RELAZIONE LE CONTESTAZIONI A CATENA originato numerose

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RELAZIONE LE CONTESTAZIONI A CATENA originato numerose
RELAZIONE
(APPUNTI DI LAVORO)
(art. 297 comma 3 c.p.p.)
LE CONTESTAZIONI A CATENA
INTRODUZIONE
Il fenomeno della cd. “contestazione a catena” - che il legislatore ha inteso disciplinare al
fine di evitarne gli effetti distorsivi - è costituito dalla reiterazione di provvedimenti
cautelari contro il medesimo soggetto per prolungare la scadenza dei termini di custodia
cautelare.
All’argomento il codice di rito dedica un solo comma diviso in due parti (l’art.297 comma 3
c.p.p.), ciò che potrebbe far pensare a un fenomeno piuttosto settoriale di non particolare
importanza e limitato ad un uso patologico delle misure cautelari che sarebbe consentito dal
sistema e che viene perciò ostacolato (o impedito) con la disposizione in parola: detta
impressione di marginalità ed eccezionalità della disciplina normativa in esame è smentita
dal numero elevatissimo di pronunce occasionate da questo tema (oltre duecento sentenze
della Cassazione massimate solo in relazione all’applicazione di questa norma) che ha
originato numerose incertezze giurisprudenziali (innumerevoli contrasti in Cassazione,
succedersi di decisioni delle SU, talora anche tra di loro contrastanti, plurimi interventi
della Corte costituzionale, approdati da ultimo in una declaratoria di illegitimità
costituzionale parziale). Si tratta perciò di un tema di esiziale importanza pratica con
dirompenti conseguenze sui procedimenti penali: infatti, il legislatore ha previsto, in
presenza di determinati presupposti ritenuti significativi della presenza del fenomeno della
“contestazione a catena” e di una possibile pratica elusiva della disciplina dei termini di
custodia cautelare, la retrodatazione dei termini cautelari al momento di esecuzione o di
notifica del primo provvedimento con eventuale perdita di efficacia delle misure cautelari
a seguito di detta retrodatazione.
Poiché la sanzione processuale della retrodatazione degli effetti dell’ordinanza cautelare
emessa successivamente è meramente collegata alla presenza di determinati presupposti
relativi ai fatti oggetto delle diverse contestazioni cautelari - la cui sussistenza è sufficiente a
determinare la sanzione processuale in parola (e la possibile inefficacia della misura
cautelare successivamente applicata) - non occorre ovviamente provare una negligenza o
peggio una finalità elusiva da parte degli organi che hanno chiesto ed applicato la misura per
ottenere la retrodatazione degli effetti: ciò comporta che la retrodatazione dei termini di
custodia cautelare si verifica oggettivamente anche a prescindere dalla positiva sussistenza
di un uso soggettivamente artificioso delle misure cautelari, rischiando così talvolta di
trasformarsi in un meccanismo formale con conseguenze dirompenti sui procedimenti in
corso, specie ove questi riguardino soggetti per i quali sussiste il rischio di fuga, in quanto in
questi casi, a seguito della cessazione di efficacia della residua misura cautelare, l’eventuale
condanna finisce per ridursi ad un mero “flatus vocis privo di reali conseguenze per il
soggetto che la subisce. Tali opposti rischi – quello di un uso arbitrario della reiterazione
delle misura cautelari a fini elusivi della disciplina sui termini (da necessariamente
oggettivare in una situazione che si possa ritenere di per sé significativa di tale rischio, attesa
l’impersonalità degli atti giurisdizionali e la conseguente irrilevanza dei soggettivi moventi
psicologici della persona fisica che agisce quale organo dell’autorità giudiziaria) e quello del
sacrificio delle esigenze cautelari sottese all’applicazione della misura in virtù di un
meccanismo meramente formale tale da pregiudicare interessi primari della collettività e
vanificare gli effetti del procedimento penale pur in assenza di ragioni sostanziali che si
siano verificate nella specie – sta alla base di due opposte tendenze ermeneutiche che
segnano le pronunce giurisprudenziali in materia (e che parzialmente spiegano i numerosi
contrasti sul punto): da un lato una tendenza a privilegiare il dato letterale e, quindi,
interpretazioni che esaltino il principio di subordinazione del giudice alla legge
(interpretazione formale); dall’altro una tendenza a privilegiare interpretazioni che
esaltino la “ratio” della norma e orientino la soluzione dei casi concreti a seconda che si
ritenga sussistere o meno la ragione sostanziale posta a base della disciplina normativa
(interpretazione sostanziale).
Quale che sia la tendenza ermeneutica privilegiata, in entrambi i casi il punto di partenza
non può che essere costituito dal dato normativo positivo rappresentato dall’enunciato
di cui all’art. 297 comma 3 c.p.p.. Invero, proprio per la particolare conflittualità
giurisprudenziale sul tema e per la tendenza a sovrapporre all’espressione letterale
legislativa formule giurisprudenziali ritenute conformi alla “ratio” normativa ma non
strettamente ricavabili dalla disposizione legislativa, da un lato occorre conoscere il
contenuto delle principali sentenze della Cassazione, essendo indispensabile tale nozione per
rendersi conto della disciplina normativa concretamente applicata nei tribunali e nelle corti –
tale da non poter essere ricostruita in base alla mera lettura dell’art.297 comma 3 c.p.p. (ciò
che apre il delicato problema (che non può essere dibattuto in questa sede) del cd. “diritto
giurisprudenziale” - dall’altro si impone vieppiù una particolare attenzione al testo
normativo, in modo da segnare le eventuali derive giurisprudenziali non consentite dalla
lettera della norma e le deviazioni dal percorso logico giuridico imposto dalla
disposizione normativa. Infatti la descrizione dei presupposti cui è collegata la sanzione
processuale della retrodatazione degli effetti della misura, fornisce lo schema di fondo su cui
possono innestarsi le precisazioni giurisprudenziali sulla portata dei singoli elementi
costitutivi della fattispecie processuale. Il testo normativo offre quindi l’elenco degli
argomenti da trattare e l’ordine-logico giuridico secondo il quale devono essere
affrontati per risolvere i problemi posti dai casi concreti.
Si tenterà quindi di offrire una esegesi del testo che seguendo il dato letterale della norma
consenta di analizzare le pronunce giurisprudenziali secondo l’ordine segnato dalla
disposizione di cui all’art. 297 comma 3 c.p.p., partendo quindi dai presupposti generali
della contestazione a catena – rappresentati dalla pluralità di ordinanze contro un
medesimo soggetto e dalla identità della misura applicata con i diversi provvedimenti –
passando poi ad esaminare le due ipotesi fondamentali o subfattispecie – quella
dell’identità del fatto e quella dei fatti diversi legati da connessione qualificata (id
est concorso formale, continuazione e nesso teleologico limitatamente ai reati commessi per
eseguire gli altri) oggetto delle diverse ordinanze – per poi analizzare nella subfattispecie dei
fatti diversi gli ulteriori requisiti rappresentati dall’anteriorità del fatto oggetto delle
successive ordinanze rispetto alla prima e dalla desumibilità dagli atti – con particolare
riguardo ai casi in cui essa è richiesta e quindi alla questione, propostasi in giurisprudenza su
questo punto, dell’ammissibilità della contestazione a catena in caso di procedimenti
diversi.
Verificati i presupposti per il riconoscimento della retrodatazione degli effetti si passeranno
quindi ad esaminare le questioni pratiche che si pongono in ordine alle conseguenze della
riconosciuta sussistenza della contestazione a catena: ciò con particolare riguardo al regime
della sua deducibilità in relazione alla fase su cui incide la retrodatazione e alla
possibilità della cd. scarcerazione “ora per allora” e alle modalità con cui può essere
dedotta e rilevata; alle modalità di calcolo del termine; alla fase cui è applicabile
1) PLURALITA’ DI ORDINANZE NEI CONFRONTI DI UN IMPUTATO – IDENTITA’
DEL SOGGETTO (TESTO: “se nei confronti di un imputato sono emesse più
ordinanze”).
IL FENOMENO DELLA PLURALITA’ DI ORDINANZE IN GENERALE. Questa parte
dell’enunciato normativo sembra rimarcare un dato ovvio il cui significato normativa pare
riducibile al riconoscimento della possibilità di più ordinanze cautelari nei confronti
del medesimo soggetto e alla conseguente indicazione che questo è il fenomeno
giuridico che il legislatore intende disciplinare.In questi termini la disposizione non pone
nessun particolare problema interpretativo, indicando soltanto in generale il fenomeno che si
intende disciplinare e specificando solo successivamente gli elementi specifici che
costituiscono i presupposti cui è collegato l’effetto giuridico previsto dalla norma (cioè la
retrodatazione dei termini: “i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o
notificata la prima ordinanza”). La lettura della prima parte della norma
congiuntamente a quella in cui sono previsti gli effetti giuridici chiarisce la ratio
dell’intervento legislativo: evitare un possibile “aggiramento” della disciplina in materia di
termini cautelari (artt. 303 e 304 c.p.p.) attraverso l’emanazione di una successiva ordinanza
quando siano scaduti i termini per quella originariamente disposta. Nessun limite è invece
rappresentato dal numero di ordinanze emesse a catena, che possono essere due o più.
IPOTESI SPECIALI. Tuttavia una certa attenzione va pur sempre condotta nel verificare
quando vi sia pluralità di ordinanze. Il requisito della pluralità infatti impedisce di
ravvisare ipotesi di contestazioni a catena quando le ordinanze cautelari, pur emesse in
successione, si sostituiscano alle precedenti, come tipicamente avviene nei casi di
provvedimenti cautelari emessi ex art. 299 c.p.p. di sostituzione per mutamento del
quadro cautelare (sia di aggravamento sia di attenuazione del regime cautelare), nei casi
di sostituzione per trasgressione alla misura precedentemente disposta: in tale ipotesi non
si tratta infatti di diverse ordinanze cautelari (tanto meno che applicano la stessa misura) ma
una semplice ipotesi di successione di ordinanze, la presenza dell’una risulta incompatibile
con quella dell’altra. Qui non sussiste alcun pericolo di una distorsione dello strumento
cautelare a fini elusivi dei termini che può porsi solo quando le ordinanze siano autonome
e quindi rappresentino ciascuna un diverso titolo cautelare da cui far decorrere diversi e
nuovi termini.Un problema più delicato è rappresentato dalla successione di ordinanze
emesse a seguito di riconosciuta incompetenza territoriale e conseguente trasmissione
degli atti secondo il meccanismo processuale degli artt. 22 e 27 c.p.p.. In questi casi, infatti,
la giurisprudenza è costante nel ritenere che l’ordinanza emessa dal giudice incompetente e
quella emessa in rinnovazione - dal giudice a cui siano giunti gli atti a seguito della
trasmissione - siano autonome (tanto che viene riconosciuto l’interesse all’impugnazione
della prima ancorché già sia stata emessa la seconda).Tuttavia in questi casi trova
applicazione la diversa disciplina di cui all’art. 303 comma 2 c.p.p. secondo cui quando a
seguito di annullamento per rinvio o per altra causa [quindi anche a seguito di
dichiarazione di incompetenza] il procedimento regredisca o [quindi alternativo] sia
rinviato ad altro giudice [come nel caso appunto della declaratoria di incompetenza ex
art. 22 e 27 c.p.p. dopo la trasmissione degli atti al P.M.] decorrono di nuovo i termini
dalla data del provvedimento che dispone il regresso o il rinvio ovvero dalla sopravvenuta
esecuzione della custodia cautelare.
IL CONCETTO DI PLURALITA’. Proprio da tale peculiare ipotesi può trarsi la
conclusione che l’ipotesi della pluralità delle ordinanze prevista dall’art. 297 comma 3
c.p.p., accanto alla necessaria autonomia dei provvedimenti cautelari preveda la
pendenza della situazione cautelare relativa, non nel significato che la prima ordinanza
debba ancora avere effetti – altrimenti non si avrebbe contestazione a catena proprio nei casi
dove più pregnante è il rischio di un uso distorsivo della reiterazione di ordinanze (quando
cioè il primo titolo cautelare sia venuto meno per scadenza dei termini ex artt. 303 e 304
c.p.p.) - ma nel senso che la cessazione dell’efficacia del primo provvedimento non possa
ritenersi determinata da un fenomeno di successione di altri provvedimenti incompatibili
con l’ordinanza cautelare, siano essi l’adozione di altre ordinanze cautelari che, quantunque
autonome, costituiscano un titolo che non può coesistere con il precedente – come nel caso
delle ordinanze emesse ai sensi dell’art. 27 c.p.p. - oppure una sentenza di condanna passata
in giudicato e in fase di esecuzione (che determina così una situazione di incompatibilità con
la permanenza del titolo cautelare), così come ha riconosciuto la stessa giurisprudenza della
Cassazione quando ha precisato che non si può porre un problema di contestazione catena e
quindi di retrodatazione dei termini cautelari quando per i fatti già oggetto di un primo
provvedimento cautelare già si sia in fase di esecuzione della pena.
GIURISPRUDENZA
Cass. Sez. III n.23779 25/03/2003 Monteforte RV 225911 Est.: Serpico :
In tema di cd. contestazione a catena, la disciplina prevista dall’art. 297 comma 3 c.p.p.
presuppone che i procedimenti attinenti le diverse ordinanze disponenti la medesima misura per uno
stesso fatto, ovvero per fatti diversi commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza in
relazione ai quali sussiste connessione ex art. 12 comma 1 lett. b) c.p.p., siano in itinere. Ne
consegue che tale disciplina non è applicabile nell’ipotesi in cui per i fatti riguardanti la
prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato.
