RELAZIONE LE CONTESTAZIONI A CATENA originato numerose
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RELAZIONE LE CONTESTAZIONI A CATENA originato numerose
RELAZIONE (APPUNTI DI LAVORO) (art. 297 comma 3 c.p.p.) LE CONTESTAZIONI A CATENA INTRODUZIONE Il fenomeno della cd. “contestazione a catena” - che il legislatore ha inteso disciplinare al fine di evitarne gli effetti distorsivi - è costituito dalla reiterazione di provvedimenti cautelari contro il medesimo soggetto per prolungare la scadenza dei termini di custodia cautelare. All’argomento il codice di rito dedica un solo comma diviso in due parti (l’art.297 comma 3 c.p.p.), ciò che potrebbe far pensare a un fenomeno piuttosto settoriale di non particolare importanza e limitato ad un uso patologico delle misure cautelari che sarebbe consentito dal sistema e che viene perciò ostacolato (o impedito) con la disposizione in parola: detta impressione di marginalità ed eccezionalità della disciplina normativa in esame è smentita dal numero elevatissimo di pronunce occasionate da questo tema (oltre duecento sentenze della Cassazione massimate solo in relazione all’applicazione di questa norma) che ha originato numerose incertezze giurisprudenziali (innumerevoli contrasti in Cassazione, succedersi di decisioni delle SU, talora anche tra di loro contrastanti, plurimi interventi della Corte costituzionale, approdati da ultimo in una declaratoria di illegitimità costituzionale parziale). Si tratta perciò di un tema di esiziale importanza pratica con dirompenti conseguenze sui procedimenti penali: infatti, il legislatore ha previsto, in presenza di determinati presupposti ritenuti significativi della presenza del fenomeno della “contestazione a catena” e di una possibile pratica elusiva della disciplina dei termini di custodia cautelare, la retrodatazione dei termini cautelari al momento di esecuzione o di notifica del primo provvedimento con eventuale perdita di efficacia delle misure cautelari a seguito di detta retrodatazione. Poiché la sanzione processuale della retrodatazione degli effetti dell’ordinanza cautelare emessa successivamente è meramente collegata alla presenza di determinati presupposti relativi ai fatti oggetto delle diverse contestazioni cautelari - la cui sussistenza è sufficiente a determinare la sanzione processuale in parola (e la possibile inefficacia della misura cautelare successivamente applicata) - non occorre ovviamente provare una negligenza o peggio una finalità elusiva da parte degli organi che hanno chiesto ed applicato la misura per ottenere la retrodatazione degli effetti: ciò comporta che la retrodatazione dei termini di custodia cautelare si verifica oggettivamente anche a prescindere dalla positiva sussistenza di un uso soggettivamente artificioso delle misure cautelari, rischiando così talvolta di trasformarsi in un meccanismo formale con conseguenze dirompenti sui procedimenti in corso, specie ove questi riguardino soggetti per i quali sussiste il rischio di fuga, in quanto in questi casi, a seguito della cessazione di efficacia della residua misura cautelare, l’eventuale condanna finisce per ridursi ad un mero “flatus vocis privo di reali conseguenze per il soggetto che la subisce. Tali opposti rischi – quello di un uso arbitrario della reiterazione delle misura cautelari a fini elusivi della disciplina sui termini (da necessariamente oggettivare in una situazione che si possa ritenere di per sé significativa di tale rischio, attesa l’impersonalità degli atti giurisdizionali e la conseguente irrilevanza dei soggettivi moventi psicologici della persona fisica che agisce quale organo dell’autorità giudiziaria) e quello del sacrificio delle esigenze cautelari sottese all’applicazione della misura in virtù di un meccanismo meramente formale tale da pregiudicare interessi primari della collettività e vanificare gli effetti del procedimento penale pur in assenza di ragioni sostanziali che si siano verificate nella specie – sta alla base di due opposte tendenze ermeneutiche che segnano le pronunce giurisprudenziali in materia (e che parzialmente spiegano i numerosi contrasti sul punto): da un lato una tendenza a privilegiare il dato letterale e, quindi, interpretazioni che esaltino il principio di subordinazione del giudice alla legge (interpretazione formale); dall’altro una tendenza a privilegiare interpretazioni che esaltino la “ratio” della norma e orientino la soluzione dei casi concreti a seconda che si ritenga sussistere o meno la ragione sostanziale posta a base della disciplina normativa (interpretazione sostanziale). Quale che sia la tendenza ermeneutica privilegiata, in entrambi i casi il punto di partenza non può che essere costituito dal dato normativo positivo rappresentato dall’enunciato di cui all’art. 297 comma 3 c.p.p.. Invero, proprio per la particolare conflittualità giurisprudenziale sul tema e per la tendenza a sovrapporre all’espressione letterale legislativa formule giurisprudenziali ritenute conformi alla “ratio” normativa ma non strettamente ricavabili dalla disposizione legislativa, da un lato occorre conoscere il contenuto delle principali sentenze della Cassazione, essendo indispensabile tale nozione per rendersi conto della disciplina normativa concretamente applicata nei tribunali e nelle corti – tale da non poter essere ricostruita in base alla mera lettura dell’art.297 comma 3 c.p.p. (ciò che apre il delicato problema (che non può essere dibattuto in questa sede) del cd. “diritto giurisprudenziale” - dall’altro si impone vieppiù una particolare attenzione al testo normativo, in modo da segnare le eventuali derive giurisprudenziali non consentite dalla lettera della norma e le deviazioni dal percorso logico giuridico imposto dalla disposizione normativa. Infatti la descrizione dei presupposti cui è collegata la sanzione processuale della retrodatazione degli effetti della misura, fornisce lo schema di fondo su cui possono innestarsi le precisazioni giurisprudenziali sulla portata dei singoli elementi costitutivi della fattispecie processuale. Il testo normativo offre quindi l’elenco degli argomenti da trattare e l’ordine-logico giuridico secondo il quale devono essere affrontati per risolvere i problemi posti dai casi concreti. Si tenterà quindi di offrire una esegesi del testo che seguendo il dato letterale della norma consenta di analizzare le pronunce giurisprudenziali secondo l’ordine segnato dalla disposizione di cui all’art. 297 comma 3 c.p.p., partendo quindi dai presupposti generali della contestazione a catena – rappresentati dalla pluralità di ordinanze contro un medesimo soggetto e dalla identità della misura applicata con i diversi provvedimenti – passando poi ad esaminare le due ipotesi fondamentali o subfattispecie – quella dell’identità del fatto e quella dei fatti diversi legati da connessione qualificata (id est concorso formale, continuazione e nesso teleologico limitatamente ai reati commessi per eseguire gli altri) oggetto delle diverse ordinanze – per poi analizzare nella subfattispecie dei fatti diversi gli ulteriori requisiti rappresentati dall’anteriorità del fatto oggetto delle successive ordinanze rispetto alla prima e dalla desumibilità dagli atti – con particolare riguardo ai casi in cui essa è richiesta e quindi alla questione, propostasi in giurisprudenza su questo punto, dell’ammissibilità della contestazione a catena in caso di procedimenti diversi. Verificati i presupposti per il riconoscimento della retrodatazione degli effetti si passeranno quindi ad esaminare le questioni pratiche che si pongono in ordine alle conseguenze della riconosciuta sussistenza della contestazione a catena: ciò con particolare riguardo al regime della sua deducibilità in relazione alla fase su cui incide la retrodatazione e alla possibilità della cd. scarcerazione “ora per allora” e alle modalità con cui può essere dedotta e rilevata; alle modalità di calcolo del termine; alla fase cui è applicabile 1) PLURALITA’ DI ORDINANZE NEI CONFRONTI DI UN IMPUTATO – IDENTITA’ DEL SOGGETTO (TESTO: “se nei confronti di un imputato sono emesse più ordinanze”). IL FENOMENO DELLA PLURALITA’ DI ORDINANZE IN GENERALE. Questa parte dell’enunciato normativo sembra rimarcare un dato ovvio il cui significato normativa pare riducibile al riconoscimento della possibilità di più ordinanze cautelari nei confronti del medesimo soggetto e alla conseguente indicazione che questo è il fenomeno giuridico che il legislatore intende disciplinare.In questi termini la disposizione non pone nessun particolare problema interpretativo, indicando soltanto in generale il fenomeno che si intende disciplinare e specificando solo successivamente gli elementi specifici che costituiscono i presupposti cui è collegato l’effetto giuridico previsto dalla norma (cioè la retrodatazione dei termini: “i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza”). La lettura della prima parte della norma congiuntamente a quella in cui sono previsti gli effetti giuridici chiarisce la ratio dell’intervento legislativo: evitare un possibile “aggiramento” della disciplina in materia di termini cautelari (artt. 303 e 304 c.p.p.) attraverso l’emanazione di una successiva ordinanza quando siano scaduti i termini per quella originariamente disposta. Nessun limite è invece rappresentato dal numero di ordinanze emesse a catena, che possono essere due o più. IPOTESI SPECIALI. Tuttavia una certa attenzione va pur sempre condotta nel verificare quando vi sia pluralità di ordinanze. Il requisito della pluralità infatti impedisce di ravvisare ipotesi di contestazioni a catena quando le ordinanze cautelari, pur emesse in successione, si sostituiscano alle precedenti, come tipicamente avviene nei casi di provvedimenti cautelari emessi ex art. 299 c.p.p. di sostituzione per mutamento del quadro cautelare (sia di aggravamento sia di attenuazione del regime cautelare), nei casi di sostituzione per trasgressione alla misura precedentemente disposta: in tale ipotesi non si tratta infatti di diverse ordinanze cautelari (tanto meno che applicano la stessa misura) ma una semplice ipotesi di successione di ordinanze, la presenza dell’una risulta incompatibile con quella dell’altra. Qui non sussiste alcun pericolo di una distorsione dello strumento cautelare a fini elusivi dei termini che può porsi solo quando le ordinanze siano autonome e quindi rappresentino ciascuna un diverso titolo cautelare da cui far decorrere diversi e nuovi termini.Un problema più delicato è rappresentato dalla successione di ordinanze emesse a seguito di riconosciuta incompetenza territoriale e conseguente trasmissione degli atti secondo il meccanismo processuale degli artt. 22 e 27 c.p.p.. In questi casi, infatti, la giurisprudenza è costante nel ritenere che l’ordinanza emessa dal giudice incompetente e quella emessa in rinnovazione - dal giudice a cui siano giunti gli atti a seguito della trasmissione - siano autonome (tanto che viene riconosciuto l’interesse all’impugnazione della prima ancorché già sia stata emessa la seconda).Tuttavia in questi casi trova applicazione la diversa disciplina di cui all’art. 303 comma 2 c.p.p. secondo cui quando a seguito di annullamento per rinvio o per altra causa [quindi anche a seguito di dichiarazione di incompetenza] il procedimento regredisca o [quindi alternativo] sia rinviato ad altro giudice [come nel caso appunto della declaratoria di incompetenza ex art. 22 e 27 c.p.p. dopo la trasmissione degli atti al P.M.] decorrono di nuovo i termini dalla data del provvedimento che dispone il regresso o il rinvio ovvero dalla sopravvenuta esecuzione della custodia cautelare. IL CONCETTO DI PLURALITA’. Proprio da tale peculiare ipotesi può trarsi la conclusione che l’ipotesi della pluralità delle ordinanze prevista dall’art. 297 comma 3 c.p.p., accanto alla necessaria autonomia dei provvedimenti cautelari preveda la pendenza della situazione cautelare relativa, non nel significato che la prima ordinanza debba ancora avere effetti – altrimenti non si avrebbe contestazione a catena proprio nei casi dove più pregnante è il rischio di un uso distorsivo della reiterazione di ordinanze (quando cioè il primo titolo cautelare sia venuto meno per scadenza dei termini ex artt. 303 e 304 c.p.p.) - ma nel senso che la cessazione dell’efficacia del primo provvedimento non possa ritenersi determinata da un fenomeno di successione di altri provvedimenti incompatibili con l’ordinanza cautelare, siano essi l’adozione di altre ordinanze cautelari che, quantunque autonome, costituiscano un titolo che non può coesistere con il precedente – come nel caso delle ordinanze emesse ai sensi dell’art. 27 c.p.p. - oppure una sentenza di