con la bussola socialista

Transcript

con la bussola socialista
CON LA BUSSOLA SOCIALISTA
Mozione presentata da Enrico Boselli in preparazione al V Congresso Nazionale straordinario SDI.
Il socialismo italiano ha varcato il secolo XXI per l’azione e la passione di chi, tra tante vicende drammatiche e con tanti
sacrifici personali, si è pervicacemente impegnato a mantenere vivo ed autonomo un movimento politico tra i più importanti
della storia d’Italia. Se questa impresa che poteva apparire impossibile in una situazione nella quale i socialisti erano
accerchiati dalla diffidenza o se non peggio dalla denigrazione è stata portata avanti, il principale merito spetta allo SDI che
ha continuato a rappresentare nella sinistra italiana, nell’Internazionale Socialista e nel Partito socialista europeo una
fondamentale tradizione politica. Abbiamo cercato di sviluppare la grande eredità dei nostri padri che fin dalla fondazione del
partito alla fine dell’Ottocento combattevano per la causa della classe operaia e bracciantile e per quella del popolo più umile
e diseredato, dando una speranza di un futuro migliore a chi non ce l’aveva. Questa storia dei socialisti è stato ricca di
apporti e di contributi: il libertarismo di Andrea Costa che ha raccolto il meglio della tradizione degli anarchici italiani; il
riformismo di Filippo Turati che ha indicato la via da seguire per il socialismo italiano; il femminismo d’avanguardia di Anna
Kulisciov che ha sostenuto il ruolo della donna in una condizione di assoluta parità con l’uomo; il municipalismo e il rigore
morale di un martire, come Giacomo Matteotti, che ha posto nel suo grande significato l’esperienza amministrativa delle
comunità locali e ha esaltato il valore ideale della politica; il liberalsocialismo di Carlo e Nello Rosselli che hanno costruito un
ponte ideale con i liberali riformatori, come sono stati Piero Gobetti, Gaetano Salvemini, Guido Calogero, Piero Calamandrei
e Norberto Bobbio; il federalismo europeo di Eugenio Colorni che, con la sua partecipazione all’elaborazione del ‘Manifesto
di Ventotene’ ha lanciato l’idea degli Stati Uniti d’Europa; il sindacalismo riformista di Bruno Buozzi che ha sempre lottato per
l’unità del mondo del lavoro; la socialdemocrazia europea di Giuseppe Saragat che è stato il rifondatore italiano
dell’Internazionale socialista a Francoforte nel 1951; l’idealità e la concretezza che deve avere la politica impersonata da
Pietro Nenni che è diventato il simbolo di tutta la storia socialista; l’antifascismo di Sandro Pertini che è stato un eroe della
Resistenza e il presidente della Repubblica più amato dagli italiani; la grande capacità strategica e programmatica di
Riccardo Lombardi che fu uno dei principali ideatori del centro sinistra, la ricerca dell’unità del movimento operaio da parte di
Francesco De Martino che s’impegnò sempre per far approdare la sinistra al riformismo; il meridionalismo di Giacomo
Mancini che fece della battaglia per il Sud il suo principale obiettivo; le iniziative per l’ampliamento dei diritti civili di Loris
Fortuna che hanno portato, assieme a Marco Pannella, all’introduzione del divorzio e dell’aborto in Italia; l’opera di
modernizzazione di Bettino Craxi che ha cercato di rinnovare la sinistra e affermare nel nostro Paese un grande spirito
d’innovazione. E’ trascorso più di un secolo.
Il mondo è cambiato. Senza i socialisti l’Italia non sarebbe diventata un paese moderno e civile. Ma ancora ci sono molte
cose da fare, da riformare e da innovare e per riuscire a farlo occorrono ancora una volta i socialisti. Come SDI abbiamo
avuto alleanze politiche e progetti comuni con tutti i riformisti italiani, dai cristiani democratici di sinistra ai liberali riformatore,
agli ambientalisti e ai radicali, ma non abbiamo mai perso la bussola del socialismo europeo ed internazionale. Nello
svolgere il nostro Congresso a Fiuggi, i socialisti non si apprestano a concludere, ma a continuare quella che una delle più
belle storie d’Italia
Le rivoluzioni in corso
Le trasformazioni in atto nelle società contemporanee richiedono una sempre maggiore capacità di innovazione.
I nuovi fenomeni si presentano con la caratteristica di vere e proprie rivoluzioni: la diffusione e crescita delle tecnologie
informatiche; la sempre più radicale riduzione delle distanze geografiche e le conseguenze di tale riduzione in ambito
economico e politico (crisi dello stato-nazione); le progressive scoperte scientifiche nel campo delle bio e delle nanotecnologie; l’aumento incontrollato della popolazione; le massicce migrazioni e la trasformazione delle nostre società,
sempre più multietniche e multireligiose; l’aumento delle disparità sociali, legato da un lato alla crisi dei modelli classici di
stato sociale, dall’altro alle trasformazioni profonde del mondo del lavoro, progressivamente spogliato dalle sue
indispensabili tutele; infine, i preoccupanti cambiamenti climatici e ambientali. Siamo di fronte a processi che impongono alla
politica un vero e proprio mutamento di paradigma, e non solo un adattamento della nostra visione della società. Come è
accaduto agli albori del capitalismo industriale, una fase nuova è sempre segnata da resistenze, antagonismi, ritorni
all’indietro. Ci troviamo di fronte ad un mondo che avanza e nel quale però non automaticamente vi sarà più libertà, più
giustizia sociale, più benessere, più sicurezza e più pace. Anzi, nel corso di una rapida accelerazione del cambiamento,
aumentano vertiginosamente le disuguaglianze sociali, si restringono e si spostano i centri di decisione e vi è una
acutizzazione dei conflitti sociali, interetnici, religiosi e geopolitici.
