Giacobbe: nel deserto... sogni... lotta

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Giacobbe: nel deserto... sogni... lotta
SOLITUDINI… FRA SOGNO E CORAGGIO
GIACOBBE: NEL DESERTO… SOGNI… LOTTA
Lectio biblica diocesana per i Giovani
su Gn 28,10-19; 32,23-32
Villalba – chiesa madre, 21 dicembre 2012
1. Introduzione
Carissimi giovani, grandissima è la mia gioia nel vedervi, incontrarvi, abbracciarvi, pregare insieme con voi e insieme metterci in ascolto della Parola
di Dio. Con la lectio di questa sera si conclude il percorso che nel tempo di
Avvento ha visto la carovana dei giovani della nostra Diocesi spostarsi e incontrarsi qui a Villalba per pregare insieme, percorrendo un cammino di fede e di gioia nel sentirci amati personalmente dal Signore. Dopo il sì di Abramo ad andare verso se stesso, fidandosi dello sconosciuto Dio, e dopo l’esperienza drammatica di Isacco, incontriamo questa sera un caro amico, un imbroglione, un ladro: Giacobbe, figlio di Rebecca e Isacco, figlio di Abramo.
Fermeremo la nostra attenzione su due momenti del cammino e della vita di Giacobbe: la partenza dalla sua casa e il ritorno alla Terra promessa, la giovinezza e l’adultità. Questi due poli sono uniti da una esperienza straordinaria che avviene sempre di notte: una visione particolare di Dio durante il sogno. All’andata, il giovane Giacobbe nel deserto vede in sogno una scala che
unisce cielo e terra. Al ritorno, presso il guado del fiume Yabbok, Giacobbe
ormai adulto vede e lotta in sogno con Dio. E da questa lotta anche il suo corpo resterà segnato per sempre. Giacobbe, miei cari giovani, ha molto da trasmettere questa sera a ciascuno; sta a noi aprire il cuore per accogliere, apprendere e condividere la sua esperienza di fede.
2. L’uomo della sottrazione
10Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Carran. 11Capitò così in un luo-
go, dove passò la notte, perché il sole era tramontato; prese una pietra, se la
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pose come guanciale e si coricò in quel luogo. 12Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di
Dio salivano e scendevano su di essa. 13Ecco il Signore gli stava davanti e disse: «Io sono il Signore, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco. La terra
sulla quale tu sei coricato la darò a te e alla tua discendenza. 14La tua discendenza sarà come la polvere della terra e ti estenderai a occidente e ad oriente,
a settentrione e a mezzogiorno. E saranno benedette per te e per la tua discendenza tutte le nazioni della terra. 15Ecco io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai; poi ti farò ritornare in questo paese, perché non ti abbandonerò
senza aver fatto tutto quello che t’ho detto». 16Allora Giacobbe si svegliò dal
sonno e disse: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo». 17Ebbe
timore e disse: «Quanto è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di
Dio, questa è la porta del cielo». 18Alla mattina presto Giacobbe si alzò, prese
la pietra che si era posta come guanciale, la eresse come una stele e versò olio
sulla sua sommità. 19E chiamò quel luogo Betel, mentre prima di allora la città
si chiamava Luz. (Gn 28,10-19).
Giacobbe è fratello gemello di Esaù. Aiutato dalla madre Rebecca, riesce
con un inganno a fregare il padre e il fratello. Con un meschino ma intelligente tranello carpisce la benedizione della primogenitura che il padre Isacco aveva promesso ad Esaù. Giacobbe, dunque, diviene unico erede dei beni di famiglia. Tuttavia, per non incorrere nell’ira del fratello, è costretto a fuggire presso i suoi lontanissimi parenti, perdendo tutto. E così si ritrova senza
casa, senza patria, senza beni, senza famiglia. Costretto ad attraversare il lungo arido deserto, sente emergere nel suo cuore assopite paure e un divorante
fallimento.
Giacobbe percorre a piedi un viaggio di almeno 1600 km. Per lui si tratta
di una avventura nel buio. È un giovane emigrante sbandato, un fuggitivo che
non ha nemmeno un luogo in cui rifugiarsi, un cuscino su cui poggiare la testa, una coperta per proteggersi dal freddo. Ad un certo punto di notte si addormenta per la grande stanchezza, senza sapere bene dove si trova. E ogni
notte sarà la stessa. Per lui tutte le notti appartengono ormai alla quotidianità
senza storia.