2) IDENTITA’ DELLA MISURA (TESTO: “che
dispongono la medesima misura”)
NOZIONE DI IDENTITA’ DELLA MISURA. Si tratta di una parte dell’enunciato
normativo che spesso non ha ricevuto la dovuta attenzione e che solo di recente è stato
oggetto di un interessante approfondimento da parte del S.C. con la sentenza della IV
sezione (rel. Marini) 16 novembre 2005-26 aprile 2006 n.14420 (ric.
Carradori) RV 234022.
CASO: con una prima ordinanza era stata applicata la misura degli arresti domiciliari per un
episodio di violazione della legge sugli stupefacenti seguito da un arresto in falgranza; per tale fatto
l’interessato aveva patteggiato la pena e la sentenza era passata in giudicato quando,
successivamente, con una seconda ordinanza veniva emessa la misura della custodia cautelare in
carcere per ulteriori episodi di narcotraffico emersi da intercettazioni telefoniche in corso rispetto
alle quali il precedente arresto in flagranza costituiva un intervento finalizzato ad avere riscontro di
una lettura di conversazioni criptiche oggetto di ipotesi investigative in tal modo verificate dagli
inquirenti.
OPZIONI INTERPRETATIVE: Le alternative ermeneutiche che si presentavano all’interprete
erano sostanzialmente quelle della utilizzabilità ai fini del giudizio di identità della misura ex art.
297 comma 3 c.p.p. delle distinzioni poste in altre disposizioni del codice tra le diverse
misure cautelari (ad esempio tra misure interdittive-misure coercitive; misure custodiali-misure non
custodiali); oppure quella della utilizzabilità di norme di assimilazione delle misure, contenute
in altre disposizioni del codice (ad esempio l’assimilazione tra arresti domiciliari e custodia
cautelare in carcere prevista ai sensi dell’art. 284 comma 5 c.p.p.).
PRINCIPIO DI DIRITTO: il principio di diritto affermato nella sentenza per risolvere il caso
concreto è stato nel senso “per medesima misura deve intendersi quella ontologicamente
identica con riferimento alla norma specifica del codice di rito che la prevede, non
potendo invece parlarsi di “medesimezza” sulla sola base della natura coercitiva di misure
oggettivamente diverse, contemplate da norme specifiche diverse” con la conseguenza che gli
arresti domiciliari non possono considerarsi la stessa misura della custodia cautelare in carcere ai
fini e per gli effetti di cui all’art. 297 comma 3 c.p.p. .
COROLLARIO: dall’adozione di tale opzione ermeneutica in ordine al concetto giuridico di
identità la Cassazione traeva anche il corollario che “la disposizione di cui all’art. 284 comma 5
c.p.p. secondo cui l’imputato agli arresti domiciliari si considera in stato di custodia cautelare si
estende ad altri effetti (anche agli effetti dei termini di durata della detenzione) ma non concerne il
disposto dell’art.297 comma 3 c.p.p. proprio perché tale norma esige inequivocabilmente che si
tratti della “medesima misura”.
CONSIDERAZIONI: La sentenza in esame costituisce espressione del privilegio di
un’interpretazione letterale restrittiva della disposizione di cui all’art. 297 c.p.p., in linea con la
recente sentenza delle SS.UU. Rahulia di cui si tratterà in seguito, benché in questo caso le
conseguenze dell’applicazione del criterio ermeneutico stretto e letterale ha conseguenze in malam
partem, mentre nel caso della sentenza Rahulia ha conseguenze in bonam partem; non può non
rilevarsi peraltro una certa circolarità del ragionamento, in quanto si nega valenza alla norma di
assimilazione tra misure (l’art. 284 comma 5 c.p.p.) pur riconoscendo che si tratta di principio
stabilito anche e soprattuto ai fini della disciplina in materia di termini, sulla base di una petizione
di principio basata sulla lettera “medesima misura” della disposizione letta isolatamente e non
coordinato con il testo delle altre disposizioni che regolano la stessa materia; al contrario il fatto che
la norma dell’art. 284 comma 5 c.p.p. valga proprio ai fini dei termini, dovrebbe portare a
concludere, sulla base dell’argomento della coerenza del legislatore, che l’assimilazione tra custodia
in carcere e arresti domiciliari valga anche per l’art.297 comma 3 c.p.p.. Peraltro si tratta di
precedente con valore di auctoritas che ha specificamente esaminato il contro-argomento di cui
sopra respingendolo, di tal che significherebbe creare notevole confusione e sfuggire al sistema del
precedente autorevole (oltre che creare notevoli diseconomie per i probabili annullamenti sul punto)
proporre nella giurisprudenza di merito un orientamento opposto, pur non sussistendo ovviamente
alcun vincolo in proposito.
3) IDENTITA’ DEL FATTO o CONNESSIONE QUALIFICATA
RILEVANZA DELLA DISTINZIONE. La distinzione tra le due subfattispecie cui la norma
collega l’effetto di retrodatazione è importante perché diversi sono i presupposti per la
retrodatazione nei due casi: nell’ipotesi di fatto identico questo è l’unico requisito;
nell’ipotesi di concorso formale, continuazione o connessione teleologica tra reati commessi
per eseguirne altri, si pone l’ulteriore requisito dell’anteriorità del fatto (oggetto
dell’ultima ordinanza rispetto alla precedente) – requisito che in ogni caso deve
sussistere quando i fatti oggetto delle diverse ordinanze siano “differenti” nel senso
utilizzato dall’art. 297 comma 3 - e si pone l’ulteriore problema della desumibilità dagli
atti dei fatti. Tale ultimo problema è stato oggetto come si vedrà dei principali contrasti
giurisprudenziali, anche tra SS.UU., in ordine all’individuazione delle ipotesi in cui detto
requisito ulteriore, in particolare se debba sussistere solo in caso di ordinanze cautelari
emesse in procedimenti diversi (rectius diversi o separati) in uno dei quali sia
intervenuto rinvio giudizio, come espressamente previsto dal legislatore, oppure anche nel
caso di ordinanze emesse nel medesimo procedimento (rectius medesimo o riunito), nel qual
caso la desumibilità degli atti dovrebbe intendersi anteriore all’emissione della prima
ordinanza cautelare e non al rinvio a giudizio, non verificatosi; i contrasti si manifestano poi
anche su cosa debba intendersi per “desumibilità dagli atti”, e cioè se la nozione di
desumibilità debba essere intesa in astratto o in concreto, e se la stessa debba
consistere nell’emersione di elementi sufficienti a integrare il requisito di gravità
indiziaria o solo a individuare il fatto.
3A) IDENTITA’ DEL FATTO (TESTO: “per
uno stesso fatto, benché diversamente
circostanziato o qualificato”)
AMMISSIBILITA’ E LIMITI DELLA PLURALITA’ DI ORDINANZE PER UNO
STESSO FATTO CONTRO LO STESSO SOGGETTO. La parte di enunciato in esame
ammette implicitamente che possano essere legittimamente emesse più ordinanze
cautelari nei confronti di uno stesso soggetto per gli stessi fatti: non sono dunque
illegittime, nulle o altrimenti viziate, le ordinanze cautelari emesse nei confronti dello stesso
soggetto per lo stesso fatto oggetto di una ordinanza precedente emessa contro di lui; l’unico
effetto è la retrodatazione dei termini dell’ordinanza successiva al momento di notifica o
esecuzione della prima, salvi due soli limiti: non è possibile emettere la nuova ordinanza
quando siano già scaduti i termini per la prima ex artt. 303 e 304 c.p.p., giacché in tal
caso si emetterebbe un’ordinanza che nasce inefficace, in contrasto con il principio di
conservazione degli atti giuridici e con il principio di economia processuale (in base al quale
è inutile emettere un atto improduttivo di qualsiasi effetto); non è parimenti possibile
emettere la nuova ordinanza quando si sia formato il giudicato cautelare negativo su
una precedente richiesta di misura cautelare, quello cioè formatosi sul provvedimento che ha
rigettato la richiesta e che impedisce l’emissione di una nuova ordinanza basata sui
medesimi elementi già valutati in negativo dal primo giudice o dal Tribunale del riesame o
dalla Cassazione in sede di impugnazione nel procedimento incidentale “de libertate” (sui
rapporti tra riproposizione della richiesta basata su nuovi elementi e appello ex art. 310
c.p.p. contro l’ordinanza reiettiva del primo giudice, con possibilità di deduzione dinanzi al
Tribunale del riesame di nuovi elementi cfr. SU 31 marzo 2004, Donelli, che precisa altresì
la portata del giudicato cautelare negativo).
GIURISPRUDENZA
Cass. Sez. 4, Sentenza n. 41370 del 30/10/2001 Cc. (dep. 20/11/2001 ) Rv. 220983 Presidente: Lisciotto F.
Estensore: Marzano F. Imputato: Boddli. P.M. Iannelli M. (Conf.) In tema di provvedimenti concernenti
nessuna disposizione di legge vieta che per uno
stesso fatto di reato siano emessi più provvedimenti cautelari, rilevando la circostanza solo ai
l'applicazione di misure cautelari personali, poiché
fini della durata della misura ai sensi del comma 3 dell'art. 297 cod. proc. pen. nell'ipotesi in cui il GIP, emesso un
provvedimento cautelare, trasmetta successivamente, senza dichiarare la propria incompetenza, gli atti, ai sensi dell'art.
16 del codice di rito, a diverso P.M. ed il GIP presso quest'ultimo emetta a sua volta ulteriore provvedimento custodiale,
nessuna nullità si verifica per violazione dell'art.27 cod. proc. pen. Massime precedenti Conformi: N. 1529 del 1992 Rv.
190831 Massime precedenti Vedi Sezioni Unite: N. 16 del 1994 Rv. 199389
Cass. Sez. 5, Sentenza n. 2815 del 28/11/1995 Cc. (dep. 27/12/1995 ) Rv. 203590 Presidente: Messina B. Estensore:
Nappi A. Imputato: Tuttolomondo. (Conf) (Rigetta, Trib. Roma, 29 maggio 1995). Il
divieto del "bis in
idem" non vige in riferimento alle misure cautelari, sicché è legittima la reiterazione
di una misura anche per il medesimo fatto, salva l'unificazione dei termini di durata
massima, quando ricorrano le condizioni previste dall'art. 297 cod. proc. pen., allo
scopo di evitare l'artificio delle cosiddette contestazioni a catena. (Fattispecie relativa a
custodia cautelare in carcere per bancarotta fraudolenta). Massime precedenti Conformi: Rv. 196705 Rv. 195338 Rv.
197592Massime precedenti Vedi: Rv. 199869 Massime precedenti Vedi Sezioni Unite: Rv. 195354
Cass. Sez. 1, Sentenza n. 568 del 28/01/1994 Cc. (dep. 16/03/1994 ) Rv. 196705 Presidente: Valente A. Estensore:
Valente V. Imputato: Tripepi. (Conf.) (Rigetta, Trib. Reggio Calabria, 27 agosto 1993). La circostanza che il fatto
costituente l'imputazione riportata in un'ordinanza applicativa di una misura cautelare sia identico a quello che ha
formato oggetto di altra imputazione, posta a base di altro provvedimento di coercizione, non
costituisce
motivo di nullità dell'ordinanza stessa, influendo tale situazione sul computo della
durata della custodia cautelare. Massime precedenti Conformi: N. 3450 del 1993 Rv. 195338
CONCETTO DI IDENTITA’ DEL FATTO: lo stesso enunciato normativo specifica
chiaramente che il fatto deve considerarsi identico ai fini della norma in esame anche nel
caso in cui siano formulati fatti che integrano nuove aggravanti (“diversamente
circostanziato”) sia quando la modifica riguardi la sola qualificazione giuridica restando
immutati i fatti storici; a maggior ragione pertanto quando vengano solo aggiunti dettagli
nella descrizione dell’azione non ancora accertati al momento di emissione
dell’originario provvedimento cautelare.
GIURISPRUDENZA
Cass. Sez. 1, Sentenza n. 5429 del 21/10/1996 Cc. (dep. 04/12/1996 ) Rv. 206183 Presidente: La Cava P. Estensore:
Fazzioli E. Imputato: Greco. P.M. Uccella F. (Parz. Diff.) (Annulla con rinvio, Trib. Palermo, 19 aprile 1996). La
locuzione "stesso fatto" di cui all'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen. ha un significato
più esteso
dell'espressione "medesimo fatto" di cui all'art. 649 cod. proc. pen., ricomprendendo - fermo
restando un nucleo originario comune - tutte le diverse possibilità di commissione o di
articolazione di un determinato fatto criminoso. Ne consegue che, qualora venga contestata a taluno
l'esecuzione materiale di un delitto (nella specie omicidio), per il quale egli già sia stato assolto dall'imputazione di
esserne stato il mandante, legittimamente viene emessa una nuova ordinanza di custodia cautelare, non potendo
ravvisarsi nelle diverse condotte contestate il "medesimo fatto", ma non può decorrere un nuovo termine di custodia
cautelare, dovendo ritenersi ricorrere un'ipotesi di "stesso fatto" prevista dall'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen..
