I.11 Mele e castagne
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I.11 Mele e castagne
I.11 Mele e castagne Verso le cinque del pomeriggio, dopo aver finito i compiti, i ragazzi scendevano giù in cartoleria e la nonna dava al più grande di loro cinque centesimi. Loro sapevano già come spenderli: in fila e tenendosi per mano a due o tre, andavano giù, verso il centro del paese, dove una vecchina, con un piccolissimo panchetto davanti, vendeva le meline secche. Le preparava lei stessa. Le affettava e le infilava in lunghi fili legati come collane e le faceva essiccare. Non so come, e se l’igiene fosse rispettata, ma erano, comunque, un mezzo efficace per produrre agguerriti anticorpi nei bambini. Le fettine di mele, disidratandosi, assumevano un’aria spenta e raggrinzita ma, oltre al sapore della frutta secca, acquisivano la proprietà di diventare “callosette” ed era necessario masticarle a lungo per averne ragione (proprietà importantissima perché i ragazzini occupati a masticare sono indubbiamente meno birbanti). Allora non c’erano le gomme americane! La sera, invece, dopo cena i ragazzi, che dovevano cenare prima affinché il nonno, tornato stanco dalla tipografia, si potesse rilassare, venivano mandati nella loro stanzona da letto, attigua alla camera da pranzo. Nella camera vi erano tre grandi letti ed un armadio e loro venivano messi a “dormire”. Quando era inverno le lenzuola venivano preventivamente scaldate dal “prete” e dalla “pretina”. Il “prete” era un attrezzo di legno dalla forma ellittica posto su due binari di legno; al centro veniva agganciata la “pre58 Le radici toscane tina”, una sorta di contenitore in ferro, pieno di brace infuocata, che stazionando tra le lenzuola le scaldava e consentiva di entrare a letto senza gelarsi. Naturalmente veniva tolto proprio prima di entrare tra le coltri. Messi a letto, la donna di servizio entrava portando vassoi di “brige” lesse (castagne intere, appena lessate con foglie d’alloro). E questo non avveniva soltanto per rendere la cena più sostanziosa, ma anche per farli stare buoni evitando il troppo strepito – tutto sommato nemmeno troppo ammesso – che avrebbe spazientito il nonno che cenava nella sala accanto. I vassoi arrivavano caldi e profumati di alloro o di finocchietto selvatico. Le castagne tonde, scure e lucide erano un cibo quanto mai gustoso. Si mordevano sulla buccia dura ed esse si aprivano mostrando la polpa caldissima e farinosa, profumata di aromi. E si schiacciavano coi denti fino a far uscire tutta la polpa lessata che, non solo era squisita, ma dava allo stomaco un curioso senso di quiete “uterina” con il saziare, il caldo, il morbido, il dolce... Era latte, era tepore, era mamma. Loro mangiavano castagne, ridacchiavano e parlottavano fino a cadere addormentati. Quello che la nonna e le donne di casa non si spiegavano era che, al mattino, di tre vassoi di castagne si ritrovavano solo poche bucce. Si cercava sotto i letti, nei cassetti dell’armadio, dietro le tende, ma le bucce rimaste sui vassoi erano sempre pochissime ! Le mangiavano? Non osarono chiedere, affinché non venisse persa l’efficacia soporifera. Il mistero fu scoperto a Pasqua, durante le pulizie straordinarie dell’Acqua Santa. L’armadio in fondo alla stanza, 59 Amarcord di donne alto e profondo, ospitava sul tetto una quantità infinita di bucce lanciate come al tirassegno dai pargoli che un’infinità di sere avevano ingannato il tempo di veglia con la furbizia della marachella e che così avevano ripagato il dispetto di essere messi subito a letto. E zitti! LE QuErcE INtorNo coLME dI SAggEzzA… Una piccola casa che gli anni hanno