condanna passata in giudicato e in fase di esecuzione (che determina così una situazione di incompatibilità con la permanenza del titolo cautelare), così come ha riconosciuto la stessa giurisprudenza della Cassazione quando ha precisato che non si può porre un problema di contestazione catena e quindi di retrodatazione dei termini cautelari quando per i fatti già oggetto di un primo provvedimento cautelare già si sia in fase di esecuzione della pena. GIURISPRUDENZA Cass. Sez. III n.23779 25/03/2003 Monteforte RV 225911 Est.: Serpico : In tema di cd. contestazione a catena, la disciplina prevista dall’art. 297 comma 3 c.p.p. presuppone che i procedimenti attinenti le diverse ordinanze disponenti la medesima misura per uno stesso fatto, ovvero per fatti diversi commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza in relazione ai quali sussiste connessione ex art. 12 comma 1 lett. b) c.p.p., siano in itinere. Ne consegue che tale disciplina non è applicabile nell’ipotesi in cui per i fatti riguardanti la prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato. 2) IDENTITA’ DELLA MISURA (TESTO: “che dispongono la medesima misura”) NOZIONE DI IDENTITA’ DELLA MISURA. Si tratta di una parte dell’enunciato normativo che spesso non ha ricevuto la dovuta attenzione e che solo di recente è stato oggetto di un interessante approfondimento da parte del S.C. con la sentenza della IV sezione (rel. Marini) 16 novembre 2005-26 aprile 2006 n.14420 (ric. Carradori) RV 234022. CASO: con una prima ordinanza era stata applicata la misura degli arresti domiciliari per un episodio di violazione della legge sugli stupefacenti seguito da un arresto in falgranza; per tale fatto l’interessato aveva patteggiato la pena e la sentenza era passata in giudicato quando, successivamente, con una seconda ordinanza veniva emessa la misura della custodia cautelare in carcere per ulteriori episodi di narcotraffico emersi da intercettazioni telefoniche in corso rispetto alle quali il precedente arresto in flagranza costituiva un intervento finalizzato ad avere riscontro di una lettura di conversazioni criptiche oggetto di ipotesi investigative in tal modo verificate dagli inquirenti. OPZIONI INTERPRETATIVE: Le alternative ermeneutiche che si presentavano all’interprete erano sostanzialmente quelle della utilizzabilità ai fini del giudizio di identità della misura ex art. 297 comma 3 c.p.p. delle distinzioni poste in altre disposizioni del codice tra le diverse misure cautelari (ad esempio tra misure interdittive-misure coercitive; misure custodiali-misure non custodiali); oppure quella della utilizzabilità di norme di assimilazione delle misure, contenute in altre disposizioni del codice (ad esempio l’assimilazione tra arresti domiciliari e custodia cautelare in carcere prevista ai sensi dell’art. 284 comma 5 c.p.p.). PRINCIPIO DI DIRITTO: il principio di diritto affermato nella sentenza per risolvere il caso concreto è stato nel senso “per medesima misura deve intendersi quella ontologicamente identica con riferimento alla norma specifica del codice di rito che la prevede, non potendo invece parlarsi di “medesimezza” sulla sola base della natura coercitiva di misure oggettivamente diverse, contemplate da norme specifiche diverse” con la conseguenza che gli arresti domiciliari non possono considerarsi la stessa misura della custodia cautelare in carcere ai fini e per gli effetti di cui all’art. 297 comma 3 c.p.p. . COROLLARIO: dall’adozione di tale opzione ermeneutica in ordine al concetto giuridico di identità la Cassazione traeva anche il corollario che “la disposizione di cui all’art. 284 comma 5 c.p.p. secondo cui l’imputato agli arresti domiciliari si considera in stato di custodia cautelare si estende ad altri effetti (anche agli effetti dei termini di durata della detenzione) ma non concerne il disposto dell’art.297 comma 3 c.p.p. proprio perché tale norma esige inequivocabilmente che si tratti della “medesima misura”. CONSIDERAZIONI: La sentenza in esame costituisce espressione del privilegio di un’interpretazione letterale restrittiva della disposizione di cui all’art. 297 c.p.p., in linea con la recente sentenza delle SS.UU. Rahulia di cui si tratterà in seguito, benché in questo caso le conseguenze dell’applicazione del criterio ermeneutico stretto e letterale ha conseguenze in malam partem, mentre nel caso della sentenza Rahulia ha conseguenze in bonam partem; non può non rilevarsi peraltro una certa circolarità del ragionamento, in quanto si nega valenza alla norma di assimilazione tra misure (l’art. 284 comma 5 c.p.p.) pur riconoscendo che si tratta di principio stabilito anche e soprattuto ai fini della disciplina in materia di termini, sulla base di una petizione di principio basata sulla lettera “medesima misura” della disposizione letta isolatamente e non coordinato con il testo delle altre disposizioni che regolano la stessa materia; al contrario il fatto che la norma dell’art. 284 comma 5 c.p.p. valga proprio ai fini dei termini, dovrebbe portare a concludere, sulla base dell’argomento della coerenza del legislatore, che l’assimilazione tra custodia in carcere e arresti domiciliari valga anche per l’art.297 comma 3 c.p.p.. Peraltro si tratta di precedente con valore di auctoritas che ha specificamente esaminato il contro-argomento di cui sopra respingendolo, di tal che significherebbe creare notevole confusione e sfuggire al sistema del precedente autorevole (oltre che creare notevoli diseconomie per i probabili annullamenti sul punto) proporre nella giurisprudenza di merito un orientamento opposto, pur non sussistendo ovviamente alcun vincolo in proposito. 3) IDENTITA’ DEL FATTO o CONNESSIONE QUALIFICATA RILEVANZA DELLA DISTINZIONE. La distinzione tra le due subfattispecie cui la norma collega l’effetto di retrodatazione è importante perché diversi sono i presupposti per la retrodatazione nei due casi: nell’ipotesi di fatto identico questo è l’unico requisito; nell’ipotesi di concorso formale, continuazione o connessione teleologica tra reati commessi per eseguirne altri, si pone l’ulteriore requisito dell’anteriorità del fatto (oggetto dell’ultima ordinanza rispetto alla precedente) – requisito che in ogni caso deve sussistere quando i fatti oggetto delle diverse ordinanze siano “differenti” nel senso utilizzato dall’art. 297 comma 3 - e si pone l’ulteriore problema della desumibilità dagli atti dei fatti. Tale ultimo problema è stato oggetto come si vedrà dei principali contrasti giurisprudenziali, anche tra SS.UU., in ordine all’individuazione delle ipotesi in cui detto requisito ulteriore, in particolare se debba sussistere solo in caso di ordinanze cautelari emesse in procedimenti diversi (rectius diversi o separati) in uno dei quali sia intervenuto rinvio giudizio, come espressamente previsto dal legislatore, oppure anche nel caso di ordinanze emesse nel medesimo procedimento (rectius medesimo o riunito), nel qual caso la desumibilità degli atti dovrebbe intendersi anteriore all’emissione della prima ordinanza cautelare e non al rinvio a giudizio, non verificatosi; i contrasti si manifestano poi anche su cosa debba intendersi per “desumibilità dagli atti”, e cioè se la nozione di desumibilità debba essere intesa in astratto o in concreto, e se la stessa debba consistere nell’emersione di elementi sufficienti a integrare il requisito di gravità indiziaria o solo a individuare il fatto. 3A) IDENTITA’ DEL FATTO (TESTO: “per uno stesso fatto, benché diversamente circostanziato o qualificato”) AMMISSIBILITA’ E LIMITI DELLA PLURALITA’ DI ORDINANZE PER UNO STESSO FATTO CONTRO LO STESSO SOGGETTO. La parte di enunciato in esame ammette implicitamente che possano essere legittimamente emesse più ordinanze cautelari nei confronti di uno stesso soggetto per gli stessi fatti: non sono dunque illegittime, nulle o altrimenti viziate, le ordinanze cautelari emesse nei confronti dello stesso soggetto per lo stesso fatto oggetto di una ordinanza precedente emessa contro di lui; l’unico effetto è la retrodatazione dei termini dell’ordinanza successiva al momento di notifica o esecuzione della prima, salvi due soli limiti: non è possibile emettere la nuova ordinanza quando siano già scaduti i termini per la prima ex artt. 303 e 304 c.p.p., giacché in tal caso si emetterebbe un’ordinanza che nasce inefficace, in contrasto con il principio di conservazione degli atti giuridici e con il principio di economia processuale (in base al quale è inutile emettere un atto improduttivo di qualsiasi effetto); non è parimenti possibile emettere la nuova ordinanza quando si sia formato il giudicato cautelare negativo su una precedente richiesta di misura cautelare, quello cioè formatosi sul provvedimento che ha rigettato la richiesta e che impedisce l’emissione di una nuova ordinanza basata sui medesimi elementi già valutati in negativo dal primo giudice o dal Tribunale del riesame o dalla Cassazione in sede di impugnazione nel procedimento incidentale “de libertate” (sui rapporti tra riproposizione della richiesta basata su nuovi elementi e appello ex art. 310 c.p.p. contro l’ordinanza reiettiva del primo giudice, con possibilità di deduzione dinanzi al Tribunale del riesame di nuovi elementi cfr. SU 31 marzo 2004, Donelli, che precisa altresì la portata del giudicato cautelare negativo). GIURISPRUDENZA Cass. Sez. 4, Sentenza n. 41370 del 30/10/2001 Cc. (dep. 20/11/2001 ) Rv. 220983 Presidente: Lisciotto F. Estensore: Marzano F. Imputato: Boddli. P.M. Iannelli M. (Conf.) In tema di provvedimenti concernenti nessuna disposizione di legge vieta che per uno stesso fatto di reato siano emessi più provvedimenti cautelari, rilevando la circostanza solo ai l'applicazione di misure cautelari personali, poiché fini della durata della misura ai sensi del comma 3 dell'art. 297 cod. proc. pen. nell'ipotesi in cui il GIP, emesso un provvedimento cautelare, trasmetta successivamente, senza dichiarare la propria incompetenza, gli atti, ai sensi dell'art. 16 del codice di rito, a diverso P.M. ed il GIP presso quest'ultimo emetta a sua volta ulteriore provvedimento custodiale, nessuna nullità si verifica per violazione dell'art.27 cod. proc. pen. Massime precedenti Conformi: N. 1529 del 1992 Rv. 190831 Massime precedenti Vedi Sezioni Unite: N. 16 del 1994 Rv. 199389 Cass. Sez. 5, Sentenza n. 2815 del 28/11/1995 Cc. (dep. 27/12/1995 ) Rv. 203590 Presidente: Messina B. Estensore: Nappi A. Imputato: Tuttolomondo. (Conf) (Rigetta, Trib. Roma, 29 maggio 1995). Il divieto del "bis in idem" non vige in riferimento alle misure cautelari, sicché è legittima la reiterazione di una misura anche per il medesimo fatto, salva l'unificazione dei termini di durata massima, quando ricorrano le condizioni previste dall'art. 297 cod. proc. pen., allo scopo di evitare l'artificio delle cosiddette contestazioni a catena. (Fattispecie relativa a custodia cautelare in carcere per bancarotta fraudolenta). Massime precedenti Conformi: Rv. 196705 Rv. 195338 Rv. 197592Massime precedenti Vedi: Rv. 199869 Massime precedenti Vedi Sezioni Unite: Rv. 195354 Cass. Sez. 1, Sentenza n. 568 del 28/01/1994 Cc. (dep. 16/03/1994 ) Rv. 196705 Presidente: Valente A. Estensore: Valente V. Imputato: Tripepi. (Conf.) (Rigetta, Trib. Reggio Calabria, 27 agosto 1993). La circostanza che il fatto costituente l'imputazione riportata in un'ordinanza applicativa di una misura cautelare sia identico a quello che ha formato oggetto di altra imputazione, posta a base di altro provvedimento di coercizione, non costituisce motivo di nullità dell'ordinanza stessa, influendo tale situazione sul computo della durata della custodia cautelare. Massime precedenti Conformi: N. 3450 del 1993 Rv. 195338 CONCETTO DI IDENTITA’ DEL FATTO: lo stesso enunciato normativo specifica chiaramente che il fatto deve considerarsi identico ai fini della norma in esame anche nel caso in cui siano formulati fatti che integrano nuove aggravanti (“diversamente circostanziato”) sia quando la modifica riguardi la sola qualificazione giuridica restando immutati i fatti storici; a maggior ragione pertanto quando vengano solo aggiunti dettagli nella descrizione dell’azione non ancora accertati al momento di emissione dell’originario provvedimento cautelare. GIURISPRUDENZA Cass. Sez. 1, Sentenza n. 5429 del 21/10/1996 Cc. (dep. 04/12/1996 ) Rv. 206183 Presidente: La Cava P. Estensore: Fazzioli E. Imputato: Greco. P.M. Uccella F. (Parz. Diff.) (Annulla con rinvio, Trib. Palermo, 19 aprile 1996). La locuzione "stesso fatto" di cui all'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen. ha un significato più esteso dell'espressione "medesimo fatto" di cui all'art. 649 cod. proc. pen., ricomprendendo - fermo restando un nucleo originario comune - tutte le diverse possibilità di commissione o di articolazione di un determinato fatto criminoso. Ne consegue che, qualora venga contestata a taluno l'esecuzione materiale di un delitto (nella specie omicidio), per il quale egli già sia stato assolto dall'imputazione di esserne stato il mandante, legittimamente viene emessa una nuova ordinanza di custodia cautelare, non potendo ravvisarsi nelle diverse condotte contestate il "medesimo fatto", ma non può decorrere un nuovo termine di custodia cautelare, dovendo ritenersi ricorrere un'ipotesi di "stesso fatto" prevista dall'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen.. ESIGENZE PRATICHE: il ricorso all’emissione di plurime ordinanze cautelari per lo stesso fatto a carico della medesima persona, lungi dal costituire un evento straordinario o patologico (dovuto ad esempio a disattenzione o mancata conoscenza della precedente ordinanza cautelare), risponde invece a una esigenza fisiologica del sistema processuale vigente, connessa all’esigenza di continuo aggiornamento del titolo cautelare in rapporto all’evoluzione del procedimento principale: sul punto Cass. SU 5 luglio 2000, Monforte, hanno precisato che, se nel dibattimento viene effettuata una contestazione suppletiva di un’aggravante ad effetto speciale, il calcolo dei termini va fatto sulla base del solo titolo cautelare [nella specie privo dell’aggravante ad effetto speciale] “non potendosi rinvenire nel nostro ordinamento giuridico la possibilità di adeguamento automatico del titolo cautelare” per il quale è perciò necessaria una ulteriore ordinanza ai sensi degli artt. 292 e 297 comma 3 c.p.p., emessa perciò per il medesimo fatto a carico dello stesso soggetto, in base al concetto di identità del fatto che il legislatore ha adottato a questi fini; CONSEGUENZE: proprio il sistema processuale sopra delineato chiarisce come, contrariamente a quanto talvolta viene sostenuto, l’emissione di un ordinanza cautelare per lo stesso fatto non revoca o sostituisce (neppure implicitamente) l’ordinanza precedente, ma determina una situazione di coesistenza giuridica di più ordinanze cautelari autonome, tutte vigenti, e come tali idonee a determinare un fenomeno di contestazione a catena con retrodatazione dei termini cautelari al momento di notifica o esecuzione della prima ordinanza. PROBLEMI APPLICATIVI: il tema che ha costituito il nucleo fondamentale di casi in cui ha assunto rilevanza pratica la distinzione tra fatti identici e fatti diversi ai fini della contestazione cautelare a catena, è stato quello dei reati permanenti e, in particolare, dei reati associativi. In taluni casi, ad esempio, di partecipazione ad una stessa associazione criminosa e con la sola diversità dei tempi di commissione del reato a distinguere i fatti oggetto delle ordinanze cautelari successive si è esclusa la retrodatazione, non ravvisandosi una identità dei fatti, ciò sulla base di due principali argomenti: uno volto ad evidenziare la differenza tra pluralità di fatti che integrano un unico reato (che caratterizza il reato permanente) e il caso dell’unicità del fatto, non di reato, che caratterizza la contestazione a catena); l’altro volto a evidenziare l’elemento temporale quale elemento essenziale del reato, il cui mutamento incide quindi sul mutamento del fatto-reato (di tal ché si avrebbero non solo più fatti ma anche più reati, conclusione questa avversata da altre sentenze emesse in relazione a casi in cui la fattispecie è stata esaminata sotto il profilo della diversità dei fatti e degli ulteriori requisiti necessari a comportare in questi ultimi casi la retrodatazione). In altri casi si sottolinea invece il carattere interruttivo della permanenza esercitato dalla custodia in carcere (conclusione peraltro avversata da altre sentenze emesse anche in questo caso in relazione ad ipotesi in cui la fattispecie è stata esaminata sotto il profilo della diversità dei fatti e degli ulteriori requisiti necessari a comportare in questi ultimi casi la retrodatazione). Si tratta in fondo di precedenti giurisprudenziali che richiamano l’esigenza di valutare l’autorevolezza del precedente alla luce del caso concreto esaminato, leggendo, interpretando e limitando il valore della massima o del principio di diritto sulla base del caso esaminato. Va poi sottolineato come l’adozione dell’una o dell’altra soluzione interpretativa in punto di negazione dell’identità del fatto, a seconda che riconosca o meno la cessazione della permanenza si riflette, come si vedrà in seguito, sulla possibilità di ritenere sussistente il requisito dell’anteriorità del fatto, che deve sempre sussistere ai fini della retrodatazione quando si ritenga di versare in casi di ordinanze aventi per oggetto fatti diversi. GIURISPRUDENZA Cass. Sez. 5, Sentenza n. 9528 del 08/03/2006 Cc. (dep. 17/03/2006 ) Rv. 233904 Presidente: Foscarini B. Estensore: Nappi A. Relatore: Nappi A. Imputato: Longobardo ed altro. P.M. Salzano F. (Parz. Diff.) (Dichiara inammissibile, Trib. lib. Napoli, 20 Ottobre 2005) Non sussistono i presupposti per l'applicabilità dell'art. 297 comma terzo, cod. proc. pen. - per il quale nell'ipotesi di emissione a carico di un soggetto di più ordinanze dispositive di misure cautelari personali per uno stesso fatto i termini di durata delle misura iniziano a decorrere dal giorno di esecuzione e notifica della prima ordinanza - nel caso in cui la seconda ordinanza cautelare sia emessa per un reato specie associazione permanente, nella per delinquere di tipo mafioso, la cui consumazione si sia protratta successivamente all'emissione della prima ordinanza cautelare, in quanto i fatti idonei a integrare il reato permanente sono plurimi, considerato che la consumazione può essere indefinitamente protratta per volontà dell'agente, ancorché il reato in questione sia unico, con la conseguenza che mancano i presupposti di operatività dell'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., il quale richiede l'unicità del fatto e non l'unicità del reato. Massime precedenti Conformi: N. 2136 del 1999 Rv. 213768, N. 2529 del 1999 Rv. 215206, N. 15874 del 2004 Rv. 228813 Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12984 del 16/02/2006 Cc. (dep. 12/04/2006 ) Rv. 233807 Presidente: Nardi D. Estensore: Monastero F. Relatore: Monastero F. Imputato: Locorotondo. P.M. Cedrangolo O. (Diff.) (Rigetta, Trib. lib. Lecce, 8 Novembre 2005) L'emissione nei confronti di uno stesso soggetto di più ordinanze, che dispongono la medesima misura per l'imputazione di partecipazione ad una stessa associazione criminosa, non fa operare la regola della retrodatazione dei termini di durata se le imputazioni sono tra loro diversificate dall'indicazione del tempo di commissione del reato, perché tale regola presuppone che le più ordinanze abbiano ad oggetto lo stesso fatto, che non ricorre quando uno degli elementi essenziali della condotta materiale, relativo appunto al tempo di commissione del reato, muti. Massime precedenti Conformi: N. 2136 del 1999 Rv. 213768, N. 3040 del 1999 Rv. 214532, N. 5518 del 1999 Rv. 212191, N. 15874 del 2004 Rv. 228813 Cass, Sez. 5, Sentenza n. 3098 del 14/12/2005 Cc. (dep. 25/01/2006 ) Rv. 233746 Presidente: Lattanzi G. Estensore: Nappi A. Relatore: Nappi A. Imputato: Lanzino. P.M. Consolo S. (Conf.) (Rigetta, Trib. Cosenza, 14 Gennaio 2005) In tema di c.d. contestazione a catena, non opera la disposizione dell'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen. in riferimento a fatti successivi alla applicazione della prima misura cautelare (Fattispecie nella quale due successive ordinanze di custodia cautelare erano state adottate in riferimento al reato di cui all'art. 416 bis cod. pen.. La Corte ha rilevato che il reato di partecipazione ad associazione mafiosa è di natura permanente ma ciascun atto di partecipazione è da solo sufficiente ad integrarlo, sicché i fatti rilevanti ai sensi dell'art. 416 bis cod. pen. sono plurimi. Ne consegue che le condotte susseguenti alla adozione della prima ordinanza cautelare possono legittimare la adozione di una misura non soggetta a retrodatazione, poiché l'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen. richiede la unicità del fatto e non l'unicità del reato). Cass. sez. 5, Sentenza n. 2136 del 06/05/1999 Cc. (dep. 11/06/1999 ) Rv. 213768 Presidente: Consoli G. Estensore: Marasca G. Imputato: Lezzi G. P.M. Matera M. (Conf.) (Rigetta, Trib.Riesame Lecce, 17 febbraio 1999). In tema di reato associativo, la permanenza cessa anche con la privazione della libertà personale dell'agente , con la conseguenza che, se -successivamente alla istaurazione dello stato di detenzione- risulti provata ulteriore adesione al sodalizio criminoso, deve ravvisarsi nuovo ed autonomo reato, per il quale può essere emesso nuovo provvedimento cautelare coercitivo, dalla cui notifica decorre nuovo termine di custodia cautelare. Cass. Sez. 6, Sentenza n. 2529 del 01/07/1999 Cc. (dep. 03/08/1999 ) Rv. 215206 Presidente: Trojano P. Estensore: Di Virginio A. Imputato: Meduri. (Diff.) (Rigetta, Trib. Reggio Calabria, 14 gennaio 1999). La disposizione di cui all'art. 297, terzo comma, cod. proc. pen. non trova applicazione quando i vari reati, che possono legittimare l'adozione di più misure cautelari, siano obiettivamente e storicamente diversi, anche se in sede di cognizione vengano apprezzati come reato unico sotto il profilo della permanenza. Ed invero la norma richiamata postula l'identità del fatto e non l'identità del reato, sicché non può trovare applicazione quando i fatti restino obiettivamente diversi, seppure tali da integrare gli estremi di un reato unico la cui consumazione si protragga nel tempo. (Fattispecie in tema di ordinanze cautelari relative al reato di cui all'art. 416 bis cod. pen. in cui l'ultima era stata emessa per fatti nuovi commessi successivamente alle precedenti ordinanze). Massime precedenti Conformi: N. 3662 del 1996 Rv. 205877, N. 4490 del 1996 Rv. 205319, N. 1831 del 1998 Rv. 211141, N. 2136 del 1999 Rv. 213768, N. 3040 del 1999 Rv. 214532 Massime precedenti Vedi Sezioni Unite: N. 9 del 1997 Rv. 208167 Cass. Sez. 6, Sentenza n. 15874 del 17/02/2004 Cc. (dep. 02/04/2004 ) Rv. 228813 Presidente: Fulgenzi R. Estensore: Colla G. Imputato: Panico. P.M. Iacoviello FM. (Diff.) (Rigetta, Trib. Napoli, 7 ottobre 2003). In tema di cosiddetta "contestazione a catena", qualora, disposta la custodia cautelare per il delitto di associazione per delinquere, venga riemessa la medesima misura dopo la scarcerazione dell'imputato, in relazione alla persistenza della sua adesione al sodalizio criminoso, la decorrenza dei termini di durata della misura applicata con l'ulteriore ordinanza non va retrodatata al momento di esecuzione o notificazione della prima, in quanto si è in presenza di un nuovo e autonomo delitto, cessando la permanenza del reato associativo con la privazione della libertà personale dell'agente. Massime precedenti Conformi: N. 2136 del 1999 Rv. 213768, N. 3040 del 1999 Rv. 214532Massime precedenti Vedi: N. 27419 del 2003 Rv. 225689, N. 12263 del 2004 Rv. 228470, N. 19601 del 2004 Rv. 228225 Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12984 del 16/02/2006 Cc. (dep. 12/04/2006 ) Rv. 233807 Presidente: Nardi D. Estensore: Monastero F. Relatore: Monastero F. Imputato: Locorotondo. P.M. Cedrangolo O. (Diff.) (Rigetta, Trib. lib. Lecce, 8 Novembre 2005) L'emissione nei confronti di uno stesso soggetto di più ordinanze, che dispongono la medesima misura per l'imputazione di partecipazione ad una stessa associazione criminosa, non fa operare la regola della retrodatazione dei termini di durata se le imputazioni sono tra loro diversificate dall'indicazione del tempo di commissione del reato, perché tale regola presuppone che le più ordinanze abbiano ad oggetto lo stesso fatto, che non ricorre quando uno degli elementi essenziali della condotta materiale, relativo appunto al tempo di commissione del reato, muti. Massime precedenti Conformi: N. 2136 del 1999 Rv. 213768, N. 3040 del 1999 Rv. 214532, N. 5518 del 1999 Rv. 212191, N. 15874 del 2004 Rv. 228813 Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 6252 del 09/02/2006 Cc. (dep. 16/02/2006 ) Rv. 233857 Presidente: Nardi D. Estensore: Davigo P. Relatore: Davigo P. Imputato: Alfuso. P.M. Monetti V. (Conf.)