ESIGENZE PRATICHE: il ricorso all’emissione di plurime ordinanze cautelari per lo stesso
fatto a carico della medesima persona, lungi dal costituire un evento straordinario o
patologico (dovuto ad esempio a disattenzione o mancata conoscenza della precedente
ordinanza cautelare), risponde invece a una esigenza fisiologica del sistema processuale
vigente, connessa all’esigenza di continuo aggiornamento del titolo cautelare in
rapporto all’evoluzione del procedimento principale: sul punto Cass. SU 5 luglio 2000,
Monforte, hanno precisato che, se nel dibattimento viene effettuata una contestazione
suppletiva di un’aggravante ad effetto speciale, il calcolo dei termini va fatto sulla base del
solo titolo cautelare [nella specie privo dell’aggravante ad effetto speciale] “non potendosi
rinvenire nel nostro ordinamento giuridico la possibilità di adeguamento automatico del
titolo cautelare” per il quale è perciò necessaria una ulteriore ordinanza ai sensi degli artt.
292 e 297 comma 3 c.p.p., emessa perciò per il medesimo fatto a carico dello stesso
soggetto, in base al concetto di identità del fatto che il legislatore ha adottato a questi fini;
CONSEGUENZE: proprio il sistema processuale sopra delineato chiarisce come,
contrariamente a quanto talvolta viene sostenuto, l’emissione di un ordinanza cautelare per
lo stesso fatto non revoca o sostituisce (neppure implicitamente) l’ordinanza precedente, ma
determina una situazione di coesistenza giuridica di più ordinanze cautelari autonome, tutte
vigenti, e come tali idonee a determinare un fenomeno di contestazione a catena con
retrodatazione dei termini cautelari al momento di notifica o esecuzione della prima
ordinanza.
PROBLEMI APPLICATIVI: il tema che ha costituito il nucleo fondamentale di casi in cui
ha assunto rilevanza pratica la distinzione tra fatti identici e fatti diversi ai fini della
contestazione cautelare a catena, è stato quello dei reati permanenti e, in particolare, dei
reati associativi. In taluni casi, ad esempio, di partecipazione ad una stessa associazione
criminosa e con la sola diversità dei tempi di commissione del reato a distinguere i fatti
oggetto delle ordinanze cautelari successive si è esclusa la retrodatazione, non ravvisandosi
una identità dei fatti, ciò sulla base di due principali argomenti: uno volto ad evidenziare la
differenza tra pluralità di fatti che integrano un unico reato (che caratterizza il reato
permanente) e il caso dell’unicità del fatto, non di reato, che caratterizza la contestazione a
catena); l’altro volto a evidenziare l’elemento temporale quale elemento essenziale del reato,
il cui mutamento incide quindi sul mutamento del fatto-reato (di tal ché si avrebbero non
solo più fatti ma anche più reati, conclusione questa avversata da altre sentenze emesse in
relazione a casi in cui la fattispecie è stata esaminata sotto il profilo della diversità dei fatti e
degli ulteriori requisiti necessari a comportare in questi ultimi casi la retrodatazione). In altri
casi si sottolinea invece il carattere interruttivo della permanenza esercitato dalla custodia in
carcere (conclusione peraltro avversata da altre sentenze emesse anche in questo caso in
relazione ad ipotesi in cui la fattispecie è stata esaminata sotto il profilo della diversità dei
fatti e degli ulteriori requisiti necessari a comportare in questi ultimi casi la retrodatazione).
Si tratta in fondo di precedenti giurisprudenziali che richiamano l’esigenza di valutare
l’autorevolezza del precedente alla luce del caso concreto esaminato, leggendo,
interpretando e limitando il valore della massima o del principio di diritto sulla base del caso
esaminato. Va poi sottolineato come l’adozione dell’una o dell’altra soluzione interpretativa
in punto di negazione dell’identità del fatto, a seconda che riconosca o meno la cessazione
della permanenza si riflette, come si vedrà in seguito, sulla possibilità di ritenere sussistente
il requisito dell’anteriorità del fatto, che deve sempre sussistere ai fini della retrodatazione
quando si ritenga di versare in casi di ordinanze aventi per oggetto fatti diversi.
GIURISPRUDENZA
Cass. Sez. 5, Sentenza n. 9528 del 08/03/2006 Cc. (dep. 17/03/2006 ) Rv. 233904 Presidente: Foscarini B. Estensore:
Nappi A. Relatore: Nappi A. Imputato: Longobardo ed altro. P.M. Salzano F. (Parz. Diff.) (Dichiara inammissibile,
Trib. lib. Napoli, 20 Ottobre 2005) Non sussistono i presupposti per l'applicabilità dell'art. 297 comma terzo, cod. proc.
pen. - per il quale nell'ipotesi di emissione a carico di un soggetto di più ordinanze dispositive di misure cautelari
personali per uno stesso fatto i termini di durata delle misura iniziano a decorrere dal giorno di esecuzione e notifica
della prima ordinanza - nel caso in cui la seconda ordinanza cautelare sia emessa per un reato
specie associazione
permanente, nella
per delinquere di tipo mafioso, la cui consumazione si sia protratta
successivamente all'emissione della prima ordinanza cautelare, in quanto i fatti idonei a integrare il reato
permanente sono plurimi, considerato che la consumazione può essere indefinitamente protratta per volontà
dell'agente, ancorché il reato in questione sia unico, con la conseguenza che mancano i presupposti di
operatività dell'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., il quale richiede l'unicità del fatto e non
l'unicità del reato. Massime precedenti Conformi: N. 2136 del 1999 Rv. 213768, N. 2529 del 1999 Rv. 215206,
N. 15874 del 2004 Rv. 228813
Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12984 del 16/02/2006 Cc. (dep. 12/04/2006 ) Rv. 233807 Presidente: Nardi D. Estensore:
Monastero F. Relatore: Monastero F. Imputato: Locorotondo. P.M. Cedrangolo O. (Diff.) (Rigetta, Trib. lib.
Lecce, 8 Novembre 2005) L'emissione nei confronti di uno stesso soggetto di più ordinanze, che dispongono la
medesima misura per l'imputazione di partecipazione ad una stessa associazione criminosa, non fa operare la regola
della retrodatazione dei termini di durata se le imputazioni sono tra loro diversificate dall'indicazione del tempo di
commissione del reato, perché tale regola presuppone che le più ordinanze abbiano ad oggetto lo stesso
fatto, che
non ricorre quando uno degli elementi essenziali della condotta materiale, relativo appunto al tempo di
commissione del reato, muti. Massime precedenti Conformi: N. 2136 del 1999 Rv. 213768, N. 3040 del 1999
Rv. 214532, N. 5518 del 1999 Rv. 212191, N. 15874 del 2004 Rv. 228813
Cass, Sez. 5, Sentenza n. 3098 del 14/12/2005 Cc. (dep. 25/01/2006 ) Rv. 233746 Presidente: Lattanzi G. Estensore:
Nappi A. Relatore: Nappi A. Imputato: Lanzino. P.M. Consolo S. (Conf.) (Rigetta, Trib. Cosenza, 14 Gennaio 2005)
In tema di c.d. contestazione a catena, non opera la disposizione dell'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen. in
riferimento a fatti successivi alla applicazione della prima misura cautelare (Fattispecie nella quale due successive
ordinanze di custodia cautelare erano state adottate in riferimento al reato di cui all'art. 416 bis cod. pen.. La Corte ha
rilevato che il reato di partecipazione ad associazione mafiosa è di natura permanente ma ciascun
atto di
partecipazione è da solo sufficiente ad integrarlo, sicché i fatti rilevanti ai sensi
dell'art. 416 bis cod. pen. sono plurimi. Ne consegue che le condotte susseguenti alla
adozione della prima ordinanza cautelare possono legittimare la adozione di una misura non soggetta a
retrodatazione, poiché l'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen. richiede la unicità del fatto e non l'unicità del reato).
Cass. sez. 5, Sentenza n. 2136 del 06/05/1999 Cc. (dep. 11/06/1999 ) Rv. 213768 Presidente: Consoli G. Estensore:
Marasca G. Imputato: Lezzi G. P.M. Matera M. (Conf.) (Rigetta, Trib.Riesame Lecce, 17 febbraio 1999). In tema di
reato associativo, la permanenza
cessa anche con la privazione della libertà personale
dell'agente , con la conseguenza che, se -successivamente alla istaurazione dello stato di detenzione- risulti provata
ulteriore adesione al sodalizio criminoso, deve ravvisarsi nuovo ed autonomo reato, per il quale può essere emesso
nuovo provvedimento cautelare coercitivo, dalla cui notifica decorre nuovo termine di custodia cautelare.
Cass. Sez. 6, Sentenza n. 2529 del 01/07/1999 Cc. (dep. 03/08/1999 ) Rv. 215206 Presidente: Trojano P. Estensore:
Di Virginio A. Imputato: Meduri. (Diff.) (Rigetta, Trib. Reggio Calabria, 14 gennaio 1999). La disposizione di cui
all'art. 297, terzo comma, cod. proc. pen. non trova applicazione quando i vari reati, che possono legittimare l'adozione
di più misure cautelari, siano obiettivamente
e storicamente diversi, anche se in sede di
cognizione vengano apprezzati come reato unico sotto il profilo della permanenza. Ed
invero la norma richiamata postula l'identità del fatto e non l'identità del reato, sicché non può trovare applicazione
quando i fatti restino obiettivamente diversi, seppure tali da integrare gli estremi di un reato unico la cui consumazione
si protragga nel tempo. (Fattispecie in tema di ordinanze cautelari relative al reato di cui all'art. 416 bis cod. pen. in cui
l'ultima era stata emessa per fatti nuovi commessi successivamente alle precedenti ordinanze). Massime precedenti
Conformi: N. 3662 del 1996 Rv. 205877, N. 4490 del 1996 Rv. 205319, N. 1831 del 1998 Rv. 211141, N. 2136 del
1999 Rv. 213768, N. 3040 del 1999 Rv. 214532
Massime precedenti Vedi Sezioni Unite: N. 9 del 1997 Rv. 208167
Cass. Sez. 6, Sentenza n. 15874 del 17/02/2004 Cc. (dep. 02/04/2004 ) Rv. 228813 Presidente: Fulgenzi R.
Estensore: Colla G. Imputato: Panico. P.M. Iacoviello FM. (Diff.) (Rigetta, Trib. Napoli, 7 ottobre 2003). In tema di
cosiddetta "contestazione a catena", qualora, disposta la custodia cautelare per il delitto di associazione per delinquere,
venga riemessa la medesima misura dopo la scarcerazione dell'imputato, in relazione alla persistenza della sua adesione
al sodalizio criminoso, la decorrenza dei termini di durata della misura applicata con l'ulteriore ordinanza non va
retrodatata al momento di esecuzione o notificazione della prima, in quanto si è in presenza di un nuovo
e
autonomo delitto, cessando la permanenza del reato associativo con la privazione
della libertà personale dell'agente. Massime precedenti Conformi: N. 2136 del 1999 Rv. 213768, N. 3040
del 1999 Rv. 214532Massime precedenti Vedi: N. 27419 del 2003 Rv. 225689, N. 12263 del 2004 Rv. 228470, N.
19601 del 2004 Rv. 228225
Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12984 del 16/02/2006 Cc. (dep. 12/04/2006 ) Rv. 233807 Presidente: Nardi D. Estensore:
Monastero F. Relatore: Monastero F. Imputato: Locorotondo. P.M. Cedrangolo O. (Diff.) (Rigetta, Trib. lib.
Lecce, 8 Novembre 2005) L'emissione nei confronti di uno stesso soggetto di più ordinanze, che dispongono la
medesima misura per l'imputazione di partecipazione ad una stessa associazione criminosa, non fa operare la regola
della retrodatazione dei termini di durata se le imputazioni
sono tra loro diversificate
dall'indicazione del tempo di commissione del reato, perché tale regola presuppone che
le più ordinanze abbiano ad oggetto lo stesso fatto, che non ricorre quando uno degli elementi
essenziali della
condotta materiale, relativo appunto al tempo di commissione del reato, muti. Massime
precedenti Conformi: N. 2136 del 1999 Rv. 213768, N. 3040 del 1999 Rv. 214532, N. 5518 del 1999 Rv. 212191, N.
15874 del 2004 Rv. 228813
Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 6252 del 09/02/2006 Cc. (dep. 16/02/2006 ) Rv. 233857 Presidente: Nardi D. Estensore:
Davigo P. Relatore: Davigo P. Imputato: Alfuso. P.M. Monetti V. (Conf.)(Dichiara inammissibile, Trib.lib. Napoli,
23 Settembre 2005) In tema di divieto di contestazione "a catena", qualora, disposta la custodia
cautelare per
un reato-fine dell'associazione per delinquere, venga emessa nei confronti dell'imputato una ulteriore misura in
relazione a tale ultimo reato, la decorrenza dei termini di durata della custodia cautelare non va retrodatata ai sensi
dell'art. 297, comma terzo cod. proc. pen., qualora la partecipazione
all'attività associativa, benché
risalente ad epoca antecedente all'esecuzione della prima misura, sia perdurata,
nonostante la privazione della libertà, sino al momento dell'emissione della seconda
ordinanza. Massime precedenti Difformi: N. 4939 del 1996 Rv. 204275, N. 2136 del 1999 Rv. 213768, N. 3040 del
1999 Rv. 214532, N. 15874 del 2004 Rv. 228813 Massime precedenti Vedi: N. 550 del 1993 Rv. 193335, N. 2525 del
1994 Rv. 198346, N. 3581 del 1994 Rv. 201385, N. 4380 del 1997 Rv. 208825, N. 5518 del 1999 Rv. 212191, N.
12907 del 2001 Rv. 218440
Cass. Sez. 1, Sentenza n. 29669 del 17/06/2003 Cc. (dep. 16/07/2003 ) Rv. 225064 Presidente: Chieffi S. Estensore:
Vancheri A. Imputato: Greco. P.M. Viglietta G. (Diff.) (Rigetta, Trib. Libertà Palermo 18 dicembre 2002). *
CONFORME A CASSAZIONE ASN:199902529 RV:215206 S Massime precedenti Conformi: N. 2529 del 1999 Rv.
