Il Notaio della memoria3. Novembre e pennelli

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Il Notaio della memoria3. Novembre e pennelli
Fuori programma: Il Notaio della memoria
3. Novembre e pennelli
Pubblico Ufficiale, professionista e imprenditore, ma anche uomo, o donna, nella sua
famiglia.
Il “Notaio della memoria” fu, fino al 1968, un nonno sui generis, il cui ricordo si salda a
quello di momenti familiari e, dato che amava molto la buona tavola, ad alcune pietanze di
casa, le cui ricette sopravvivono in un quaderno troppo sfogliato, con le pagine rigate ormai
ingiallite, sulle quali sono ancora ben leggibili i titoli numerati, vergati con belle iniziali e
inchiostro rosso, e le preparazioni, inchiostro seppia e corsivo sempre elegante.
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Di tutte le rituali occasioni di visita al nonno, quella di novembre era la meno affascinante.
Le festività dei Santi e il giorno di commemorazione dei defunti, allora festive entrambe
anche per gli scolari, offrivano l’opportunità di un ponte e di una rara vacanzina. Si diceva
che si andava “per i Morti” e un po’ triste il momento lo era davvero.
La nebbia, di quelle fitte fitte di una volta, si presentava puntuale. Il viaggio, rigorosamente
di primissimo pomeriggio per coglierla nel suo momento meno infido, metteva a nudo una
campagna spoglia, grigia, umida. I filari di alberi tra i campi e ai margini delle rogge e dei
viottoli con i rami disadorni, tra i quali spiccavano, come strani gomitoli, i nidi deserti di
uccelli, volati chissà dove.
Nei ricordi della nipote restano vivide le visite al Cimitero, il profumo di troppi fiori troppo
bagnati, il crepitare della ghiaia sotto i passi silenziosi dei vivi, ma nessuna di queste visite
fu in compagnia del nonno.
Di lui, novembre rammenta invece indelebilmente il dipingere. Una passione che il Notaio si
portava dalla gioventù e che aveva conosciuto il suo momento d’oro nel periodo tra le due
grandi guerre.
Risale all’inizio degli anni Trenta un incontro generoso di conseguenze per la sua vita e per
il suo talento del tempo libero. Impossibile trovare ora migliori dettagli per ricostruire i
luoghi con esattezza, ma di fatto lo Studio del nonno condivise per un periodo lo stesso
cortile dove si affacciava quello di Carlo Vittori (1), forse quello della casa del pittore.
Il pittore era di quasi vent’anni più vecchio ma i due divennero amici e condivisero tempo e
soggetti da dipingere: erano i paesaggi solenni e calmi del Po, gli scorci del lago di Como,
dove il nonno ospitava Vittori d’estate, era anche quel cortile del quale resta un olio del
nonno in un’inquadratura del vecchio portico appena più piccola di quella, del 1935,
pubblicata con il n.43 sul catalogo della mostra dedicata a Vittori nel 1999 “Paesaggio e
stati d’animo nell’arte lombarda del Novecento”.
Meno frequenti nella ricca produzione di Vittori, nelle nature morte il talento del nonno
trovava invece la sua vena più felice. Copiava oggetti di casa, alcuni dei quali ancora
esistenti, stoviglie, ortaggi e frutta, lavorando in una piccola stanza con una grande
finestra. Entrarvi rappresentava per la nipotina un onore speciale. Il profumo intenso della
trementina, i pennelli in un grosso boccale di peltro, tubetti di colore mezzo spremuti alla
rinfusa in una cassettina di legno, due cavalletti, le tavolozze di legno, nulla doveva essere
toccato. Soprattutto non dovevano essere neppure minimamente spostati gli oggetti che il
nonno stava ritraendo e, per un gioco dal copione ben defnito, la nipotina fingeva di toccare
qualcosa mentre lo teneva d’occhio: gli occhi erano severi, ma l’ombra di un sorriso
rassicurava entrambi della certezza che per niente al mondo la nipotina gli avrebbe
disubbidito. La nipote ritrovò un po’ della sua infanzia, molti anni più tardi, leggendo
dell’attenzione severa richiesta a Griet, “La ragazza con l’orecchino di perla” (2) per
togliere la polvere nell’atelier del pittore Vermeer dagli oggetti che stava dipingendo:
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doveva spostarli e poi rimetterli al loro identico posto come se non fossero stati nemmeno
toccati, compresi i drappi, da tamponare delicatamente per non modificare il disporsi delle
pieghe del tessuto.
Intanto, in cucina, le pietanze s’erano fatte già quelle dell’inverno. Cotture lunghe, che
riempiono l’aria di odori intensi e di vapori che sanno di buono. Per la ricorrenza dei defunti
non c’erano dubbi possibili: cotenne e fagiolini dell’occhio erano, e sono, il cibo della
tradizione, così descritto nel vecchio quaderno con le ricette di casa della bisnonna Bianca:
43°/ Cotiche e fagiolini con l’occhio (Fasuléen de ‘l’óc cun le
cùdeghe)
Fa bollire in acqua larga 15 once di fagiolini con l’occhio con sale, poi colali. Poni le cotenne
ben raschiate nell’acqua fredda e fai bollire lento un’ora, poi cola e tagliale a liste. Metti al
fuoco in una stufaiola di terra 2 once di burro e ponivi mezza libbra di cotenne, falle saltare
un po’, aggiungi un pugno di farina, bagnale con 1 bicchiere di marsala rimescola e tosto
mettivi un pizzico di sale e pepe nero e poco sugo. Copri con brodo e fai bollire a piccol
fuoco per 2 ore. Rimettivi i fagioli a sobbollire per 20 minuti e servi con fette di pane tosto.
(3)
(1)
(2)
(3)
Carlo Vittori, Cremona, 1881-1943
Tracy Chevalier, La ragazza con l’orecchino di perla, 1999, Neri Pozza Editore
L’oncia equivaleva a 28,35 grammi. Multiplo dell’oncia era la libbra, che corrispondeva a 453 grammi.
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