(Dichiara inammissibile, Trib.lib. Napoli, 23 Settembre 2005) In tema di divieto di contestazione "a catena", qualora, disposta la custodia cautelare per un reato-fine dell'associazione per delinquere, venga emessa nei confronti dell'imputato una ulteriore misura in relazione a tale ultimo reato, la decorrenza dei termini di durata della custodia cautelare non va retrodatata ai sensi dell'art. 297, comma terzo cod. proc. pen., qualora la partecipazione all'attività associativa, benché risalente ad epoca antecedente all'esecuzione della prima misura, sia perdurata, nonostante la privazione della libertà, sino al momento dell'emissione della seconda ordinanza. Massime precedenti Difformi: N. 4939 del 1996 Rv. 204275, N. 2136 del 1999 Rv. 213768, N. 3040 del 1999 Rv. 214532, N. 15874 del 2004 Rv. 228813 Massime precedenti Vedi: N. 550 del 1993 Rv. 193335, N. 2525 del 1994 Rv. 198346, N. 3581 del 1994 Rv. 201385, N. 4380 del 1997 Rv. 208825, N. 5518 del 1999 Rv. 212191, N. 12907 del 2001 Rv. 218440 Cass. Sez. 1, Sentenza n. 29669 del 17/06/2003 Cc. (dep. 16/07/2003 ) Rv. 225064 Presidente: Chieffi S. Estensore: Vancheri A. Imputato: Greco. P.M. Viglietta G. (Diff.) (Rigetta, Trib. Libertà Palermo 18 dicembre 2002). * CONFORME A CASSAZIONE ASN:199902529 RV:215206 S Massime precedenti Conformi: N. 2529 del 1999 Rv. 215206 Cass. Sez. 5, Sentenza n. 30040 del 12/06/2003 Cc. (dep. 17/07/2003 ) Rv. 225835 Presidente: Marrone F. Estensore: Amato A. Imputato: Scaccio. P.M. Hinna Danesi F. (Conf.) (Rigetta, Trib. Libertà Palermo, 28 febbraio 2003). * CONFORME A CASSAZIONE ASN:199902529 RV:215206 Massime precedenti Conformi: N. 2529 del 1999 Rv. 215206 Cass. Sez. 5, Sentenza n. 4380 del 10/10/1997 Cc. (dep. 10/11/1997 ) Rv. 208825 Presidente: Pandolfo GV. Estensore: Rotella M. Imputato: Latella ed altri. P.M. Martusciello V. (Diff.)(Annulla con rinvio, Trib. Reggio Calabria, 27 gennaio 1996). In materia di termini di durata della misura cautelare, posto che la permanenza del vincolo associativo di taluno non si ritiene cessata con la detenzione, l'identità della condotta di partecipazione ad una stessa associazione criminale, (ai fini dell'applicazione del terzo comma dell'art. 297 cod. proc. pen.), non può escludersi solo perché la varietà delle vicende dell'organismo delinquenziale, accertate a stregua di successive emergenze, ne abbiano importato più contestazioni. Trattandosi di associazione di stampo mafioso, perciò, al fine di escludere l'identità dei fatti consecutivamente ascritti a taluno, non rileva ne' il termine finale che si desume dalla data di contestazione, ne' che l'organizzazione sia intanto mutata per il numero dei componenti o che, in talun periodo, essa sia entrata in guerra con altre organizzazioni rivali, o che il programma di controllo socio economico si sia esteso a settori in origine non previsti, salvo che vi sia ragione di ritenere una successione di diversi organismi, sia pure con lo stesso nome sullo stesso territorio, o lo scioglimento dell'imputato dal precedente vincolo associativo, con assunzione di un vincolo nuovo pur con le stesse persone. Pertanto, l'evoluzione naturale dell'organismo, e conseguentemente della condotta dei membri in relazione anche a vicende sociali o personali (per esempio la detenzione), non esclude l'identità del fatto configurato in termini relativamente diversi in più ordinanze di custodia. Viceversa solo la provata successione di un'associazione nuova all'altra, o la volontaria dissociazione dell'imputato, o l'intervento di una pronuncia giudiziale che segni una censura temporale della condotta ascrittagli con il primo provvedimento, consentono di ritenere che i termini di custodia relativi a quello successivo decorrano dalla notifica o esecuzione. Massime precedenti Conformi: N. 2525 del 1994 Rv. 198346 “ovvero per fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza in relazione ai quali sussiste connessione ai sensi dell’art. 12 comma 1 lett. b) e c), limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri”) 3B) CONNESSIONE QUALIFICATA (TESTO: ANTERIORITA’ DEI FATTI: Si tratta di un requisito che deve sussistere in generale in caso di fatti diversi, con la conseguenza che la sua assenza rende del tutto inutile esaminare gli ulteriori requisiti della sussistenza di una connessione qualificata e, se del caso, della desumibilità dagli atti. Pur essendo un requisito di più facile rilievo è spesso inspiegabilmente trascurato dai giudici di merito che pure in molti casi potrebbero trovare nella sua assenza una facile soluzione al problema di contestazione a catena loro sottoposto. I maggiori problemi pratici sono rappresentati dal reato permanente e dai reati associativi rispetto ai reati fine, sotto il duplice profilo della riconoscibilità della continuazione tra reato associativo e reati-fine e sotto il profilo dell’anteriorità del reato fine nella permanenza dell’associazione. In particolare si trova spesso sostenuto nei precedenti di Cassazione che se la permanenza del reato associativo prosegue anche dopo la commissione del reato fine, l’applicazione successiva di misura cautelare per il fatto associativo non determinerebbe una ipotesi di contestazione a catena rispetto alla precedente ordinanza applicativa di misura per il reato fine, ciò anche nei casi in cui si riconosca l’esistenza di una connessione qualificata tra fattispecie associativa e reato-fine. E’ interessante notare come in questi casi, riconoscere alla detenzione un effetto interruttivo della permanenza, determina l’impossibilità di riconoscere l’anteriorità del fatto associativo commesso dopo l’esecuzione della prima misura cautelare per il reato fine, mentre la stessa questione sulla valenza interruttiva della carcerazione viene talvolta affrontata per negare il requisito dell’identità del fatto: pertanto il riconoscimento o meno dell’effetto interruttivo della carcerazione ha conseguenze opposte sulla sussistenza del requisito dell’identità del fatto o dell’anteriorità del fatto rispetto ad uno diverso – l’interruzione della permanenza per carcerazione da un lato porta a negare la contestazione a catena sub specie di pluralità di ordinanze per un medesimo fatto ma porta viceversa ad affermarla sub specie di pluralità di ordinanze per fatti diversi tutti anteriori all’emissione della prima ordinanza. GIURISPRUDENZA Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 6252 del 09/02/2006 Cc. (dep. 16/02/2006 ) Rv. 233857 Presidente: Nardi D. Estensore: Davigo P. Relatore: Davigo P. Imputato: Alfuso. P.M. Monetti V. (Conf.) (Dichiara inammissibile, Trib.lib. Napoli, 23 Settembre 2005) In tema di divieto di contestazione "a catena", qualora, disposta la custodia cautelare per un reatofine dell'associazione per delinquere, venga emessa nei confronti dell'imputato una ulteriore misura in relazione a tale ultimo reato, la decorrenza dei termini di durata della custodia cautelare non va retrodatata ai sensi dell'art. 297, comma terzo cod. proc. pen., qualora la partecipazione all'attività associativa, benché risalente ad epoca antecedente all'esecuzione della prima misura, sia perdurata, nonostante la privazione della libertà, sino al momento dell'emissione della seconda ordinanza. Massime precedenti Difformi: N. 4939 del 1996 Rv. 204275, N. 2136 del 1999 Rv. 213768, N. 3040 del 1999 Rv. 214532, N. 15874 del 2004 Rv. 228813Massime precedenti Vedi: N. 550 del 1993 Rv. 193335, N. 2525 del 1994 Rv. 198346, N. 3581 del 1994 Rv. 201385, N. 4380 del 1997 Rv. 208825, N. 5518 del 1999 Rv. 212191, N. 12907 del 2001 Rv. 218440 Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17575 del 16/03/2006 Cc. (dep. 22/05/2006 ) Rv. 233833 Presidente: Morelli F. Estensore: Diotallevi G. Relatore: Diotallevi G. Imputato: Cardella. P.M. Cedrangolo O. (Conf.) (Rigetta, Trib. lib. Palermo, 18 Novembre 2005) L'applicazione della regola della retrodatazione della decorrenza del termini di custodia cautelare, nel caso di emissione di più ordinanze che dispongono la medesima misura nei confronti dello stesso imputato per fatti diversi, presuppone che i fatti dell'ordinanza rispetto alla quale operare la retrodatazione siano stati commessi anteriormente all'emissione della prima ordinanza, e tale condizione non sussiste nell'ipotesi in cui l'ordinanza successiva abbia ad oggetto la contestazione del reato di associazione di stampo mafioso con descrizione del momento temporale di commissione mediante una formula cosiddetta aperta, che faccia uso di locuzioni tali da indicare la persistente commissione del reato pur dopo l'emissione della prima ordinanza. Massime precedenti Vedi Sezioni Unite: N. 21957 del 2005 Rv. 231057 4) DESUMIBILITA’ DAGLI ATTI (“La disposizione non si applica relativamente alle ordinanze per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio”). IL PROBLEMA INTERPRETATIVO. L’enunciato in esame pone il delicato problema del coordinamento tra la prima parte della norma -in cui sono previste la connessione qualificata e l’anteriorità dei fatti rispetto alla prima ordinanza - e la sua seconda parte - che introduce appunto il requisito della desumibilità dagli atti, ancorandolo però a un atto, il rinvio a giudizio, che non sussiste necessariamente in tutte le ipotesi in cui siano verificati i presupposti di connessione qualificata e anteriorità previsti nella prima parte dell’enunciato medesimo. LE SEZIONI UNITE ATENE. Le soluzioni interpretative offerte al problema interpretativo di cui sopra erano state le più svariate ed avevano consentito comunque di individuare i principali nuclei di dubbio posti dalla norma: se cioè il requisito della desumibilità degli atti costituisse un presupposto generale da riconoscere in tutti i casi di connessione qualificata anche ove non vi fosse rinvio a giudizio, se la contestazione a catena fosse possibile anche in procedimenti diversi e, in relazione a questi casi, se si dovesse intendere la desumibilità come conoscibilità concreta (a seguito di trasmissione) o astratta (per la semplice presenza dell’atto) da parte dell’AG procedente nel procedimento in cui veniva emessa la misura successiva nonché, in generale, se la desumibilità dovesse significare mera individuabilità del fatto o sussistenza di tutti gli elementi necessari ad emettere la misura (e quindi gravi indizi della sussistenza del fatto). In tale quadro intervenivano quindi le SU 25 giugno 1997 Atene generalizzando il requisito della desumibilità sulla base della “ratio” della norma, volta ad evitare un uso pretestuoso dell’adozione successiva delle ordinanze cautelare per aggirare la disciplina in materia di termini: poiché tale uso pretestuoso della reiterazione dei provvedimenti cautelari presuppone la possibilità di emettere l’ordinanza anche per il fatto successivo sin dal momento di emissione della prima ordinanza, il requisito della desumibilità doveva intendersi quale presupposto generale necessariamente sussistente per tutti i casi di connessione qualificata, con l’unica differenza che, ove si trattasse di procedimento in cui già era intervenuto il rinvio a giudizio, la desumibilità dagli atti doveva rapportarsi a tale momento, mentre ove ciò non fosse avvenuto la desumibilità doveva intendersi anteriore all’emissione della prima ordinanza. Poiché l’uso pretestuoso della reiterazione di provvedimenti cautelari implica la possibilità di emetterli per tutti i fatti sin dal momento di applicazione della prima ordinanza, le SU ritenevano che la desumibilità non potesse riconoscersi in caso di “mera notizia del fatto-reato” ma solo ove sussistessero “tutti gli elementi apprezzabili come presupposti per l’emissione delle successive ordinanze cautelari”. D’altro canto le SU non vedevano alcun ostacolo nel ravvisare ipotesi di contestazione a catena anche nel caso di ordinanze emesse in procedimenti diversi, per i quali sussisteva una stessa esigenza di tutela espressa dalla “ratio” dell’art. 297 comma 3, dovendosi ovviare alle difficoltà operative presenti ove i procedimenti pendessero davanti ad AG diverse mediante il “ricorso alla disciplina sul cumulo dei procedimenti dinanzi al giudice individuabile a norma degli artt. 13 ss. c.p.p., anche mediante il contributo della difesa, il cui accesso agli atti nel procedimento de libertate, soprattutto dopo la sentenza 192/97 della Corte Costituzionale, non incontra più limitazioni”. LE SENTENZE DELLA CORTE COSTITUZIONALE TRA LE DUE SENTENZE DELLE SU. Peraltro, mentre le SU affermavano il principio di diritto di cui sopra, prima e dopo, la Corte costituzionale riteneva infondate, manifestamente infondate o manifestamente inammissibili questioni di costituzionalità proposte in relazione alla legittimità dell’art. 297 comma 3, assumendo una interpretazione della norma tale da riconoscere in generale la retrodatazione in tutti i casi di connessione qualificata, restringendo l’ulteriore requisito della desumibilità degli atti al solo caso in cui fosse intervenuto il rinvio a giudizio. In particolare la Corte costituzionale con la sentenza 28 marzo 