215206
Cass. Sez. 5, Sentenza n. 30040 del 12/06/2003 Cc. (dep. 17/07/2003 ) Rv. 225835 Presidente: Marrone F.
Estensore: Amato A. Imputato: Scaccio. P.M. Hinna Danesi F. (Conf.) (Rigetta, Trib. Libertà Palermo, 28 febbraio
2003). * CONFORME A CASSAZIONE ASN:199902529 RV:215206 Massime precedenti Conformi: N. 2529 del
1999 Rv. 215206
Cass. Sez. 5, Sentenza n. 4380 del 10/10/1997 Cc. (dep. 10/11/1997 ) Rv. 208825 Presidente: Pandolfo GV.
Estensore: Rotella M. Imputato: Latella ed altri. P.M. Martusciello V. (Diff.)(Annulla con rinvio, Trib. Reggio
Calabria, 27 gennaio 1996). In materia di termini di durata della misura cautelare, posto che la permanenza
del
vincolo associativo di taluno non si ritiene cessata con la detenzione, l'identità della condotta
di partecipazione ad una stessa associazione criminale, (ai fini dell'applicazione del terzo comma dell'art. 297 cod. proc.
pen.), non può escludersi solo perché la varietà delle vicende dell'organismo delinquenziale, accertate a stregua di
successive emergenze, ne abbiano importato più contestazioni. Trattandosi di associazione di stampo mafioso, perciò, al
fine di escludere l'identità dei fatti consecutivamente ascritti a taluno, non rileva ne' il
termine finale che si desume dalla data di contestazione, ne' che l'organizzazione sia
intanto mutata per il numero dei componenti o che, in talun periodo, essa sia entrata
in guerra con altre organizzazioni rivali, o che il programma di controllo socio economico si sia esteso a settori in origine non previsti, salvo che vi sia ragione di
ritenere una successione di diversi organismi, sia pure con lo stesso nome sullo stesso
territorio, o lo scioglimento dell'imputato dal precedente vincolo associativo, con
assunzione di un vincolo nuovo pur con le stesse persone. Pertanto, l'evoluzione naturale
dell'organismo, e conseguentemente della condotta dei membri in relazione anche a vicende sociali o personali (per
esempio la detenzione), non esclude l'identità del fatto configurato in termini relativamente diversi in più ordinanze di
custodia. Viceversa solo la provata successione di un'associazione nuova all'altra, o la volontaria dissociazione
dell'imputato, o l'intervento di una pronuncia giudiziale che segni una censura temporale della condotta ascrittagli con il
primo provvedimento, consentono di ritenere che i termini di custodia relativi a quello successivo decorrano dalla
notifica o esecuzione. Massime precedenti Conformi: N. 2525 del 1994 Rv. 198346
“ovvero per fatti diversi commessi
anteriormente alla emissione della prima ordinanza in relazione ai quali
sussiste connessione ai sensi dell’art. 12 comma 1 lett. b) e c),
limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri”)
3B) CONNESSIONE QUALIFICATA (TESTO:
ANTERIORITA’ DEI FATTI: Si tratta di un requisito che deve sussistere in generale in
caso di fatti diversi, con la conseguenza che la sua assenza rende del tutto inutile esaminare
gli ulteriori requisiti della sussistenza di una connessione qualificata e, se del caso, della
desumibilità dagli atti. Pur essendo un requisito di più facile rilievo è spesso
inspiegabilmente trascurato dai giudici di merito che pure in molti casi potrebbero trovare
nella sua assenza una facile soluzione al problema di contestazione a catena loro sottoposto.
I maggiori problemi pratici sono rappresentati dal reato permanente e dai reati associativi
rispetto ai reati fine, sotto il duplice profilo della riconoscibilità della continuazione tra reato
associativo e reati-fine e sotto il profilo dell’anteriorità del reato fine nella permanenza
dell’associazione. In particolare si trova spesso sostenuto nei precedenti di Cassazione che
se la permanenza del reato associativo prosegue anche dopo la commissione del reato fine,
l’applicazione successiva di misura cautelare per il fatto associativo non determinerebbe una
ipotesi di contestazione a catena rispetto alla precedente ordinanza applicativa di misura per
il reato fine, ciò anche nei casi in cui si riconosca l’esistenza di una connessione qualificata
tra fattispecie associativa e reato-fine. E’ interessante notare come in questi casi, riconoscere
alla detenzione un effetto interruttivo della permanenza, determina l’impossibilità di
riconoscere l’anteriorità del fatto associativo commesso dopo l’esecuzione della prima
misura cautelare per il reato fine, mentre la stessa questione sulla valenza interruttiva della
carcerazione viene talvolta affrontata per negare il requisito dell’identità del fatto: pertanto il
riconoscimento o meno dell’effetto interruttivo della carcerazione ha conseguenze opposte
sulla sussistenza del requisito dell’identità del fatto o dell’anteriorità del fatto rispetto ad uno
diverso – l’interruzione della permanenza per carcerazione da un lato porta a negare la
contestazione a catena sub specie di pluralità di ordinanze per un medesimo fatto ma porta
viceversa ad affermarla sub specie di pluralità di ordinanze per fatti diversi tutti anteriori
all’emissione della prima ordinanza.
GIURISPRUDENZA
Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 6252 del 09/02/2006 Cc. (dep. 16/02/2006 ) Rv. 233857 Presidente: Nardi D. Estensore:
Davigo P. Relatore: Davigo P. Imputato: Alfuso. P.M. Monetti V. (Conf.) (Dichiara inammissibile, Trib.lib. Napoli,
23 Settembre 2005) In tema di divieto di contestazione "a catena", qualora, disposta la custodia cautelare per un reatofine dell'associazione per delinquere, venga emessa nei confronti dell'imputato una ulteriore misura in relazione a tale
ultimo reato, la decorrenza dei termini di durata della custodia cautelare non va retrodatata ai sensi dell'art. 297, comma
terzo cod. proc. pen., qualora la partecipazione all'attività associativa, benché risalente ad epoca antecedente
all'esecuzione della prima misura, sia perdurata, nonostante la privazione della libertà, sino al momento dell'emissione
della seconda ordinanza. Massime precedenti Difformi: N. 4939 del 1996 Rv. 204275, N. 2136 del 1999 Rv. 213768, N.
3040 del 1999 Rv. 214532, N. 15874 del 2004 Rv. 228813Massime precedenti Vedi: N. 550 del 1993 Rv. 193335, N.
2525 del 1994 Rv. 198346, N. 3581 del 1994 Rv. 201385, N. 4380 del 1997 Rv. 208825, N. 5518 del 1999 Rv. 212191,
N. 12907 del 2001 Rv. 218440
Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17575 del 16/03/2006 Cc. (dep. 22/05/2006 ) Rv. 233833 Presidente: Morelli F. Estensore:
Diotallevi G. Relatore: Diotallevi G. Imputato: Cardella. P.M. Cedrangolo O. (Conf.) (Rigetta, Trib. lib. Palermo,
18 Novembre 2005) L'applicazione della regola della retrodatazione della decorrenza del termini di custodia cautelare,
nel caso di emissione di più ordinanze che dispongono la medesima misura nei confronti dello stesso imputato per fatti
diversi, presuppone che i fatti dell'ordinanza rispetto alla quale operare la retrodatazione siano stati commessi
anteriormente all'emissione della prima ordinanza, e tale condizione non sussiste nell'ipotesi in cui l'ordinanza
successiva abbia ad oggetto la contestazione del reato di associazione di stampo mafioso con descrizione
del
momento temporale di commissione mediante una formula cosiddetta aperta, che
faccia uso di locuzioni tali da indicare la persistente commissione del reato pur dopo
l'emissione della prima ordinanza. Massime precedenti Vedi Sezioni Unite: N. 21957 del 2005 Rv. 231057
4) DESUMIBILITA’ DAGLI ATTI (“La disposizione non si applica
relativamente alle ordinanze per fatti non desumibili dagli atti prima del
rinvio a giudizio”).
IL PROBLEMA INTERPRETATIVO. L’enunciato in esame pone il delicato problema del
coordinamento tra la prima parte della norma -in cui sono previste la connessione
qualificata e l’anteriorità dei fatti rispetto alla prima ordinanza - e la sua seconda parte - che
introduce appunto il requisito della desumibilità dagli atti, ancorandolo però a un atto, il
rinvio a giudizio, che non sussiste necessariamente in tutte le ipotesi in cui siano verificati i
presupposti di connessione qualificata e anteriorità previsti nella prima parte dell’enunciato
medesimo.
LE SEZIONI UNITE ATENE. Le soluzioni interpretative offerte al problema interpretativo
di cui sopra erano state le più svariate ed avevano consentito comunque di individuare i
principali nuclei di dubbio posti dalla norma: se cioè il requisito della desumibilità degli atti
costituisse un presupposto generale da riconoscere in tutti i casi di connessione qualificata
anche ove non vi fosse rinvio a giudizio, se la contestazione a catena fosse possibile anche
in procedimenti diversi e, in relazione a questi casi, se si dovesse intendere la desumibilità
come conoscibilità concreta (a seguito di trasmissione) o astratta (per la semplice presenza
dell’atto) da parte dell’AG procedente nel procedimento in cui veniva emessa la misura
successiva nonché, in generale, se la desumibilità dovesse significare mera individuabilità
del fatto o sussistenza di tutti gli elementi necessari ad emettere la misura (e quindi gravi
indizi della sussistenza del fatto). In tale quadro intervenivano quindi le SU 25 giugno
1997 Atene generalizzando il requisito della desumibilità sulla base della “ratio” della
norma, volta ad evitare un uso pretestuoso dell’adozione successiva delle ordinanze
cautelare per aggirare la disciplina in materia di termini: poiché tale uso pretestuoso della
reiterazione dei provvedimenti cautelari presuppone la possibilità di emettere l’ordinanza
anche per il fatto successivo sin dal momento di emissione della prima ordinanza, il
requisito della desumibilità doveva intendersi quale presupposto generale necessariamente
sussistente per tutti i casi di connessione qualificata, con l’unica differenza che, ove si
trattasse di procedimento in cui già era intervenuto il rinvio a giudizio, la desumibilità dagli
atti doveva rapportarsi a tale momento, mentre ove ciò non fosse avvenuto la desumibilità
doveva intendersi anteriore all’emissione della prima ordinanza. Poiché l’uso pretestuoso
della reiterazione di provvedimenti cautelari implica la possibilità di emetterli per tutti i fatti
sin dal momento di applicazione della prima ordinanza, le SU ritenevano che la desumibilità
non potesse riconoscersi in caso di “mera notizia del fatto-reato” ma solo ove sussistessero
“tutti gli elementi apprezzabili come presupposti per l’emissione delle successive ordinanze
cautelari”. D’altro canto le SU non vedevano alcun ostacolo nel ravvisare ipotesi di
contestazione a catena anche nel caso di ordinanze emesse in procedimenti diversi, per i
quali sussisteva una stessa esigenza di tutela espressa dalla “ratio” dell’art. 297 comma 3,
dovendosi ovviare alle difficoltà operative presenti ove i procedimenti pendessero davanti
ad AG diverse mediante il “ricorso alla disciplina sul cumulo dei procedimenti dinanzi al
giudice individuabile a norma degli artt. 13 ss. c.p.p., anche mediante il contributo della
difesa, il cui accesso agli atti nel procedimento de libertate, soprattutto dopo la sentenza
192/97 della Corte Costituzionale, non incontra più limitazioni”.
LE SENTENZE DELLA CORTE COSTITUZIONALE TRA LE DUE SENTENZE DELLE
SU. Peraltro, mentre le SU affermavano il principio di diritto di cui sopra, prima e dopo, la
Corte costituzionale riteneva infondate, manifestamente infondate o manifestamente
inammissibili questioni di costituzionalità proposte in relazione alla legittimità dell’art. 297
comma 3, assumendo una interpretazione della norma tale da riconoscere in generale la
retrodatazione in tutti i casi di connessione qualificata, restringendo l’ulteriore requisito
della desumibilità degli atti al solo caso in cui fosse intervenuto il rinvio a giudizio. In
particolare la Corte costituzionale con la sentenza 28 marzo 1996, n.89 e 5 febbraio 1999
n.20 enuncia il limite del suo sindacato alla ragionevolezza della disciplina contenuta
nell’art. 297 comma 3 - ritenendola ragionevole - nel presupposto che essa imponga la
retrodatazione per connessione qualificata anche quando non vi sia desumibilità dagli atti,
contrariamente quindi a quanto sostenuto dalle SU Atene sulla base del cui orientamento la
questione avrebbe dovuto quindi ritenersi inammissibile in quanto interpretazione contraria
al “diritto vivente”; con la sentenza 3 maggio 2003 n.151 la Corte costituzionale dichiara la
inammissibilità di altra questione di costituzionalità dell’art. 297 comma 3 perché ritiene
contraria al “diritto vivente” l’interpretazione secondo cui tale disposizione non
consentirebbe la retrodatazione in caso di fatti, non legati da connessione qualificata, per i
quali sussista però la desumibilità dagli atti per entrambi sin dalla prima ordinanza cautelare.