smussato e mille voci antiche nelle mura, un salotto coi mobili ottocento una vecchia poltrona di pelle scura grande abbastanza da contenerci in due, libri d’intorno, un cane acciambellato che a tratti schiude un occhio a vigilar la pace… Un vecchio caminetto mangiucchiato dal calore donato e noi, noi due, ad un passo dal fuoco e girar le castagne con le molle e sbucciarle coi polpastrelli accesi a tirarci le bucce bruciacchiate a ridere tra noi… E la morbida polpa calda ancora che si sfarina dolce sulla lingua arricchita dal gusto di un vecchio vino scuro che racconta di sole e di colline… Mentre il ceppo si spezza e cambia posizione 60 Le radici toscane scintilla brace rossa “Scappano i diavolini!” ci dicevano i vecchi da bambini. Bagliori nei tuoi occhi anche nei miei… E fuori il vento e il nero che ci copre! 61 I.12 Nuovi arrivi Il nonno aveva la passione per i cavalli che poi, col tempo e l’avvento delle macchine ed in pieno Futurismo, si trasformò in amore per le moto e le automobili. Il movimento letterario ed artistico, sorto in Italia nel primo decennio del ‘900, portò con sé una nuova estetica, con totale distacco dalla tradizione accademica, e di conseguenza una nuova concezione di vita fondata sul dinamismo come principio base della Moderna civiltà delle Macchine. Marinetti pubblicò il primo Manifesto nel 1909 a Parigi. grande fu la spinta che dette questo Movimento all’acquisto da parte delle persone – fin ad allora abituate ad usufruire di mezzi quali calessi e carrozze trainate da cavalli – di vetture prive di cavalli, ma complete di motore. Fu un salto immenso nella meraviglia delle automobili! Velocità Energia Mito!!! La macchina come prodotto nietzscheano del Superuomo, costruttore di macchine per migliorare la vita umana, che apre l’idealità verso la guerra che, per il Futurismo, doveva essere rapida, ma che in effetti non lo fu: dal cavallo alla Macchina… dalla Pace alla guerra! come avrebbe potuto il nonno Amedeo, dinamico, sempre in moto in ogni direzione fisica ed emotiva, non farsi affascinare dalla velocità meccanica di questo nuovo veicolo? Motocicletta prima (otto etti di coscia lasciati al chirurgo dopo una volata!), automobile poi! Anche i figlioli più grandi la usavano e spesso la mia mamma andava con i fratelli a fare spese. 62 Le radici toscane Quando ancora le macchine non avevano fatto la loro comparsa, sotto la casa c’era la scuderia con tre box e, di solito, tre cavalli. c’era un bel calessino mantenuto in ordine dallo stalliere che faceva anche l’operaio in bottega e che si chiamava Emilio. La mia mamma aveva spesso “l’onore” di accompagnare il nonno sul calessino ed uscendo dal paese andavano per le strade di campagna, verso i poderi di contadini che conoscevano il nonno e che gli donavano la cacciagione ed i prodotti delle loro coltivazioni. Il giro durava due o tre ore e la mamma, a volte e se il cavallo era birbone, prendeva grandi spaventi che non poteva manifestare per non far inquietare il nonno. con i ragazzi era come con i cavalli… li domava con fermezza. una mattina di mercato – il venerdì, quando tutti i contadini dei colli vicini scendevano a castiglion Fiorentino per vendere polli o altre bestie e per fare spese – il nonno era, come al solito, in bottega; c’era movimento in paese, ma lui sentì, nel brusio esterno, un trotto ritmato, senza rumore di ruote. Lasciò in fretta il negozio dicendo alla nonna: «Arrivo un momento in piazza» e corse su verso la piazza del comune, nella direzione verso la quale era scomparso il rumore del trotto che lo aveva affascinato. Scoprì, arrivando in piazza, che era di un bel cavallo molto