La diga del Gleno Quella tragedia fu il nostro Titanic
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La diga del Gleno Quella tragedia fu il nostro Titanic
L’ECO DI BERGAMO 48 GIOVEDÌ 28 NOVEMBRE 2013 Cultura La tolleranza religiosa a 1700 anni da Costantino In Sala Galmozzi (via Tasso 4, ore 17,30) Giovanni Dal Covolo: «1700 anni dall’Editto di Milano. Nasce la tolleranza universale della coscienza religiosa». [email protected] www.ecodibergamo.it La diga del Gleno Quella tragedia fu il nostro Titanic La maestosa struttura incarnava il progresso Crollò in pochi mesi. Il dolore, le colpe, le indagini Il 29 novembre 1973, in prima pagina, il nostro giornale presentava l’editoriale di don Andrea Spada, storico direttore, che ricordava i cinquant’anni della sciagura. Don Spada era nato a Schilpario, ultimo paese della Valle di Scalve, e ricordava bene quei giorni terribili. Un articolo che è un ricordo, ma anche un’analisi lucida di quell’evento, delle responsabilità che portarono al disastro. Riproponiamo la sua riflessione. Da quella tragedia sono trascorsi ormai novant’anni Segue da pagina 1 A ANDREA SPADA La diga sembrava un’opera di superba perfezione e di ardimento tecnico, appunto come il famoso tragico transatlantico. Costruita ad archi multipli, stupenda a guardarsi così sospesa sull’alto della montagna come un arcobaleno possente di cemento, elegante come la fiancata di una cattedrale, una enorme nave piena di un mare d’acqua. Ma si sapeva che il bellissimo colosso aveva i piedi d’argilla, che la sua potenza era stata minata dalla fretta, dalla babele dei linguaggi tecnici, dall’apporto del lavoro umano usato come gli schiavi per le piramidi. Era stata costruita a cottimo, e la gran parte degli operai stettero lassù mesi e mesi lavorando senza soste anche alla domenica. Ricordiamo che un parroco della valle si era alzato ad ammonire che non si può abbrutire l’uomo e poi chiedergli coscienza e senso di responsabilità. Così il processo rivelò che nelle gettate del cemento erano state trovate carriole e cassette e non era un mistero che la diga grondava dalle sue pareti e sudava tutta da pori misteriosi. Questi erano i discorsi della gente della valle, che ricordiamo benissimo, ma la «maestà» del progresso non aveva incluso, evidentemente, tra le sue prospettive gli aspetti morali del lavoro dell’uomo, le considerazioni umane. In fatto di imprevidenza, di leggerezza, c’è poco Si sapeva che il colosso aveva i piedi di argilla, minato da fretta e da errori Decine e decine di bare tutte uguali, una impressionante processione i funerali alla Corna di Darfo FOTO ARCHIVIO ISREC sollevare rimorsi. Una ferita chiusa, morti sepolti, anche se a centinaia, una valle lasciata come tante alla sua tragedia lontana. Chi si batterà il mea culpa a mezzo secolo di distanza? Chi si rende conto che un paese civile e cristiano non dovrebbe mai ritenere che le responsabilità umane possano venir prescritte dal passare del tempo e che la solidarietà verso il dolore possa essere cancellata nella coscienza di una vera comunità? La cronaca ha troppa fretta di scaricare sulla storia dei libri, delle pure statistiche numeriche delle vittime, delle commemorazioni ufficiali, dolori che dovrebbero restare vivi e ammonitori. Allora, cinquant’anni fa, tutta l’Italia seppe che c’era al mondo una piccola valle sperduta sulle Prealpi che si chiamava Valle di Scalve. Anche se in gran parte ridotta in modo irriconoscibile dalla furia delle acque, ne intuì la povertà, la sofferenza e la lotta per vivere di sempre, la solitudine, l’asprezza. Poi il buio si è richiuso, il Gleno è rimasto un Un video con testimonianze e immagini della sciagura Vecchie fotografie, anche un breve filmato dell’epoca mostrano la costruzione ciclopica, danno il senso dell’ambiente povero di quegli anni, in una Valle di Scalve dove i bambini cominciavano a lavorare nelle miniere quando avevano otto, nove anni, dove tanti giovani partivano, emigravano in cerca di fortuna. Una valle alpina, una vita di stenti. Il grande cantiere del Gleno aveva portato un poco di benessere, la manodopera di certo non mancava e i committenti ne approfittarono: i lavoratori restavano sul cantiere per giorni e settimane senza scendere a valle, al punto che il parroco di uno dei paesi della valle denunciò questa situazione. 