1996, n.89 e 5 febbraio 1999 n.20 enuncia il limite del suo sindacato alla ragionevolezza della disciplina contenuta nell’art. 297 comma 3 - ritenendola ragionevole - nel presupposto che essa imponga la retrodatazione per connessione qualificata anche quando non vi sia desumibilità dagli atti, contrariamente quindi a quanto sostenuto dalle SU Atene sulla base del cui orientamento la questione avrebbe dovuto quindi ritenersi inammissibile in quanto interpretazione contraria al “diritto vivente”; con la sentenza 3 maggio 2003 n.151 la Corte costituzionale dichiara la inammissibilità di altra questione di costituzionalità dell’art. 297 comma 3 perché ritiene contraria al “diritto vivente” l’interpretazione secondo cui tale disposizione non consentirebbe la retrodatazione in caso di fatti, non legati da connessione qualificata, per i quali sussista però la desumibilità dagli atti per entrambi sin dalla prima ordinanza cautelare. LE SEZIONI UNITE RAHULIA. Per porre fine a questa sorta di solipsismo giudiziario tra Corte di Cassazione e Corte Costituzionale, intervengono nuovamente le SU con la sentenza 22 marzo 2005 (depositata il 10 giugno 2005), RAHULIA e altri, Est. Lattanzi (massime RV 231057, 231058). Con tale decisione viene completamente ribaltato il precedente orientamento delle SU ATENE - orientamento che peraltro era seguito dalla giurisprudenza pressoché costante del S.C. (con l’eccezione di Cass. sez. I 9.11.2004 n.48357 Orlando RV 229435). Le SS.UU. con la sentenza Rahulia affermano infatti che “nel caso di emissione nei confronti di un imputato di più ordinanze che dispongono la medesima misura cautelare per fatti diversi, commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza, legati da concorso formale, da continuazione o da connessione teleologica, la retrodatazione della decorrenza dei termini delle misure disposte con ordinanze successive, prevista dall’art. 297 comma 3 c.p.p., opera indipendentemente dalla possibilità di desumere dagli atti l’esistenza di elementi idonei a giustificare le relative misure”.Viene così reintrodotto l’automatismo del meccanismo di retrodatazione degli effetti della misura in presenza della sola connessione qualificata (e ovviamente dell’anteriorità dei fatti rispetto all’emissione della prima ordinanza), automatismo che le SS.UU. Atene avevano invece inteso evitare in quanto ritenuto foriero di conseguenze “paradossali e irragionevoli” quando avevano esteso anche ai casi di cui alla prima parte dell’art.297 comma 3 c.p.p. il requisito della desumibilità dagli atti che la citata disposizione prevedeva solo nella seconda parte del medesimo comma per il caso di rinvio a giudizio. Le SS.UU. Rahulia hanno invece ritenuto tale automatismo del tutto ragionevole osservando che “il legislatore nel tempo ha assunto alcune relazioni tra i reati come fattispecie di per sé giustificative della retrodatazione senza la necessità di accertare se al momento della prima ordinanza negli atti esistessero o meno gli elementi per emettere anche le successive”, ciò in conformità a plurimi arresti giurisprudenziali della Corte Costituzionale che, in molteplici decisioni interpretative di rigetto succedutesi nel tempo (Corte Cost. ordd. Nn. 221/1996, 349/1996, 20/99 e 244/2003), aveva statuito come l’automatico operare della retrodatazione in presenza di una connessione qualificata, corrispondesse pienamente all’esigenza di comprimere entro spazi sicuri il termine di durata massima delle misure cautelari in aderenza a quanto previsto dall’art. 13 Costituzione e di impedire la diluizione dei termini in ragione dell’episodico concatenarsi di più fattispecie cautelari: la connessione qualificata tra i fatti, come quella espressa dalla continuazione, rappresentava perciò secondo la Corte Costituzionale un “elemento di correlazione contenutistica” tra i diversi fatti tali da giustificarne una “valutazione unitaria agli effetti del trattamento cautelare”. Simili conclusioni della Corte Costituzionale erano state affermate con sentenze interpretative di rigetto delle questioni di costituzionalità sollevate - rappresentavano cioè una pronuncia che riteneva la legittimità costituzionale della norma sulla base di una interpretazione della stessa volta ad affermare l’automatismo del meccanismo della retrodatazione in presenza della sola connessione qualificata: quindi, tale pronunce costituzionali si limitavano ad affermare che una simile interpretazione (volta ad affermare l’automatismo della retrodatazione in presenza della sola connessione) non dessero luogo all’illegittimità della norma, ma ovviamente nulla dicevano sul fatto che detta interpretazione fosse l’unica compatibile con la Costituzione, né tanto meno simili pronunce potevano ritenersi vincolanti in giudizi diversi da quelli “a quo” - operando in simili ipotesi il consueto limite di individuare interpretazioni diverse da quelle eventualmente ritenute illegittime dalla Corte - tanto più che, come visto, il cd “diritto vivente” risultava nettamente orientato (con la sentenza SS.UU. Atene e con le successive sentenze della Cassazione) nel senso di richiedere un ulteriore presupposto rispetto a quello della sussistenza del nesso rilevante tra i fatti oggetto dei diversi provvedimenti coercitivi, cioè quello della desumibilità degli atti anteriore all’emissione della prima ordinanza, con ciò escludendo il predetto automatismo. Tuttavia le SS.UU. Rahulia, proprio partendo dal dato fornito dalle citate decisioni della Corte Costituzionale, hanno rilevato come il dato letterale dell’art. 297 comma 3 prima parte c.p.p. non prevedesse affatto il requisito della desumibilità dagli atti anteriore alla prima ordinanza dei fatti relativi alla seconda misura cautelare, con la conseguenza che la precedente interpretazione delle SS.UU. Atene si scontrava con il dato testuale, secondo cui la desumibilità degli atti era prevista solo nella seconda parte dell’art. 297 comma 3 c.p.p. anteriormente al rinvio a giudizio, e non all’emissione della prima ordinanza cautelare. Osservavano in particolare le SS. UU. Rahulia che i dati testuali non consentivano e non consentono due operazioni ermeneutiche invece effettuate con il precedente orientamento delle SS. UU.: 1) l’estensione del requisito della desumibilità degli atti, previsto dal legislatore solo nella seconda parte dell’art.297 comma 3 c.p.p. per il caso in cui la retrodatazione si ponga rispetto a reati che formano oggetto di procedimenti diversi, anche alle ipotesi di reati oggetto di diversi provvedimenti coercitivi emessi nel medesimo procedimento; 2) la trasformazione del concetto di fatto desumibile dagli atti in quello di quadro legittimante l’adozione della misura desumibile dagli atti, vale a dire in quello di gravi indizi desumibili dagli atti. Partendo quindi dal rilievo che la regola generale in materia di retrodatazione degli effetti - in caso di contestazione a catena - sia quella prevista dall’art.297 comma 3 c.p.p. e che per questa sia richiesta la sola sussistenza di una connessione qualificata tra i fatti oggetto dei diversi provvedimenti coercitivi, la Corte ha ritenuto di poter interpretare anche la seconda parte del medesimo art. 297 comma 3 alla luce di tale regola generale. Il S.C. ha infatti osservato che i reati che si trovano in rapporto di connessione formano normalmente oggetto di un medesimo procedimento a meno che essi non siano desumibili dagli atti ovvero non si sia proceduto alla riunione per una scelta di strategia processuale dell’autorità procedente, scelta che come tale non può comunque andare a discapito della parte che la subisce. Pertanto, il fatto che si proceda separatamente per i reati oggetto dei distinti provvedimenti coercitivi che siano uniti da un nesso rilevante risulta ininfluente ai fini della retrodatazione del termine, nel senso che le stesse ragioni che hanno portato a ritenere giustificata la predetta retrodatazione in presenza della connessione rilevante tra i reati oggetto dei distinti provvedimenti coercitivi emessi nel medesimo procedimento si pongono anche ove, per scelta processuale o per semplice inerzia, si proceda separatamente per i due reati: l’unico caso che impedisce di ravvisare qualsiasi uso strumentale della concatenazione dei provvedimenti coercitivi emessi in procedimenti diversi è rappresentato dall’ipotesi in cui non fosse possibile procedere unitariamente, ciò che si verifica, secondo l’assunto delle SS.UU., appunto nel caso in cui i reati oggetto dei due distinti provvedimenti coercitivi emessi nei due diversi procedimenti non emergessero dagli atti prima del rinvio a giudizio. Dall’articolato percorso argomentativo del S.C. si evince quindi come il meccanismo di retrodatazione ai sensi dell’art.297 comma 3 c.p.p. debba riconoscersi automaticamente in presenza della sola sussistenza di una connessione rilevante tra i reati oggetto dei distinti provvedimenti coercitivi, siano essi stati emessi in un unico procedimento o in procedimenti distinti, con l’unica eccezione rappresentata dal fatto che, ove i diversi provvedimenti coercitivi (emessi successivamente l’uno all’altro) siano stati adottati in distinti procedimenti, e solo in questo caso, occorra anche il requisito della desumibilità dagli atti, anteriormente al rinvio a giudizio per il procedimento in cui è stato emesso il provvedimento coercitivo precedente, del fatto oggetto del provvedimento coercitivo emesso successivamente. Il caso sottoposto alle SS.UU. era rappresentato da una vicenda procedimentale in cui era stata riconosciuta la sussistenza della continuazione tra i reati oggetto dei distinti provvedimenti coercitivi, e conseguentemente l’interpretazione dalla norma sopra indicata risultava sufficiente a risolvere il caso “de quo”, tuttavia il S.C. precisava ulteriormente quanto segue: “rimane peraltro fermo il principio tradizionale che, nel caso di emissione nei confronti di un imputato di più ordinanze che dispongono la medesima misura cautelare per fatti diversi, tra i quali non sussiste la connessione qualificata prevista dall’art.297 comma 3 c.p.p., i termini delle misure disposte con le ordinanze successive decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima, se al momento dell’emissione di questa erano già desumibili dagli atti gli elementi che hanno giustificato le ordinanze successive, quando cioè, nei casi non espressamente previsti dalla suddetta disposizione, pure si accerti che a disposizione dell’autorità giudiziaria, al momento dell’emissione del primo provvedimento, erano idonei indizi di colpevolezza”. Con quest’ultima affermazione la disciplina della retrodatazione dei termini di custodia cautelare in caso di ordinanze coercitive emesse successivamente le une alle altre, quale delineata dal S.C., è quindi così risultante: 1. sussiste connessione qualificata tra i reati oggetto dei provvedimenti coercitivi emessi in successione e i provvedimenti coercitivi in parola sono stati adottati: a. nel medesimo procedimento: in tal caso, opera automaticamente la retrodatazione dei termini; b. in procedimenti distinti e i fatti oggetti del provvedimento coercitivo emesso successivamente erano desumibili dagli atti: i. prima del rinvio a giudizio nel procedimento in cui è stato emesso il precedente provvedimento coercitivo: in tal caso opera la retrodatazione dei termini; ii. dopo il rinvio a giudizio nel procedimento in cui è stato emesso il precedente provvedimento coercitivo: in tal caso non opera la retrodatazione dei termini; 2. non sussiste connessione qualificata e anteriormente all’emissione del precedente provvedimento coercitivo: a. già sussistevano gravi indizi di colpevolezza dei reati oggetto dell’ordinanza emessa successivamente: in tal caso opera la retrodatazione dei termini; b. non sussistevano gravi indizi di colpevolezza dei reati oggetto del successivo provvedimento coercitivo essendo stati acquisti dopo l’ordinanza precedente: in tal caso non opera la retrodatazione dei termini. Orbene la disciplina indicata sopra sub 2), presenta invero i medesimi inconvenienti che hanno indotto il S.C. ad allontanarsi dall’orientamento giurisprudenziale della sentenza Atene, in quanto consentono di ritenere operante la retrodatazione dei termini pur in assenza di una connessione qualificata, in aperto contrasto con il tenore letterale della norma che richiede sempre e comunque la sussistenza di una connessione qualificata tra i reati per l’operare dell’effetto della retrodatazione. In assenza di un enunciato normativo in tal senso e, anzi, in presenza di un enunciato di segno opposto (il citato art.297 comma 3 prima e seconda parte, c.p.p.), non residuano spazi interpretativi che il giudice