alto, con una falcata maestosa, attaccato ad un calesse con le ruote di gomma. Insomma, tanto fece e tanto disse che comprò seduta stante il cavallo, con tutto il calesse dalle ruote gommate, dall’esterrefatto proprietario che era stato convinto da una buona offerta. Il cavallo dal trotto così ben cadenzato era cieco, ma era 63 Amarcord di donne un gran bel cavallo e dette tante soddisfazioni al nonno. una sola volta lo fece infuriare. Era di pomeriggio ed il nonno aveva condotto con sé sul calesse la mia mamma Albertina, essendo la più grande delle bambine. Andavano di buon passo verso la valle quando, da lontano, si sentì il rumore del treno che attraversava la val di chiana andando verso Arezzo per giungere poi a Firenze (la notte, a guardarlo dal terrazzo, il treno sembrava un piccolo baco luminoso che si snodava nel buio, mentre attraversava la vallata). Il cavallo cieco, quando il treno con il suo fracasso si avvicinò alla strada s’imbizzarrì e cominciò a correre senza più freno. La mamma era terrorizzata ed il nonno furente, perché le sue redini non servivano allo scopo. Allora lasciò che si sfrenasse e quando, dopo un quarto d’ora, si fermò tutto coperto di schiuma e sfinito, allora e solo allora, lo accarezzò, lo fece girare e gli fece rifare tutta la strada tenendolo ben tirato con le redini e in guardia col frustino. Lo fece ripassare dove la strada costeggiava la strada ferrata e lo tenne ben fermo quando ripassò un altro treno. da allora non si imbizzarrì più. Arrivati in scuderia, per quanto era ancora bagnato di sudore, fu necessario asciugarlo con sacchi di iuta. Il nonno amò molto quel cavallo. E la sua passione per i cavalli rivive nella mia secondogenita Valentina che, con il suo cavallo Barone di Montespino, ha vinto numerose gare. un’altra ospite dei box era la gemma, una bella cavalla grigia che fu fatta coprire e aspettò il suo puledro. Emilio, lo stalliere, ebbe l’ordine di svegliare il nonno a qualsiasi ora della notte, qualora fosse iniziato il travaglio. E così fu. Alle cinque del mattino, Emilio suonò il fragoroso campanello che metteva in comunicazione la scuderia con 64 Le radici toscane l’appartamento padronale. Il nonno si vestì e scese ad aiutare ed a controllare. Quando il puledrino venne alla luce, la nonna ed i bambini, tutti contenti, furono fatti scendere (era domenica) per vedere il piccolo, che chiamarono Marengo. Era ancora umido, accovacciato sulla paglia e cercava di alzarsi sulle zampine lunghe e malferme, spinto dalle musate dolci della cavalla. I ragazzi lo guardavano dalle fessure del cancello del box e respiravano l’aria calda e profumata di fieno. Fu la volta della nonna. Lei era alta e, a quei tempi, portava i capelli acconciati in una voluminosa crocchia, alla sommità del capo. Per vedere meglio il puledrino della gemma, si sporse nel box entrandovi con il capo e la cavalla, forse gelosa, le prese la crocchia tra i denti e la tirò! Figurarsi la paura della nonna! Ma il nonno si arrabbiò e disse: «Non vi ci porto più! Mi fate imbizzarrire i cavalli!» I ragazzi vivevano e crescevano conoscendo tanti animali. Nei fondi c’erano i cani da caccia, i gatti, le gabbie con gli uccelli da richiamo, i piccioni, i conigli, i polli e, sul balcone, tante lucertole verdi che scorrazzavano tra i vasi dei gerani e sui muri. Io, piccina, che venivo da una Roma dove gli animali praticamente neanche li vedevo, avevo paura di tutto meno che delle lucertole e, dal cugino che sparava piumini alla Rosotta, venni a sapere che la coda delle lucertole, se tagliata, ricresceva. Avvenne così che, muniti di un coltello ciascuno, ci mettemmo sul