1 Sul sito Internet de «L’Eco di Bergamo» (www.ecodibergamo.it) sono disponibili articoli sui novant’anni dal disastro del Gleno, fotografie e anche un video della durata di 45 minuti che racconta la vicenda di quel primo giorno di dicembre di novanta anni or sono. Il video - realizzato nel 2003 a cura di Davide Bassanesi e prodotto dalle Officine Video di Darfo Boario, premiato al festival di Cesena l’anno successivo - presenta tante fotografie di quei giorni, immagini della diga in costruzione, della mastodon- anche da rimpiangere quei tempi. Era piovuto da diversi giorni, e quella mattina, la gente della valle che usciva dalla prima Messa sentì l’aria rabbrividire per un improvviso freddo, e avvertì un boato sordo, lungo e lacerante. La diga era crollata. Centrali, ponti, case erano scomparse. In una casa rimasta in piedi al Dezzo decine di bambini giacevano sul pavimento, raccolti in un mucchio, uccisi forse soltanto dallo spostamento dell’aria, perché pareva dormissero. Qualche superstite che si aggirava tra le acque che muggivano ancora, tra la melma e i detriti, cercando impazzita i figli, la madre, i parenti. Giornate allucinanti. Arrivarono i militari, arrivò il re, giunsero i gerarchi, i giornalisti, gente volenterosa e angosciata che scendeva dai paesi della valle, dalla Cantoniera, con cucine da campo, con tende, a cercare qualche scampato tra le macerie, a cercare parenti e amici. Alcune famiglie erano completamente scomparse. Vennero i giorni dei tragici bilanci, delle promesse di soccorso. Tutta l’Italia, dicevano i giornali, era sgomenta e commossa. Cos’è rimasto? Un asilo e due o tre case costruite dalla città di Milano al Dezzo. La poverissima valle ha dovuto da sola in cinquant’anni ricucire la sua spaventosa ferita, spegnere le sue lacrime, riprendere da sola a portare il fardello della sua solitudine e della sua estrema povertà. Quello che più o meno è successo dopo in tutti i disastri del nostro paese. Promesse, commozione di un momento, solidarietà di un mattino, e poi il disastro che continua nella dimenticanza degli altri. Il processo? Una prima condanna, poi una frettolosa assoluzione come a metter fine a un capitolo fastidioso, a una fatalità, a un bisogno di non parlarne più. La diga è rimasta lassù con i suoi tronconi come un rudere di un’antica fortezza che può interessare i turisti e non certo tica barriera che sbarrò la conca del torrente Povo a circa mille e cinquecento metri di quota e formò un lago artificiale. Immagini delle impalcature, delle maestranze al lavoro. Il video proposto dal nostro sito presenta diverse testimonianze di sopravvissuti che nell’arco di tutta una vita non hanno dimenticato quell’esperienza vissuta da bambini. «Un rumore di grosse pietre che rotolano, come il tuono di un temporale», «Avevamo sentito parlare del Gleno, certo, ma non immaginavamo tutta quell’acqua...» «La diga è rimasta lassù come un rudere di un’antica fortezza» I ruderi della diga del Gleno come si presentano oggi, all’interno rimane un laghetto 49 L’ECO DI BERGAMO GIOVEDÌ 28 NOVEMBRE 2013 BUONA STAMPA: SI PRESENTANO DUE LIBRI Le parole di Papa Francesco gli scritti di Adriana Zarri Oggi pomeriggio alle 17,45, presso la sala della libreria Buona stampa