LE SEZIONI UNITE RAHULIA. Per porre fine a questa sorta di solipsismo giudiziario tra
Corte di Cassazione e Corte Costituzionale, intervengono nuovamente le SU con la sentenza
22 marzo 2005 (depositata il 10 giugno 2005), RAHULIA e altri, Est. Lattanzi (massime RV
231057, 231058). Con tale decisione viene completamente ribaltato il precedente
orientamento delle SU ATENE - orientamento che peraltro era seguito dalla giurisprudenza
pressoché costante del S.C. (con l’eccezione di Cass. sez. I 9.11.2004 n.48357 Orlando RV
229435). Le SS.UU. con la sentenza Rahulia affermano infatti che “nel caso di
emissione nei confronti di un imputato di più ordinanze che dispongono la medesima misura
cautelare per fatti diversi, commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza,
legati da concorso formale, da continuazione o da connessione teleologica, la
retrodatazione della decorrenza dei termini delle misure disposte con ordinanze successive,
prevista dall’art. 297 comma 3 c.p.p., opera indipendentemente dalla possibilità di
desumere dagli atti l’esistenza di elementi idonei a giustificare le relative misure”.Viene
così reintrodotto l’automatismo del meccanismo di retrodatazione degli effetti della misura
in presenza della sola connessione qualificata (e ovviamente dell’anteriorità dei fatti rispetto
all’emissione della prima ordinanza), automatismo che le SS.UU. Atene avevano invece
inteso evitare in quanto ritenuto foriero di conseguenze “paradossali e irragionevoli” quando
avevano esteso anche ai casi di cui alla prima parte dell’art.297 comma 3 c.p.p. il requisito
della desumibilità dagli atti che la citata disposizione prevedeva solo nella seconda parte del
medesimo comma per il caso di rinvio a giudizio. Le SS.UU. Rahulia hanno invece ritenuto
tale automatismo del tutto ragionevole osservando che “il legislatore nel tempo ha assunto
alcune relazioni tra i reati come fattispecie di per sé giustificative della retrodatazione
senza la necessità di accertare se al momento della prima ordinanza negli atti esistessero o
meno gli elementi per emettere anche le successive”, ciò in conformità a plurimi arresti
giurisprudenziali della Corte Costituzionale che, in molteplici decisioni interpretative di
rigetto succedutesi nel tempo (Corte Cost. ordd. Nn. 221/1996, 349/1996, 20/99 e
244/2003), aveva statuito come l’automatico operare della retrodatazione in presenza di una
connessione qualificata, corrispondesse pienamente all’esigenza di comprimere entro spazi
sicuri il termine di durata massima delle misure cautelari in aderenza a quanto previsto
dall’art. 13 Costituzione e di impedire la diluizione dei termini in ragione dell’episodico
concatenarsi di più fattispecie cautelari: la connessione qualificata tra i fatti, come quella
espressa dalla continuazione, rappresentava perciò secondo la Corte Costituzionale un
“elemento di correlazione contenutistica” tra i diversi fatti tali da giustificarne una
“valutazione unitaria agli effetti del trattamento cautelare”. Simili conclusioni della
Corte Costituzionale erano state affermate con sentenze interpretative di rigetto delle
questioni di costituzionalità sollevate - rappresentavano cioè una pronuncia che riteneva la
legittimità costituzionale della norma sulla base di una interpretazione della stessa volta ad
affermare l’automatismo del meccanismo della retrodatazione in presenza della sola
connessione qualificata: quindi, tale pronunce costituzionali si limitavano ad affermare che
una simile interpretazione (volta ad affermare l’automatismo della retrodatazione in
presenza della sola connessione) non dessero luogo all’illegittimità della norma, ma
ovviamente nulla dicevano sul fatto che detta interpretazione fosse l’unica compatibile con
la Costituzione, né tanto meno simili pronunce potevano ritenersi vincolanti in giudizi
diversi da quelli “a quo” - operando in simili ipotesi il consueto limite di individuare
interpretazioni diverse da quelle eventualmente ritenute illegittime dalla Corte - tanto più
che, come visto, il cd “diritto vivente” risultava nettamente orientato (con la sentenza
SS.UU. Atene e con le successive sentenze della Cassazione) nel senso di richiedere un
ulteriore presupposto rispetto a quello della sussistenza del nesso rilevante tra i fatti oggetto
dei diversi provvedimenti coercitivi, cioè quello della desumibilità degli atti anteriore
all’emissione della prima ordinanza, con ciò escludendo il predetto automatismo. Tuttavia le
SS.UU. Rahulia, proprio partendo dal dato fornito dalle citate decisioni della Corte
Costituzionale, hanno rilevato come il dato letterale dell’art. 297 comma 3 prima parte
c.p.p. non prevedesse affatto il requisito della desumibilità dagli atti anteriore alla prima
ordinanza dei fatti relativi alla seconda misura cautelare, con la conseguenza che la
precedente interpretazione delle SS.UU. Atene si scontrava con il dato testuale, secondo
cui la desumibilità degli atti era prevista solo nella seconda parte dell’art. 297 comma 3
c.p.p. anteriormente al rinvio a giudizio, e non all’emissione della prima ordinanza
cautelare. Osservavano in particolare le SS. UU. Rahulia che i dati testuali non
consentivano e non consentono due operazioni ermeneutiche invece effettuate
con il precedente orientamento delle SS. UU.: 1) l’estensione del requisito
della desumibilità degli atti, previsto dal legislatore solo nella seconda parte
dell’art.297 comma 3 c.p.p. per il caso in cui la retrodatazione si ponga rispetto
a reati che formano oggetto di procedimenti diversi, anche alle ipotesi di reati
oggetto di diversi provvedimenti coercitivi emessi nel medesimo
procedimento; 2) la trasformazione del concetto di fatto desumibile dagli atti in
quello di quadro legittimante l’adozione della misura desumibile dagli atti, vale
a dire in quello di gravi indizi desumibili dagli atti. Partendo quindi dal rilievo che
la regola generale in materia di retrodatazione degli effetti - in caso di contestazione a catena
- sia quella prevista dall’art.297 comma 3 c.p.p. e che per questa sia richiesta la sola
sussistenza di una connessione qualificata tra i fatti oggetto dei diversi provvedimenti
coercitivi, la Corte ha ritenuto di poter interpretare anche la seconda parte del medesimo art.
297 comma 3 alla luce di tale regola generale. Il S.C. ha infatti osservato che i reati che si
trovano in rapporto di connessione formano normalmente oggetto di un
medesimo procedimento a meno che essi non siano desumibili dagli atti ovvero
non si sia proceduto alla riunione per una scelta di strategia processuale
dell’autorità procedente, scelta che come tale non può comunque andare a discapito
della parte che la subisce. Pertanto, il fatto che si proceda separatamente per i reati
oggetto dei distinti provvedimenti coercitivi che siano uniti da un nesso
rilevante risulta ininfluente ai fini della retrodatazione del termine, nel senso che
le stesse ragioni che hanno portato a ritenere giustificata la predetta retrodatazione in
presenza della connessione rilevante tra i reati oggetto dei distinti provvedimenti coercitivi
emessi nel medesimo procedimento si pongono anche ove, per scelta processuale o per
semplice inerzia, si proceda separatamente per i due reati: l’unico caso che impedisce di
ravvisare qualsiasi uso strumentale della concatenazione dei provvedimenti coercitivi emessi
in procedimenti diversi è rappresentato dall’ipotesi in cui non fosse possibile
procedere unitariamente, ciò che si verifica, secondo l’assunto delle SS.UU.,
appunto nel caso in cui i reati oggetto dei due distinti provvedimenti coercitivi
emessi nei due diversi procedimenti non emergessero dagli atti prima del
rinvio a giudizio. Dall’articolato percorso argomentativo del S.C. si evince quindi come il
meccanismo di retrodatazione ai sensi dell’art.297 comma 3 c.p.p. debba riconoscersi
automaticamente in presenza della sola sussistenza di una connessione rilevante tra i
reati oggetto dei distinti provvedimenti coercitivi, siano essi stati emessi in un unico
procedimento o in procedimenti distinti, con l’unica eccezione rappresentata dal fatto
che, ove i diversi provvedimenti coercitivi (emessi successivamente l’uno all’altro) siano
stati adottati in distinti procedimenti, e solo in questo caso, occorra anche il requisito della
desumibilità dagli atti, anteriormente al rinvio a giudizio per il procedimento in cui è stato
emesso il provvedimento coercitivo precedente, del fatto oggetto del provvedimento
coercitivo emesso successivamente. Il caso sottoposto alle SS.UU. era rappresentato da una
vicenda procedimentale in cui era stata riconosciuta la sussistenza della continuazione tra i
reati oggetto dei distinti provvedimenti coercitivi, e conseguentemente l’interpretazione
dalla norma sopra indicata risultava sufficiente a risolvere il caso “de quo”, tuttavia il S.C.
precisava ulteriormente quanto segue: “rimane peraltro fermo il principio tradizionale che,
nel caso di emissione nei confronti di un imputato di più ordinanze che dispongono la
medesima misura cautelare per fatti diversi, tra i quali non sussiste la connessione
qualificata prevista dall’art.297 comma 3 c.p.p., i termini delle misure disposte con le
ordinanze successive decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima, se al
momento dell’emissione di questa erano già desumibili dagli atti gli elementi che hanno
giustificato le ordinanze successive, quando cioè, nei casi non espressamente previsti dalla
suddetta disposizione, pure si accerti che a disposizione dell’autorità giudiziaria, al
momento dell’emissione del primo provvedimento, erano idonei indizi di colpevolezza”.
Con quest’ultima affermazione la disciplina della retrodatazione dei termini di custodia
cautelare in caso di ordinanze coercitive emesse successivamente le une alle altre, quale
delineata dal S.C., è quindi così risultante:
1. sussiste connessione qualificata tra i reati oggetto dei provvedimenti coercitivi emessi in
successione e i provvedimenti coercitivi in parola sono stati adottati:
a. nel medesimo procedimento: in tal caso, opera automaticamente la
retrodatazione dei termini;
b. in procedimenti distinti e i fatti oggetti del provvedimento coercitivo emesso
successivamente erano desumibili dagli atti:
i. prima del rinvio a giudizio nel procedimento in cui è stato emesso il
precedente provvedimento coercitivo: in tal caso opera la retrodatazione
dei termini;
ii. dopo il rinvio a giudizio nel procedimento in cui è stato emesso il
precedente provvedimento coercitivo: in tal caso non opera la
retrodatazione dei termini;
2. non sussiste connessione qualificata e anteriormente all’emissione del precedente
provvedimento coercitivo:
a. già sussistevano gravi indizi di colpevolezza dei reati oggetto dell’ordinanza
emessa successivamente: in tal caso opera la retrodatazione dei termini;
b. non sussistevano gravi indizi di colpevolezza dei reati oggetto del successivo
provvedimento coercitivo essendo stati acquisti dopo l’ordinanza precedente: in tal
caso non opera la retrodatazione dei termini.
Orbene la disciplina indicata sopra sub 2), presenta invero i medesimi inconvenienti che hanno
indotto il S.C. ad allontanarsi dall’orientamento giurisprudenziale della sentenza Atene, in
quanto consentono di ritenere operante la retrodatazione dei termini pur in assenza di una
connessione qualificata, in aperto contrasto con il tenore letterale della norma che richiede
sempre e comunque la sussistenza di una connessione qualificata tra i reati per l’operare
dell’effetto della retrodatazione. In assenza di un enunciato normativo in tal senso e, anzi, in
presenza di un enunciato di segno opposto (il citato art.297 comma 3 prima e seconda parte,
c.p.p.), non residuano spazi interpretativi che il giudice ordinario possa utilizzare per enucleare
una disciplina la cui fonte non sarebbe più normativa ma esclusivamente giudiziale, finendo per
operare attraverso una sorta di sentenza additiva che, come tale, può rientrare nelle sole
competenze della Corte costituzionale, ove questa ritenga che la norma di cui all’art.297
comma 3 c.p.p. sia incostituzionale (per disparità di trattamento di situazioni consimili) nella
parte in cui non prevede che il meccanismo della retrodatazione degli effetti operi anche nel
caso di più ordinanze cautelari emesse per reati non uniti da una connessione rilevante ma
desumibili dagli atti anteriormente all’emissione del primo provvedimento coercitivo. Tuttavia,
non solo le statuizioni della sentenza delle SS.UU. Rahulia relative ai casi di insussistenza di
una connessione rilevante tra i reati oggetto dei diversi provvedimenti coercitivi rappresentano
un chiaro “obiter dictum” (esulando da quanto necessario per risolvere il caso sottoposto alla
Corte), ma introducono una ulteriore distinzione in quanto il requisito della desumibilità dagli
atti idonea a far scattare la retrodatazione del termine anche in caso di fatti non legati da
connessione qualificata non opera in riferimento a misure cautelari disposte in procedimenti
diversi – e questo limite viene espressamente sottolineata nella stessa massima ufficiale redatta
sul punto (RV 231059).