Tuttavia, sarebbe un errore colossale fare un’opera di pura resistenza al cambiamento. Si tratta invece di mutamenti che, se
contrastati nelle loro derive negative, possono determinare un miglioramento delle condizioni di vita su scala planetaria. In
questo contesto è difficile segnare linee di demarcazione tra chi è l’alleato e chi è l’avversario, come è avvenuto con le
concezioni più semplicistiche della lotta di classe tra proletari e capitalisti. È lo stesso carattere che assumono le
trasformazioni in atto a rendere i movimenti della politica assai più complessi. Le semplificazioni, come quella della lotta alle
multinazionali, ripropongono in una nuova veste antichi schemi ideologici come quello della lotta antimperialistica. In realtà,
non esistono poteri buoni e poteri cattivi: ciò che conta è che qualsiasi potere sia bilanciato da pesi e contrappesi, muoversi
secondo criteri di trasparenza e senza violare le regole.
È cambiata, inoltre, la scala dei valori e degli interessi. Le cittadine e i cittadini non avvertono più come esclusiva la
dimensione del lavoro, ma sono sempre più interessati a tutti gli aspetti che concernono la qualità della vita, la salute, il
sesso, la famiglia, le conoscenze reciproche, la comunicazione. Non si può pensare di costruire un blocco sociale che si
contrapponga ad un altro. Le classi, i ceti, le differenze professionali, gli orientamenti valoriali e sessuali fanno parte di una
società che, e non a torto, è stata definita “liquida” per il superamento delle rigidità conosciute nel secolo scorso. Si tratta,
invece, di rivolgersi a tutti sulla base di obiettivi che non assomiglino ad un libro dei sogni, ma costituiscano i cardini
essenziali di un programma di governo. Come è accaduto già altre volte, di fronte a processi che mettono in crisi tradizioni,
morale, costumi e stili di vita, si determinano forti reazioni che vogliono bloccare qualsiasi novità perché in contraddizione
con apparati cristallizzati di tipo dottrinale. Contro i segni positivi che emergono dalle trasformazioni in atto, si ergono da più
parti fondamentalismi ideologici e religiosi di vario tipo, che si presentano come i difensori di un mondo fatto di antiche
certezze ormai destinate ad andare in frantumi.
Dopo l’11 settembre una nuova epoca
Su scala planetaria, dopo il crollo dei regimi comunisti dell’Est europeo, è emerso un nuovo pericolo costituito dal
fondamentalismo islamico e dalle sue ramificazioni terroristiche. Con l’11 settembre si è verificato un punto di svolta su scala
planetaria. Le risposte date dall’amministrazione Bush si sono fondate su azioni unilaterali, senza un adeguato
coinvolgimento preventivo delle Nazioni Unite. L’approccio multilaterale seguito nel caso dell’Afghanistan, purtroppo, non è
stato adottato anche nel caso dell’Iraq. Si tratta invece di un approccio che deve essere seguito sempre, senza eccezioni. La
lotta al terrorismo è un impegno collettivo della comunità internazionale. Non si può escludere in assoluto il ricorso all’uso
della forza, ma il terrorismo si contrasta innanzitutto con l’isolamento politico e con la soluzione dei problemi delle aree
esposte a maggiori tensioni e crisi, come in Medio Oriente per quanto riguarda il contenzioso israeliano-palestinese. Occorre
tuttavia essere consapevoli che, nel caso del terrorismo di matrice islamica, le cause non possono essere ricondotte
unicamente all’irrisolto problema palestinese o a locali fenomeni di disagio politico, economico e sociale, ma anche ad un
fondamentale e più generale problema di adattamento di alcune correnti dell’Islam alla modernità. In questo contesto, Israele
si trova oggi in una situazione di gravissima difficoltà, dovuta essenzialmente a due variabili: le imprevedibili conseguenze
della crisi senza fine in Iraq, ed il fattore demografico legato alla crescita della popolazione palestinese nei territori occupati e
nello stesso Stato di Israele. Vi sono due popoli che hanno entrambi ragioni da far valere: va garantito non solo il diritto
all’esistenza ma anche alla sicurezza per lo Stato di Israele; ma questa aspirazione è indissolubilmente legata alla creazione
di uno Stato palestinese vitale, indipendente e con continuità geografica. Preoccupazione suscita la politica del governo
iraniano, che non si limita ad odiosi proclami antisemiti, ma che non offre le adeguate garanzie circa la natura veramente
pacifica del suo programma nucleare. Nei confronti dell’Iran vanno utilizzati innanzitutto tutti gli strumenti della pressione
politica e diplomatica, senza tuttavia rinunciare al dialogo. Sarebbe, invece, assai pericoloso mettere in opera un attacco
aereo sulle centrali nucleari, come stanno ipotizzando la Casa Bianca e il Pentagono.
Dopo gli strappi del governo Berlusconi, il nostro paese è tornato a guardare all’Europa come il punto di riferimento primario.
L’Italia sta svolgendo un ruolo di notevole importanza nella regione mediorientale, a cominciare dalla presenza delle nostre
forze armate in Libano. La conferma del nostro impegno in Afghanistan e lo stesso ampliamento della base militare di
Vicenza, scelte contestate dall’estrema sinistra in nome soprattutto dell’antiamericanismo, dimostrano che è possibile, anche
in dissenso con alcune scelte dell’amministrazione Bush, condurre comunque una politica di cooperazione con gli Stati Uniti,
ai quali siamo in ogni caso legati, a prescindere dalle maggioranze politiche e dai Governi, da una serie di valori condivisi.
Su questi come su altri temi l’Europa, un’Europa veramente unita, può fare la differenza facendo valere sia nell’ambito del
cruciale rapporto transatlantico con gli Stati Uniti, sia nelle diverse crisi regionali, il proprio patrimonio di valori e di cultura
politica. Solo se i paesi europei saranno in grado di ritrovare le ragioni fondamentali della costruzione europeista, dopo le
battute d’arresto dei referendum francese e olandese, l’Europa sarà in grado di giocare nell’arena mondiale quel ruolo che
giustamente le spetta e che la stragrande maggioranza dei paesi del mondo sollecita e reclama. In un mondo nel quale si
riaffaccia la barbarie del terrorismo, ma dove talvolta gli strumenti per contrastare tale fenomeno violano la nostra cultura e
civiltà giuridica, la difesa dei diritti umani assume sempre più una valenza prioritaria. La campagna per la moratoria per la
pena di morte costituisce un forte impegno morale e politico, una grande battaglia di civiltà, di cui l’Italia si è di nuovo fatta
interprete dinanzi alle Nazioni Unite. I socialisti non hanno mai fatto mancare la propria solidarietà a chi è oppresso da
dittature e da sistemi totalitari. Ciò che valeva per le dittature reazionarie e i regimi comunisti dell’est europeo vale oggi per
quasi tutti i paesi islamici, per quelli asiatici, tra cui la Cina, e per altri in via di sviluppo. La diffusione dei commerci e della
globalizzazione non contrasta con questa impostazione. Attraverso l’intensificazione degli scambi, si favorisce una diffusione
di informazioni e di relazioni, che può provocare un allentamento delle azioni repressive contro il dissenso politico e favorire
il dialogo che, seppur perseguito a fini egoistici, risulta poi socialmente benefico.
