Feingold, l`uomo che salvò gli ebrei attraverso le Alpi
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Feingold, l`uomo che salvò gli ebrei attraverso le Alpi
38 LA DOMENICA DI CULTURA E SPETTACOLI DOMENICA 26 GIUGNO 2011 ALTO ADIGE STORIA: IL LIBRO L’AUTRICE Ancora in cerca delle ossa del padre «Quando i Cetnici entrarono a Srebrenica e l’Onu ci lasciò soli» racconti di «The Broken Childhood Of Srebrenica» sono frutto di un lungo lavoro svolto grazie all’esperienza di Irfanka Pasagic, psichiatra, esperta di Post Traumatic Stress Disorder, premio Alexander Langer 2005 in particolare per la sua attivia di assistenza alle donne vittime di stupri etnici e ai figli abbandonati. Nermina Dautbasic ha perso il padre e molti parenti durante il genocidio di Srebrenica. Dopo il 1995 ha vissuto a Tuzla per 13 anni e nel 2006 è tornata ad abitare a Srebrenica. È ancora alla ricerca delle ossa di suo padre. I Il racconto di una giovane che vide la strage da bambina Voci raccolte grazie a un progetto della Fondazione Langer ubblichiamo il racconto «Allora e adesso» di Nermina Dautbasic-Muminovic. L’autrice, 29 anni, fa parte del gruppo di ragazzi bosniaci coinvolti nel progetto «Adopt Srebrenica» della Fondazione Langer di Bolzano. Il testo compare nel libro P «The Broken Childhood Of Srebrenica», raccolta di testimonianze di ragazzi di Srebreica (1995), bambini durante l’assedio della città e spettatori inermi delle atrocità avvenute. La traduzione italiana del libro dovrebbe essere pubblicata entro l’anno. Donne al funerale di 775 musulmani a Potocari, centro commemorativo di Srebrenica ‘‘ di Nermina Dautbasic-Muminovic sservo. Lapidi bianche. Innocenti testimonianze della cattiveria umana. Osservo. Taccio. Penso. Ma è possibile che sia tornata di nuovo qui a Potocari, a Srebrenica? È possibile che, dopo tutto, io sia tornata nel luogo in cui tutte le mie sofferenze hanno avuto inizio? È possibile ricominciare la mia vita accanto a quelle stesse persone che, tredici anni fa, avevano solo un obiettivo? Persone che negli occhi avevano solo il sangue dei musulmani. Persone il cui successo veniva misurato dalla ferocia con cui uccidevano uomini, donne, anziani, bambini... Che cosa c’è adesso nelle loro anime? Adesso, la loro voglia di uccidere i bosgnacchi è soltanto tenuta repressa...oppure...? Forse alcuni di loro si sono pentiti, ma gli altri...? Hanno paura della punizione divina oppure esultano alla vista dei bosgnacchi che sono riusciti a tornare, godendo ancora della propria ferocia per aver ammazzato loro un fratello, un figlio, il padre, il marito...? Osservo le madri che hanno perso figli, mariti, e mi chiedo da dove prendano tutta questa forza. Forse, nella loro lotta per la verità, riescono a raccogliere anche gli ultimi slanci di forza per far in modo che giustizia sia fatta, almeno nei Quell’estate eravamo felici perché c’era la frutta Poi arrivarono le bombe Supplicavamo aiuto ma nessuno ci ascoltava O Nermina Dautbasic-Muminovic Ratko Mladic e Radovan Karadzic, ritenuti responsabili dell’eccidio confronti dei maggiori responsabili dell’atroce genocidio compiuto sui bosgnacchi di Srebrenica. Forse il loro cuore è nero perché segnato dal dolore e dall’impossibilità di accettare di aver perso figli, mariti e padri... Mi chiedo se sono riuscite ad accettare veramente la perdita dei loro più cari oppure se, da vere bosgnacche, hanno soltanto accettato il loro destino e implorano il buon Dio che i loro fi- gli, mariti e padri ritrovino la pace nel Memoriale di Potocari. Le ammiro. Spero che rimangano pazienti e forti, così che la verità possa conoscere la faccia della giustizia. Dodici anni dopo quel terribile genocidio, che ha segnato per sempre la mia vita, i miei pensieri sono tornati ad allora, come se in un certo senso stessi rivivendo le medesime sofferenze (...). Adesso i ricordi di quei gior- ni riaffiorano come offuscati nella nebbia. Le granate, la fame, il nascondiglio, e i bambini che giocano nonostante tutto. Non vedevamo l’ora che venisse quell’estate del 1995. Infatti quell’anno c’era sia frutta sia verdura e anche la fame si faceva sentire di meno. Quello che ricordo di più sono i mirtilli. Ogni mattina insieme alle mie sorelle andavamo a raccogliere i mirtilli che erano la medicina della mamma, e in più ci si poteva fare anche la marmellata che a noi piaceva tanto. In quei giorni la maggior parte del lavoro casalingo era nelle mani del babbo, che lo svolgeva con disinvoltura per facilitare le cose alla mamma che era malata. Lavorava, cucinava, non si lamentava, tutto quello che voleva era fare al cento per cento quello che faceva la mamma. Adesso a pensarci bene mi sembra che quel ruolo gli piacesse, come se avesse avuto il presentimento che non sarebbe stato con noi ancora a lungo e per questo voleva lasciare la sua immagine il più possibile impressa nei nostri ricordi. Però una mattina, anziché essere svegliate dalla mamma, siamo state svegliate dagli scoppi delle granate che provenivano da tutte le parti. Avevano iniziato a lanciare le granate sulla