LA PRONUNCIA DI ILLEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE. Nonostante il tentativo di
riavvicinamento operato dalla sentenza SU Rahulia, la CORTE COSTITUZIONALE
con la sentenza 24 OTTOBRE 2005 N.408 ha DICHIARATO L’ILLEGITTIMITA’
“NELLA PARTE IN CUI NON SI APPLICA ANCHE A FATTI DIVERSI NON
CONNESSI, QUANDO RISULTI CHE GLI ELEMENTI PER EMETTERE LA
NUOVA ORDINANZA ERANO GIA’ DESUMIBILI DAGLI ATTI AL MOMENTO
DELLA EMISSIONE DELLA PRECEDENTE ORDINANZA. La Corte costituzionale era
ben consapevole della nuova sentenza delle SU ma espressamente non l’ha considera
“diritto vivente” – e del resto la situazione sottoposta al suo vaglio sarebbe stata davvero
singolare in quanto il giudice remittente si trovava vincolato dal principio di diritto
enunciato in una sentenza di annullamento con rinvio in cui veniva stabilito un principio
opposto a quello sostenuto nell’ultima sentenza delle SU – e ha ritenuto necessaria la
pronuncia di una sentenza (interpretativa) di accoglimento parziale, ciò che ad avviso di chi
scrive si imponeva, trattandosi di operazione non meramente ermeneutica, cioè attributiva di
un significato tra quelli possibili in relazione al lessico e alla sintassi dell’enunciato
medesimo, ma manipolativa e creativa, trattandosi di significato che implica una estensione
per aggiunzione dell’enunciato medesimo. D’altro canto la sentenza con cui viene dichiarata
l’illegittimità, non distingue tra fatti non legati da connessione qualificata per i quali si
proceda nello stesso procedimento o in procedimenti diversi, di tal che la norma risultante
dalla pronuncia di illegittimità costituzionale estende il requisito della desumibilità anche ai
casi di fatti non connessi desumibili dagli atti anteriormente alla prima ordinanza ancorché
le ordinanze siano emesse in procedimenti diversi. D’altro canto nella motivazione
della sentenza si esplicita la ragione di tale estensione della disciplina della retrodatazione,
in quanto “nessuno spazio può residuare in capo agli organi titolari del potere cautelare di
sciegliere il momento a partire dal quale possono essere fatti decorrere i termini custodiali in
caso di pluralità di titoli e di fatti di reato cui essi si riferiscono. Se dunque il legislatore, in
perfetta aderenza con i valori di certezza e di durata minima della custodia cautelare (v. art.
13 primo e ultimo comma, Cost., nonché art.5 comma 3, Convenzione europea dei diritti
dell’uomo), ha ritenuto di dover stabilire (...) meccanismi legali di retrodatazione automatica
dei termini, in presenza di certe condizioni, nel caso in cui tra i diversi titoli sussista
l’indicato nesso di connessione qualificata, a fortiori l’identico regime di garanzia dovrà
operare in tutti i casi in cui, pur potendo i diversi provvedimenti coercitivi essere adottati in
un unico contesto temporale, per qualsiasi causa l’autorità giudiziaria abbia invece prescelto
momenti diversi per l’adozione delle singole ordinanze. La durata della custodia viene così a
dipendere non da un fatto obiettivo (rispettoso dunque del canone dell’uguaglianza e della
ragionevolezza), quale quello dell’acquisizione di elementi idonei e sufficienti per
adottare i diversi provvedimenti cautelari, ma da una imponderabile valutazione
soggettiva degli organi titolari del potere cautelare”. Sulla scorta di tali precisazioni sembra
chiaro che l’interpretazione conforme al senso delle parole usate dalla Corte del requisito
della desumibilità sia quella che prevede la desumibilità di gravi indizi del fatto e
delle esigenze cautelari (i gravi indizi e le esigenze costituendo elemento necessario e
sufficiente all’adozione della misura cautelare e non la mera acquisizione della notiziareato) e intende la desumibilità in concreto, cioè come presenza a disposizione
dell’autorità giudiziaria degli elementi perciò da essa conosciuti o conoscibili (posto che
solo in tal caso vi potrebbe essere una imponderabile valutazione soggettiva degli organi
titolari del potere cautelare). Non è necessario invece che gli atti fossero a disposizione
dell’autorità giudiziaria che ha emesso il successivo provvedimento, posto che l’arbitraria
scelta di limitare la misura cautelare idonea a provocare il fenomeno della contestazione a
catena è riconoscibile anche quando la possibilità di emettere il provvedimento cautelare per
gli ulteriori fatti fosse di uno solo dei giudici che procedono separatamente o sia dovuta a
una inammissibile inerzia della prima AG nella trasmissione degli atti alla seconda che
procede separatamente.
GIURISPRUDENZA
Sez. 2, Sentenza n. 4669 del 02/12/2005 Cc. (dep. 03/02/2006 ) Rv. 232991Presidente: Nardi D. Estensore:
Monastero F. Relatore: Monastero F. Imputato: Virga. P.M. Galasso A. (Diff.)(Rigetta, Trib. lib. Palermo, 28
Luglio 2005) In tema di cosiddetto divieto di contestazioni a catena, la regola della retrodatazione dei termini della
custodia cautelare opera anche in caso di emissione nei confronti dello stesso soggetto di più ordinanze che dispongono
la medesima misura cautelare per fatti diversi tra i quali non sussiste alcuno dei vincoli di connessione di cui all'art. 297,
comma terzo, cod. proc. pen., se al momento dell'emissione della prima ordinanza vi era già un quadro
indiziario
di tale gravità e completezza, conoscibile dall'autorità procedente ed apprezzabile in
tutta la sua valenza probatoria, da integrare tutti i presupposti legittimanti l'adozione
delle ordinanze successive. Massime precedenti Conformi: N. 1290 del 1997 Rv. 208891, N. 290 del 1999
Rv. 214050Massime precedenti Conformi Sezioni Unite: N. 21957 del 2005 Rv. 231059
Sez. 1, Sentenza n. 1077 del 22/11/2005 Cc. (dep. 12/01/2006 ) Rv. 233279 Presidente: Sossi M. Estensore:
Corradini G. Relatore: Corradini G. Imputato: Abbascia'. P.M. Iacoviello FM. (Conf.) (Rigetta, Trib. lib. Catania,
18 Maggio 2005) L'illegittimità costituzionale dell'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., dichiarata con la sentenza n.
408 del 24 ottobre 2005, nella parte in cui non si applica anche a fatti diversi, non connessi, quando gli elementi per
emettere la nuova ordinanza erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della precedente misura,
comporta che, nel
caso di assenza di connessione qualificata, spetta al giudice valutare se
la contestazione frazionata dei singoli reati sia frutto di una scelta strategica del
pubblico ministero ovvero sia effettivamente imposta dalla non desumibilità dagli atti
degli elementi per emettere la seconda ordinanza al momento della emissione della
prima.
Sez. F, Sentenza n. 34557 del 25/07/2003 Cc. (dep. 20/08/2003 ) Rv. 228395 Presidente: Santacroce G. Estensore:
Panzani L. Imputato: Falsone. P.M. Iacoviello FM. (Parz. Diff.)(Rigetta, Trib. Palermo, 21 marzo 2003). Nel caso di
pluralità di misure cautelari personali applicate nella fase delle indagini preliminari, la retrodatazione della decorrenza
dei termini di durata della custodia per reati contestati con ordinanza che faccia seguito ad altra emessa per reati
connessi - così come prevista dal comma terzo dell'art. 297 cod. proc. pen. - opera a condizione che tutti
gli
elementi di prova pertinenti alla nuova contestazione fossero già a conoscenza
dell'autorità giudiziaria nel momento di adozione del precedente provvedimento
cautelare.
Sez. 6, Sentenza n. 1499 del 27/04/1999 Cc. (dep. 09/07/1999 ) Rv. 214677 Presidente: Sansone L. Estensore: Milo
N. Imputato: Biondolillo. P.M. Mura A. (Conf.) (Rigetta, Trib.Palermo, 20 ottobre 1998). In tema di divieto di
"contestazioni a catena", la regola di retrodatazione del termine iniziale della custodia al momento di applicazione del
più antico provvedimento restrittivo, di cui all'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., incontra, tra l'altro, il limite per
cui tale effetto non si verifica se la successiva ordinanza riguarda fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a
giudizio disposto per il fatto per il quale è stata emessa la prima ordinanza. In tale ipotesi, qualora il decreto
di
rinvio a giudizio sia stato annullato dal giudice del dibattimento, e ne sia stato emesso
conseguentemente un altro, è solo al primo decreto di rinvio a giudizio che deve farsi
riferimento, quale momento processuale qualificante e storicamente definito, per valutare se il materiale probatorio
raccolto fosse o no già entrato nella potenziale sfera cognitiva del giudice che ha adottato la successiva ordinanza
coercitiva, restando pertanto irrilevante, a tali fini, l'annullamento di detto decreto.
Sez. 5, Sentenza n. 43461 del 02/12/2002 Cc. (dep. 20/12/2002 ) Rv. 223127 Presidente: Ietti G. Estensore: Panzani
L. Imputato: Salzano. P.M. Monetti V. (Conf.) (Dichiara inammissibile, Trib. Libertà Napoli, 18 aprile 2002). *
CONFORME A CASSAZIONE ASN:199901499 RV:214677 S Massime precedenti Conformi: N. 1499 del 1999 Rv.
214677
Sez. 6, Ordinanza n. 12396 del 20/01/2005 Cc. (dep. 04/04/2005 ) Rv. 231317 Presidente: De Roberto G. Estensore:
Rotundo V. Relatore: Rotundo V. Imputato: Azzolina. P.M. Favalli M. (Conf.) (Rigetta, Trib.Ries. Caltanissetta, 11
Maggio 2004) In tema di divieto di "contestazioni a catena", la retrodatazione del termine iniziale della custodia al
momento dell'applicazione del provvedimento restrittivo più antico non si verifica se la successiva ordinanza riguarda
fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto per il quale è stata emessa la prima
ordinanza; in tale ipotesi, qualora il decreto
di rinvio a giudizio sia stato annullato dal giudice
del dibattimento e ne sia stato emesso un altro, è solo al primo decreto di rinvio a
giudizio che deve farsi riferimento, quale momento processuale qualificante e storicamente definito, per
valutare se il materiale probatorio raccolto fosse o meno già entrato nella potenziale sfera cognitiva del giudice che ha
adottato la successiva ordinanza coercitiva, restando irrilevante l'annullamento del decreto. Massime precedenti
Conformi: N. 1499 del 1999 Rv. 214677, N. 43461 del 2002 Rv. 223127
5) VINCOLO NEL PROCEDIMENTO INCIDENTALE AI FINI DEL RICONOSCIMENTO
DELLA CONTESTAZIONE A CATENA UNA VOLTA RICONOSCIUTA LA
CONTINUAZIONE NEL PROCEDIMENTO DI MERITO. Sui rapporti tra procedimento
principale di merito e procedimento incidentale risulta essersi ripetutamente espressa la
giurisprudenza e in particolare la Corte Cost. che con la nota sentenza n.71 del 15.3.1995 ha
precisato che l’autonomia del procedimento incidentale rispetto al procedimento principale non può
interpretarsi in termini rigorosi e astratti, giacché ciò condurrebbe alla paradossale conseguenza di
ritenere possibile la rivalutazione dei gravi indizi di colpevolezza in qualsiasi momento del processo
e dunque anche dopo la sentenza di condanna, in aperta antinomia con la coerenza del sistema che
non tollera il concorso di due pronunce giurisdizionali diverse sul tema della colpevolezza, l’una
incidentale e di tipo prognostico e l’altra fondata sul pieno merito e come tale suscettibile di passare
in giudicato. Detta decisione, che arrivava poi alla conclusione secondo cui tale assorbimento non
poteva ritenersi in riferimento al decreto dispositivo del giudizio (su cui v. da ultimo Cass. sez. un.
26.11.2002 n.39915 Vottari RV 222602), ha peraltro chiaramente affermato il principio secondo cui
al giudice “de libertate” non compete rimettere in discussione le conclusioni in tema di
colpevolezza raggiunte con la sentenza emessa nel procedimento principale ancorché soggetta ad
impugnazione. In questo medesimo senso si è del resto attestata la giurisprudenza della Corte di
Cassazione che ha più volte affermato come la sentenza di condanna in primo grado (cfr. ad es.
