nikolajewka: l`ultimo ostacolo alla pace e alla liberta`
Transcript
nikolajewka: l`ultimo ostacolo alla pace e alla liberta`
NIKOLAJEWKA: L'ULTIMO OSTACOLO ALLA PACE E ALLA LIBERTA' di Daniele G. Dal Borgo All'alba del 26 gennaio 1943 decine di migliaia di sbandati italiani perdono ogni speranza di passare lo sbarramento russo che ostacola la loro ritirata. Non si dirà così per gli alpini: dopo dieci ore di terribile lotta, sfonderanno e usciranno dalla "sacca", generando non poca incredulità presso alcune postazioni sovietiche. In seguito a questa feroce lotta, con il bollettino n 630 dell'8 febbraio 1943, il Comando Supremo sovietico da Radio Mosca dichiarerà: "L'unico corpo che può ritenersi imbattuto in terra sovietica è il Corpo d'Armata alpino italiano". Il paese di Nikolajewka (oggi Malenka Aleksandovka), in quel lontano gennaio del '43, era l'ultimo brandello di terra sovietica di rilevanza tattico-strategico per la ritirata delle nostre truppe. Per oltrepassare questo paese tanti furono i gesti memorabili, soprattutto da parte degli alpini. E tante furono le morti: persero la vita ben quaranta ufficiali dopo appena dieci ore di combattimento. Tra questi c'era il valdese Giulio Martinat (generale del C.A. alpino) che, prima di morire, incitando i suoi soldati, lo sentirono gridare: "Con l'Edolo sono nato e con l'Edolo voglio finire". Andrà avanti ai suoi alpini il povero uomo, correndo a piedi e con il moschetto stretto fra le mani. Lo ritroveranno poco dopo, morto, non si sa come, tra le rotaie della ferrovia di Nikolajewka, con una pallottola conficcata in fronte. A guerra ultimata, riceverà la medaglia d'Oro alla memoria. L'attacco decisivo a Nikolajewka venne reso operativo in un secondo tempo dal generale Reverberi (detto "Gasousa" dagli alpini, per quel suo carattere nervoso e scoppiettante). Con un gesto memorabile, noto a tutti, a capo della Divisione "Tridentina" (come fare a non ricordare don Carlo Gnocchi?), aprì la strada verso l'Italia a 14.000 Penne Nere, in una impresa ritenuta disperata e impossibile. Per questa sua azione, durante un raduno alpino a Brescia nel 1951, riceverà la medaglia d'Oro. Ma i gesti memorabili e eroici, e sono stati tanti, non sono solo questi. Non sono solo quelli di coloro che hanno ricevuto una medaglia o che, a guerra ultimata, hanno continuato a prestare servizio nelle nostre FF.AA. Alcuni gesti, di cui raramente si parla, sono stati anche quelli degli "alpini anonimi" che hanno lottato e che hanno condiviso la tragedia con i propri fratelli d'arma; che hanno dimostrato comprensione e compassione soprattutto per il nemico in quanto persona e uomo; che hanno rispettato il contadino russo disperato il quale, assai di frequente, in compenso diceva: "Taljanskij karasciò" ovvero, "italiano bene". Sì perché gli alpini hanno anche e soprattutto fatto la guerra, ma da gentiluomini. Questa carica di umanità associata alla loro instancabile e vigorosa forza fisica li ha profondamente distinti, anche dagli alleati tedeschi; nonostante la tragedia, che ormai non aveva più limiti nei cuori e nello spirito dei soldati . Giulio Bedeschi, ufficiale medico dell'ARMIR, in "Centomila gavette di ghiaccio" scrisse che in quella ritirata la sofferenza raggiunse livelli tali da far pensare alla morte come all'ultima e unica speranza di sollievo e pace. E per questo, la loro sofferenza deve essere stata veramente tanta. Non tutti a Nikolajewka riuscirono a salvarsi dalla "sacca" e a fare ritorno. Altre unità furono meno fortunate. La "Julia", per esempio, non riuscì a rompere l'accerchiamento sovietico. Una tragedia nella tragedia. Questa Divisione infatti, a testa alta, dovette sacrificarsi per riparare