Miti sul terremoto - Istituto Comprensivo Marciana Marina scuole

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Miti sul terremoto - Istituto Comprensivo Marciana Marina scuole
Classe 1° Secondaria di primo grado di Marciana
Zeus contro Tifone
Gea per vendicarsi di Zeus che aveva precipitato i Titani, suoi figli, nel Tartaro, si recò in
Cilicia, da suo figlio Tifone (o Tifeo), che aveva generato dopo essersi unita al Tartaro. Alla
richiesta di aiuto di Gea, Tifone, decise di allearsi con lei e di muovere guerra a Zeus.
Tifone, reso ancora più orribile dall'ira che lo animava, salì sull'Olimpo per battersi contro gli
dei. La sorpresa e lo spavento fu tale che gli stessi dei, dopo essersi trasformati in animali
(Apollo in corvo, Artemide in gatta, Afrodite in pesce, Ermes in cigno, ecc.), scapparono nel
lontano Egitto lasciando da solo Zeus ad affrontarlo.
Il combattimento fu lungo. Zeus dapprima iniziò a scagliare le sue folgori, poi, mano mano che
Tifone si avvicinava, lo colpì ripetutamente con la falce. Il mostro sembrava vinto ma quando
Zeus si avvicinò per scagliare il colpo mortale, fu afferrato dalle gambe di Tifone ed
immobilizzato. Tifone fu rapido a strappargli la falce con la quale gli recise i tendini delle mani
e dei piedi. Zeus era vinto.
Tifone decise quindi di nascondere Zeus in Cilicia, rinchiudendolo in una grotta chiamata
Korykos (il "Korykos antron", che vuol dire "sacco di pelle") mentre i suoi tendini, deposti in
una sacca di pelle d'orso, li affidò alla custodia della dragonessa Delfine, metà fanciulla e metà
serpente.
Il suo destino sarebbe stato segnato se Ermes, figlio di Zeus, ripresosi dallo spavento decise di
reagire. Rubò la sacca a Delfine e trovata la grotta dove era stato imprigionato il padre, lo
liberò e lo curò rendendolo nuovamente forte e potente.
Zeus, iniziò allora una nuova aspra e dura lotta contro Tifone, che riuscì a sconfiggere
scagliandogli addosso l'isola di Sicilia e ad imprigionarlo sotto il monte Etna, dove ancora
giace. Narra la leggenda che le eruzioni del vulcano altro non sarebbero che le fiamme scagliate
da Tifone per la rabbia di essere stato vinto.
Narra Ovidio nella Metamorfosi (V. 346-358)
"(...) la vasta isola della Trinacria si accumula su membra gigantesche, e preme,
schiacciando con la sua mole Tifeo, che osò sperare una dimora celeste. Spesse, invero, egli si
sforza e lotta per rialzarsi, ma la sua mano destra è tenuta ferma dall'Ausonio Peloro, la
sinistra da te, o Pachino; i piedi sono schiacciati dal (Capo) Lilibeo, l'Etna gli grava sul capo.
Giacendo qui sotto, il feroce Tifeo getta rena dalla bocca e vomita fiamme. Spesso si affatica
per scuotersi di dosso il peso della terra, e per rovesciare con il suo corpo le città e le grandi
montagne. Perciò trema la terra, e lo stesso re del mondo del silenzio teme che il suolo si apra
e si squarci con larghe voragini."
Dopo questa ennesima lotta sostenuta da Zeus, seguì un nuovo periodo di tranquillità. Gli dei
fecero ritorno all'Olimpo dove Zeus aveva stabilito la loro dimora.
Ma una nuova minaccia si profilava all'orizzonte: Gea, che continuava a tramare contro Zeus.
Zeus contro i Giganti
Gea, si era recata infatti a Pallade, dove avevano dimora i Giganti, suoi figli generati con
Urano. Ad essi chiese aiuto per muovere guerra contro Zeus. I Giganti, acconsentendo alla
richiesta della madre, forti anche della profezia secondo la quale nessun immortale sarebbe
stato in grado di batterli, guidati da Porfirione, il più forte tra loro e da Alcioneo, si recarono
nell'Olimpo e iniziarono quella che gli storici chiamarono GIGANTOMACHIA.