Cass. sez. V n.1709 23.5.1997, Fazio; Cass. sez. VI n.4779 9.1.1998, Giannone) e financo la
sentenza di applicazione della pena su richiesta (cfr. Cass. sez. II 26.4.1993 Canterno) fossero
preclusive della rivalutazione dei gravi indizi in sede di procedimento incidentale di impugnazione
“de libertate”. Il principio di diritto affermato in particolare per i rapporti tra gravi indizi e condanna
si impone a maggior ragione in ordine al caso del riconoscimento della continuazione ove
sussiste, come detto, piena identità di valutazione tra giudice del procedimento principale
e giudice del procedimento incidentale e accessorio e ove, quindi, non può riconoscersi al
Tribunale del riesame, in quanto giudice di detto procedimento incidentale accessorio a quello
principale, il potere di disattendere conclusioni cui il giudice del principale è pervenuto sulle
medesime questioni, ogni critica sul punto essendo rimessa alla Corte di Appello in sede di
impugnazione della sentenza, o alla Cassazione in sede di ricorso contro la sentenza di appello. Del
resto, se tale principio di assorbimento è stato riconosciuto pacificamente operare anche “in malam
partem” (come appunto nel caso di rapporti tra giudizio di gravità indiziaria e sentenza di
condanna) a maggior ragione deve ritenersi la sua operatività “in bonam partem”.
6) PROBLEMI APPLICATIVI DELLA DISCIPLINA AI CASI CONCRETI UNA VOLTA
RICONOSCIUTA LA CONTESTAZIONE A CATENA (TESTO: “I termini decorrono dal
giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati
all’imputazione più grave”)
SCARCERAZIONE “ORA PER ALLORA” (SU Fiorente). Sul punto deve richiamarsi
l’insegnamento del S.C. a SS.UU. secondo cui “la scarcerazione dell’imputato per
decorrenza dei termini di fase della custodia cautelare alla quale non si sia tempestivamente
provveduto deve essere disposta nella fase successiva (cd. scarcerazione ora per allora),
purché la scadenza dei termini riguardi tutte le imputazioni oggetto del provvedimento
coercitivo e non solo alcune di esse, dovendosi escludere in quest’ultimo caso, un interesse
concreto dell’imputato a un provvedimento cui non consegua il riacquisto della libertà”
(Cass. sez. un. 10.7.2002 n.26350 Fiorenti RV 221657; nello stesso senso v.
successivamente Cass. sez. IV 17.9.2002 n.23124 Patania RV 225595; Cass. sez. II
21.10.2003 n.47406 D’Oronzo RV 227545). Peraltro alcuni passi di tale decisione del S.C.
(che aveva riguardo a una questione di decorrenza dei termini ex art.303 in relazione ad una
delle imputazioni residuate a seguito della assoluzione dell’imputato da altre imputazioni),
potrebbero a prima vista supportare la conclusione secondo cui il riconoscimento successivo
della continuazione non può riverberare i suoi effetti per la fase già esaurita, poiché il S.C.
afferma espressamente che l’assoluzione da uno dei reati per cui si procedeva in sede di
indagini (e financo la sua riqualificazione in senso più favorevole all’imputato) non possano
che avere effetto per il futuro e non giustifichino quindi il ricalcolo dei termini sulla base dei
nuovi titoli, dovendosi avere riguardo per ciascuna fase al titolo per cui si procedeva, con la
conseguenza che la scarcerazione ora per allora debba essere disposta solo quando
l’interessato abbia già maturato il diritto alla scarcerazione per decorrenza del termine in
detta fase (cfr. anche Cass. sez. I 19.6.2002 n.41112 Palumbo RV 222792). Una più attenta
lettura della citata decisione delle SS.UU. consente di chiarire come nel caso di
retrodatazione del termine ex art.297 comma 3 c.p.p. il diritto alla scarcerazione venga
maturato nella fase in cui si sono sostanzialmente verificati i relativi presupposti
indipendentemente dal momento in cui si riconosca formalmente (con sentenza) la
sussistenza di un nesso rilevante tra i reati oggetto dei provvedimenti coercitivi emessi in
successione, ciò in quanto diversa è la formula e il meccanismo previsto dal legislatore per
individuare in generale il termine di fase ai sensi dell’art.303 c.p.p. rispetto alle formule e ai
meccanismi previsti per determinare la retrodatazione dei termini ai sensi dell’art.297 cit., in
riferimento alla quale non può che essere fatta una prognosi circa il riconoscimento della
continuazione nella sentenza di condanna, che rappresenta l’atto cui parametrare la
correttezza della prognosi circa la sussistenza di un requisito che doveva considerarsi
comunque già presente. La formula utilizzata dall’art.303 comma 1 c.p.p. per individuare il
parametro di commisurazione dei termini di custodia cautelare è, infatti, la seguente
“quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena …”. Il testo letterale
della norma dimostra pertanto come, ai fini di tale norma, il legislatore abbia enfatizzato il
dato temporale collegando il momento della qualificazione del fatto (“delitto per il quale la
legge stabilisce la pena …”) con il momento procedimentale della fase alla quale si riferisce
il termine (“quando si procede per un delitto …”), enfatizzando in questo modo il dato
formale-temporale della qualificazione del fatto in un determinato modo nel momento in cui
si procede. Nell’art.297 comma 3 prima e seconda parte c.p.p. la formula utilizzata è invece
affatto diversa (“fatti … in relazione ai quali sussiste connessione…”, “fatto … con il quale
sussiste connessione …”): come è evidente il testo di quest’ultima disposizione non effettua
il collegamento sopra visto tra momento qualificativo (vincolo della continuazione tra più
fatti) e momento procedimentale, né viene dato rilievo al riconoscimento del vincolo ma al
solo dato obiettivo e sostanziale della sua sussistenza (indipendente cioè dal fatto che la
stessa sia riconosciuta o dichiarata in un momento particolare). La spiegazione di tale
differenza di disciplina è del resto agevolmente arguibile dalla diversa “ratio” delle due
norme. La prima è infatti semplicemente volta a stabilire un limite temporale massimo
ancorandolo a parametri oggettivi, che da un lato devono salvaguardare il fondamentale
diritto dell’imputato a non essere sottoposto a misure cautelari per un tempo eccessivo, ma
dall’altro deve rispondere anche ad esigenze certezza sul tempo a disposizione dell’autorità
procedente per concludere una determinata fase senza rischio di perenzione della misura in
atto. Al contrario, nel caso dell’art.297 comma 3 c.p.p., si intende evitare la possibilità di un
uso distorto della contestazione cautelare, finendo per eludere “sostanzialmente” proprio la
disciplina “formale” dell’art.303 c.p.p. attraverso il susseguirsi di ordinanze cautelari per gli
stessi fatti o per fatti legati da una connessione rilevante, con la conseguenza che, nei casi
predetti, non rileva il riconoscimento formale del nesso rilevante nella fase in cui si procede,
ma l’oggettiva e sostanziale sussistenza dello stesso, in presenza del quale
(indipendentemente dal momento anche successivo in cui venga riconosciuto) si è verificato
quel rischio di strumentalizzazione di provvedimenti coercitivi emessi a catena che il
legislatore ha inteso evitare sanzionandolo con la retrodatazione dei termini dell’ultimo
provvedimento al momento in cui è stato emesso il primo. Una volta riconosciuto il
nesso della continuazione perciò deve ritenersi “sussistere” il presupposto
richieste dalla norma che, significativamente, a tale sussistenza e non al fatto
che “si proceda” per reati tra loro uniti dal vincolo della continuazione àncora
l’effetto di retrodatazione. In tal senso ben si comprende perché le SS.UU., con la citata
sentenza Fiorenti (n.26350/2002), pongano, ai fini dell’applicazione della disposizione di
cui all’art.303 c.p.p., una distinzione tra i casi in cui si debba riconoscere la possibilità di
scarcerare l’imputato anche nella fase successiva, quando i termini massimi siano scaduti
nella fase precedente e non si sia tempestivamente provveduto, e i casi in cui la scadenza dei
termini sia da collegarsi astrattamente all’assoluzione da uno dei reati costituenti titolo
cautelare o alla diversa qualificazione del fatto di reato operata in sentenza, posto che tali
mutamenti operano soltanto dal momento in cui intervengono senza che possano riverberare
effetti sulle fasi precedenti (cfr. anche Cass. sez. I n.41112/2002 cit.). Infatti, ai sensi
dell’art. 303 comma 1 c.p.p. ciò che rileva è che “si proceda” in quella fase per un
determinato reato. Affatto differente è invece il caso in cui si debba fare applicazione della
disposizione di cui all’art.297 comma 3 c.p.p., posto che in simile ipotesi ciò che conta è
l’oggettiva sussistenza del vincolo della continuazione, indipendentemente dalla fase
procedimentale in cui lo stesso è stato riconosciuto. Infatti è l’oggettiva sussistenza del
nesso rilevante a costituire il presupposto del verificarsi di quel rischio di
strumentalizzazione delle misure cautelari che il legislatore intende evitare superando
proprio i dati formali di cui all’art.303 c.p.p. e, quindi, superando i riferimenti di tale ultima
disposizione al riconoscimento di una determinata qualifica del fatto nel momento
procedimentale cui il termine custodiale si riferisce. Deve pertanto ritenersi che una volta
riconosciuta la sussistenza della continuazione essa operi ai fini dell’operatività
del meccanismo di cui all’art.297 c.p.p. indipendentemente dalla fase in cui è
stata riconosciuta e giustifichi pertanto la cd. “scarcerazione ora per allora” ove
la sussistenza della continuazione sia stata formalmente dichiarata in una fase
diversa da quella in cui, a seguito della retrodatazione degli effetti della misura
stabilita dallo stesso art.297, il termine custodiale va ritenuto perento. In
quest’ultimo caso, infatti (costituito cioè riconoscimento del vincolo della continuazione tra
più reati per i quali erano stati emessi distinti provvedimenti coercitivi ai fini dell’operatività
dell’art.297 cit.) - a differenza dell’ipotesi di assoluzione da uno dei più reati per i quali era
stato emesso un provvedimento coercitivo ovvero dell’ipotesi di derubricazione del fatto,
per il quale era stata emessa in origine l’ordinanza coercitiva, in un delitto per il quale è
stabilito un termine custodiale più breve – la scarcerazione per decorrenza dei termini (quale
diritto primario dell’individuo costituzionalmente garantito) deve essere disposta senza
preclusioni di sorta in ogni stato e grado del giudizio “ora per allora”.
RESTRIZIONE DEGLI EFFETTI DI RETRODATAZIONE PER CONTESTAZIONE A
CATENA AI SOLI TERMINI PER LE INDAGINI PRELIMINARI. Si incontrano
numerose pronunzie del S.C. che stabiliscono come l’eventuale perenzione del termini
cautelare a seguito della retrodatazione degli effetti di una misura per contestazione a catena,
possa riguardare i soli termini delle indagini preliminari. La conclusione è da un lato ovvia
con riferimento ai casi esaminati nelle sentenze – risultando chiaro che la retrodatazione in
parola possa rilevare solo per quelle fasi in cui il termine cautelare venga fatto decorrere
dall’ordinanza cautelare, come appunto per la fase delle indagini preliminari – ma intesa in
senso assoluto è inesatta – non potendosi ad esempio escludere che la retrodatazione dei
termini al momento di esecuzione o notifica della prima ordinanza possa riverberarsi anche
sui termini massimi complessivi.
GIURISPRUDENZA
Sez. 6, Sentenza n. 6841 del 08/01/2004 Cc. (dep. 18/02/2004 ) Rv. 227879 Presidente: Sansone L. Estensore: Di
Casola C. Imputato: Asero. P.M. Cosentino F. (Diff.) (Rigetta, Trib. Catania, 19 maggio 2003). La retrodatazione
della misura custodiale non vale per la fase successiva all'emissione del provvedimento che dispone il giudizio ordinario
o abbreviato ovvero della sentenza di applicazione della pena su richiesta, stante l'inapplicabilità dell'art. 297, comma
terzo, cod. proc. pen. in mancanza di specifica disposizione di legge (in motivazione, la Corte ha chiarito che
l'"omissione" legislativa si giustifica, in quanto solo nella fase delle indagini preliminari si pone la concreta esigenza di
evitare possibili elusioni dei termini di durata delle misure cautelari).Massime precedenti Conformi: N. 437 del 1998
Rv. 210276 Massime precedenti Vedi: N. 2136 del 1999 Rv. 213769, N. 3268 del 1999 Rv. 213722
Sez. 6, Sentenza n. 32360 del 15/05/2003 Cc. (dep. 31/07/2003 ) Rv. 226284 Presidente: Acquarone R. Estensore:
Martella IS. Imputato: Fiore. P.M. Fraticelli M. (Conf.)(Rigetta, Trib.Salerno, 16 ottobre 2002). L'art. 297, comma
terzo cod. proc. pen. - che prevede la retrodatazione della decorrenza dei termini della misura custodiale nel caso di
contestazioni a catena - è applicabile solo in riferimento alla fase delle indagini preliminari, quando è necessario un
controllo del giudice sull'attività del pubblico ministero anche in riferimento al termine di durata dello stato di
privazione della libertà dell'imputato; di contro, nella fase dibattimentale, o dopo che sia stata pronunciata sentenza di
primo grado, non è prevista la possibilità di retrodatazione, in quanto il termine di fase decorre dal decreto di citazione a
giudizio, come espressamente previsto dall'art. 303 cod. proc. pen.