Il commercio può essere un veicolo di libertà. I diritti umani non negoziabili della persona valgono all’Est come all’Ovest, al
Nord come al Sud. Non si può efficacemente difendere la democrazia liberale se ne vengono calpestati i principi
fondamentali, come accade a Guantanamo (e altrove), dove vi sono reclusi senza alcuna delle garanzie basilari del nostro
patrimonio giuridico. La tutela dei diritti umani è un esempio di come il relativismo culturale non implichi relativismo etico:
anzi, l'etica laica, assunta da credenti e non credenti come riferimento nella sfera pubblica, conduce a principi non
contrattabili pur essendo fondata sulla ragione. Non possono essere dimenticati i problemi della salvaguardia dell’ambiente e
dei cambiamenti climatici, con i quali siamo inevitabilmente chiamati a confrontarci. Sono questi i temi in cui probabilmente,
negli anni a venire, ci verranno chiesti i sacrifici maggiori, nella consapevolezza che essi saranno cruciali per assicurare la
salvezza del nostro pianeta. Gli strumenti e i rimedi esistono già, si tratta di avere la determinazione ed il coraggio per
attuarli.
Le virtù e i vizi dell’Italia
In un’età di incertezza e insicurezza, ridare fiducia è il principale compito che spetta a tutte le forze democratiche. Infondere
ottimismo nei cittadini è la vera sfida del riformismo, proprio perchè trasformare le fragilità in paura è la più insidiosa strategia
del conservatorismo. Si tratta di un’impresa che in Italia non sembra alla portata delle classi dirigenti, sia al governo come
all’opposizione. Il centro sinistra, che ha vinto con uno scarto minimo le elezioni, è diviso politicamente ed è privo di una
comune volontà di cambiamento. L’opposizione è altrettanto frazionata e vive con un profondo travaglio il lento tramonto,
troppo presto annunciato, della leadership di Berlusconi. Dopo il collasso del vecchio sistema politico, si è diffusa una
sfiducia profonda verso i partiti, che non ha equivalenti negli altri paesi dell’Europa occidentale. Non c’è campagna promossa
contro la classe politica, i suoi privilegi veri e presunti, i suoi difetti e le sue incapacità, che non raccolga un grande favore
popolare. Nonostante il grande afflusso di elettrici e di elettori alle urne, con primati da record in Europa, il rapporto di
cittadine e cittadini con le istituzioni rappresentative non è mai stato così difficile. Tuttavia, il rilievo dato ai problemi personali
non costituisce una riscoperta del valore della responsabilità individuale, ma è sovente espressione di un rinnovato
arroccamento a difesa di interessi corporativi, localistici e familistici, che costituiscono mali secolari dell’Italia. Manca una
piena consapevolezza dell’appartenenza ad una comunità nazionale. Persiste una contrapposizione tra il proprio interesse
egoistico e quello generale. Il particolarismo, che ha pesato sempre sull’Italia e che ci ha fatto arrivare con secoli di ritardo
all’unità nazionale, è ancora il fattore dominante e condizionante il progresso della nostra società. Eppure le caratteristiche
dell’Italia, il paese dei mille campanili, non sono solo difetti, ma anche grandi potenzialità. Le nostre città a dimensione
umana non sono solo forti fattori di tenuta sociale di fronte alla crisi delle megalopoli, ma anche comunità nelle quali si
esprime una grande vivacità culturale. La rete delle piccole e medie imprese, che sono una caratteristica fondamentale
dell’economia italiana, ha assicurato un alto grado di flessibilità prezioso per affrontare il mercato. Allo stesso modo, il
grande valore del nostro patrimonio artistico e naturale costituisce una risorsa fondamentale. Tuttavia, di fronte alle grandi
trasformazioni in atto, l’Italia appare un paese nel quale non vi è lo slancio necessario per affrontare le nuove sfide. È in
ritardo la politica, così distante dall’Europa occidentale, di cui l’Italia ha sempre fatto parte. È in affanno l’economia, che
troppo lentamente si allontana da una produzione basata su settori tradizionali. Riesce a dominare la scena dei commerci
internazionali la moda e ad essere presente nel mercato la nostra originalità architettonica. Le piccole e medie imprese,
tranne lodevoli eccezioni, non riescono a mettersi insieme per sostenere gli investimenti necessari alla ricerca e dotarsi di
consistente risorse finanziarie. Nel campo delle nuove tecnologie non riusciamo a svolgere alcun ruolo se non quello di
consumatori. La struttura dei grandi gruppi industriali è ancora fondata prevalentemente su basi familiari, quasi le stesse del
secolo passato; per di più, viviamo il retaggio di un capitalismo assistito, affiancato da un’industria pubblica e a
partecipazione statale che spesso ha rappresentato l’unico asse delle sfide economiche del nostro Paese. Di fronte ad un
cambiamento così rapido e incessante, che è avvenuto dopo il crollo del Muro di Berlino, l’Italia ha chiuso un capitolo della
propria storia senza avere la forze, e forse il coraggio, di aprirne uno completamente nuovo.