La profezia della loro invincibilità nei confronti degli immortali era nota anche a Zeus,
pertanto lo stesso decise di far partecipare alla lotta, oltre a tutti gli dei, anche il mortale
Eracle (noto anche come Ercole), suo figlio, generato assieme ad Alcmena.
Scena della Gigantomachia, vaso attico a figure rosse, Istituto
Archeologico germanico, Roma
Scena della Gigantomachia, vaso attico a figure rosse, Istituto
Archeologico germanico, Roma
Racconta Apollodoro (Biblioteca, I, 6)
"Questi (Eracle) scagliò un dardo contro Alcioneo, ma il gigante non potendo morire nella
terra dove era nato, fu da Atena tratto fuori di Pallade, e solo così potè essere ucciso.
Porfirione mosse contro Eracle ed Era, ma Zeus lo fulminò ed Eracle lo uccise colpendolo con
una saetta. Apollo colpì Efialte con una freccia all'occhio sinistro; Dionisio uccise col tirso
Eurito; Ecate colpì con le fiaccole Clitio, mentre Efesto rovesciò su di lui masse metalliche
incandescenti; Atena fece precipitare la Sicilia su Encelado che fuggiva; Poseidone scagliò su
Polibote, che era riuscito a sfuggire a Coo, la parte dell'isola detta Nisiro, dopo averla
spezzata con il tridente; Ermete, con l'elmo di Ade, uccise Ippolito; Artemide trafisse
Grazione; le Moire uccisero Agrio e Toone; Zeus fulminò gli altri, ed Eracle colpì tutti con le
frecce."
Così anche i feroci Giganti furono vinti e gli antichi per spiegare la causa dei terremoti,
immaginavano i Giganti sprofondati nelle viscere della terra, schiacciati da montagne e isole ed
i loro tentativi di liberarsi sarebbero la causa dei terremoti.
Zeus, signore degli dei e dell'Universo, riprese così a regnare dall'alto dell'Olimpo, come ci
narrano le leggende tramandate dai nostri antichi.
La storia di
Colapesce
Cola o Nicola è di Messina ed è figlio
di un pescatore di Punta Faro. Cola
ha la grande passione per il mare.
Amante anche dei pesci, ributta in
mare tutti quelli che il padre pesca
in modo da permettere loro di
vivere. Maledetto dalla madre
esasperata dal suo comportamento,
Cola si trasforma in pesce. Il
ragazzo, che cambia il suo nome in
Colapesce, vive sempre di più in mare e le rare volte che ritorna in terra
racconta le meraviglie che vede. Diventa un bravo informatore per i marinai
che gli chiedono notizie per evitare le burrasche ed anche un buon corriere
visto che riesce a nuotare molto bene. Fu nominato palombaro dal capitano di
Messina. La sua fama aumenta di giorno in giorno ed anche il Re di Sicilia
Federico II lo vuole conoscere e sperimentarne le capacità. Al loro incontro,
il Re getta una coppa d’oro in mare e chiede al ragazzo di riportargliela. Al
ritorno Colapesce gli racconta il paesaggio marino che ha visto ed il Re gli
regala la coppa. Il Re decide di buttare in mare la sua corona ed il ragazzo
impiega due giorni e due notti per trovarla. Al suo ritorno egli racconta al Re
d’aver visto che la Sicilia poggia su tre colonne, una solidissima, la seconda
danneggiata e la terza scricchiolante a causa di un fuoco magico che non si
spegneva. La curiosità del Re aumenta ancora e decide di buttare in acqua un
anello per poi chiedere al ragazzo di riportarglielo. Colapesce è titubante,
ma decide ugualmente di buttarsi in acqua dicendo alle persone che avessero
visto risalire a galla delle lenticchie e l’anello, lui non sarebbe più risalito.
Dopo diversi giorni le lenticchie e l’anello che bruciava risalirono a galla ma
non il ragazzo, ed il Re capì che il fuoco magico esisteva davvero e che
Colapesce era rimasto in fondo al mare per sostenere la colonna corrosa.
