l`architettura della ragione

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l`architettura della ragione
ARCHITETTURA
di Hector Jacinto Cavone Felicioni
L’ARCHITETTURA DELLA RAGIONE
Antonio Monestiroli
LA CASA E IL TEMPIO
Dobbiamo domandarci se oggi è possibile costruire un edificio per l’intera comunità dei
cittadini, per la nostra, moderna, cultura dell’abitare.
Non un edificio come un altro fra le più ammirate opere contemporanee, ammirate senza
essere importanti, per la loro immagine effimera e autoritaria insieme. Un edificio che sappia misurarsi con i grandi edifici della storia, quegli edifici ai quali nessun architetto contemporaneo osa avvicinarsi con il suo lavoro. Io credo che ci si debba porre questo obiettivo, che ogni architetto si debba misurare con il tema della casa e del tempio, debba progettare una casa e un tempio, sfidando le convenzioni del proprio tempo.
Credo che porsi oggi questo obiettivo voglia dire porsi davanti al nuovo, spazzando via tutto ciò che viene proposto ogni giorno sulle riviste o giornali di architettura. Opere che si
accontentano delle infinite variazioni di una forma ormai inespressiva, prive di quella qualità propria dell’architettura che è la durata nel tempo.
Nuovo deve essere il nostro rapporto con la natura, la nostra volontà di costruire luoghi e
opere in cui riconoscere la nostra aspirazione a vivere secondo ragione. Quella ragione che
rende riconoscibili i nostri sentimenti e i nostri affetti, che li rende riconoscibili nelle opere che costruiamo per alimentarli e custodirli.
Il nuovo nascerà da questa antica e rinnovata volontà e solo dal nuovo nasceranno forme
nuove. Oggi l’ostacolo al nuovo è di tipo morale.
Noi non possediamo un principio etico che ci spinga a progettare il nostro futuro. Come
dice Umberto Galimberti: se non disponiamo di una morale capace di proteggere il nostro
ambiente meno ancora saremo in grado di progettarlo.
Una morale che prima di tutto ci faccia riconoscere la comunità a cui apparteniamo, che
ci faccia riconoscere i suoi valori. Un fatto questo che va oltre l’architettura, che riguarda
in generale la nostra cultura.
Solo con questa premessa è possibile parlare di architettura.
L’architettura per esistere deve essere espressione di civiltà. Deve essere espressiva di un
insieme di valori propri di una società civile. Altrimenti non sarà architettura, sarà, nei casi
migliori, una costruzione ben fatta che si limita ad esibire la sua qualità tecnica.
Dopo il tempo della tecnica deve venire il tempo della previsione di un mondo sperato da
costruire con la tecnica. Il nostro saper fare deve essere guidato dal nostro saper prevedere.
Lo stesso Prometeo, l’inventore di tutte le tecniche, è colui che vede in anticipo. Oggi, nel
nostro lavoro, è venuta a mancare la nozione di utopia. Quella idealità che ci rende capaci di vedere in anticipo.
È vero, come dicono in molti, che per costruire la casa e il tempio bisogna che ci sia la necessità della casa e del tempio e che questa necessità oggi non è riconosciuta. Tuttavia io
credo che sia una necessità sempre presente, che vada riscoperta e posta di nuovo alla base
del nostro lavoro.
La casa custodisce le nostre relazioni personali, i nostri affetti, i nostri sentimenti. Il tempio custodisce un valore collettivo, è l’edificio in cui la comunità dei cittadini si riconosce
come corpo collettivo. Riconosce in esso un valore che è proprio della comunità stessa.
Se nel tempio dell’antichità le colonne costruivano il recinto attorno alla cella della divinità
alla quale tutti si rivolgevano, nel nostro tempio sono i cittadini stessi che abitano il luogo costruito per accoglierli.
Una grande differenza fra chi guarda fuori da sè e chi riconosce una qualità della propria
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vita associata. Questa è la modernità del tempio, è il principio che ci consente di cercare
la sua forma nel presente.
Il tempio greco è stato copiato e ricopiato fino alla fine dell’ottocento. Con le sue forme sono
state costruite chiese, teatri, banche, musei, dissipando il valore di quelle forme originarie.
Nel novecento qualcuno ha cercato di costruirlo di nuovo partendo dal suo significato profondo, cercando le forme che gli corrispondono nel nostro tempo.