Laicità e diritti civili
Il ruolo della Chiesa come potere temporale, a differenza degli altri paesi europei, come la Francia o la Germania, grava
ancora sul destino del nostro paese. Anche la Spagna, grazie all’iniziativa di Zapatero, si è emancipata dalla sorveglianza
speciale delle gerarchie ecclesiastiche. In Italia la laicità fa ancora scandalo, e viene retrocessa a “laicismo” di sparuti
drappelli anticattolici. Basti pensare a come è stata trattata la posizione del gruppo parlamentare della Rosa nel Pugno in
occasione della scorsa finanziaria, in favore dell’avvio di rapporti più corretti tra la Chiesa e lo Stato, attraverso, ad esempio,
l'eliminazione di ingiuste esenzioni fiscali per le attività commerciali o l'attribuzione allo Stato dell'8 per mille di quei
contribuenti che non esprimono alcuna preferenza, provvedimenti prontamente rifiutati anche dalla nostra maggioranza. La
battaglia per l’estensione dei diritti civili, sulla ricerca, sul contrasto del mercato della droga deve essere portata avanti sulla
base di alcuni punti fondamentali:
-
semplificazione delle procedure e riduzione dei tempi per ottenere il divorzio;
-
riconoscimento delle Unioni di fatto dello stesso sesso o di sesso diverso;
-
possibilità di ricorso all’aborto farmacologico;
-
libertà della ricerca scientifica e di procreazione medicalmente assistita sul modello britannico;
-
eutanasia e testamento biologico: legalizzazione, regolamentazione e controllo della somministrazione, nei casi
terminali, di farmaci contro il dolore anche se ad elevato rischio, interruzione del mantenimento artificiale in vita, nei casi
di coma profondo e irreversibile e comunque in quelli in cui non vi sia un ulteriore aspettativa di vita che non sia
puramente vegetativa: la scelta deve essere espressamente indicata in un apposito testamento biologico da prevedere
per ogni cittadino;
-
legalizzazione dei derivati della cannabis e sperimentazione della somministrazione controllata dell’eroina come avviene
in Olanda e in Svizzera; - prostituzione: legalizzazione, regolamentazione e controllo.
La stessa questione, posta da socialisti e radicali, di una abolizione del Concordato, che è stata interpretata strumentalmente
come un attacco alla Chiesa cattolica, nasce dalla constatazione che in una democrazia liberale, come è la nostra, dove non
può esistere una religione di Stato, la libertà di culto è già assicurata da una più generale libertà di espressione. Solo così si
ha “Libera Chiesa e libero Stato”
La sinistra riformista è in crisi
Questa arretratezza culturale e politica dell’Italia, che ha lontane e forti radici storiche, ha sinora impedito l’affermazione di
forze politiche di ispirazione socialista, come di quelle di impronta liberale. La geografia politica italiana durante la storia della
Repubblica è stata sempre diversa da quella delle grandi democrazie occidentali. Lo era ieri, lo è oggi. Nonostante siano
esistite correnti liberali e socialiste di grande vivacità culturale, il nostro Paese è stato, e per troppo tempo, dominato da un
cattolicesimo integralista, pervasivo della nostra cultura e della nostra politica, come di un comunismo che si presentava con
una forza ideologica totalizzante tale da sfidare quella della Chiesa. Di questa lettura, espressa per altro in chiave positiva, si
fece interprete un cattolico e comunista come Franco Rodano. È vero, pur tuttavia, che nel mondo cattolico sono emerse
personalità, come quella di Alcide De Gasperi, che si sono impegnate a legare la sorte dell’Italia a quella delle altre
democrazie europee e americana. Le fortune politiche ed elettorali del Pci sono sicuramente dovute al realismo togliattiano
che, pur mantenendo un legame di ferro con l’Unione sovietica, si è adattato strettamente al terreno culturale nel quale
l’Italia si è sempre adagiata. La formula berlingueriana, che descriveva il Pci come un partito insieme conservatore e
rivoluzionario, dà ancora oggi una interpretazione assai efficace di quello che è stato l’approccio togliattiano. Se il vecchio
sistema politico è andato in crisi, non si sono neppure poste le premesse per arrivare a un nuovo assetto. Le antiche forze
politiche si sono divise e talune, come i socialisti, disperse. È venuta meno la stessa tenuta istituzionale del nostro sistema.
La rivoluzione giudiziaria non si poteva concludere e non si è conclusa con la nascita di un sistema politico più sano e
trasparente e con un effettivo ricambio delle classi dirigenti, ma ha aperto un processo convulso che da una parte ha aperto
le porte al populismo berlusconiano, dall’altra ha provocato una frantumazione politica senza precedenti. Non si è avuta
quella evoluzione, che pure da tanto tempo ci si aspettava, la creazione cioè di un grande partito socialdemocratico di tipo
europeo, formato in primo luogo dal Psi, dal Psdi e dalla maggioranza del Pci da un lato, e di un partito cristiano democratico
dall’altro, secondo uno schema simile alla Germania. E la responsabilità è in primo luogo della sinistra e dei suoi leader.
Craxi, pur essendo stato protagonista di grandi innovazioni, non ha compreso la portata dei rivolgimenti dell’Ottantanove,
come Nenni non capì quelli del ’48. Occhetto, pur avendo capito la necessità di una rottura con il comunismo, ha pensato di
costruire le sue fortune sulla distruzione di tutti i partiti che avevano sino ad allora governato, compresi il Psi e il Psdi. La
dura replica della storia è che oggi la sinistra riformista si riduce ai Ds, che hanno qualche punto in percentuale in più del Psi
di Craxi, e allo Sdi, che ha un po’ meno del peso elettorale del Psdi. È stata questa situazione della sinistra riformista, che da
sola non è in grado di offrire un’alternativa di governo, a portare, in funzione antiberlusconiana, ad un’alleanza assai larga ed
eterogenea, che va dall’estrema sinistra comunista agli eredi della sinistra democristiana, capace di vincere ma non di
governare.