ordinario possa utilizzare per enucleare una disciplina la cui fonte non sarebbe più normativa ma esclusivamente giudiziale, finendo per operare attraverso una sorta di sentenza additiva che, come tale, può rientrare nelle sole competenze della Corte costituzionale, ove questa ritenga che la norma di cui all’art.297 comma 3 c.p.p. sia incostituzionale (per disparità di trattamento di situazioni consimili) nella parte in cui non prevede che il meccanismo della retrodatazione degli effetti operi anche nel caso di più ordinanze cautelari emesse per reati non uniti da una connessione rilevante ma desumibili dagli atti anteriormente all’emissione del primo provvedimento coercitivo. Tuttavia, non solo le statuizioni della sentenza delle SS.UU. Rahulia relative ai casi di insussistenza di una connessione rilevante tra i reati oggetto dei diversi provvedimenti coercitivi rappresentano un chiaro “obiter dictum” (esulando da quanto necessario per risolvere il caso sottoposto alla Corte), ma introducono una ulteriore distinzione in quanto il requisito della desumibilità dagli atti idonea a far scattare la retrodatazione del termine anche in caso di fatti non legati da connessione qualificata non opera in riferimento a misure cautelari disposte in procedimenti diversi – e questo limite viene espressamente sottolineata nella stessa massima ufficiale redatta sul punto (RV 231059). LA PRONUNCIA DI ILLEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE. Nonostante il tentativo di riavvicinamento operato dalla sentenza SU Rahulia, la CORTE COSTITUZIONALE con la sentenza 24 OTTOBRE 2005 N.408 ha DICHIARATO L’ILLEGITTIMITA’ “NELLA PARTE IN CUI NON SI APPLICA ANCHE A FATTI DIVERSI NON CONNESSI, QUANDO RISULTI CHE GLI ELEMENTI PER EMETTERE LA NUOVA ORDINANZA ERANO GIA’ DESUMIBILI DAGLI ATTI AL MOMENTO DELLA EMISSIONE DELLA PRECEDENTE ORDINANZA. La Corte costituzionale era ben consapevole della nuova sentenza delle SU ma espressamente non l’ha considera “diritto vivente” – e del resto la situazione sottoposta al suo vaglio sarebbe stata davvero singolare in quanto il giudice remittente si trovava vincolato dal principio di diritto enunciato in una sentenza di annullamento con rinvio in cui veniva stabilito un principio opposto a quello sostenuto nell’ultima sentenza delle SU – e ha ritenuto necessaria la pronuncia di una sentenza (interpretativa) di accoglimento parziale, ciò che ad avviso di chi scrive si imponeva, trattandosi di operazione non meramente ermeneutica, cioè attributiva di un significato tra quelli possibili in relazione al lessico e alla sintassi dell’enunciato medesimo, ma manipolativa e creativa, trattandosi di significato che implica una estensione per aggiunzione dell’enunciato medesimo. D’altro canto la sentenza con cui viene dichiarata l’illegittimità, non distingue tra fatti non legati da connessione qualificata per i quali si proceda nello stesso procedimento o in procedimenti diversi, di tal che la norma risultante dalla pronuncia di illegittimità costituzionale estende il requisito della desumibilità anche ai casi di fatti non connessi desumibili dagli atti anteriormente alla prima ordinanza ancorché le ordinanze siano emesse in procedimenti diversi. D’altro canto nella motivazione della sentenza si esplicita la ragione di tale estensione della disciplina della retrodatazione, in quanto “nessuno spazio può residuare in capo agli organi titolari del potere cautelare di sciegliere il momento a partire dal quale possono essere fatti decorrere i termini custodiali in caso di pluralità di titoli e di fatti di reato cui essi si riferiscono. Se dunque il legislatore, in perfetta aderenza con i valori di certezza e di durata minima della custodia cautelare (v. art. 13 primo e ultimo comma, Cost., nonché art.5 comma 3, Convenzione europea dei diritti dell’uomo), ha ritenuto di dover stabilire (...) meccanismi legali di retrodatazione automatica dei termini, in presenza di certe condizioni, nel caso in cui tra i diversi titoli sussista l’indicato nesso di connessione qualificata, a fortiori l’identico regime di garanzia dovrà operare in tutti i casi in cui, pur potendo i diversi provvedimenti coercitivi essere adottati in un unico contesto temporale, per qualsiasi causa l’autorità giudiziaria abbia invece prescelto momenti diversi per l’adozione delle singole ordinanze. La durata della custodia viene così a dipendere non da un fatto obiettivo (rispettoso dunque del canone dell’uguaglianza e della ragionevolezza), quale quello dell’acquisizione di elementi idonei e sufficienti per adottare i diversi provvedimenti cautelari, ma da una imponderabile valutazione soggettiva degli organi titolari del potere cautelare”. Sulla scorta di tali precisazioni sembra chiaro che l’interpretazione conforme al senso delle parole usate dalla Corte del requisito della desumibilità sia quella che prevede la desumibilità di gravi indizi del fatto e delle esigenze cautelari (i gravi indizi e le esigenze costituendo elemento necessario e sufficiente all’adozione della misura cautelare e non la mera acquisizione della notiziareato) e intende la desumibilità in concreto, cioè come presenza a disposizione dell’autorità giudiziaria degli elementi perciò da essa conosciuti o conoscibili (posto che solo in tal caso vi potrebbe essere una imponderabile valutazione soggettiva degli organi titolari del potere cautelare). Non è necessario invece che gli atti fossero a disposizione dell’autorità giudiziaria che ha emesso il successivo provvedimento, posto che l’arbitraria scelta di limitare la misura cautelare idonea a provocare il fenomeno della contestazione a catena è riconoscibile anche quando la possibilità di emettere il provvedimento cautelare per gli ulteriori fatti fosse di uno solo dei giudici che procedono separatamente o sia dovuta a una inammissibile inerzia della prima AG nella trasmissione degli atti alla seconda che procede separatamente. GIURISPRUDENZA Sez. 2, Sentenza n. 4669 del 02/12/2005 Cc. (dep. 03/02/2006 ) Rv. 232991Presidente: Nardi D. Estensore: Monastero F. Relatore: Monastero F. Imputato: Virga. P.M. Galasso A. (Diff.)(Rigetta, Trib. lib. Palermo, 28 Luglio 2005) In tema di cosiddetto divieto di contestazioni a catena, la regola della retrodatazione dei termini della custodia cautelare opera anche in caso di emissione nei confronti dello stesso soggetto di più ordinanze che dispongono la medesima misura cautelare per fatti diversi tra i quali non sussiste alcuno dei vincoli di connessione di cui all'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., se al momento dell'emissione della prima ordinanza vi era già un quadro indiziario di tale gravità e completezza, conoscibile dall'autorità procedente ed apprezzabile in tutta la sua valenza probatoria, da integrare tutti i presupposti legittimanti l'adozione delle ordinanze successive. Massime precedenti Conformi: N. 1290 del 1997 Rv. 208891, N. 290 del 1999 Rv. 214050Massime precedenti Conformi Sezioni Unite: N. 21957 del 2005 Rv. 231059 Sez. 1, Sentenza n. 1077 del 22/11/2005 Cc. (dep. 12/01/2006 ) Rv. 233279 Presidente: Sossi M. Estensore: Corradini G. Relatore: Corradini G. Imputato: Abbascia'. P.M. Iacoviello FM. (Conf.) (Rigetta, Trib. lib. Catania, 18 Maggio 2005) L'illegittimità costituzionale dell'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., dichiarata con la sentenza n. 408 del 24 ottobre 2005, nella parte in cui non si applica anche a fatti diversi, non connessi, quando gli elementi per emettere la nuova ordinanza erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della precedente misura, comporta che, nel caso di assenza di connessione qualificata, spetta al giudice valutare se la contestazione frazionata dei singoli reati sia frutto di una scelta strategica del pubblico ministero ovvero sia effettivamente imposta dalla non desumibilità dagli atti degli elementi per emettere la seconda ordinanza al momento della emissione della prima. Sez. F, Sentenza n. 34557 del 25/07/2003 Cc. (dep. 20/08/2003 ) Rv. 228395 Presidente: Santacroce G. Estensore: Panzani L. Imputato: Falsone. P.M. Iacoviello FM. (Parz. Diff.)(Rigetta, Trib. Palermo, 21 marzo 2003). Nel caso di pluralità di misure cautelari personali applicate nella fase delle indagini preliminari, la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata della custodia per reati contestati con ordinanza che faccia seguito ad altra emessa per reati connessi - così come prevista dal comma terzo dell'art. 297 cod. proc. pen. - opera a condizione che tutti gli elementi di prova pertinenti alla nuova contestazione fossero già a conoscenza dell'autorità giudiziaria nel momento di adozione del precedente provvedimento cautelare. Sez. 6, Sentenza n. 1499 del 27/04/1999 Cc. (dep. 09/07/1999 ) Rv. 214677 Presidente: Sansone L. Estensore: Milo N. Imputato: Biondolillo. P.M. Mura A. (Conf.) (Rigetta, Trib.Palermo, 20 ottobre 1998). In tema di divieto di "contestazioni a catena", la regola di retrodatazione del termine iniziale della custodia al momento di applicazione del più antico provvedimento restrittivo, di cui all'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., incontra, tra l'altro, il limite per cui tale effetto non si verifica se la successiva ordinanza riguarda fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto per il quale è stata emessa la prima ordinanza. In tale ipotesi, qualora il decreto di rinvio a giudizio sia stato annullato dal giudice del dibattimento, e ne sia stato emesso conseguentemente un altro, è solo al primo decreto di rinvio a giudizio che deve farsi riferimento, quale momento processuale qualificante e storicamente definito, per valutare se il materiale probatorio raccolto fosse o no già entrato nella potenziale sfera cognitiva del giudice che ha adottato la successiva ordinanza coercitiva, restando pertanto irrilevante, a tali fini, l'annullamento di detto decreto. Sez. 5, Sentenza n. 43461 del 02/12/2002 Cc. (dep. 20/12/2002 ) Rv. 223127 Presidente: Ietti G. Estensore: Panzani L. Imputato: Salzano. P.M. Monetti V. (Conf.) (Dichiara inammissibile, Trib. Libertà Napoli, 18 aprile 2002). * CONFORME A CASSAZIONE ASN:199901499 RV:214677 S Massime precedenti Conformi: N. 1499 del 1999 Rv. 214677 Sez. 6, Ordinanza n. 12396 del 20/01/2005 Cc. (dep. 04/04/2005 ) Rv. 231317 Presidente: De Roberto G. Estensore: Rotundo V. Relatore: Rotundo V. Imputato: Azzolina. P.M. Favalli M. (Conf.) (Rigetta, Trib.Ries. Caltanissetta, 11 Maggio 2004) In tema di divieto di "contestazioni a catena", la retrodatazione del termine iniziale della custodia al momento dell'applicazione del provvedimento restrittivo più antico non si verifica se la successiva ordinanza riguarda fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto per il quale è stata emessa la prima ordinanza; in tale ipotesi, qualora il decreto di rinvio a giudizio sia stato annullato dal giudice del dibattimento e ne sia stato emesso un altro, è solo al primo decreto di rinvio a giudizio che deve farsi riferimento, quale momento processuale qualificante e storicamente definito, per valutare se il materiale probatorio raccolto fosse o meno già entrato nella potenziale sfera cognitiva del giudice che ha adottato la successiva ordinanza coercitiva, restando irrilevante l'annullamento del decreto. Massime precedenti Conformi: N. 1499 del 1999 Rv. 214677, N. 43461 del 2002 Rv. 223127 5) VINCOLO NEL PROCEDIMENTO INCIDENTALE AI FINI DEL RICONOSCIMENTO DELLA CONTESTAZIONE A CATENA UNA VOLTA RICONOSCIUTA LA CONTINUAZIONE NEL PROCEDIMENTO DI MERITO. Sui rapporti tra procedimento principale di merito e procedimento incidentale risulta essersi ripetutamente espressa la giurisprudenza e in particolare la Corte Cost. che con la nota sentenza n.71 del 15.3.1995 ha precisato che l’autonomia del procedimento incidentale rispetto al procedimento principale non può interpretarsi in termini rigorosi e astratti, giacché ciò condurrebbe alla paradossale conseguenza di ritenere possibile la rivalutazione dei gravi indizi di colpevolezza in qualsiasi momento del processo e dunque anche dopo la sentenza di condanna, in aperta antinomia con la coerenza del sistema che non tollera il concorso di due pronunce giurisdizionali diverse sul tema della colpevolezza, l’una incidentale e di tipo prognostico e l’altra fondata sul pieno merito e come tale suscettibile di passare in giudicato. Detta decisione, che arrivava poi alla conclusione secondo cui tale assorbimento non poteva ritenersi in riferimento al decreto dispositivo del giudizio (su cui v. da ultimo Cass. sez. un. 26.11.2002 n.39915 Vottari RV 222602), ha peraltro chiaramente affermato il principio secondo cui al giudice “de libertate” non compete rimettere in discussione le conclusioni in tema di colpevolezza raggiunte con la sentenza emessa nel procedimento principale ancorché soggetta ad impugnazione. In questo medesimo senso si è del resto attestata la giurisprudenza della Corte di Cassazione che ha più volte affermato come la sentenza di condanna in primo grado (cfr. ad es. Cass. sez. V n.1709 23.5.1997, Fazio; Cass. sez. VI n.4779 9.1.1998, Giannone) e financo la sentenza di applicazione della pena su richiesta (cfr. Cass. sez. II 26.4.1993 Canterno) fossero preclusive della rivalutazione dei gravi indizi in sede di procedimento incidentale di impugnazione “de libertate”. Il principio di diritto affermato in particolare per i rapporti tra gravi indizi e condanna si impone a maggior ragione in ordine al caso del riconoscimento della continuazione ove sussiste, come detto, piena identità di valutazione tra giudice del procedimento principale e giudice del procedimento incidentale e accessorio e ove, quindi, non può riconoscersi al Tribunale del riesame, in quanto giudice di detto procedimento incidentale accessorio a quello principale, il potere di disattendere conclusioni cui il giudice del principale è pervenuto sulle medesime questioni, ogni critica sul punto essendo rimessa alla Corte di Appello in sede di impugnazione della sentenza, o alla Cassazione in sede di ricorso contro la sentenza di appello. Del resto, se tale principio di assorbimento è stato riconosciuto pacificamente operare anche “in malam partem” (come appunto nel caso di rapporti tra giudizio di gravità indiziaria e sentenza di condanna) a maggior ragione deve ritenersi la sua operatività “in bonam partem”. 