balcone della cucina in attesa che passasse una lucertola ed ogni volta che questo accadeva noi fulminei, giù con colpi di lama. Le loro code venivano acconciate 65 Amarcord di donne con una sfumatura alta. Non provai mai rimorso per quel brutale infantile accanimento. E non so ancora se fosse vero che le code ricrescessero. Ma temo di no! La mamma mi raccontò che loro ragazzi, una volta, acchiapparono il gatto di casa e ci giocarono tanto da farlo arrabbiare fino a che gli si drizzò tutto il pelo e con gli artigli fuori si arrampicò su di un muro. ci volle tutta la pazienza della Bettina per farlo calmare. Bettina fu una delle donne che aiutarono la nonna a tirare su i figlioli e fu la preferita della mia mamma. Abitava nel vicolo sottostante; il marito carrettiere, dedito all’alcool, era un uomo manesco. Ebbe diversi figli e soleva dire: «È più semplice fare un figliolo che un bucato!» Infatti il giorno dopo aver partorito era già in faccende. Era una donna piccolissima, ma ben proporzionata e grande lavoratrice. Forse sono solo i racconti della mia mamma che me la fanno vedere così, però mi sembra di averla davanti agli occhi in un vestituccio lungo blu, con un grande grembiule ed i capelli stretti in una treccia alla sommità del capo. Fu lei che la mia mamma bambina chiamò dalla finestra per dire che era nato l’ultimo fratellino, Alberto, prendendosi lo schiaffo dal nonno. un’altra volta i bambini arrivarono alla gabbia dove erano tenuti gli uccellini da richiamo per la caccia e, uno per uno, i poveri volatili indifesi furono sottoposti ad un puntiglioso bagno di pulizia con relativa asciugatura. Quando gli adulti lo seppero, i birbanti vennero puniti in maniera esemplare. 66 I.13 I gemelli Quando la nonna era in attesa dei gemelli, giovanni e Leonida, aveva una pancia enorme e la mia mamma ricordava perfettamente che, passando a salutare gli altri sette figliolini che erano a pranzo, prima di avviarsi verso la camera da letto dove dovevano nascere i bambini, appoggiò il suo grande fardello sul margine del tavolo. Fece le ultime raccomandazioni ai ragazzi e si avviò al braccio del nonno per accogliere, insieme alla levatrice questi altri due figlioli. All’inizio di quella nona gravidanza la nonna Adelma era ovviamente ignara di portare in grembo due creature… ma dopo qualche mese l’ingrossare notevole ed una visita accurata del medico di famiglia portarono alla conclusione (anche senza ecografia, allora sconosciuta) che i nascituri sarebbe stati due: infatti il medico auscultò i due battiti cardiaci che risuonavano in lei. Il parto andò bene, ma la nonna ne fu provata parecchio, tanto è vero che fu il penultimo ed in periodo di menopausa soffrì abbastanza. Spesso sveniva e le si dovevano far annusare i sali. I gemelli erano biovulari e non si assomigliavano fisicamente né psicologicamente. Ebbero, infatti, due destini ben diversi! giovanni era biondo e con occhi chiari, Leonida moro con occhi neri. Lo zio giovanni fu un vivace ribaldo, dongiovanni ridente, di grandi iniziative e dotato di un fascino suadente che faceva molta presa sugli animi femminili; lo zio Leonida, silenzioso e solitario, presagiva forse il suo destino futuro. 67 Amarcord di donne I ragazzi, cresciuti, ebbero in comune la mancanza di volontà di studiare e, quindi, il nonno Amedeo li mise a lavorare nella tipografia con gli altri operai. Lì c’era sempre lavoro, in quanto venivano serviti i sedici comuni limitrofi. La targa coeva che la distingueva, a partire dalla fine dell’ottocento, campeggia ancora come “cimelio storico” sull’edificio che ospitava la tipografia, nel palazzetto di famiglia. 68