IRRILEVANZA DEL PRESOFFERTO PER LA PRIMA MISURA. Fonte frequente di
equivoco è il riferimento al presofferto, quasi che la retrodatazione del termine possa valere
solo in relazione a una misura cautelare effettivamente sofferta o sia comunque subordinata
all’effettiva durata della stessa. In realtà ogni possibilità di equivoco è esclusa dal chiaro
tenore letterale della norma che, in caso di contestazione a catena, si limita a prevedere la
decorrenza degli effetti della misura successiva a partire dalla notifica o esecuzione
dell’ordinanza, ciò in relazione alle previsioni dell’art. 297 commi 1 e 2 che stabiliscono la
decorrenza dal momento dell’esecuzione (arresto, fermo o cattura) quando si tratti di misure
custodiali, e dal momento della notifica quando si tratti di altre misure. Risulta perciò ovvio
che nel caso del latitante la retrodatazione debba operare dal momento dell’esecuzione, ma a
nulla rileva che il soggetto non sia rimasto sottoposto alla misura per tutto il tempo
consentito dal relativo termine di fase (per essere stato ad esempio nel frattempo scarcerato
o per essersi passati ad altra fase cautelare). Non è quindi possibile scomputare dal termine
retrodatato il periodo di tempo non utilizzato in relazione alla prima misura.
GIURISPRUDENZA
Sez. 5, Sentenza n. 16879 del 05/04/2001 Cc. (dep. 26/04/2001 ) Rv. 219035 Presidente: Marrone F. Estensore:
Marrone F. Imputato: Schiavone F. P.M. Favalli M. (Conf.) (Annulla con rinvio, Trib.Napoli, 30 novembre 2000). In
tema di contestazioni a catena" (art. 297 comma 3 cod.proc.pen.), nella ipotesi in cui, essendo l'imputato rimasto
latitante durante l'intera fase delle indagini preliminari, la misura cautelare venga eseguita
dopo il rinvio a giudizio ed i termini vengano a scadere in tale fase, non può essere emesso altro
provvedimento restrittivo per lo stesso fatto (o per fatto connesso), allo scopo di consentire il
protrarsi della custodia cautelare mediante il recupero di quella non eseguita nella
fase delle indagini preliminari. Massime precedenti Vedi: N. 2526 del 1999 Rv. 214928, N. 2529 del 1999
Rv. 215206, N. 2599 del 1999 Rv. 213489Massime precedenti Vedi Sezioni Unite: N. 9 del 1997 Rv. 208167
MODALITA’ DI CALCOLO DEL TERMINE. Si registra in proposito un forte contrasto
giurisprudenziale in ordine alla possibilità di computare o meno nel termine il “dies a quo”,
affermandosi da taluni l’operatività della regola generale dell’art. 172 c.p.p. secondo cui il
“dies a quo” non si computa, da altri la deroga a tale regola contenuta nell’art. 297 comma 1
c.p.p., con la conseguenza che in caso di contestazione a catena, a seguito della
retrodatazione si dovrebbe calcolare nel termine anche il giorno della notifica o esecuzione
della misura.
GIURISPRUDENZA
Sez. 5, Sentenza n. 9507 del 19/01/2006 Cc. (dep. 17/03/2006 ) Rv. 233893 Presidente: Lattanzi G. Estensore:
Amato A. Relatore: Amato A. Imputato: Modaffari. P.M. D'Ambrosio V. (Diff.) (Annulla senza rinvio, Trib. lib.
Milano, 20 Maggio 2005) In tema di computo dei termini di durata delle misure cautelari, qualora nei confronti di un
imputato, detenuto in stato di custodia, si provveda anche alla esecuzione di una o più sentenze di condanna a pene
detentive, ed ancorché a tal fine venga detratto come presofferto il periodo precedente di custodia cautelare, nel
computo della durata massima della misura cautelare deve ricomprendersi anche il periodo di esecuzione della pena,
poiché l'art. 297, comma quinto, cod. proc. pen., afferma la compatibilità della custodia cautelare con la detenzione per
la esecuzione della pena agli effetti dei termini di durata massima della custodia stessa, Pertanto, il giudice deve
dichiarare cessata la custodia cautelare e quindi disporre la liberazione quando la sua durata così computata abbia
superato il termine massimo.
Sez. 2, Sentenza n. 49296 del 03/12/2004 Cc. (dep. 22/12/2004 ) Rv. 230562 Presidente: Cosentino GM. Estensore:
Fumu G. Relatore: Fumu G. Imputato: Lanzino. P.M. Ciani G. (Conf.) (Rigetta, Trib. Catanzaro, 13 Maggio 2004)
Ai fini del computo della decorrenza dei termini di durata massima della custodia cautelare si deve calcolare anche il
giorno d'inizio della stessa, così come prevede l'art. 297 comma primo cod. proc. pen., che deroga alla previsione
generale contenuta nell'art. 172 comma quarto cod. proc. pen., secondo cui "dies a quo non computatur". Massime
precedenti Conformi: N. 354 del 1998 Rv. 209851, N. 1125 del 1998 Rv. 210619, N. 4561 del 1998 Rv. 211831, N. 637
del 2000 Rv. 215979, N. 24693 del 2001 Rv. 219411, N. 30821 del 2002 Rv. 222078 Massime precedenti Difformi: N.
3467 del 1992 Rv. 191609, N. 2141 del 1995 Rv. 201477, N. 2838 del 1995 Rv. 203082, N. 38635 del 2003 Rv.
227298
Sez. 5, Sentenza n. 38635 del 09/07/2003 Cc. (dep. 13/10/2003 ) Rv. 227298 Presidente: Providenti F. Estensore:
Sica G. Imputato: Et'Hemaj Atmir. P.M. Febbraro G. (Conf.)(Rigetta, Trib. Libertà Napoli, 4 aprile 2003). In tema
di decorrenza dei termini di custodia cautelare ex art. 303 cod. proc. pen., il computo deve essere eseguito secondo i
principi generali stabiliti dall'art. 14 cod. pen. e 172, comma secondo, cod. proc. pen., in virtù dei quali nel computo non
è compreso il dies a quo. Ne deriva che, nel caso di termine ad anno, il termine scade nel giorno corrispondente a quello
dell'anno in cui è iniziato il decorso.
Sez. 1, Sentenza n. 4895 del 12/07/1999 Cc. (dep. 14/07/1999 ) Rv. 214011 Presidente: Fazzioli E. Estensore: De
Pascalis D. Imputato: Lezzi. P.M. Meloni V. (Diff.) (Annulla con rinvio, Trib. Lecce, 19 febbraio 1999). In caso di
sussistente contestazione a catena "ex" art. 297, comma terzo, cod. proc. pen. il termine di custodia cautelare comincia a
decorrere per tutte le misure cautelari concatenate dalla data di esecuzione della prima di esse e prosegue per tutta la
durata della propria fase, cumulando quanto già patito in forza del primo titolo custodiale, all'eventuale residuo per il
caso in cui questo non fosse durato fino al suo massimo di pari fase.
Sez. 3, Sentenza n. 3381 del 09/12/1998 Cc. (dep. 29/01/1999 ) Rv. 212824 Presidente: Tonini PM. Estensore:
Onorato P. Imputato: Paggiarin G. P.M. Turone G. (Parz. Diff.)(Annulla con rinvio, Trib. ries. Venezia, 26 agosto
1998). Il divieto della cosiddetta contestazione a catena, di cui al terzo comma dell'art. 297 cod. proc. pen., trova
applicazione nel senso che la unificazione e retrodatazione dei termini di decorrenza delle misure cautelari si applica per
le misure relative agli stessi fatti, ovvero per le misure relative a fatti diversi legati da connessione qualificata, quando
questi siano stati commessi anteriormente alla prima ordinanza cautelare. Questa disciplina garantista è derogata per
fatti-reato diversi uniti da connessione qualificata, quando questi fatti non siano desumibili dagli atti stessi esistenti
prima del rinvio a giudizio disposto per il primo fatto reato con cui intercorre la connessione. Il termine temporale di
riferimento è diverso per le due ipotesi, identificandosi per la prima ipotesi nella prima ordinanza cautelare e per la
seconda ipotesi nel decreto dispositivo del rinvio a giudizio.
Sez. 1, Sentenza n. 31287 del 15/03/2002 Cc. (dep. 18/09/2002 ) Rv. 222293 Presidente: D'Urso G. Estensore:
Bardovagni P. Imputato: Torcasio. P.M. Palombarini G. (Conf.)(Rigetta, Trib. Catanzaro, 20 settembre 2001). In
tema di divieto di contestazioni a catena (art. 297, comma 3, cod. proc. pen.), l'individuazione del momento di
"desumibilità dagli atti" degli elementi idonei a costituire presupposto per l'emissione della successiva ordinanza
cautelare in epoca anteriore al disposto rinvio a giudizio presuppone che, in relazione al fatto oggetto della prima
ordinanza cautelare, sia intervenuto il rinvio a giudizio al momento della emissione della seconda ordinanza
cautelare(art. 297, comma 3, seconda parte, cod. proc. pen.). Qualora, invece, il rinvio a giudizio non sia intervenuto, la
desumibilità dagli atti deve sussistere (art. 297, comma 3, prima parte, cod. proc. pen.) al momento di emissione della
prima ordinanza cautelare. Massime precedenti Conformi: N. 996 del 1998 Rv. 211950, N. 3381 del 1999 Rv.
212824Massime precedenti Vedi: N. 239 del 1994 Rv. 197200, N. 1499 del 1999 Rv. 214677, N. 1764 del 1999 Rv.
214743, N. 2135 del 2000 Rv. 217560Massime precedenti Conformi Sezioni Unite: N. 9 del 1997 Rv. 208167
DEDUCIBILITA’ DELLA VIOLAZIONE DELL’ART. 297 COMMA 3 C.P.P.. E’ ormai
riconosciuto dalla giurisprudenza del S.C. che l’inefficacia della misura per retrodatazione
del termine, a seguito del riconoscimento di una contestazione a catena, non sia
deducibile in sede di riesame, in considerazione del diverso oggetto di tale
impugnazione (e del conseguente onere di trasmissione degli atti), della perentorietà dei
termini che caratterizzano il ricorso per riesame e la conseguente impossibilità di procedere
alle necessarie integrazioni documentali. Tale limite alla possibilità di integrazioni
documentali costituisce anche il limite di delibazione della questione da parte del GIP, che
quindi potrà solo respingere la richiesta cautelare ove ritenga sussistere un’ipotesi di
contestazione a catena che farebbe nascere il provvedimento inefficace – ferma restando la
possibilità di impugnazione sul punto da parte del P.M. ai sensi dell’art. 310 c.p.p.,
procedimento nel quale il Tribunale del riesame ha agio di procedere alle eventuali
integrazioni nei limiti del devolutum – mentre l’eventuale delibazione negativa sulla
contestazione a catena risulta inutiliter data nel provvedimento coercitivo originario, in
quanto non consenta di ritenere la completezza degli atti a disposizione, posto che ciò
determinerebbe analoghe difficoltà e incompatibilità nel giudizio di riesame.
GIURISPRUDENZA
Sez. 1, Sentenza n. 19905 del 04/03/2004 Cc. (dep. 28/04/2004 ) Rv. 228053 Presidente: Chieffi S. Estensore:
Giordano U. Imputato: Russo. P.M. Ciani G. (Conf.) (Rigetta, Trib. Catania, 4 luglio 2003). La questione attinente
all'asserita violazione dell'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., per mancato riconoscimento della retrodatazione del
termine di decorrenza di misure cautelari sopravvenute al momento della prima ordinanza coercitiva, in caso di cd.
contestazione a catena, non riguardando vizi genetici dell'ordinanza di custodia cautelare, ma solo la decorrenza dei suoi
effetti, non è deducibile in sede di riesame, ma va proposta con istanza di revoca della misura cautelare al giudice
procedente. Massime precedenti Conformi: N. 3680 del 1998 Rv. 212686, N. 833 del 1999 Rv. 213682
Sez. 6, Sentenza n. 31497 del 22/05/2003 Cc. (dep. 25/07/2003 ) Rv. 226286 Presidente: Romano F. Estensore: Rossi
A. Imputato: Dzemaili. P.M. Cedrangolo O. (Parz. Diff.)(Rigetta, Trib. Libertà Messina, 14 ottobre 2002). Esula
dall'ambito del giudizio di riesame la questione relativa all'inefficacia sopravvenuta dell'ordinanza di custodia cautelare
per decorrenza dei termini di fase in relazione ad asserita contestazione a catena, in quanto tale vizio processuale non
intacca l'intrinseca legittimità dell'ordinanza, ma agisce sul piano dell'efficacia della misura cautelare. Tale questione va
pertanto proposta al g.i.p. con istanza di scarcerazione ex art. 306 cod. proc. pen. e successivamente, ove occorra, con
appello ex art. 310 cod. proc. pen. avverso il provvedimento reiettivo del giudice.
TOMASO E. EPIDENDIO
(SEGUE SCHEMA SULL’ART. 297 COMMA 3)
Pluralità ordinanze contro stesso soggetto
NO
SI
NO
Identità della misura
SI
Identità del fatto
Diversità dei fatti
NO
Anteriorità dei fatti
all’emissione della
prima ordinanza
SI
SI
NO
Desumibilità
dagli atti
anteriormente
alla prima
ordinanza
SI
NO
Connessione
qualificata
NO Procedimenti diversi
SI
RETRODATAZIONE
DEL
TERMINE
NO
Rinvio a giudizio
SI
SI
Desumibilità dagli
atti anteriormente al
rinvio a giudizio
NO
ESCLUSIONE
CONTESTAZIONE
A CATENA
TOMASO EMILIO EPIDENDIO
NO