La costruzione del tempio è costruzione di un tetto e di un recinto. Un tetto sotto il quale
radunare un’intera collettività, un recinto con il quale delimitare il luogo della riunione.
Questo per le funzioni più diverse, accomunate dal fatto di essere funzioni della vita associata.
Il progetto per la biblioteca di Pescara si pone questo obiettivo: la costruzione di un grande tetto che sappia accogliere sotto di sè l’intera comunità dei cittadini. Un obiettivo che
si era posto Brunelleschi con la cupola di Firenze, Mies van der Rohe con il tetto della NationalGalerie a Berlino.
Il tema dunque è il tetto. Un tetto così grande da contenere sotto di sè altri edifici destinati a funzioni specifiche. Usando una bella espressione di Corrado Alvaro potremmo dire:
edifici contenuti in altri edifici, come in una custodia. Al tetto è affidata la funzione del custodire, nel nostro caso una biblioteca ma, insieme a questa, una intera comunità.
Un tetto pressoché quadrato di 80 metri di lato; fra i 6 e i 7 mila metri quadrati di superficie, senza pilastri, se non sul perimetro.
L’unico materiale possibile per una simile costruzione è l’acciaio. L’acciaio consente di affrontare grandi luci con una struttura leggera. Questo se si vuole costruire un tetto piano,
una grande superficie perfettamente liscia senza interruzioni o sostegni.
Una sorta di cielo artificiale sotto cui incontrarsi.
Per esaltare la qualità espressiva di questo cielo artificiale abbiamo deciso di farlo accogliere
da un tetto ancora più grande che lo sovrasta e lo protegge.
Il tetto più grande contiene quello più piccolo, il cielo artificiale, sotto il quale è costruito
un edificio destinato alla biblioteca. Due piani sovrapposti ai quali corrispondono più recinti successivi.
Un primo recinto di colonne d’acciaio a sezione circolare, sulle quali è appoggiato il tetto
superiore, un secondo recinto di pilastri a sezione rettangolare sui quali poggia il tetto inferiore, un terzo recinto, rivestito in marmo, che delimita il corpo di fabbrica della biblioteca. Il quarto recinto è il cuore di tutto il sistema: la corte interna della biblioteca coperta
dal gran tetto che la sovrasta.
Per raggiungere il punto centrale, il luogo di riunione, che è il motivo per cui l’edificio è costruito, si attraversano dunque quattro recinti successivi.
Da qui si comprende il senso di tutto l’edificio, quello di costruire un luogo accogliente che
sappia evocare l’idea di accoglienza.
All’esterno l’edificio è costruito in modo da rendere evidente la sua finalità. Le forme svolgono solo questo compito e nessun altro. Tutti gli elementi sembrano impegnati a reggere il grande cielo azzurro, teso al di sopra della corte della biblioteca. Alla fine la composizione ricorda il tempio, un tempio in cui si celebra un rito civile: quello dell’incontro di un
gran numero di persone intente a svolgere una attività che le accomuna.
Antonio Monestiroli
PROGETTO PER LA NUOVA
BIBLIOTECA REGIONALE DI PESCARA, 2004-2010
Progetto architettonico: Monestiroli Architetti Associati, Arch. Massimo Ferrari
Progetto strutture: BMS PROGETTI srl
Progetto degli impianti: AMMAN PROGETTI srl
Committente: Comune di Pescara
Dati dimensionali: parco 82.000 mq circa, posti auto 2.300,
stazioni autobus 10.500 mq, biblioteca 15.000 mq
LA CITTÀ E LE FORME
È con l’entusiasmo di chi pensa sia ancora
possibile creare opere utili e nel frattempo belle e durature, che ho prestato il mio interesse al progetto per la nuova Biblioteca regionale di Pescara di Antonio Monestiroli. Ma
per aver ben precise le prospettive ideologiche al mio impegno, sempre preziose per dare
buon sostegno ad ogni pratica, ho voluto riflettere sulla domanda che il poeta Paul Valéry
(Eupalinos, Milano, 1947) ci rivolge, nell’immaginario dialogo tra Eupalino e Socrate, e
che può valere a introdurci nel nocciolo dell’argomento: “Dimmi, poiché sei così sensibile
agli effetti dell’architettura, non hai osservato, camminando nella città, come tra gli edifici che la popolano, taluni siano muti ed altri parlano, mentre altri ancora, che sono più
rari, cantano?”
