La Costituzione e il carcere: a cosa serve punire?

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La Costituzione e il carcere: a cosa serve punire?
La Costituzione e il carcere: a cosa serve punire?
Art. 27
La responsabilità penale è personale.
L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono
tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte.
L’articolo 27 della nostra Costituzione definisce i principi che regolano le pene comminate a un
cittadino quando infrange la legge.
Nel primo comma si parla di responsabilità penale: questo termine indica un comportamento per
il quale la legge prevede una punizione, in particolare la
reclusione in carcere o comunque la limitazione della propria
Le Fosse Ardeatine
libertà personale. Dicendo che la responsabilità penale è
Nel 1944, i nazisti che occupavano Roma uccisero 335 prigionieri politici alle Fosse Ardeatine,
per vendicarsi dell’uccisione di 33
soldati tedeschi in un attentato i
cui colpevoli non erano stati individuati. Questo tipo di comportamento, che si chiama rappresaglia, è un esempio di punizione
che l’articolo 27 della nostra Costituzione non ammette: in questo
caso, infatti, qualcuno viene punito per un atto commesso da altri.
personale,
la
Costituzione
afferma
che
ciascuno
è
responsabile solo delle proprie azioni e nessuno può essere
punito per un fatto che sia stato commesso da altri.
Perché qualcuno possa essere considerato responsabile
penalmente occorre che il comportamento per gli quale
viene punito sia stato commesso intenzionalmente (cioè
che l’abbia voluto, non gli sia semplicemente capitato), o
almeno sia conseguenza di una sua grave disattenzione o
imprudenza. È inoltre necessario che si tratti di una persona
in grado di intendere e volere: deve cioè possedere la capacità di comprendere ciò che ha fatto.
Il secondo comma dell’articolo 27 stabilisce il principio della non colpevolezza fino alla
condanna definitiva. In Italia ci sono tre gradi di giudizio (primo grado, appello, Cassazione): chi
ritiene di essere stato condannato ingiustamente in un primo processo, può richiedere un secondo
processo (l’appello) e, in alcuni casi, anche una terza verifica (Cassazione). Soltanto alla fine di
questo percorso la condanna è definitiva. Il fatto di poter essere giudicato fino a tre volte e da tre
giudici diversi è una garanzia per il cittadino accusato di aver commesso un reato, perché limita le
possibilità che si verifichi un errore giudiziario (cioè che qualcuno venga condannato per qualcosa
che non ha commesso). Chi è imputato in un processo non può essere considerato colpevole e
quindi non può essere condannato ad alcuna pena fino alla condanna definitiva.
Il terzo comma stabilisce il principio della finalità rieducativa della pena: la pena non è una
vendetta, né un esempio per convincere gli altri a non commettere lo stesso reato. L’obiettivo della
pena è fornire al condannato gli strumenti necessari per reinserirsi nella società rispettando le
regole fondamentali della convivenza civile. Perché ciò accada è necessario che la pena rispetti la
dignità del condannato: per questo nella nostra Costituzione sono vietati i trattamenti contrari al
senso di umanità.
L’ultimo comma dell’articolo 27 stabilisce che in Italia non è ammessa per alcuna ragione e in
nessun caso la pena di morte. Si tratta della logica conseguenza di quanto affermato nel terzo
comma: una pena che preveda l’eliminazione del condannato, infatti, non avrebbe come obiettivo il
suo reinserimento nella società e sarebbe contraria al principio di umanità, perché violerebbe il suo
diritto alla vita.
Quando i giudici non sono sicuri se una persona è colpevole o innocente come fanno a
decidere?
Nessuno può essere condannato se non si è sicuri, ma completamente sicuri, che sia colpevole. Se i
giudici non sono sicuri, devono assolverlo. La Costituzione dice che nessuno può essere considerato
colpevole fino alla condanna definitiva, e il Codice di Procedura Penale (e cioè le regole che dicono
come si fanno i processi) dice che nessuno può essere condannato se la sua responsabilità non è stata
provata al di là di ogni ragionevole dubbio. Quindi, se esiste anche una piccola incertezza, bisogna
assolvere. Spero che i giudici facciano sempre così, e che non siano mai superficiali, ma qualche volta
può succedere che sbaglino anche loro.
Se in carcere vanno le persone che hanno rubato e ucciso, perché gli danno anche la
televisione e la palestra, che le fanno stare bene?
Non vi sembra che sia già una sofferenza grande non poter uscire dal carcere, non poter vedere i propri
bambini, o i propri genitori, la propria moglie o il proprio marito, se non una volta ogni tanto, non poter
incontrare i propri amici, dovere obbedire tutto il giorno, passare le giornate o a lavorare o a rimanere
chiuso in cella, salvo un’ora all’aperto? E poi, siamo sicuri che sia giusto, e che serva, fare soffrire chi
ha fatto del male?
Facciamo finta che qualcuno di voi abbia fatto una cosa sbagliata, come picchiare la sorellina più
piccola o un altro bambino. La mamma potrebbe darvi qualche sculaccione, o punirvi in un altro modo,
oppure farvi vedere che avete sbagliato: da una parte spiegandovi che non si picchiano gli altri bambini,
perché sentono dolore, perché poi gli viene voglia di vendicarsi, dall’altra facendovi fare o vedere
qualcosa che vi dimostri che è ingiusto picchiare. Io credo che serva di più, per evitare che ci si picchi,
fare vedere perché è sbagliato, piuttosto che picchiare a propria volta o castigare in un altro modo. A voi
cosa succede, quando vi si castiga? Non pensate, qualche volta, di vendicarvi? Non vi viene in mente
di fare dispetti a chi vi ha castigato? Non rifate la cosa per la quale siete stati castigati quando siete
sicuri che nessuno vi vede? E, invece, se vi siete convinti che una cosa è sbagliata, non è più facile che
non la facciate più?
Per la nostra Costituzione la cosa più importante di tutte è che ogni persona sia rispettata, anche chi ha
commesso un delitto. Credo che sarebbe molto importante riuscire a recuperare queste persone, a fare
in modo che, una volta recuperate, rientrino nella società senza far più danni. Per questo l’articolo 27
stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono
tendere alla rieducazione del condannato”.
Colombo – Anna Sarfatti, Sei Stato tu? La Costituzione attraverso le domande dei bambini, Salani Editore