Giacobbe, che voleva tutto e subito, si ritrova privo di tutti i riferimenti essenziali per la vita. Lui, che aveva sottratto la benedizione e l’eredità al fratello, si ritrova ad essere uomo della sottrazione: senza Dio, senza famiglia e amicizie, senza terra e senza lavoro; senza padre né madre, senza più un fra-
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tello… E allora dorme dove lo raggiunge il tramonto del sole e prende una
pietra per guanciale.
Ma “quella notte” «fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre
la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa» (Gn 28,12). Nella fuga, nell’afflizione, nel deserto della vita
e nel fallimento dei suoi sogni di gloria e di potere gli si apre improvvisamente un mondo superiore. E tutto germoglia proprio lì, nel deserto, dove si vedono solo pietre...
3. La porta del Cielo
Nel sogno proprio questo luogo si popola: di angeli, di una scala altissima… Quando era sveglio, Giacobbe non se ne accorgeva, ma quando il sonno gli chiude gli occhi, si apre il suo cuore per scoprire una realtà che non immaginava. Giacobbe, cieco di giorno mentre è sveglio, vede di notte mentre dorme. Prostrato e disteso sulla nuda terra, vede meglio il Cielo!
E quel deserto si rivela Casa di Dio: Betel. Non la dimora celeste, ma la dimora terrestre di Dio, e in quanto tale è porta del Cielo: «Allora Giacobbe si
svegliò dal sonno e disse: “Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo… Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo”» (Gen
28,16-17). È casa di Dio: non un recinto chiuso che accoglie e tiene dentro, ma
apertura a spazi trascendenti. Soglie successive: quella che fa uscire dalla casa
paterna, quella che fa entrare nel mondo del sogno, verso la porta del Cielo… A Giacobbe sono stati aperti gli occhi per vedere l’ultima estrema porta
e rimane sbigottito.
Ora è Dio a benedirlo e ad assicurargli: «Ecco io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai» (Gen 28,15). Alla domanda «dove sono?»
che il cuore inquieto poneva a questo giovane, Giacobbe ora può rispondere: «Io non lo so ma so che Tu, Signore, lo sai. E questo mi basta!». Anche nella notte buia di un giovane ramingo e fuggiasco c’è un’attenzione
del Cielo per lui. Noi viviamo sotto lo sguardo del Cielo e di un Dio, di noi
follemente innamorato, che ci segue passo passo, pure là dove ci sentiamo desolati, abbattuti, disorientati. Sì, miei cari amici, la mia vita si muo-
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ve nell’abbraccio di Qualcuno più grande di me. Dio ha cura di me, io sono
nelle sue mani!
Il viaggio di Giacobbe, che sembrava un’avventura nell’ignoto e un salto
nel buio, è tutto seguito dal Signore. Giacobbe, pur nelle sue fragilità e cattiverie, è tutto nelle mani di Dio. E quando si sveglia dal sonno torna a vedere il deserto, letto del suo sogno, e la dura pietra, guanciale della sua contemplazione. Ma ora ogni cosa è diversa: il deserto si trasforma in Casa di Dio, la pietra in altare. E nel suo cuore la paura cede il passo alla “porta del Cielo”. Una
speranza prima sconosciuta si spalanca nell’orizzonte della sua anima. Ora
sa dove andare e un giorno l’arcobaleno del sorriso di Dio illuminerà tutta la
sua vita, la sua famiglia e le sue amicizie con i colori della libertà, della pace
e dell’amore.
Con Giacobbe, miei cari giovani, provate a interrogarvi chiedendovi:
- mi conosco veramente?
- dove mi trovo e verso dove sto andando?
4. Il guado della lotta
23Durante
quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi
undici figli e passò il guado dello Iabbok. 24Li prese, fece loro passare il torrente e fece passare anche tutti i suoi averi. 25Giacobbe rimase solo e un uomo
lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. 26Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. 27Quegli disse: «Lasciami
andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non
mi avrai benedetto!». 28Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». 29Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». 30Giacobbe allora gli chiese:
«Dimmi il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. 31Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel «Perché – disse – ho visto
Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva». 32Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all’anca. (Gn 32,23-32).
Giacobbe vent’anni dopo. Siamo di notte, più o meno nella stessa ora in
cui lui aveva avuto nel deserto la visione in sogno della scala che univa cielo e terra. Ma in questa notte l’oscurità si carica di una particolare sofferenza
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per Giacobbe. Egli si porta addosso il peso di 14 anni di duro lavoro presso
il suocero Labano, di litigi e rivalità tra le sue due mogli Lia e Rachele, di
preoccupazione per mettere in salvo la sua famiglia e affrontare ora la vendetta del fratello Esaù.