La bellezza della città storica derivava prevalentemente dalla silenziosa tessitura di
case e di strade, dalla quale emergevano poche straordinarie architetture eloquenti e, ancor più, rari monumenti lirici. Oggi non è così.
La città si è trasformata da luogo di acquisizione di conoscenza in luogo di perdita. Le
logiche di costruzione della città non sono più
riconoscibili, sembrano addirittura casuali,
dove le somiglianze e le dissomiglianze, che
in passato sembrava potessero essere ordinate in categorie, se non in idee, si sono come
vanificate; tanto che gli edifici, ridotti alla solo
loro apparenza, sono diventati indistinguibili
e abitudinari, senza anima, senza contorno,
né colore, né calore. Paul Valéry, in sostanza,
lamentando l’assenza di un’architettura significativa, lamenta la capacità di progettare un luogo in cui la diversità e la pluralità possano in quanto tali trovare un orizzonte di senso. E ciò anche al fine di rendere più viva la
sintesi fra innovazione e tradizione.
Io credo che il problema vero è stato fin dall’inizio quello del confronto tra architettura
del passato e quella del presente. In tal senso fondamentale è la riflessione di Oswald
Mathias Ungers (N. Fritz, Oswald Mathias Ungers. Opera completa (1951-1990), Milano,
1991) sulla città intesa come grande archivio
di memoria collettiva e dunque come manuale
dal quale l’architettura può prendere i prin-
cipi fondativi della propria ideazione, legando “la sua ragione presente alla sua ragione
passata”. È su questo principio “che può essere impostato il generale metodo della conoscenza della ragione dell’architettura.”,
come si legge nel volume di Antonio Monestiroli (L’architettura della realtà, Torino,
2004). Si dà che, oggi, uno degli equivoci più
pericolosi che riguardano l’architettura contemporanea è quello dell’invenzione ad ogni
costo. Il progetto di architettura, privato di
ogni seria idealità, non è più in grado di conoscere l’essenza della realtà, con la quale è
necessario confrontarsi, non solo con attitudine contemplativa, ma anche con atteggiamento attivo, al fine di estrarne nuovi aspetti significativi. Ci troviamo forse di fronte a una
manchevolezza congenita oppure a un riflesso
dell’amoralità della società civile?
L’architettura, prima di essere veramente una
costruzione, è un pensiero collettivo che aspira a rappresentare i valori del proprio tempo,
e, per ricondurla nella sfera della ragione, bisogna rifuggire dalla pura invenzione e dalla pedissequa abitudine, concedendo alla ragione il privilegio, come dice Kant, di essere “l’ultima pietra di paragone della verità”.
Il progetto della nuova Biblioteca regionale
di Pescara di Antonio Monestiroli è l’occasione
per proseguire, con intransigente coerenza
e rigore intellettuale, un discorso sull’architettura, e per affermare che, capovolgendo
un’espressione d’Annunziana (“Bisogna fare
della propria vita come si fa un’opera d’arte.”),
l’opera architettonica (intesa come opera d’arte nel senso più loosiano del termine) può
considerarsi eloquente se si lega alle manifestazioni della nostra vita. La volontà di costruire il “nuovo”, e di recuperare la “verità”
perduta, che permetta di uscire dal vicolo cieco in cui la cultura architettonica dei nostri
anni sembra volerla relegare, passa anche attraverso la sensibilità civica dell’opera di Antonio Monestiroli, nella consapevolezza che
non v’è miglior insegnamento di quello
esercitato anzitutto con l’esempio. E non importa se la nuova Biblioteca regionale sarà costruita o no, perché essa è già parte di Pescara.
Hector Jacinto Cavone Felicioni
L A N U O VA E D I T R I C E ( C O R S O O V I D I O , 1 9 0 - S U L M O N A ) / T E R A M O : L I B R E R I A L A N U O VA E D I T R I C E ( C O R S O S A N G I O R G I O , 8 1 - T E R A M O ) / L I B R E R I A L A N U O VA E D I T R I C E ( V I A P. TA C C O N E , 1 2 - T E R A M O ) / V A S T O : N U O VA L I B R E R I A ( P I A Z Z A B A R B A C A N I , 9 - VA S T O ) /
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