6) PROBLEMI APPLICATIVI DELLA DISCIPLINA AI CASI CONCRETI UNA VOLTA RICONOSCIUTA LA CONTESTAZIONE A CATENA (TESTO: “I termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all’imputazione più grave”) SCARCERAZIONE “ORA PER ALLORA” (SU Fiorente). Sul punto deve richiamarsi l’insegnamento del S.C. a SS.UU. secondo cui “la scarcerazione dell’imputato per decorrenza dei termini di fase della custodia cautelare alla quale non si sia tempestivamente provveduto deve essere disposta nella fase successiva (cd. scarcerazione ora per allora), purché la scadenza dei termini riguardi tutte le imputazioni oggetto del provvedimento coercitivo e non solo alcune di esse, dovendosi escludere in quest’ultimo caso, un interesse concreto dell’imputato a un provvedimento cui non consegua il riacquisto della libertà” (Cass. sez. un. 10.7.2002 n.26350 Fiorenti RV 221657; nello stesso senso v. successivamente Cass. sez. IV 17.9.2002 n.23124 Patania RV 225595; Cass. sez. II 21.10.2003 n.47406 D’Oronzo RV 227545). Peraltro alcuni passi di tale decisione del S.C. (che aveva riguardo a una questione di decorrenza dei termini ex art.303 in relazione ad una delle imputazioni residuate a seguito della assoluzione dell’imputato da altre imputazioni), potrebbero a prima vista supportare la conclusione secondo cui il riconoscimento successivo della continuazione non può riverberare i suoi effetti per la fase già esaurita, poiché il S.C. afferma espressamente che l’assoluzione da uno dei reati per cui si procedeva in sede di indagini (e financo la sua riqualificazione in senso più favorevole all’imputato) non possano che avere effetto per il futuro e non giustifichino quindi il ricalcolo dei termini sulla base dei nuovi titoli, dovendosi avere riguardo per ciascuna fase al titolo per cui si procedeva, con la conseguenza che la scarcerazione ora per allora debba essere disposta solo quando l’interessato abbia già maturato il diritto alla scarcerazione per decorrenza del termine in detta fase (cfr. anche Cass. sez. I 19.6.2002 n.41112 Palumbo RV 222792). Una più attenta lettura della citata decisione delle SS.UU. consente di chiarire come nel caso di retrodatazione del termine ex art.297 comma 3 c.p.p. il diritto alla scarcerazione venga maturato nella fase in cui si sono sostanzialmente verificati i relativi presupposti indipendentemente dal momento in cui si riconosca formalmente (con sentenza) la sussistenza di un nesso rilevante tra i reati oggetto dei provvedimenti coercitivi emessi in successione, ciò in quanto diversa è la formula e il meccanismo previsto dal legislatore per individuare in generale il termine di fase ai sensi dell’art.303 c.p.p. rispetto alle formule e ai meccanismi previsti per determinare la retrodatazione dei termini ai sensi dell’art.297 cit., in riferimento alla quale non può che essere fatta una prognosi circa il riconoscimento della continuazione nella sentenza di condanna, che rappresenta l’atto cui parametrare la correttezza della prognosi circa la sussistenza di un requisito che doveva considerarsi comunque già presente. La formula utilizzata dall’art.303 comma 1 c.p.p. per individuare il parametro di commisurazione dei termini di custodia cautelare è, infatti, la seguente “quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena …”. Il testo letterale della norma dimostra pertanto come, ai fini di tale norma, il legislatore abbia enfatizzato il dato temporale collegando il momento della qualificazione del fatto (“delitto per il quale la legge stabilisce la pena …”) con il momento procedimentale della fase alla quale si riferisce il termine (“quando si procede per un delitto …”), enfatizzando in questo modo il dato formale-temporale della qualificazione del fatto in un determinato modo nel momento in cui si procede. Nell’art.297 comma 3 prima e seconda parte c.p.p. la formula utilizzata è invece affatto diversa (“fatti … in relazione ai quali sussiste connessione…”, “fatto … con il quale sussiste connessione …”): come è evidente il testo di quest’ultima disposizione non effettua il collegamento sopra visto tra momento qualificativo (vincolo della continuazione tra più fatti) e momento procedimentale, né viene dato rilievo al riconoscimento del vincolo ma al solo dato obiettivo e sostanziale della sua sussistenza (indipendente cioè dal fatto che la stessa sia riconosciuta o dichiarata in un momento particolare). La spiegazione di tale differenza di disciplina è del resto agevolmente arguibile dalla diversa “ratio” delle due norme. La prima è infatti semplicemente volta a stabilire un limite temporale massimo ancorandolo a parametri oggettivi, che da un lato devono salvaguardare il fondamentale diritto dell’imputato a non essere sottoposto a misure cautelari per un tempo eccessivo, ma dall’altro deve rispondere anche ad esigenze certezza sul tempo a disposizione dell’autorità procedente per concludere una determinata fase senza rischio di perenzione della misura in atto. Al contrario, nel caso dell’art.297 comma 3 c.p.p., si intende evitare la possibilità di un uso distorto della contestazione cautelare, finendo per eludere “sostanzialmente” proprio la disciplina “formale” dell’art.303 c.p.p. attraverso il susseguirsi di ordinanze cautelari per gli stessi fatti o per fatti legati da una connessione rilevante, con la conseguenza che, nei casi predetti, non rileva il riconoscimento formale del nesso rilevante nella fase in cui si procede, ma l’oggettiva e sostanziale sussistenza dello stesso, in presenza del quale (indipendentemente dal momento anche successivo in cui venga riconosciuto) si è verificato quel rischio di strumentalizzazione di provvedimenti coercitivi emessi a catena che il legislatore ha inteso evitare sanzionandolo con la retrodatazione dei termini dell’ultimo provvedimento al momento in cui è stato emesso il primo. Una volta riconosciuto il nesso della continuazione perciò deve ritenersi “sussistere” il presupposto richieste dalla norma che, significativamente, a tale sussistenza e non al fatto che “si proceda” per reati tra loro uniti dal vincolo della continuazione àncora l’effetto di retrodatazione. In tal senso ben si comprende perché le SS.UU., con la citata sentenza Fiorenti (n.26350/2002), pongano, ai fini dell’applicazione della disposizione di cui all’art.303 c.p.p., una distinzione tra i casi in cui si debba riconoscere la possibilità di scarcerare l’imputato anche nella fase successiva, quando i termini massimi siano scaduti nella fase precedente e non si sia tempestivamente provveduto, e i casi in cui la scadenza dei termini sia da collegarsi astrattamente all’assoluzione da uno dei reati costituenti titolo cautelare o alla diversa qualificazione del fatto di reato operata in sentenza, posto che tali mutamenti operano soltanto dal momento in cui intervengono senza che possano riverberare effetti sulle fasi precedenti (cfr. anche Cass. sez. I n.41112/2002 cit.). Infatti, ai sensi dell’art. 303 comma 1 c.p.p. ciò che rileva è che “si proceda” in quella fase per un determinato reato. Affatto differente è invece il caso in cui si debba fare applicazione della disposizione di cui all’art.297 comma 3 c.p.p., posto che in simile ipotesi ciò che conta è l’oggettiva sussistenza del vincolo della continuazione, indipendentemente dalla fase procedimentale in cui lo stesso è stato riconosciuto. Infatti è l’oggettiva sussistenza del nesso rilevante a costituire il presupposto del verificarsi di quel rischio di strumentalizzazione delle misure cautelari che il legislatore intende evitare superando proprio i dati formali di cui all’art.303 c.p.p. e, quindi, superando i riferimenti di tale ultima disposizione al riconoscimento di una determinata qualifica del fatto nel momento procedimentale cui il termine custodiale si riferisce. Deve pertanto ritenersi che una volta riconosciuta la sussistenza della continuazione essa operi ai fini dell’operatività del meccanismo di cui all’art.297 c.p.p. indipendentemente dalla fase in cui è stata riconosciuta e giustifichi pertanto la cd. “scarcerazione ora per allora” ove la sussistenza della continuazione sia stata formalmente dichiarata in una fase diversa da quella in cui, a seguito della retrodatazione degli effetti della misura stabilita dallo stesso art.297, il termine custodiale va ritenuto perento. In quest’ultimo caso, infatti (costituito cioè riconoscimento del vincolo della continuazione tra più reati per i quali erano stati emessi distinti provvedimenti coercitivi ai fini dell’operatività dell’art.297 cit.) - a differenza dell’ipotesi di assoluzione da uno dei più reati per i quali era stato emesso un provvedimento coercitivo ovvero dell’ipotesi di derubricazione del fatto, per il quale era stata emessa in origine l’ordinanza coercitiva, in un delitto per il quale è stabilito un termine custodiale più breve – la scarcerazione per decorrenza dei termini (quale diritto primario dell’individuo costituzionalmente garantito) deve essere disposta senza preclusioni di sorta in ogni stato e grado del giudizio “ora per allora”. RESTRIZIONE DEGLI EFFETTI DI RETRODATAZIONE PER CONTESTAZIONE A CATENA AI SOLI TERMINI PER LE INDAGINI PRELIMINARI. Si incontrano numerose pronunzie del S.C. che stabiliscono come l’eventuale perenzione del termini cautelare a seguito della retrodatazione degli effetti di una misura per contestazione a catena, possa riguardare i soli termini delle indagini preliminari. La conclusione è da un lato ovvia con riferimento ai casi esaminati nelle sentenze – risultando chiaro che la retrodatazione in parola possa rilevare solo per quelle fasi in cui il termine cautelare venga fatto decorrere dall’ordinanza cautelare, come appunto per la fase delle indagini preliminari – ma intesa in senso assoluto è inesatta – non potendosi ad esempio escludere che la retrodatazione dei termini al momento di esecuzione o notifica della prima ordinanza possa riverberarsi anche sui termini massimi complessivi. GIURISPRUDENZA Sez. 6, Sentenza n. 6841 del 08/01/2004 Cc. (dep. 18/02/2004 ) Rv. 227879 Presidente: Sansone L. Estensore: Di Casola C. Imputato: Asero. P.M. Cosentino F. (Diff.) (Rigetta, Trib. Catania, 19 maggio 2003). La retrodatazione della misura custodiale non vale per la fase successiva all'emissione del provvedimento che dispone il giudizio ordinario o abbreviato ovvero della sentenza di applicazione della pena su richiesta, stante l'inapplicabilità dell'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen. in mancanza di specifica disposizione di legge (in motivazione, la Corte ha chiarito che l'"omissione" legislativa si giustifica, in quanto solo nella fase delle indagini preliminari si pone la concreta esigenza di evitare possibili elusioni dei termini di durata delle misure cautelari).Massime precedenti Conformi: N. 437 del 1998 Rv. 210276 Massime precedenti Vedi: N. 2136 del 1999 Rv. 213769, N. 3268 del 1999 Rv. 213722 Sez. 6, Sentenza n. 32360 del 15/05/2003 Cc. (dep. 31/07/2003 ) Rv. 226284 Presidente: Acquarone R. Estensore: Martella IS. Imputato: Fiore. P.M. Fraticelli M. (Conf.)