Un compromesso storico bonsai
È in questa situazione che è stato concepito il progetto dell’Ulivo. Al fondo di questa idea c’è stata l’aspirazione a superare le
persistenti anomalie della politica italiana. Si trattava di un’operazione che non puntava a rincollare i vecchi cocci, ma a
costruire una novità politica di straordinario rilievo. Di questo progetto la creazione della Margherita costituiva un momento
fondamentale. Il centro sinistra, rappresentato da una Quercia contornata da cespugli, non poteva avere grandi capacità di
attrazione, soprattutto nell’elettorato di centro, determinante in un sistema bipolare per far pesare il piatto della bilancia da
una parte o dall’altra. Le ripetute crisi del Ppi facevano ipotizzare una scomparsa salutare di un partito cattolico, ma
ponevano il problema di come utilizzare in chiave laica le energie intellettuali e politiche che questo straordinario
superamento di un approccio religioso alla politica sprigionava. Si trattava, quindi, di costruire una nuova casa nella quale si
potessero ritrovare riformisti di diversa provenienza, dai liberali progressisti ai cristiani democratici di sinistra, agli
ambientalisti e ai socialisti. Questa nuova formazione non doveva però essere fine a se stessa, ma divenire il prototipo di un
grande partito riformista che comprendesse anche i Ds. Sin dall’inizio, però, questa operazione ha mostrato i suoi limiti. La
Margherita è apparsa sin dalla sua fondazione un partito troppo segnato da una larghissima presenza della sinistra
postdemocristiana, a cui si contrapponeva una scarsissima incidenza delle altre componenti riformiste. Il fattore
fondamentale che avrebbe dovuto impedire alla Margherita di diventare un nuovo partito cattolico era costituito dalla guida di
Rutelli che non veniva dalla storia della Dc e che aveva allora un profilo nettamente laico, pur avendo da qualche tempo
dichiarato di essere cattolico. È stato invece proprio Rutelli, per emanciparsi da Prodi e acquisire un controllo del nuovo
partito, a sospingere la Margherita verso lidi confessionali. Questo processo ha avuto la sua fase più significativa, e in un
certo senso conclusiva, con l’adesione di Rutelli all’invito fatto dal presidente della Cei, cardinale Ruini, ad astenersi
dall’andare a votare per il referendum sulla fecondazione assistita. Con questo atto, sia pur allora formulato a titolo
personale, si è consumata la trasformazione della Margherita in partito cattolico. Con questa scelta è entrato definitivamente
in crisi il progetto originario dell’Ulivo, che presupponeva il superamento della questione cattolica. La ripresa dell’Ulivo
avviene, quindi, su nuove basi completamente diverse. Diventa un accordo politico tra un partito cattolico, com’è la
Margherita, e un partito postcomunista, come sono i Ds: è un compromesso storico bonsai. Non è, quindi, una novità ma la
somma di quel che resta di due antiche tradizioni della storia della nostra Repubblica non fa una novità, è un regresso nel
passato. E’ questo il principale motivo per cui lo Sdi, pur invitato a parteciparvi, non aderisce alla nuova formazione. Il Partito
democratico avrebbe potuto essere un’esperienza originale, legata alla spinta in atto nella socialdemocrazia europea per
andare oltre i suoi confini tradizionali. Lo Sdi non ha mai posto come pregiudiziale l’adesione del nuovo partito democratico
al Pse, nella convinzione che non ci sarebbe potuto essere altro riferimento se non la socialdemocrazia, la più importante
forza politica riformista in Europa.
La Costituente socialista
Oggi il partito democratico, con al suo interno una componente di cattolici che fanno politica in quanto cattolici e sono
sensibili, se non proclivi, agli orientamenti della gerarchie ecclesiastiche, non si pone in una posizione più avanzata, ma
molto più arretrata rispetto alla socialdemocrazia europea. Anche per questo motivo è tornata sulla scena politica italiana la
questione socialista. È un richiamo che è venuto da alcuni di coloro che sono rimasti delusi dal modo in cui si sta costruendo
il Partito democratico, come Angius e Zani, e da coloro che da diverse posizioni, come Emanuele Macaluso, rigoroso
riformista, e come Fabio Mussi, non credono all’idea dell’Ulivo. Come Sdi non solo non possiamo mantenere un
atteggiamento di indifferenza rispetto a questa riproposizione della questione socialista, ma dobbiamo impegnarci
attivamente in un confronto nel quale, non solo per il fatto di essere eredi della storia del movimento socialista ma anche per
la nostra appartenenza all’Internazionale socialista e al Pse, siamo un interlocutore fondamentale, caricato oggi da nuove
responsabilità. Da parte nostra non c’è alcuna volontà di fomentare scissioni nella sinistra italiana. Casomai siamo stati
ripetutamente oggetto di iniziative di questo tipo, messe in atto allo scopo di dividere il movimento socialista. Il confronto che
vogliamo promuovere non parte solo dall’esigenza di colmare un vuoto che si aprirebbe se i Ds confluissero con la
Margherita in un partito che non aderisse al Pse, ma anche dalla necessità di svolgere un ruolo indispensabile di critica e di
stimolo per un rinnovamento effettivo della sinistra italiana. Con la corrente di Fabio Mussi vi sono divergenze politiche che
non nascondiamo. Vi sono, però, convergenze significative nella difesa dei principi di laicità, nell’ampliamento dei diritti civili,
a cominciare dal riconoscimento delle unioni di fatto, e soprattutto dal comune riferimento alla socialdemocrazia europea.
Del resto appare paradossale che proprio chi ci critica per l’apertura di questo nostro confronto considera essenziale però
che la corrente di Mussi faccia parte del nuovo Partito democratico. Questo percorso non significa per lo Sdi l’arroccamento
in un recinto dove coltivare la “fede socialdemocratica”. La socialdemocrazia europea non si identifica, infatti, con un
apparato dottrinale. Noi abbiamo sempre condiviso l’idea di costruire una grande forza riformista. Quindi, a partire da un
forte riferimento socialista che innanzitutto faccia ritrovare l’unità dello Sdi con il Nuovo Psi di Gianni De Michelis e con i
socialisti di Bobo Craxi, bisogna aprire un processo aperto a tutte quelle componenti progressiste, dai liberali riformatori agli
ambientalisti riformisti, che non si ritrovano nel Partito democratico così come Fassino e Rutelli lo stanno costruendo. La
stessa esperienza della Rosa nel Pugno, che vive ancora come alleanza elettorale e come azione comune nel Parlamento e
nel governo, è importante sia per le iniziative portate avanti con coerenza dai socialisti sia per le battaglie condotte con
coraggio dai radicali. Il confronto critico con il Partito democratico non verterà su dispute ideologiche tra chi è più ortodosso e
chi lo è meno rispetto al Pse. Si svolgerà, invece, sulla natura e sui programmi del nuovo Partito democratico e sul grado di
compromesso a cui saranno soggetti i principi fondamentali della socialdemocrazia europea.