serata dedicata ad Adriana Zarri. Si presenta il libro scritto da Adriana Lorenzi «Adriana Zarri e i suoi figli d’inchiostro», edito da Aeper. Con l’autrice sanno presenti il caposervizio de «L’Eco di Bergamo» Susanna Pesenti e Chiara Monchieri della Associa- zione Amici di Adriana. Il testo è un cammino attraverso la rubrica domenicale «Parabole» che la Zarrihatenutoperannisullepagine del quotidiano «Il manifesto» per raccontare il mondo, attivando ogni volta un processo di riflessione culminante con il saper amare, cioè comprendere la realtà di ciò che è altro da sé. Domani pomeriggio alle 18, sempre alla Buonastampa, in collaborazione con la Fondazione Papa Giovanni XXIII si presenta il volume di Vincenzo Sansonetti «Francesco, uno di noi», edito da Rizzoli. Interverranno l’autore e don Ezio Bolis; coordina il caposervizio de «L’Eco di Bergamo» Carlo Dignola. A pochi mesi dal- l’elezione di un Papa che sta cambiando profondamente il volto della Chiesa, il libro di Sansonetti offre una ricca antologia di sue citazioni tratte da omelie e discorsi. Sansonetti, 61 anni, dal 1976 al 1989 al quotidiano «Avvenire», ha lavorato poi al settimanale «Oggi» come responsabile della cultura e dell’informazione religiosa. Il custode: «Cadde un sasso Ho visto squarciarsi l’arcata» Il 4 dicembre 1923: ecco il racconto dei giornalisti de L’Eco sul posto Un cronista arrivò fino allo sbarramento in mezzo alla distruzione PINO CAPELLINI La diga del Gleno in fase di costruzione FOTO ARCHIVIO ISREC La valle devastata, in alto lo sbarramento della diga FOTO ARCHIVIO ISREC nome sinistro e lontano nella memoria di qualche vecchio che forse ricorda solo l’episodio straordinario e toccante della culla con un bambino che galleggiò sulle acque come la cesta di Mosè. Dopodomani a Vilminore, al Dezzo, a Corna di Darfo, la gente si riunirà a pregare e a ricordare. Essi non hanno dimenticato. Ma forse sentiranno proprio allora, più stringente che mai, il loro essere soli, il destino amaro della nostra montagna, l’indifferenza del mondo. Ci sarà l’Arcivescovo, con il suo cuore di padre, ci sa- ranno le autorità, i sacerdoti. Vorremmo che almeno la terra bergamasca tornasse vicino alla sua povera tragica valle. Se non si può chiedere che l’Italia sia lassù nel ricordo di quel mattino di orrore, vicino ai suoi morti, dentro una piccola valle che fu dilaniata da uno dei più spaventosi disastri della storia, vogliamo credere che ci sarà almeno Bergamo. O una piccola valle non può chiederlo neanche ai suoi fratelli più vicini? 1 ©RIPRODUZIONE RISERVATA La baracca che sostituì la chiesa di Bueggio travolta dall’acqua «Ad un tratto egli udì un “cium”: dall’alto della diga una pietra era caduta in una pozza d’acqua». Incomincia così la drammatica testimonianza che un giornalista de L’Eco di Bergamo raccolse il 4 dicembre 1923 direttamente dal guardiano della diga sotto i cui occhi avvenne la tragedia. Pochi secondi: da quel sasso che si stacca e piomba dall’alto allo sbarramento che cede di schianto e una enorme fiumana spazza la valle di Scalve. Il finimondo. Erano trascorsi tre giorni dalla tragedia. Di buon mattino quel giornalista lascia il fondovalle e si avvia verso il luogo dove ha avuto origine il disastro. I soccorritori si aggiravano nell’immane rovina, i feriti erano già stati tutti trasferiti all’ospedale, si cercavano i corpi delle vittime nella distesa di fango e di detriti. Sul posto era già stato re Vittorio Emanuele. Era sceso in auto dal passo della Presolana perché altra strada d’accesso non esisteva più: per lunghi tratti la Via Mala era stata distrutta dal tremendo maglio dell’acqua che trascinava massi grandi come case. Anche per le difficoltà di arrivare in valle i giornalisti, dagli inviati dei grandi giornali ai cronisti, non erano