MITO DI POSEIDONE
Quando si verifica una crisi sismica è quasi inevitabile che tra la gente, oltre all'ansia e al
nervosismo, riemergano antiche superstizioni. Sono il retaggio di lontane credenze, nate dalla
necessità di trovare un colpevole e di personificare una forza senza volto e senza nome. D'altra parte
anche i media, occupandosi di terremoti, hanno spesso riportato strane leggende di mostri e serpenti
di fuoco. Ci sembra quindi utile presentare i miti popolari che in forme diverse sono presenti in ogni
cultura del nostro pianeta. Ricche di fantasia e di folklore, le storie del passato possono spiegare, da
un punto di vista antropologico, le superstizioni di oggi.
Il dio Poseidone era insopportabile. Capriccioso, irascibile e vendicativo, non perdeva mai
occasione per dimostrare il suo potere distruttivo. Ne sapevano qualcosa gli Achei, che vivevano nel
terrore delle sue ire e cercavano di ammansirlo offrendogli doni e sacrifici. Quando Telemaco
arrivò a Pilo in cerca di notizie di suo padre Ulisse, trovò gli abitanti sulla spiaggia intenti a
immolare grandi tori neri per ottenere i favori di Poseidone. Ma il dio non si lasciava convincere
facilmente: con il suo tridente scuoteva i monti e le valli del Peloponneso, faceva tremare le città dei
Troiani e terrorizzava gli Achei. Persino il signore dell'Ade, laggiù nel profondo degli inferi, saltò
dal suo trono in preda al terrore temendo che la furia di Poseidone aprisse la terra fino al suo regno,
mostrando agli uomini, mortali e immortali, le sue stanze piene di orrore.
Gli antichi romani vedevano nei fenomeni sismici un preludio ad altri avvenimenti terreni: erano
una sorta di viatico tra il mondo degli dei e quello degli uomini. Nella terza orazione di Cicerone
contro Catilina si parla di un cielo infiammato di meteore, di cadute di fulmini e di terremoti e
Cicerone così commenta: «… Per non parlare degli altri prodigi che si sono verificati durante il mio
consolato a.C. in un numero così grande da far pensare a un vero e proprio presagio, da parte degli
immortali, degli attuali avvenimenti». L'opinione dei romani, ed è proprio il caso di dirlo, subisce
una scossa nel 79 d.C., quando violenti terremoti colpiscono la costa campana, preludio
all'esplosione del monte Somma-Vesuvio che provocherà la distruzione di Pompei.
Con le sue continue scosse, l'area del Mediterraneo ha ispirato da sempre storie e leggende legate ai
movimenti della terra. Una di queste nasce in Sicilia, scritta probabilmente alla fine del 1200, e
vede protagonista un giovane di nome Colapesce. Il ragazzo amava il mare, lo amava talmente da
passare gran parte della giornata immerso nei fondali della costa orientale siciliana, ammirando la
vita, le forme e i colori di quel magico mondo. Poi, un giorno arriva a Messina un re superbo e
crudele: getta una coppa d'oro in fondo al mare e sfida la resistenza di Colapesce. Il giovane si tuffa
e lì, tra le ombre degli abissi e le sagome minacciose degli squali, vede la sua terra sorretta da tre
colonne in corrispondenza di tre vertici geografici dell'isola: una in buono stato, una lesionata e una,
proprio sotto Messina, prossima alla rottura. Tornato in superficie, con la coppa d'oro ma allo
stremo delle forze, racconta tutto al suo re. Il monarca, insensibile alle preghiere della figlia,
costringe Colapesce a immergersi nuovamente, promettendogli in cambio un anello preziosissimo e
la mano della principessa. Colapesce si tuffa, ma non riemerge più. Secondo la leggenda è rimasto
sul fondo del mare a sostenere, con tutte le sue forze, la colonna corrosa e a impedire che la sua città
venga distrutta dai cedimenti della crosta.
BALDER
E' il dio della bellezza e della luce. Figlio di Odino e Frigga e sposo di Nanna.