La socialdemocrazia europea è all’avanguardia
La via che conduce ad una costituente socialista passa per il terreno riformista. La socialdemocrazia, infatti, ha un profilo
assai avanzato ed innovativo, esprime piattaforme riformiste di notevole valore e si pone in una posizione di apertura verso
le sfide della globalizzazione. Riscoprire la questione socialista quindi, significa assumere come base un riformismo assai
simile a quello degli altri partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti dell’Europa occidentale. La socialdemocrazia è la
principale forza riformista in Europa, perché è riuscita continuamente ad aggiornare la propria visione della società e la
propria piattaforma programmatica alle trasformazioni che hanno attraversato più di un secolo di storia. Il modello dello Stato
sociale, che è stato uno dei più grandi fattori di civilizzazione del ventesimo secolo, costituisce ancora oggi un riferimento
fondamentale che caratterizza il modello sociale europeo rispetto a quello nordamericano. I socialdemocratici si basano su
una visione dello sviluppo sostenibile che assicuri la piena occupazione, eviti che si creino emarginazione ed esclusione
sociale, soddisfi i bisogni della generazione attuale senza compromettere le condizioni di vita di quelle future. Questa è l’idea
che i socialdemocratici pongono alla base di una “Nuova Europa sociale”, che è la meta indicata dal Congresso del Pse di
Oporto. Le trasformazioni in atto creano un grande potenziale per il miglioramento delle nostre società. Nello stesso tempo si
avvertono i rischi e le incertezze che le trasformazioni possono indurre in tutti i campi. Questa visione delle cose porta a
considerare la necessità di un cambiamento dello Stato sociale per adeguarlo a nuove necessità e a nuovi bisogni. La
socialdemocrazia europea non è più legata a una scelta di classe, ha da tempo accettato l’economia di mercato e i principi
della democrazia liberale. Conferma i principi di giustizia sociale e di solidarietà, ma nello stesso tempo vuole valorizzare la
responsabilità individuale. Non pensa più a costruire un grande Stato che regoli l’economia e la finanza secondo un disegno
politico calato dall’alto. Il mercato non viene visto come un puro strumento di allocazione delle risorse. Il mercato è istituzioni,
tradizioni, cultura, autorità indipendenti di controllo, regole. Questo approccio della socialdemocrazia europea, che è
maturato già alla fine dello scorso secolo, pone al centro della sua impostazione la necessità di contrastare nuove forme di
esclusione dal lavoro, e di assicurare pari opportunità per tutti, come recita lo slogan europeo per il 2007. Considera
fondamentale il ruolo delle donne, l’educazione dei bambini, l’integrazione dei disabili, l’uguale dignità tra coloro che hanno
identità di genere o orientamenti sessuali diversi, il rispetto dei diritti fondamentali per tutti. La socialdemocrazia è a favore
della competizione tra le imprese e contro la formazione di monopoli e di oligopoli, per la cooperazione tra gli Stati e la
solidarietà tra i cittadini. La tutela dell’ambiente è stata sempre un cardine dell’azione dei partiti socialdemocratici, fin da
quando l’ex premier norvegese Brundtland promosse la conferenza mondiale di Rio e sostenne la necessità di uno sviluppo
sostenibile. La socialdemocrazia considera un dovere dello Stato assicurare un sistema di istruzione che sia inclusivo ed
eccellente. La socialdemocrazia europea non è quindi una vecchia forza appesa al passato, ma uno dei principali
protagonisti dell’innovazione politica in Europa.
Scuola e ricerca sono la priorità
In Italia, riscoprire la questione socialista significa contrastare da posizioni innovatrici il conservatorismo che ancora è forte
nell’estrema sinistra. Nel nostro Paese non si riesce a portare avanti una trasformazione dello Stato sociale, le cui risorse
sono assorbite principalmente da pensioni e sanità. Occorre, invece, prendere atto dei cambiamenti che sono intervenuti, a
cominciare dall’esigenza di assicurare flessibilità e sicurezza nel mercato del lavoro. Finora nel nostro Paese si è
incrementata la flessibilità, ma senza introdurre un nuovo sistema di ammortizzatori sociali, come indicava Marco Biagi nel
suo “Libro Bianco”, e come, ad esempio, accade in Danimarca, dove esiste un ancora più elevato livello di flessibilità, ma
non altrettanto disagio sociale. Occorre ribadire ai conservatori di destra e di sinistra che la flessibilità dell’impiego può e
deve essere separata dalla precarietà del reddito, grazie all'intervento dello Stato, attraverso efficaci ammortizzatori sociali.
