita
dall'art. 171 ter della legge 22 aprile 1941, n. 633, come appunto all’epoca modificato dall'art.
16 della legge n. 248 del 2000, con una sanzione pecuniaria, fattispecie che non poteva essere
affermata in concorso con il reato di ricettazione, atteso che tra le due norme doveva essere
ritenuto sussistente un rapporto di continenza, in quanto nella norma codicistica risultavano
compresi tutti gli elementi costitutivi della norma introdotta dalla legge n. 633, secondo la
modifica di cui alla legge n. 248/00, che descriveva più specificamente condotte già comprese
sul piano astratto nella prima, con la quale si poneva in rapporto di specialità.
Con la sentenza da ultimo citata – in una fattispecie che aveva visto le parti addivenire
all’accordo sulla pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. – si riteneva anche che non potesse
sostenersi, come eccepito dal P.G. presso la Corte di Cassazione, che con il patteggiamento le
parti avessero irrevocabilmente aderito all’opposto indirizzo giurisprudenziale che, prima
dell’intervento delle Sezioni Unite con la ricordata sentenza Marino, ammetteva il concorso
fra le due norme. La sentenza n. 12489/05 in esame affermava che in caso di
"patteggiamento" l'accordo intervenuto tra le parti precludeva la riproduzione nel giudizio di
cassazione di tutte le questioni sulle quali era legittimamente intervenuta rinuncia, fatta
eccezione per quelle riguardanti pregresse nullità assolute e rilevabili in ogni stato e grado del
giudizio e per quelle relative alla violazione dell'art. 129, cod. proc. pen. (conformi, ex
plurimis, sent. 40817 del 17/09/2004 - 20/10/2004, ric. Lombardi ed altri, rv. 230259). Il
richiamo espresso all’art. 129 cod. proc. pen., operato dall’art. 444 comma 2° stesso codice,
comporta che il giudice prima di applicare la pena concordata fra le parti, debba procedere
all’esame circa la possibilità che l’imputato possa essere prosciolto con formula piena oppure
che si debba pronunciare sentenza di improcedibilità per mancanza di una delle condizioni di
30
seconda massima, rv. 232303.
23
procedibilità, ovvero per la presenza di una causa estintiva del reato, dovendo il giudice
procedere d’ufficio a tale esame. Parimenti il giudice è sempre tenuto a prosciogliere
l’imputato anche quando il proscioglimento riguardi uno o alcuno dei reati in contestazione
(in tal senso Cass. 27.9.93, n. 10335, P.M. in proc. Della Polla, rv. 197892). Nel caso concreto
quindi il ricorso proposto in sede di cassazione era considerato in parte fondato per quanto
riguardava l’indebita condanna per il reato di ricettazione; conseguentemente, essendo stata,
la pena, sia pur patteggiata, commisurata su tale ultimo reato, doveva essere disposto
l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’art. 648 cod. pen.,
perché il fatto non era previsto dalla legge come reato, con trasmissione degli atti al Tribunale
per la determinazione della pena in ordine al reato residuo.
Passando ora al caso che ha suscitato tanto scalpore sulla stampa di questi giorni, è opportuno
fare chiarezza sulla reale portata della recente sentenza n. 149 del 2007 31 .
Innanzitutto va precisato che i fatti di causa risalgono al 1999 e che non si è trattato di un caso
di P2P (peer to peer = nodo a nodo), in quanto il P2P “decentralizzato” è nato negli Stati
Uniti solo nel 2000 32 .
La fattispecie riguardava tre studenti del Politecnico di Torino che, utilizzando un sito Web di
una associazione studentesca, mediante l’uso di un PC e di 4 potenti hard-disc, mettevano a
disposizione “on-line” (tramite un server FTP) programmi per elaboratore e film a beneficio
di soggetti selezionati, che a loro volta attuavano una scambio telematico con altro materiale
di interesse degli stessi indagati. In base alle norme della legge dir. autore in vigore all’epoca
(e cioè anteriormente alle modifiche della già citata legge n. 248/00 e della Legge Urbani - L.