molti. Mobilitazione L’Eco di Bergamo doveva aver mobilitato l’intera redazione, dal direttore don Clienze Bortolotti ai giornalisti e ai collaboratori. I pezzi firmati sono pochi. Si riconosce la sigla del direttore (D. C. B.) e una firma già nota ai lettori del quotidiano, Gian Battista Pesenti, capocronista; sul posto c’è anche un altro dipendente del giornale, Beretta, addetto all’amministrazione ma, all’occorrenza, redattore. Non si sa invece chi sia il cronista che sale fino alla diga e che firma con la sigla a. r. p. il suo testo, datato Bueggio 4 dicembre. Lo troviamo in prima pagina d’apertura al giornale del giorno dopo, mercoledì 5 dicembre, con il titolo: «Sulle tracce della valanga sterminatrice», accompagnato da una immagine in cui si vedono i due tronconi dello sbarramento sfondato che si stagliano tra i fianchi della montagna sbiancata dalla neve caduta abbondante il giorno prima. Il cronista sicuramente conosceva già i luoghi. Si avvia tutto solo – non fa cenno di essere accompagnato da qualcuno – rifacendo a ritroso il percorso della massa d’acqua che ha spazzato via tutto, modificando a fondo il paesaggio. La sua è una cronaca puntuale, senza alcuna enfasi, che merita di essere letta per Anche il re venne in visita rivivere quei momenti. «Mentre, di buon’ora, le squadre di soccorso riprendono febbrilmente il lavoro, lascio il desolato paese di Dezzo e mi incammino lungo il letto sconvolto del torrente omonimo, rifacendo a ritroso la via percorsa dalla precipite e spaventosa valanga d’acqua. Il valloncello della larghezza di po- A Bueggio la prima vittima. La campana fece un rintocco, poi tutto sprofondò chi metri, in fondo al quale scorreva già gorgogliando il Dezzo, è ora trasformato in un selvaggio vallone largo in certi punti oltre cento metri, tutto cosparso di detriti, di massi e di fango». Il nostro cronista individua il passaggio tra tanta rovina, passa sotto Vilminore e Bueggio e punta decisamente verso l’alto risalendo la valle del Povo. Dopo circa tre ore eccolo davanti alla diga. Il colossale sbarramento presenta una enorme breccia di un centinaio di metri: «Alle due estremità rimangono intatti alcuni piloni con i sovrastanti archi. Il primo crollo si sarebbe verificato al quattordicesimo pilone». Sul posto erano già stati numerosi tecnici, tra cui anche il progettista, ma non risulta che ci siano resoconti di altri giornalisti. L’autore dell’articolo scova sui pressi della sua «capanna-rifugio, che sorge un po’ più a monte degli sbarramenti del grande bacino», il guardiano della diga. Si chiama Francesco Morzenti, di Teveno, ed ha assistito al crollo. Anzi, lui si trovava proprio alla base della grande muraglia dell’invaso e l’aveva vista squarciarsi di colpo con i po- chi segni premonitori della caduta di un paio di massi. Verso le 7 – inizia il suo racconto – aveva ricevuto una telefonata dal direttore della centrale di Bueggio, Daniele Piccoli. Doveva regolare l’afflusso dell’acqua nelle condotte per mettere in azione le dinamo. Il guardiano era sceso ai piedi dello sbarramento per raggiungere i meccanismi da mettere in azione. Ed ecco che il giornalista de L’Eco entra in presa diretta sulla base del suo racconto: «Ad un tratto egli udì un “cium”: dall’altro una pietra era caduta in una pozza d’acqua. “Strano! – pensò il guardiano. – Che ci sia qualcuno sulla cima del muraglione?”