OSSERVATORIO IN GENERALE con logo

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OSSERVATORIO IN GENERALE con logo
Azione di adempimento e ordinanza propulsiva
Prof. Avv. Alfredo Corpaci, Ordinario di Diritto Amministrativo presso la Facoltà di
Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Firenze
I commenti in precedenza pubblicati hanno ben evidenziato i pregi della sentenza con cui la
terza sezione del TAR Lombardia, Milano, ha ritenuto ammissibile, in presenza di determinate
condizioni (attività vincolata, o per cui non residuino margini di discrezionalità), l’azione volta
ad ottenere, in esito al giudizio di impugnativa di diniego espresso, la condanna
dell’amministrazione alla adozione dell’atto amministrativo richiesto. Apprezzamento che
condivido pienamente, a partire dalla adozione di una linea interpretativa e ricostruttiva
orientata ad obiettivi di pienezza e satisfattività della tutela, nella direzione del superamento
di “ogni residuo della concezione oggettiva del giudizio amministrativo”.
La conclusione cui perviene il giudice, non discendendo de plano dalla disciplina dettata dal
nuovo codice del processo amministrativo, ha richiesto un articolato percorso argomentativo,
nonché la prospettazione di modalità processuali che non trovano riscontro nella regolazione
legislativa. Non per nulla si è parlato di portata “pretoria” della decisione (VERDE). Il che
comporta, inevitabilmente, stante la complessità delle questioni implicate, che non manchino
aspetti su cui appare opportuna qualche ulteriore riflessione e messa a punto.
Tra queste, mi soffermerò brevemente su quel passaggio della sentenza che – conformemente
a quanto verificatosi nel caso – individua nel “combinato operare di ordinanza propulsiva e
motivi aggiunti” una possibile modalità per concentrare nel giudizio di impugnazione del
diniego le questioni rilevanti ai fini di una pronuncia sulla fondatezza della pretesa, e sulla
eventuale conseguente condanna dell’amministrazione all’adozione dell’atto.
In via generale, nutro perplessità sulla categoria delle c.d. ordinanze propulsive.
Essa è nata quale escamotage per assicurare, in un sistema a tutela cautelare tipica, una
misura applicabile alle determinazioni negative, in alternativa all’ordine di adozione in via
provvisoria dell’atto richiesto. Non importa qui interrogarsi su quanto tali soluzioni “pretorie”
risultassero coerenti rispetto al dato normativo sulla tipicità della misura sospensiva.
Comunque sia, diversamente dall’ordine di adozione in via provvisoria del provvedimento
richiesto, il c.d. remand ha connotati spuri rispetto al proprium della tutela cautelare, e a quelli
che ne dovrebbero essere i possibili contenuti; e ciò anche in un sistema, come l’attuale, a
tutela cautelare atipica.
Invero, diversamente dall’ordine di assumere in via provvisoria l’atto richiesto, che fa il paio
con la sentenza di condanna all’assunzione dell’atto medesimo, ove ammissibile, all’ordinanza
propulsiva difetta quel carattere di strumentalità proprio della tutela cautelare nel processo
amministrativo. Essa riveste, piuttosto, una singolare funzione, dai caratteri aperti ed incerti.
Nella logica della sentenza in esame, l’ordinanza propulsiva mi pare concepita quale modo per
sollecitare l’amministrazione ad un approfondimento – ripensamento alla luce della
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ordinanza cautelare. Di tal che, fuori dal caso in cui ciò porti al riconoscimento delle ragioni
del ricorrente e al conseguente accoglimento della sua pretesa, l’amministrazione, ove voglia
mantenere invariato il contenuto reiettivo, debba, ad integrazione del provvedimento
sospeso, esplicitare eventuali ulteriori ragioni ostative all’accoglimento della richiesta del
ricorrente. Ulteriori ragioni che, vagliate dal giudice in uno con le “repliche” eventualmente
introdotte dal ricorrente con motivi aggiunti, possano portare ad una decisione sulla
spettanza o meno.