(Rigetta, Trib.Salerno, 16 ottobre 2002). L'art. 297, comma terzo cod. proc. pen. - che prevede la retrodatazione della decorrenza dei termini della misura custodiale nel caso di contestazioni a catena - è applicabile solo in riferimento alla fase delle indagini preliminari, quando è necessario un controllo del giudice sull'attività del pubblico ministero anche in riferimento al termine di durata dello stato di privazione della libertà dell'imputato; di contro, nella fase dibattimentale, o dopo che sia stata pronunciata sentenza di primo grado, non è prevista la possibilità di retrodatazione, in quanto il termine di fase decorre dal decreto di citazione a giudizio, come espressamente previsto dall'art. 303 cod. proc. pen. IRRILEVANZA DEL PRESOFFERTO PER LA PRIMA MISURA. Fonte frequente di equivoco è il riferimento al presofferto, quasi che la retrodatazione del termine possa valere solo in relazione a una misura cautelare effettivamente sofferta o sia comunque subordinata all’effettiva durata della stessa. In realtà ogni possibilità di equivoco è esclusa dal chiaro tenore letterale della norma che, in caso di contestazione a catena, si limita a prevedere la decorrenza degli effetti della misura successiva a partire dalla notifica o esecuzione dell’ordinanza, ciò in relazione alle previsioni dell’art. 297 commi 1 e 2 che stabiliscono la decorrenza dal momento dell’esecuzione (arresto, fermo o cattura) quando si tratti di misure custodiali, e dal momento della notifica quando si tratti di altre misure. Risulta perciò ovvio che nel caso del latitante la retrodatazione debba operare dal momento dell’esecuzione, ma a nulla rileva che il soggetto non sia rimasto sottoposto alla misura per tutto il tempo consentito dal relativo termine di fase (per essere stato ad esempio nel frattempo scarcerato o per essersi passati ad altra fase cautelare). Non è quindi possibile scomputare dal termine retrodatato il periodo di tempo non utilizzato in relazione alla prima misura. GIURISPRUDENZA Sez. 5, Sentenza n. 16879 del 05/04/2001 Cc. (dep. 26/04/2001 ) Rv. 219035 Presidente: Marrone F. Estensore: Marrone F. Imputato: Schiavone F. P.M. Favalli M. (Conf.) (Annulla con rinvio, Trib.Napoli, 30 novembre 2000). In tema di contestazioni a catena" (art. 297 comma 3 cod.proc.pen.), nella ipotesi in cui, essendo l'imputato rimasto latitante durante l'intera fase delle indagini preliminari, la misura cautelare venga eseguita dopo il rinvio a giudizio ed i termini vengano a scadere in tale fase, non può essere emesso altro provvedimento restrittivo per lo stesso fatto (o per fatto connesso), allo scopo di consentire il protrarsi della custodia cautelare mediante il recupero di quella non eseguita nella fase delle indagini preliminari. Massime precedenti Vedi: N. 2526 del 1999 Rv. 214928, N. 2529 del 1999 Rv. 215206, N. 2599 del 1999 Rv. 213489Massime precedenti Vedi Sezioni Unite: N. 9 del 1997 Rv. 208167 MODALITA’ DI CALCOLO DEL TERMINE. Si registra in proposito un forte contrasto giurisprudenziale in ordine alla possibilità di computare o meno nel termine il “dies a quo”, affermandosi da taluni l’operatività della regola generale dell’art. 172 c.p.p. secondo cui il “dies a quo” non si computa, da altri la deroga a tale regola contenuta nell’art. 297 comma 1 c.p.p., con la conseguenza che in caso di contestazione a catena, a seguito della retrodatazione si dovrebbe calcolare nel termine anche il giorno della notifica o esecuzione della misura. GIURISPRUDENZA Sez. 5, Sentenza n. 9507 del 19/01/2006 Cc. (dep. 17/03/2006 ) Rv. 233893 Presidente: Lattanzi G. Estensore: Amato A. Relatore: Amato A. Imputato: Modaffari. P.M. D'Ambrosio V. (Diff.) (Annulla senza rinvio, Trib. lib. Milano, 20 Maggio 2005) In tema di computo dei termini di durata delle misure cautelari, qualora nei confronti di un imputato, detenuto in stato di custodia, si provveda anche alla esecuzione di una o più sentenze di condanna a pene detentive, ed ancorché a tal fine venga detratto come presofferto il periodo precedente di custodia cautelare, nel computo della durata massima della misura cautelare deve ricomprendersi anche il periodo di esecuzione della pena, poiché l'art. 297, comma quinto, cod. proc. pen., afferma la compatibilità della custodia cautelare con la detenzione per la esecuzione della pena agli effetti dei termini di durata massima della custodia stessa, Pertanto, il giudice deve dichiarare cessata la custodia cautelare e quindi disporre la liberazione quando la sua durata così computata abbia superato il termine massimo. Sez. 2, Sentenza n. 49296 del 03/12/2004 Cc. (dep. 22/12/2004 ) Rv. 230562 Presidente: Cosentino GM. Estensore: Fumu G. Relatore: Fumu G. Imputato: Lanzino. P.M. Ciani G. (Conf.) (Rigetta, Trib. Catanzaro, 13 Maggio 2004) Ai fini del computo della decorrenza dei termini di durata massima della custodia cautelare si deve calcolare anche il giorno d'inizio della stessa, così come prevede l'art. 297 comma primo cod. proc. pen., che deroga alla previsione generale contenuta nell'art. 172 comma quarto cod. proc. pen., secondo cui "dies a quo non computatur". Massime precedenti Conformi: N. 354 del 1998 Rv. 209851, N. 1125 del 1998 Rv. 210619, N. 4561 del 1998 Rv. 211831, N. 637 del 2000 Rv. 215979, N. 24693 del 2001 Rv. 219411, N. 30821 del 2002 Rv. 222078 Massime precedenti Difformi: N. 3467 del 1992 Rv. 191609, N. 2141 del 1995 Rv. 201477, N. 2838 del 1995 Rv. 203082, N. 38635 del 2003 Rv. 227298 Sez. 5, Sentenza n. 38635 del 09/07/2003 Cc. (dep. 13/10/2003 ) Rv. 227298 Presidente: Providenti F. Estensore: Sica G. Imputato: Et'Hemaj Atmir. P.M. Febbraro G. (Conf.)(Rigetta, Trib. Libertà Napoli, 4 aprile 2003). In tema di decorrenza dei termini di custodia cautelare ex art. 303 cod. proc. pen., il computo deve essere eseguito secondo i principi generali stabiliti dall'art. 14 cod. pen. e 172, comma secondo, cod. proc. pen., in virtù dei quali nel computo non è compreso il dies a quo. Ne deriva che, nel caso di termine ad anno, il termine scade nel giorno corrispondente a quello dell'anno in cui è iniziato il decorso. Sez. 1, Sentenza n. 4895 del 12/07/1999 Cc. (dep. 14/07/1999 ) Rv. 214011 Presidente: Fazzioli E. Estensore: De Pascalis D. Imputato: Lezzi. P.M. Meloni V. (Diff.) (Annulla con rinvio, Trib. Lecce, 19 febbraio 1999). In caso di sussistente contestazione a catena "ex" art. 297, comma terzo, cod. proc. pen. il termine di custodia cautelare comincia a decorrere per tutte le misure cautelari concatenate dalla data di esecuzione della prima di esse e prosegue per tutta la durata della propria fase, cumulando quanto già patito in forza del primo titolo custodiale, all'eventuale residuo per il caso in cui questo non fosse durato fino al suo massimo di pari fase. Sez. 3, Sentenza n. 3381 del 09/12/1998 Cc. (dep. 29/01/1999 ) Rv. 212824 Presidente: Tonini PM. Estensore: Onorato P. Imputato: Paggiarin G. P.M. Turone G. (Parz. Diff.)(Annulla con rinvio, Trib. ries. Venezia, 26 agosto 1998). Il divieto della cosiddetta contestazione a catena, di cui al terzo comma dell'art. 297 cod. proc. pen., trova applicazione nel senso che la unificazione e retrodatazione dei termini di decorrenza delle misure cautelari si applica per le misure relative agli stessi fatti, ovvero per le misure relative a fatti diversi legati da connessione qualificata, quando questi siano stati commessi anteriormente alla prima ordinanza cautelare. Questa disciplina garantista è derogata per fatti-reato diversi uniti da connessione qualificata, quando questi fatti non siano desumibili dagli atti stessi esistenti prima del rinvio a giudizio disposto per il primo fatto reato con cui intercorre la connessione. Il termine temporale di riferimento è diverso per le due ipotesi, identificandosi per la prima ipotesi nella prima ordinanza cautelare e per la seconda ipotesi nel decreto dispositivo del rinvio a giudizio. Sez. 1, Sentenza n. 31287 del 15/03/2002 Cc. (dep. 18/09/2002 ) Rv. 222293 Presidente: D'Urso G. Estensore: Bardovagni P. Imputato: Torcasio. P.M. Palombarini G. (Conf.)(Rigetta, Trib. Catanzaro, 20 settembre 2001). In tema di divieto di contestazioni a catena (art. 297, comma 3, cod. proc. pen.), l'individuazione del momento di "desumibilità dagli atti" degli elementi idonei a costituire presupposto per l'emissione della successiva ordinanza cautelare in epoca anteriore al disposto rinvio a giudizio presuppone che, in relazione al fatto oggetto della prima ordinanza cautelare, sia intervenuto il rinvio a giudizio al momento della emissione della seconda ordinanza cautelare(art. 297, comma 3, seconda parte, cod. proc. pen.). Qualora, invece, il rinvio a giudizio non sia intervenuto, la desumibilità dagli atti deve sussistere (art. 297, comma 3, prima parte, cod. proc. pen.) al momento di emissione della prima ordinanza cautelare. Massime precedenti Conformi: N. 996 del 1998 Rv. 211950, N. 3381 del 1999 Rv. 212824Massime precedenti Vedi: N. 239 del 1994 Rv. 197200, N. 1499 del 1999 Rv. 214677, N. 1764 del 1999 Rv. 214743, N. 2135 del 2000 Rv. 217560Massime precedenti Conformi Sezioni Unite: N. 9 del 1997 Rv. 208167 DEDUCIBILITA’ DELLA VIOLAZIONE DELL’ART. 297 COMMA 3 C.P.P.. E’ ormai riconosciuto dalla giurisprudenza del S.C. che l’inefficacia della misura per retrodatazione del termine, a seguito del riconoscimento di una contestazione a catena, non sia deducibile in sede di riesame, in considerazione del diverso oggetto di tale impugnazione (e del conseguente onere di trasmissione degli atti), della perentorietà dei termini che caratterizzano il ricorso per riesame e la conseguente impossibilità di procedere alle necessarie integrazioni documentali. Tale limite alla possibilità di integrazioni documentali costituisce anche il limite di delibazione della questione da parte del GIP, che quindi potrà solo respingere la richiesta cautelare ove ritenga sussistere un’ipotesi di contestazione a catena che farebbe nascere il provvedimento inefficace – ferma restando la possibilità di impugnazione sul punto da parte del P.M. ai sensi dell’art. 310 c.p.p., procedimento nel quale il Tribunale del riesame ha agio di procedere alle eventuali integrazioni nei limiti del devolutum – mentre l’eventuale delibazione negativa sulla contestazione a catena risulta inutiliter data nel provvedimento coercitivo originario, in quanto non consenta di ritenere la completezza degli atti a disposizione, posto che ciò determinerebbe analoghe difficoltà e incompatibilità nel giudizio di riesame. GIURISPRUDENZA Sez. 1, Sentenza n. 19905 del 04/03/2004 Cc. (dep. 28/04/2004 ) Rv. 228053 Presidente: Chieffi S. Estensore: Giordano U. Imputato: Russo. P.M. Ciani G. (Conf.) (Rigetta, Trib. Catania, 4 luglio 2003). La questione attinente all'asserita violazione dell'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., per mancato riconoscimento della retrodatazione del termine di decorrenza di misure cautelari sopravvenute al momento della prima ordinanza coercitiva, in caso di cd. contestazione a catena, non riguardando vizi genetici dell'ordinanza di custodia cautelare, ma solo la decorrenza dei suoi effetti, non è deducibile in sede di riesame, ma va proposta con istanza di revoca della misura cautelare al giudice procedente. Massime precedenti Conformi: N. 3680 del 1998 Rv. 212686, N. 833 del 1999 Rv. 213682 Sez. 6, Sentenza n. 31497 del 22/05/2003 Cc. (dep. 25/07/2003 ) Rv. 226286 Presidente: Romano F. Estensore: Rossi A. Imputato: Dzemaili. P.M. Cedrangolo O. (Parz. Diff.)(Rigetta, Trib. Libertà Messina, 14 ottobre 2002). Esula dall'ambito del giudizio di riesame la questione relativa all'inefficacia sopravvenuta dell'ordinanza di custodia cautelare per decorrenza dei termini di fase in relazione ad asserita contestazione a catena, in quanto tale vizio processuale non intacca l'intrinseca legittimità dell'ordinanza, ma agisce sul piano dell'efficacia della misura cautelare. Tale questione va pertanto proposta al g.i.p. con istanza di scarcerazione ex art. 306 cod. proc. pen. e successivamente, ove occorra, con appello ex art. 310 cod. proc. pen. avverso il provvedimento reiettivo del giudice. TOMASO E. EPIDENDIO (SEGUE SCHEMA SULL’ART. 297 COMMA 3) Pluralità ordinanze contro stesso soggetto NO SI NO Identità della misura SI Identità del fatto Diversità dei fatti NO Anteriorità dei fatti all’emissione della prima ordinanza SI SI NO Desumibilità dagli atti anteriormente alla prima ordinanza SI NO Connessione qualificata NO Procedimenti diversi SI RETRODATAZIONE DEL TERMINE NO Rinvio a giudizio SI SI Desumibilità dagli atti anteriormente al rinvio a giudizio NO ESCLUSIONE CONTESTAZIONE A CATENA TOMASO EMILIO EPIDENDIO NO