. Dopo pochi attimi un secondo masso si staccò dall’alto dlela diga e precipitò nella pozza d’acqua». Un altro «cium!». «Il Morzenti, sorpreso, guardò in su e vide che si era aperta una fenditura in una delle arcate centrali e l’acqua cominciava a gorgogliare. Intuì il pericolo, si lanciò con una corsa folle e disperata sopra un lato della valle, mentre intravedeva che uno dei piloni di centro cedeva ruinando alla enorme pressione delle acque del bacino, trascinando con sé quasi tutta la diga». Prosegue il racconto del giornalista: «I piloni e le arcate, legati tra loro da una salda armatura di ferro, quando cedevano da quel primo pilone in ruina, diedero al guardiano l’impressione “come l’aprirsi di un libro”. L’ingente massa di acque contenuta nel bacino si riversò lungo la valle del Povo come una gigantesca valanga». E il guardiano? Il suo intuito gli aveva salvato la vita. Dopo la fuga verso l’alto, una volta fuori dalla portata del disastro si lasciò andare come privo di sensi; così lo trovarono gli operai addetti al bacino e scampati grazie al fatto che, non ancora iniziata giornata di lavoro, si trovavano nelle baracche riparate dietro uno sperone di roccia. Quella campana L’articolo non si esaurisce qui. Anzi, continua con altri particolari sui drammi e le devastazioni della massa d’acqua nel suo inarrestabile cammino. Il borgo di Bueggio si salverà grazie a una sporgenza del monte che gli fa da riparo pur venendo danneggiate tutte le abitazioni, ma le acque risalgono su per il monte e si portano via una stalla sulla sinistra del torrente Povo. C’erano dodici mucche alle quali il proprietario, Giovan Maria Duci di Bueggio, alzatosi di buon mattino come al solito, stava accudendo. Sarà la prima vittima. E non scampa nemmeno il campanaro della chiesa parrocchiale. Era da poco terminata la prima Messa e Pietro Duci era salito sul campanile per regolare le ore. I testimoni raccontano che chiesa e campanile furono investiti in pieno dallo spostamento d’aria che precedeva la massa d’acqua. Un turbine d’una forza spaventosa: addirittura il campanile fu stroncato e portato via con le campane alzate verso il cielo in un ultimo drammatico squillo. Poi tutto sprofondò. Don Bortolotti È invece il capocronista Pesenti in un articolo che porta le sue sigle a dare le prime notizie direttamente dalla valle di Scalve. Al diffondersi in Bergamo di ancora sommarie e confuse informazioni sulla tragedia il direttore de L’Eco di Bergamo don Bortolotti accompagnato da Pesenti e da Beretta era andato in auto verso la valle Camonica avventurandosi tra le rovine che la massa d’acqua scesa dalla valle di Scalve aveva provocato anche laggiù: paesi distrutti, centinaia di vittime, strade e ponti trascinati via. Impossibile proseguire. Nella tarda serata il direttore de L’Eco era rientrato a Bergamo, mentre Pesenti aveva risalito la valle Seriana fino al passo della Presolana sotto una fitta nevicata. I carabinieri avevano creato uno sbarramento ed era impossibile passare. Solo il giorno dopo, all’alba del 2 dicembre, era riuscito a proseguire scendendo a piedi tra grandi difficoltà fino al ponte del Dezzo. E del Dezzo, il Dezzo di Colere, non c’era più niente: «Oggi non vi è che una sporgenza, un costone di roccia nuda, lucida». Si scorgevano le le rovine di un paio di case, dei 180 abitanti gli scampati erano poco più di una decina. Ed è ancora Pesenti a raccogliere una testimonianza che condensa in poche parole il terrorizzante spettacolo che si presentò agli occhi della gente della valle. Così racconta al giornalista Francesco Bendotti di Dezzo: « Erano le 7,10 in punto. Io mi trovavo fuori della porta della casa ed ero intento a spaccar legna, quando mi venne incontro una mia cognata dicendomi meravigliata: “Ma guarda che fumo!”. “Dove?” – risposi – ed alzando gli occhi vidi che il fumo era acqua: una montagna enorme, spaventosa d’acqua”». Bendotti corse su per il monte e la scampò. Sotto i suoi occhi vide scomparire la sua casa, e nella sua casa la moglie e una figlia, e con la casa tutto il paese. E gli sembrò che prima di sparire gli edifici galleggiassero per un po’ sulla fiumana che trascinava via tutto. 1 ©RIPRODUZIONE RISERVATA