Va sviluppata quindi una politica che si proponga la sicurezza e il pieno impiego nel mondo del lavoro secondo criteri che
ormai sono accolti da tutta la socialdemocrazia europea, con un passaggio il più possibile rapido dalla perdita di un lavoro ad
uno nuovo, minimizzando i rischi di perdita del reddito, massimizzando la formazione di nuove competenze professionali e
puntando ad attivare la responsabilità individuale. L’obiettivo della flessibilità è garantire il rapido e possibilmente indolore
trasferimento di risorse e persone da attività in crisi a settori e imprese in crescita, al fine di assecondare e favorire il
progresso tecnologico, vera fonte di ricchezza per tutta la società. È dunque necessario operare una redistribuzione delle
risorse oggi destinate allo Stato sociale, a cominciare dalla previdenza. È importante ricordare che non si tratta di un diktat
arbitrario dell'Unione Europea. Di fatto, l’Italia ha una spesa sociale complessiva comparabile a quella dei maggiori paesi
europei, mentre è diverso il peso delle varie componenti, con un pesante ritardo per gli ammortizzatori sociali, dei quali la
Cassa Integrazione rappresenta il principale se non l’unico elemento, neanche accessibile a tutti i lavoratori. La spesa per le
pensioni, già superiore alla media europea, è destinata a crescere ulteriormente, a danno dei giovani che lavorando
dovranno pagarle a genitori e nonni che già lasciano in eredità un enorme debito pubblico. Noi ci proponiamo di indicare
alcuni punti essenziali:
-
innalzare l’età pensionabile a sessant’anni ad esclusione dei lavoratori manuali, e puntare ad una soglia ancora più
elevata, attraverso una scelta volontaria dei lavoratori, in un processo basato su incentivi e disincentivi; - equiparare
l’accesso alla pensione tra uomini e donne;
-
aumentare le pensioni minime, che sono spesso al di sotto dei livelli di sussistenza. Ammortizzatori sociali moderni non
significa solo contributi monetari, ma anche fornitura di servizi efficaci e di qualità. Il vero sostegno alla famiglia
consisterebbe nel garantire la conciliazione della vita familiare e lavorativa delle donne, sostenendo gli anziani non
autosufficienti e costruendo più asili nido, non nel regalare pochi spiccioli in assegni familiari, che certo non
contribuiranno a facilitare il lavoro delle donne, né le incentiveranno ad avere più figli. Consideriamo fondamentale
l’impegno per la ricerca, la formazione e l’innovazione, secondo la tanto osannata e poco applicata agenda di Lisbona.
Occorre mettere mano ad una grande riforma del sistema di istruzione scolastico ed universitario secondo alcune
direttrici fondamentali:
-
un ciclo decennale di studi, dai cinque ai quindici anni, unitario e uguale per tutti;
-
un ciclo triennale di licei differenziato secondo grandi comparti, dal classico allo scientifico, dall’artistico al tecnico;
-
corsi di formazione gestiti dalle Regioni, di durata triennale che, previo un esame di ammissione, possano comunque
consentire l’accesso all’università;
-
difesa della centralità della scuola pubblica statale e libertà per le scuole private, paritarie e non, ma senza oneri per lo
Stato;
-
sostituire l’attuale insegnamento della religione con un corso di storia delle religioni che non abbia un approccio
dottrinale ma un’impostazione aperta.
-
un sistema universitario misto tra pubblico e privato, che crei concorrenza tra diversi atenei;
-
progressivo trasferimento di parte del costo dell’istruzione universitaria dalla fiscalità generale a coloro che ne
usufruiscono, attraverso mutui trentennali ad interessi zero;
-
mantenimento del valore legale del titolo di studio per l’istruzione primaria e secondaria e abolizione di quello per
l’istruzione universitaria;
-
abolizione degli ordini professionali con una liberalizzazione che si fondi sul mercato e in alcuni casi, come per i medici,
su un’abilitazione fatta con esami di Stato gestiti dallo Stato.
-
una forte crescita della formazione continua degli adulti e il ricorso estensivo all'aggiornamento professionale dei
lavoratori come strategia competitiva per le aziende e di formazione del cittadino per la società. Il sistema sanitario deve
essere notevolmente migliorato. Vanno drasticamente ridotte le liste di attesa, migliorata l’assistenza soprattutto nei
confronti degli anziani e, tra questi, in particolare di quelli non autosufficienti, incrementata la ricerca nel campo della
salute e migliorata la prevenzione. La sanità deve restare pubblica, introducendo fattori di concorrenza tra le diverse
strutture. La politica per gli alloggi, soprattutto per le nuove famiglie, dopo essere del tutto sparita, deve tornare ad
essere un punto fondamentale delle iniziative di governo nel nostro Paese:
-
vanno promossi programmi di costruzione di alloggi con fitti accessibili e con la possibilità, attraverso mutui, di acquisirne
la proprietà;
-
va dato un sostegno ai redditi più bassi, soprattutto nelle grandi città, per gli affitti delle case;
-
va progressivamente abolita l’Ici sulla prima casa;
-
va abolita la politica ricorrente del blocco degli sfratti, in quanto iniqua e controproducente, generando fenomeni diffusi di
elusione e un livello significativamente più elevato dei fitti.
Responsabilità individuale e solidarietà sociale
n programma che voglia conciliare responsabilità individuale e solidarietà sociale deve poter contare su una rigorosa politica
economica e di bilancio. Le necessarie misure di risanamento dei conti pubblici devono essere accompagnate da una stretta
alle incentivazioni, ai crediti d’imposta ed alle elargizioni a categorie ed imprese. Bisogna portare avanti la concertazione, ma
al di fuori di una politica che sia ossessionata dalla ricerca di un patto neocorporativo. È anche in questo modo che si
possono reperire risorse. La politica fiscale è sempre più diventata un tema sul quale si determinano gli orientamenti di
elettrici ed elettori. Non si tratta di fare scelte di tipo ideologico. Un elevato livello di pressione fiscale sulle famiglie, e un
livello più basso sulle imprese, come si è visto nei paesi scandinavi, è assolutamente compatibile con la crescita. Questo
non significa che ci si proponga in Italia di trasferire il modello scandinavo, dove un’elevata fiscalità ha una buona
accoglienza sociale, data l’efficienza dei servizi pubblici. In Italia, come è noto, la pressione fiscale è considerata elevata e
ingiusta soprattutto perché vi è spesso una cattiva qualità di molti servizi pubblici e una elevata area di evasione, ma anche
perché la destra ha fatto una campagna propagandistica di tipo demagogico, volta a sollecitare le forme più miopi di egoismo