La Morte di Balder
Balder, dio della luce, era tormentato dagli incubi. Pur sapendo di essere amato da tutti per la sua
bontà e la sua bellezza, ogni notte sognava che qualcuno stesse per ucciderlo. Il padre Odino, dio
della guerra, era preoccupato. Così, in groppa al suo cavallo dalle otto zampe, si reco a Niflheim, la
terra dei morti, dove c'era la tomba di Volva, la veggente che conosceva i segreti del futuro. Odino,
con le sue arti magiche, la costrinse a uscire dalla tomba e la interrogò. «Presto per Balder si
mescerà birra e idromele» rispose Volva, volendo significare che il dio sarebbe morto. Odino
domandò come sarebbe avvenuto e Volva disse: «Sarà Hoder, il dio cieco, a ucciderlo». Ritornato
tra gli dei, Odino informò la moglie Frigg, madre di Balder, del destino che attendeva il figlio. Frigg
partì subito per un lungo viaggio, attraversando tutti i paesi del mondo. A ogni cosa che incontrava
faceva giurare di non fare mai del male a Balder Giurarono tutti: l'aria e l'acqua, la terra e il fuoco,
le piante, gli animali e le pietre. Solo la pianticella del vischio non giurò. Frigg, infatti, l'aveva
ritenuta troppo debole e innocua per costituire un pericolo. In questo modo Balder divenne
invulnerabile e ciò fu per gli déi un'occasione di divertimento. Gli tiravano sassi e frecce, lo
trafiggevano con le lance, lo colpivano con le spade... Ma nulla poteva ferire il giovane Balder. Solo
Loki, dio della distruzione, non partecipava. Egli amava gli scherzi crudeli e quel gioco innocuo
non lo divertiva affatto. Così, mutate le sue sembianze in quelle di una vecchia, si recò da Frigg e
con l'inganno venne a sapere dalla dea che il vischio non aveva giurato. Allora andò nel bosco e ne
prese un ramo che cresceva sul fusto di un melo. Con esso costruì un bastoncino dalla punta affilata,
quindi si recò all'assemblea degli dei. Come al solito gli dei erano impegnati nel gioco di colpire
Balder. Loki si avvicinò al cieco Hoder e gli porse il bastoncino di vischio. «Prova a colpire Balder
con questo» gli disse. Hoder replicò: «Come posso colpirlo se neppure lo vedo?» Ma Loki lo
rassicurò: «Non temere, guiderò io la tua mano». Hoder lanciò il bastoncino e colpi Balder. Il
vischio penetrò nelle sue carni e lo uccise. Allora gli déi lanciarono un grido d'orrore, poi si
rivolsero contro Loki. Ma il malefico dio si era già allontanato. Com'era uso, il corpo di Balder fu
posto sulla pira funebre a bordo della sua nave. Frigg, però, non si era rassegnata alla morte del
figlio e inviò Hermod, un altro suo figlio, da Hel, la regina dei morti. Hermod pregò la regina di far
tornare Balder tra i vivi. Hel disse: «Se tutti piangeranno per Balder, il dio potrà vivere ancora. Ma
se anche uno soltanto non lo farà, allora Balder sarà morto per sempre». Tutti piansero per Balder:
gli dei, le piante, gli animali, anche i sassi. Solo Loki, che aveva assunto le sembianze di una
gigantessa si rifiutò di piangere. Così per Balder non ci fu più alcuna speranza. Gli dèi, incolleriti,
decisero di farla finita una volta per tutte con Loki e lo cercarono in ogni luogo della terra. Il
malandrino si era tramutato in un salmone e viveva in un laghetto in cima a un monte. Pensava di
essere al sicuro in quel nascondiglio, ma infine gli dei ugualmente lo trovarono e lo catturarono.
Loki fu portato in una grotta e venne legato strettamente a tre pietre. Per rendere più severa la
punizione, gli dei posero un serpente sopra il malvagio in modo che gli facesse gocciolare il veleno
sul viso. Tuttavia Loki non fu lasciato solo con il suo tormento. Gli dei permisero a sua moglie
Sigyn di sedere accanto a lui e di lenirne le sofferenze. E ancor oggi Sigyn si trova nella caverna,
con in mano una coppa con cui raccoglie il veleno del serpente. Ogni tanto però la coppa deve
essere vuotata e allora qualche goccia cade sul viso di Loki provocandogli grandi dolori. E quando
il dio si contorce per gli spasimi, la terra trema tutta. Ecco come hanno origine i terremoti. Tratto da
"Miti e leggende di tutti i tempi"