21 maggio 2004 n. 128) i Giudici di Torino avevano ravvisato nel fatto che le opere venissero
permutate tramite l’indicato scambio telematico, con altre di analogo o maggiore valore, un
“contratto a prestazioni corrispettive, come il contratto di compravendita e come questo a
titolo oneroso” e, quindi, un’attività a “scopo di lucro”, che come tale risultava vietata e
punita dalla legge.
La sentenza n. 149/2007 ha invece escluso che lo scambio di “files” a mezzo di server FTP,
effettuato dagli studenti con le modalità di cui sopra, potesse integrare attività commessa a
“scopo di lucro” o in genere a “scopo commerciale”, requisito posto per la punibilità dalle
norme all’epoca vigenti, ritenendo che il termine “fine di lucro” indicasse “il fine di guadagno
economicamente apprezzabile o l’incremento patrimoniale da parte dell’autore del fatto”. La
“detenzione a scopo commerciale” di cui all’art. 171-bis l. dir. aut. è stata definita nella
sentenza come necessariamente connessa all’elemento soggettivo dell’ “attività
imprenditoriale”.
E’ evidente che tali principi di diritto non pregiudicano l’applicazione in casi realizzatasi in
epoca successiva alle modifiche legislative sopra menzionate, delle norme di cui agli articoli
171 lett. a-bis) e 171-ter, 2° comma, lett. a-bis) della l.dir.aut.. Tali disposizioni prevedono,
rispettivamente, l’applicazione di una sanzione penale (multa) nel caso di “messa a
disposizione del pubblico” di un’opera dell’ingegno tutelata, ovvero la sanzione detentiva e
pecuniaria, laddove tale comportamento venga posto in essere con il “fine di lucro”, come
31
Sent. sez. 3^ pen., pres. Vitalone, est. A.M. Lombardi, 22/11/2006-9/1/2007, ric. Rizzi e Faretti, p. civ. SIAE e
FAPAV.
32
Il file-sharing è frutto degli sviluppi tecnologici immediatamente successivi alla nota sentenza Napster
dell’anno 2000, con la quale sono stati di fatto posti fuori legge, negli Stati Uniti, i sistemi “centralizzati” tramite
i quali gli utilizzatori della rete Internet potevano scaricare dal proprio computer i file di opere tutelate dal Diritto
d’Autore che il programma elaborato ed utilizzato dall’imprenditore americano Shawn Fanning deteneva in un
“server centrale”.
24
sopra specificato. Si tratta, ovviamente, di norme introdotte di recente ed attualmente in
vigore, e perciò non applicabili al caso analizzato dalla sentenza della cassazione in esame.
Le disposizioni che sono state approvate proprio per effetto dello sviluppo del cosiddetto P2P
(o file-sharing) illegale riguardano sia le fattispecie dolose, commesse con lo “scopo di
lucro”, che i casi in cui tale attività non generi un guadagno per l’agente, prescindendo quindi
dal dolo specifico.
Le disposizioni oggi vigenti risolverebbero il caso in termini diversi.
In base alla legge c.d. Urbani (Legge 21 maggio 2004 n. 128), modificata il giorno 23 marzo
2005 dal Parlamento Italiano attraverso il varo del “Decreto Omnibus”, che ha recepito il
testo del DL Asciutti, si possono trarre alcune considerazioni circa l’ambito di applicazione
delle nuove norme, così come inserite nel corpus della legge sul diritto d’autore.
Innanzitutto, il secondo comma lett. a bis) dell’art. 171 ter lett. prevede una specifica
fattispecie, quella della “immissione in un sistema di reti telematiche mediante connessioni di
qualsiasi genere (di) un’opera dell’ingegno protetta dal diritto d’autore, o parte di essa”.
La condotta è vietata ora se avviene abusivamente, in violazione dell’art. 16 della Legge
633/1941, e “a scopo di lucro”.
Non rientrano, quindi, nella disciplina di questa specifica norma i casi di semplice
“scaricamento” (downloading) di opere dalla Rete, ma solo i casi di messa a disposizione del
pubblico dei files protetti, per trarne un beneficio economico, e per uso non personale.
25