la ritirata a ciò che restava delle altre unità alpine in fuga. E la "Julia", con coraggio, si sacrificò. Tutto accadde a Waluiki. Qui venne preso prigioniero, con l'intero Stato Maggiore della "Julia", l'alessandrino Umberto Ricagno, chiamato "papà" dai suoi alpini. Papà Ricagno fu lo stesso generale che condusse la "Julia" in terra russa, all'inizio delle ostilità, dopo che il nostro Stato Maggiore ebbe il coraggio di ricomporla per la quinta o sesta volta (dall'Albania e Grecia). La nostra "Julia" stava combattendo a Sud di Nikolajewka, dove era accorsa con urgenza. Aveva il compito di chiudere una falla, l'ennesima, che i sovietici avevano aperto per effetto del cedimento delle Divisioni "Cosseria" e "Ravenna". I sovietici, ormai, spuntavano da tutte le parti lungo il fronte e vincevano, come pochi giorni prima a Stalingrado contro i tedeschi. Chiusa la falla, la "Julia" si mosse con velocità verso Waluiki perché era da sola e l'unica ad avere l'esercito sovietico alle spalle. Nessuno, da quel momento, le dirà più nulla. A Waluiki ci arrivò, eccome, ma vi trovò i russi che la aspettavano, pronti con i loro carri T34. La "Tridentina" di Reverberi, più avanti e più fortunata, venne informata in tempo e poté così evitare, in parte, l'infiltrazione nemica. Ma alla "Julia" e alla "Cuneense" il contro ordine non arrivò mai e i sovietici così riuscirono a tagliare la strada e a ultimare l'accerchiamento. A papà Ricagno i russi presero tutto, anche l'orologio e la pistola scarica. Gli lasciarono soltanto gli abiti del momento, la sua penna stilografica e il suo portafoglio, zeppo di santini e immagini sacre. Di lui si è sempre parlato come di un uomo generoso e senza manie di protagonismo, proprio come i suoi alpini che erano abituati a operare, senza troppe chiacchiere. Non volle mai parlare di se stesso, ma soltanto di tutti quei suoi figli con la penna e senza nome. Finita la lunga prigionia a Mosca, nel 1950, dopo sette anni, l'amato generale ritornerà a casa per rimanere ancora una volta, ma per poco, con la sua infelice e straordinaria compagna di sempre, che dopo la guerra assunse la consistenza di una brigata e che portava il nome della sua ultima terra, la "Giulia". Gli chiesero quali erano stati gli eroismi della sua Divisione che, ancor oggi, soltanto a nominarla, fa tremare chiunque. Rispose, semplicemente, che gli eroismi della "Julia" erano stati tanti ... e tanto sono costati a quei soldati e a quei figli leali, a quell'immensa famiglia perduta... Proprio così. Fecero il loro dovere gli alpini, i nostri padri. Ma lo fecero, con coraggio perché volevano dimostrare di essere delle persone meritevoli, anche se disperati. E allora che ci serva questo ricordo. Che si ricordi pure Nikolajewka, ma che lo si faccia, come è nello spirito di ogni alpino, con consapevolezza e conoscenza della storia e delle sue inumane tragedie. Per tutto quello che hanno sofferto, questi sopravvissuti di Nikolajewka, oggi ancora viventi, osserviamo che non meritano altro che pace e tranquillità. Sta anche a noi farli sentire così. Con la nostra comprensione e con il nostro unanime saluto, che vuole essere anche un augurio, vogliamo semplicemente dire e sperare che i loro riposi, in questi giorni di pace, possano essere più tranquilli e sereni di quelli passato sulla steppa del gelido inverno russo. A quelli che invece non hanno provato, o che non sanno, o che sono troppo giovani, anche a loro rivolgiamo un saluto e un augurio di speranza affinché l'ombra nera della morte e della guerra non sfiori e tanto meno si posi sugli animi, sulle carni e sulle coscienze dei figli di questa generazione e di quelle che dovranno venire. Daniele G. Dal Borgo