Giacobbe è ormai arrivato ad un passo dalla Terra promessa, ma deve attraversare il faticoso e pericoloso guado del fiume Yabbok, che scorre in una
gola profonda. Egli riesce a far passare all’altra riva la sua gente e il suo bestiame e «rimase solo» (Gn 32,25). Il restare solo nella notte genera paura, ma
favorisce l’incontro con Dio. Nella solitudine e nel silenzio il cuore è all’erta e
si apre all’ascolto. La notte, tempo e luogo del silenzio, sottrae l’uomo ai rumori assordanti e alle chiacchiere inutili, schiudendo la mente al coraggio di
pensare.
Rimasto solo, Giacobbe incontra un uomo misterioso con il quale ingaggia una lotta che perdura fino all’alba. Dio si presenta a Giacobbe con l’ambiguità dell’Altro che provoca e inquieta: «E un uomo lottò con lui fino allo
spuntare dell’aurora» (Gn 32,25). È l’anonimato di Dio, che viene incontro a ciascuno di noi attraverso il volto e la voce di un “altro”: una persona saggia, un
sacerdote, un amico o uno straniero. Riconoscerlo e consegnarsi non è rinuncia, ma saggezza, passione e confronto che esigono impegno e lotta.
Perché Dio è altro da te; libero rispetto a te, come tu sei altro da Lui e libero rispetto a Lui. Guai a perdere il senso di questa distanza nella prossimità e,
dunque, di questa sofferenza. “Credere” in latino viene da cor-dare, cioè dare il
cuore. E questo implica lotta con Dio, l’Altro che non si lascia afferrare e rimane sempre Altro da te seppure vicino e intimo a te. Ecco perché il dubbio abiterà sempre la nostra fede. Dio non si trova nella facilità del possesso di questo mondo, ma nella povertà della croce, nella morte a noi stessi, nella notte
dello spirito. Mio caro giovane, quando nella lotta capisci che vince chi perde
e perdutamente ti consegni a Lui, quando ti arrendi a questo Divino Assalitore notturno e lasci che la tua vita venga segnata per sempre da quell’incontro, allora hai fede, cioè dai il cuore nell’abbandono e nell’incontro, nelle ferite e nella gioia della tua consegna nelle braccia di Colui che ama proprio te più
di Se stesso.
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5. Amare è lottare
Con Dio non si finisce mai di lottare: il credente è un ateo che ogni giorno
si sforza di cominciare a credere. Ma è in questa lotta che la fede mostra l’amore. Infatti, amore in greco si dice agape, parola che viene da agòn che significa lotta. Amare è lottare! E la lotta avviene di notte, non nella chiara luce del
giorno in cui è facile orientarsi, ma nell’oscurità dove tutti i riferimenti sembrano smarriti. Dio ci chiede di non sottrarci a questa lotta, ma di viverla perché Lui vincerà e cambierà la nostra vita. Chiediamoci allora:
- sono disposto a lottare con Dio e a lasciare che Lui vinca?
- fuggo da Dio o accetto di entrare con Lui nel guado di Yabbok della mia
fede umile e povera, per uscirne cambiato per sempre?
- accetto di porre il mio futuro totalmente nelle mani del mio Dio?
Con Giacobbe noi scopriamo che la lotta è un atto d’amore e l’amore è una
lotta. Dalla parte di Dio l’atto d’amore viene espresso attraverso la benedizione (cfr. Gn 32,27.30). Perché l’amore di Dio ti rende fecondo, ti coinvolge nel
suo amore; un amore così grande e così personale da farti diventare “padre”.
Giacobbe lotta per la benedizione, non per se stesso ma per il suo popolo che
si trova ancora in esodo. Per questo Giacobbe ha bisogno della benedizione
di Dio, cioè dell’atto d’amore di Dio. Perché essere amato da Dio ti apre continuamente alla paternità verso gli altri: se tu ti senti da Lui amato, questo amore ti attraversa e ti rende fecondo. E tu diventi padre dei tuoi fratelli, dei
tuoi amici…
L’altra espressione d’amore è da parte dell’uomo e consiste proprio nel coraggio di insistere: «Quegli disse: “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora”. Giacobbe rispose: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!”» (Gn
32,27). La preghiera nella sua insistenza nasce dal bisogno di ricevere l’amore di Dio. Solo così la preghiera si fa fede, cioè cor-dare, dono e consegna del
proprio cuore nel cuore di Dio.
