Mariano Fresta Il Venerdì santo e la religiosità popolare. La
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Mariano Fresta Il Venerdì santo e la religiosità popolare. La
Mariano Fresta Il Venerdì santo e la religiosità popolare. La rappresentazione della Passione e della Resurrezione del Cristo risale certamente ad epoca medievale. In un mondo di totali analfabeti, che non parlavano nemmeno più il latino, lingua della Chiesa, per raccontare le vicende del vecchio e del nuovo Testamento non restavano che i grandi affreschi nelle chiese (per esempio, quelli di Giotto ad Assisi) e la rappresentazione rievocativa e simbolica dei principali episodi della vita del Cristo (la Natività e la Passione soprattutto). Queste rappresentazioni drammatiche, che fino ad allora avevano avuto una struttura piuttosto elementare, furono successivamente rielaborate e teatralizzate al massimo nel secolo XVII, durante il trionfo del barocco. Furono soprattutto i Gesuiti che si servirono di queste forme teatrali che arricchirono con elementi realistici ed espressionistici e con spettacolari scenografie che dovevano con la loro imponenza rafforzare le convinzioni religiose delle classi popolari e nello stesso tempo dimostrare il potere e la potenza della Chiesa. Il racconto della Passione e della Morte del Cristo venne privilegiato, rispetto agli altri, perché più carico di pathos e perché la visione delle torture e di una lunga agonia e di una terribile morte rimane certamente più impressa nell’animo degli spettatori. Ed ecco le processioni interminabili dei membri delle Confraternite, incappucciati di nero o di bianco, i colori del lutto, che avanzano per le strade delle città e dei paesi portando in mano un lume tremolante e salmodiando il Miserere. La scelta di coinvolgere le Confraternite in queste processioni non era casuale; queste associazioni, infatti, nate per svolgere opere di pietà e di elevazione spirituale dei propri membri, avevano a che fare con la morte, occupandosi dei funerali e aiutando le famiglie povere colpite da gravi lutti; inoltre, durante il Venerdì santo, erano solite visitare i cosiddetti Sepolcri. E accanto a questa scenografia funebre imperniata sulle Confraternite, ecco le statue dell’Addolorata e di san Giovanni che precedono quella del Cristo morto. Molto spesso a queste statue sono assegnate azioni drammatiche ben precise e di grande effetto emotivo. La Madonna e san Giovanni, infatti, sono rappresentati mentre vanno in cerca di Gesù ( “Chi cercate?” tutti chiedono), ma lo trovano che è già morto. Di queste processioni imponenti e spettacolari di una volta, poco oggi è rimasto. Si citano spesso come esempi ancora in vigore le processioni di Siviglia, i riti della settimana santa di Trapani e di Taranto, ma si tratta ormai di episodi molto isolati che hanno solo un valore più turistico che religioso e che si confondono con le uova e le colombe pasquali. Nella nostra zona di queste manifestazioni non rimangono che pochissimi frammenti, come quelle di Sarteano (il Cristo incatenato alla colonna) e di Chiusi. Sull’Amiata c’era una tradizione (la “giudiata”) forse meno religiosa e più vicina a certe forme di rivendicazione sociale. Nella processione del Venerdì santo, infatti, la figura del Cristo era impersonata da un rappresentante della classe dei ricchi e dei potenti. Il popolo invece impersonava i giudei (in una visione piuttosto negativa degli Ebrei, allora avvalorata dalla stessa Chiesa, oggi fortunatamente sconfessata), che avevano partecipato alle torture del Cristo con sputi, lanci di pietre, percosse varie. I “giudei” amiatini ripetevano queste azioni e il povero “borghese” doveva sopportare queste offese senza fiatare, per scontare in qualche modo i soprusi che la sua classe esercitava sui ceti poveri. Ma le offese spesso non erano simboliche, gli sputi erano reali e le sassate ferivano veramente; al che la tradizione fu vietata dalle autorità alla fine degli anni ’30 del secolo scorso. Ancora forte è però la tradizione delle uova benedette: basta andare a Pienza per trovare in chiesa una enorme quantità di uova sode che aspettano la benedizione prima di essere mangiate dopo il Gloria della Resurrezione. Perché nella mentalità comune la vita vince sempre sulla morte, anzi non può esserci vita senza morte: ma questo è anche il valore più profondo del Cristianesimo (la morte del Cristo è garanzia per tutti di vita eterna), che però la cultura popolare traduce in un linguaggio tutto terreno: la continuità della vita e la sua eternità sono rappresentate dall’uovo, una cellula, anche se la più grande che esista, principio essenziale di ogni nuova vita. (Pubblicato su PRIMAPAGINA, Chiusi Pasqua 2004)