La soluzione prospettata risulta alquanto arzigogolata, implica varie forzature, e potrebbe
anche non risultare utile allo scopo (dubbi in proposito esprime Di MARIO), ove
l’amministrazione assumesse una determinazione, solo provvisoria, favorevole al ricorrente,
ma non in esito ad una rinnovata valutazione, bensì in mera esecuzione dell’ordine impartito
dal giudice.
Mi chiedo il perché, seguendo fino in fondo il parallelismo con la tutela prevista avverso il
silenzio – che consente il giudizio sulla spettanza nel caso di attività vincolata o quando risulti
che non residuano ulteriori margini di discrezionalità – non si debba seguire un percorso più
diretto e lineare.
Laddove il ricorrente proponga, congiuntamente alla domanda di annullamento del diniego,
quella di condanna alla emanazione dell’atto preteso, dovrà evidentemente sottoporre al
giudice le ragioni ed i fatti che supportano, oltre la cassazione del provvedimento impugnato,
l’accoglimento della richiesta di condanna. Sarà nella ordinaria sede di cognizione che
l’amministrazione, secondo le regole del contraddittorio e di svolgimento del giudizio,
opporrà le proprie ragioni volte a dimostrare vuoi l’infondatezza delle censure nei confronti
dell’atto, vuoi la non accoglibilità della richiesta di condanna avanzata dal ricorrente o perché,
pur trattandosi di attività vincolata, non sussistono le condizioni di legge per il rilascio del
provvedimento, o perché sussistono in concreto margini di discrezionalità e, dunque, il
ricorrente non ha titolo alla tutela specifica. Verifica che evidentemente il giudice compirà
anche in mancanza di costituzione e di difesa da parte dell’amministrazione, muovendo dagli
elementi che, a supporto della domanda, il ricorrente (al pari di chi agisce avverso il silenzio)
è onerato ad allegare in giudizio e provare (ma, in via interrogativa, CARBONE si chiede a chi
spetti “dimostrare la fondatezza del provvedimento”).
Si eviterà in tal modo quel corto circuito che la c.d. ordinanza propulsiva determina,
pretendendo di attrarre in via interstiziale nel processo un episodio di esercizio del potere
amministrativo.
Né i risultati in termini di resa della tutela risulterebbero dimidiati, dal momento che solo nei
casi di attività vincolata, in astratto o in concreto, si può ritenere che l’ordinamento ammetta
una pronunzia sulla spettanza dell’atto richiesto. D’altro canto, ove in giudizio dovesse essere
accertato che osti alla condanna al rilascio la sussistenza di ulteriori margini di
discrezionalità, questi risulteranno individuati e precisati dalla sentenza. Sicché, se, per un
verso, la sussistenza di quei margini richiede la rinnovazione del procedimento annullato e
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non consente l’accertamento della spettanza, il riesercizio del potere da parte
dell’amministrazione non potrà che rimanere consegnato nei limiti segnati dalla sentenza, e,
una volta avvenuto, comporterà l’esaurimento degli spazi di discrezionalità. Venendo, dunque,
in un eventuale successivo giudizio, a ricorrere le condizioni per una definitiva pronuncia
sulla spettanza.
Una osservazione, infine, legata alla portata “pretoria” della sentenza del TAR lombardo.
Condivido in pieno l’opinione di chi avverte i rischi di una giurisprudenza creativa. Sarebbe
auspicabile che la disciplina codicistica, pur mantenendosi leggera, non lasciasse all’interprete
la soluzione di questioni così delicate e complesse, come quella di cui si tratta. Sicché, troverei
commendevole che gli interventi correttivi in corso di elaborazione dessero una soluzione
normativa ai principali problemi che la prima stesura del codice, per via di omissioni o di
ambigue formulazioni, ha lasciato irrisolti.
Luglio 2011
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