Giacobbe insiste: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!», come a dire: «Tu, Dio, sei l’Amore e mi devi amare!». Questa è l’unica forza che noi abbiamo: puntare direttamente al cuore di Dio, alla sua misericordia e al suo amore. «Signore, Tu sei l’Amore e non puoi non amarmi, perciò mi devi benedire. Anche se mi rompi le ossa, anche se il tuo benedicente Amore mi feri-
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sce il corpo e l’anima. Mi devi benedire! Solo così sarò anch’io benedizione per gli
altri, cioè amore fecondo, padre di rigenerante amore». Ma dovrò lottare tutta una notte, dovrò farmi slogare le ossa dell’anima… perché la benedizione
sicuramente c’è ed è per me. Io sono suo figlio, e Dio non può non benedirmi! Ecco, miei carissimi giovani, l’unica forza che noi possiamo avere di fronte a
Dio è questa: puntare direttamente sull’unico nostro diritto di figli, cioè di essere amati da Lui. E non mollare mai, anche se è notte!
6. Il nome
«Gli domandò: “Come ti chiami?”. Rispose: “Giacobbe”. Riprese: “Non ti
chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli
uomini e hai vinto!”. Giacobbe allora gli chiese: “Dimmi il tuo nome”. Gli rispose: “Perché mi chiedi il nome?”. E qui lo benedisse» (Gn 32,28-30).
Giacobbe è costretto a rivelare il suo nome, cioè ad affidare nelle mani del
misterioso Dio tutta la sua vita e la sua personalità. E Dio gli cambia la vita,
cioè il nome. Giacobbe significa “soppiantatore” o “ingannatore”; Israele significa “colui che lotta con Dio”. In questa lotta Giacobbe si è posto faccia a
faccia con Dio, misurandosi con il suo Amore.
L’Amore non può non arrivare a chiederti il nome. Ma anche l’amato vuole conoscere il Nome del Dio amante. Giacobbe vuole conoscere il Nome di
Dio, come a dire: “A me interessi Tu. Non mi perdo sul dono, mi interessi Tu
che sei il donatore. Io voglio Te. Io voglio conoscere Te”. Ma Dio non risponde, perché non si rivela mai pienamente. Ancora una volta Dio si mostra misterioso e imprevedibile, perché è inaccessibile. Ma il suo silenzio si riempie
di benedizione. Ecco il Nome di Dio: la sua benedizione, cioè il suo Amore per
te! Sì, Dio è Amore benedicente, che abita ogni frammento e ogni istante dell’umana esistenza. E questo a noi basta.
7. Il sogno del nuovo giorno
Al guado del fiume Yabbok Giacobbe è morto ed è nato Israele, un popolo credente capace di lottare con Dio e di portare nella sua carne il segno di
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questa lotta. «Spuntava il sole quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all’anca» (Gn 32,32). È il sole di un nuovo giorno, di una nuova nascita. La trasfigurazione di Giacobbe in Israele è visibile anche dall’esterno, il suo cammino
è segnato da un passo claudicante. Israele, come tutti noi, sarà zoppo per sempre, ma Dio sarà altrettanto per sempre il suo bastone: «Ascoltate – dirà il profeta Isaia – casa di Giacobbe, voi che siete chiamati Israele… e vi appoggiate
sul Dio di Israele che si chiama Signore» (Is 48,1-2).
Noi siamo chiamati a rinascere per vincere. La nostra vocazione è coraggio
di camminare sui sentieri della gioia con un grande sogno nel cuore. E sognando scopriamo che la vita è lotta, perché la lotta è l’arte di amare. E in
quella lotta Dio ci cambia il nome e la vita con la sua benedizione. Lui ci incontra lì dove siamo e come siamo; ci incontra nel deserto delle nostre paure e
nelle pianure dei nostri sogni, in modo che al risveglio ciascuno possa danzare
la vita nell’abbraccio benedicente della tenerezza di Dio, tanto da saper cantare con il Salmista: «Corro per le vie del tuo amore» (Sal 118).
Miei cari giovani, non abbiate paura di lasciarvi visitare dai sogni: molte
volte essi sono proprio il crocevia di Dio. Beati voi se saprete sognare, per trovare quella porta del Cielo che vi darà ali come aquila per farvi guardare sempre più in alto, verso la bellezza di Dio. Beati voi se nelle notti oscure della
vostra anima saprete lottare con insistenza e resistenza, lasciandovi ferire dall’Amore benedicente di Dio. Ricordate sempre che «muore solo un amore che
ha smesso di essere sognato» (P. Salinas).
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