individuale. È fondamentale migliorare l’efficienza della Pubblica Amministrazione attraverso la valorizzazione delle capacità
e un severo contrasto delle zone di inefficienza. L'abolizione di antichi privilegi e la diffusione delle nuove tecnologie sono
un'occasione irrinunciabile di modernizzazione del Settore Pubblico, che può e deve diventare uno dei motori di crescita,
dell'economia e della democrazia. È un compito primario riuscire ad individuare strumenti che possano fronteggiare il
fenomeno dell’evasione, che per la sua entità non ha equivalenti in altri paesi sviluppati. A tal fine è necessario procedere
con controlli che facciano chiarezza e trasparenza sulle fonti di reddito: non tanto sulla base di riferimenti standard – come si
è fatto con gli studi di settore – ma attraverso accertamenti campionari che riguardino tutti i movimenti di denaro dei
contribuenti. A situazioni di emergenza bisogna rispondere con misure di emergenza. I contribuenti onesti non hanno nulla
da temere da controlli rigorosi. È necessario non solo procedere ad una ulteriore semplificazione degli adempimenti
burocratici, ma sviluppare una politica fiscale che pesi molto di meno sulle imprese, che sono i principali centri di creazione
della ricchezza sociale. I processi di privatizzazione devono essere portati avanti in una stretta connessione con quelli di
liberalizzazione, per evitare che i monopoli pubblici si trasformino in ancor peggiori monopoli privati. La gestione delle reti
deve essere nettamente separata dall’erogazione dei servizi e può essere sia pubblica sia a capitale misto. È soprattutto nel
campo delle public utilities, a cominciare dall’energia e dalle comunicazioni, che è necessaria una separazione netta e senza
possibili collusioni e conflitti di interessi. Da queste scelte dipende la stessa possibilità di attivare politiche che favoriscano
l’innovazione senza tradursi in pure e semplici regalie. L’Italia ha bisogno di una moderna politica dei trasporti. È necessario
contrastare tutte quelle spinte - che in nome di una difesa dell’ambiente fondata su scelte integralistiche e potenzialmente
controproducenti - si oppongono alla Tav, e ci farebbero restare esclusi dai grandi corridoi europei del trasporto su rotaia e
favorendo indirettamente l’inquinante trasporto su gomma. La tutela del patrimonio naturale va salvaguardata e va
attentamente valutato l’impatto ambientale, ma l’ecologia non deve essere un pretesto per scelte di carattere ideologico
contro l’innovazione e lo sviluppo. Il Sud è un tema che ormai appartiene alla retorica nazionale. Se ne parla molto e si fa
poco. Per il Mezzogiorno servono soprattutto infrastrutture e sicurezza più che incentivi. Occorrono grandi investimenti nel
campo della ricerca e dell’istruzione. La sicurezza nel Sud è un tema cruciale. Senza sicurezza non si potrà mai creare un
ambiente favorevole allo sviluppo economico.
Più sicurezza e più giustizia
Il contrasto delle organizzazioni mafiose e del risorgente terrorismo va accompagnato da una severa politica contro la
microcriminalità. Da tempo la socialdemocrazia europea considera fondamentali le politiche per la sicurezza dei cittadini.
Sono soprattutto i ceti più deboli, in particolare gli anziani, ad essere colpiti dalla piccola criminalità. Non si tratta di
aumentare le pene, ma di perseguire efficacemente anche i piccoli reati di violenza alle persone, come gli scippi, e di
individuare per i baby criminali percorsi di pena alternativi al carcere. La giustizia è la grande malata del nostro Paese. Non
funziona, non riesce a smaltire in tempi ragionevoli i processi e non dà le garanzie che sarebbero necessarie, soprattutto a
coloro che hanno bassi redditi. I socialisti da tempo indicano alcuni punti essenziali per la riforma della giustizia:
-
separazione delle carriere tra giudice terzo e pubblica accusa;
-
introduzione della figura di un manager che gestisca gli aspetti logistici della macchina giudiziaria;
-
riduzione al minimo degli incarichi extra giudiziari;
-
ampliamento dell’utilizzo dei giudici di pace, soprattutto per i piccoli processi riguardanti la giustizia civile.
Sempre in tema di libertà, in Italia esiste una concentrazione mediatica, economica, finanziaria e politica impersonata da
Berlusconi. Poiché il mondo delle comunicazioni è decisivo nella nostra epoca, si tratta di un fenomeno che contrasta con i
principi della democrazia liberale. Il conflitto di interessi va affrontato e risolto, pur senza utilizzare armi improprie contro
Berlusconi. In Italia occorre superare il duopolio Rai-Mediaset e introdurre e garantire un effettivo pluralismo.
La nuova frontiera socialista
Sono questi i punti politici e programmatici salienti sui quali lo Sdi si impegna. L’Italia si trova in una transizione che appare
infinita. Talvolta si ha l’impressione che, invece di andare avanti, si abbia una grande voglia di tornare indietro e persino di
archiviare il bipolarismo, l’unico vero frutto positivo del collasso del vecchio sistema politico. Il dibattito sulla transizione si è
concentrato sulla modifica della legge elettorale. Non si può sottovalutare questo aspetto. L’attuale legge, infatti, non
favorisce il bipolarismo. È stata scritta e approvata in fretta e male da un centro destra che si proponeva unicamente di
limitare i danni di una sconfitta elettorale annunciata. Del resto siamo tuttora gravemente danneggiati, perché non ci viene
riconosciuta la nostra legittima presenza al Senato che scaturisce da una rigorosa applicazione della legge. Lo Sdi è
favorevole ad una legge proporzionale che salvaguardi il bipolarismo con una chiara scelta del premier e delle coalizioni e
con l’adozione di un forte premio di maggioranza. La transizione deve essere assicurata innanzitutto dalla politica. È
necessaria una ristrutturazione e una ricomposizione in forme nuove delle forze politiche. Ed è più che necessaria
l’affermazione della laicità nella politica italiana. Laicità, libertà e democrazia liberale sono un trinomio inscindibile. Finché
nella politica italiana sarà forte il condizionamento delle gerarchie ecclesiatiche, il panorama dei partiti non si avvicinerà ma
si allontanerà sempre di più da quello europeo. È già avvenuto nel nostro Risorgimento, quando il potere temporale dei Papi
costituì un grave ostacolo al raggiungimento dell’Unità d’Italia. Avviene oggi con un’influenza delle gerarchie ecclesiastiche,
che allontana l’Italia dall’Europa democratica e moderna. Anche per questo dare vita a una nuova forza di ispirazione
socialista, chiaramente collegata all’Internazionale e al Pse e aperta all’apporto e al contributo dei riformatori liberali e dei
riformisti ambientalisti, è essenziale per la modernizzazione del nostro Paese.