città. Non c’erano più le nostre grida di gioia ma soltanto le urla di dolore e paura per quello che ci si aspettava; allo stesso tempo c’era anche la speranza e la fiducia che la comunità internazionale ci avrebbe protetto, aiutato e salvato. Nulla di tutto questo è successo. Questa Europa, la comunità internazionale e tutti quelli che ci potevano aiutare sono diventati sordi e sono rimasti da qualche parte, lontani, con le braccia conserte e senza neanche un briciolo di pietà. Mentre cadevano le granate, noi fuggivamo nei nascondigli, con la speranza che qualcuno sentisse le grida d’aiuto di Nihad Nine Catici, l’unico che informava via radio da Srebrenica e che supplicava affinché qualcuno trovasse un po’ di pietà nell’animo per salvare i bosgnacchi di Srebrenica dai nemici, dai sanguinosi carnefici. Però nessuno lo ha ascoltato. Per sei giorni le granate sono cadute incessantemente e, quando pensavamo che tutto fosse finito, la mamma finalmente ci preparò il pranzo. Che profumo di pane bianco veniva dal forno. E noi bambini aspettavamo con impazienza che la mamma ci desse il pezzo che ci spettava. All’improvviso abbiamo sentito degli spari, come mai prima d’allora. Abbiamo solo sentito che dovevamo scappare perché i Cetnici erano già arrivati in città e che anche Unprofor si stava ritirando. Noi siamo partiti, ma il pane è rimasto nel forno, nessuno lo ha mangiato. Siamo scappati ancora affamati e, mentre scappavamo, pensavamo al pane che avevamo lasciato. Siamo scappati non sapendo che stavamo andando incontro all’inferno. Abbiamo sperato nell’aiuto di chi invece ci ha tradito, delle anime vendute. So che quella notte ho dormito con i miei dalla sorella del babbo, e all’indomani... quel giorno non lo dimenticherò mai... la separazione dal babbo. Ancora non mi rendevo conto che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrei sentito il calore del suo sguardo e del suo abbraccio. A RIPRODUZIONE RISERVATA STORIA: IL PERSONAGGIO Feingold, l’uomo che salvò gli ebrei attraverso le Alpi Scampato a tre lager, scoprì la via per la valle Aurina. E racconta come ell’estate del 1947 la valle Aurina fu teatro dell’esodo di oltre 5 mila ebrei verso la Palestina. I profughi provenienti dall’Europa centro-orientale lasciarono l’Austria attraverso il passo dei Tauri, a 2.633 metri di quota, uno dei pochi punti ove era possibile valicare il confine senza incontrare guardie di frontiera, e giunsero a piedi in Italia, da dove si imbarcarono verso la Terra promessa. L’associazione Alpine Peace Crossing ricorda ogni anno questo avvenimento con una marcia della pace, in programma quest’anno il 2 luglio. Questa via di fuga in alta montagna era stata individuata da Marko Feingold, un ebreo austriaco che durante la follia nazista era sopravvissuto a tre campi di concentramento: Auschwitz, Neuengamme e Buchenwald. Ancora oggi, a 98 anni, sprizza energia e gioia N Ebrei al passo dei Tauri nel 1947 di vivere. Presiede ancora la comunità ebraica di Salisburgo ed è ospite fisso nelle scuole. «Dopo essere uscito da Buchenwald - racconta - sono finito a Salisburgo, dove sono entrato a fare parte dell’organizzazione Bricha (che in ebraico significa fuga, ndr)». Feingold parlava bene italiano e così organizzò il trasferimento verso l’Italia di ebrei, La marcia che ogni anno ripercorre il tragitto che sognavano una nuova vita nell’agognato Eretz Israel. «Non posso dire con esattezza quanti furono, potrebbero essere stati 100 mila», dice con un pò di orgoglio. La Palestina era allora sotto mandato inglese e gli Alleati, su pressione dell’Inghilterra, cercavano di bloccare già in Austria questo enorme flusso di persone sul loro viaggio di speranza. Il passo del Brennero divenne per loro presto invalicabili. Era dunque necessario individuare un’alternativa. «Diedi una occhiata alla cartina - racconta Feingold - e vidi che nella zona del passo dei Tauri il Salisburghese confina per una decina di chilometri con l’Italia. Individuai un ripido sentiero che portava in valle Au- Marko Feingold a Buchenwald Feingold in una foto recente rina». Iniziò così l’esodo clandestino di ebrei, che in gruppi da 150 persone venivano accompagnati con dei furgoni all’ultimo rifugio prima del confine, il Krimmler Tauernhaus. «Gli americani, che controllavano la zona, facevano finta di niente - si ricorda l’anziano - e i gendarmi austriaci avevano ricevuto l’ordine dai loro superiori di “non guardare dalla finestra”, quando udivano il rumore dei motori». Anche bambini, persone malnutrite e anziani dovettero affrontare l’impegnativa traversata senza la necessaria attrezzatura. Sul versante italiano, a Casere in valle Aurina, la Bricha aveva preso in affitto una pensioncina, il Gasthof Kasern. Con mezzi della Croce Rossa i profughi venivano portati prima a Merano, dove l’organizzazione gestiva un centro di ricovero, e poi a Genova e Ancona, ove si imbarcavano per la Palestina. L’esodo fu interrotto in autunno dalle prime nevicate. Con la proclamazione dello Stato d’Israele, nel maggio 1948, l’uso di questa via di fuga venne meno.