L`industria del lobbying nei paesi europei: una comparazione

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L`industria del lobbying nei paesi europei: una comparazione
ALBERTO BITONTI
American University, Washington DC; IES Abroad Rome
Email: [email protected]
L’industria del lobbying nei paesi europei: una comparazione
(XXIX Convegno SISP, Università della Calabria, Arcavacata di Rende, 10-12 settembre 2015)
Abstract
L’industria del lobbying nei paesi europei presenta uno scenario notevolmente variegato, complici le
differenze di ogni paese rispetto a sistemi istituzionali, a culture politiche, alle stesse dimensioni nazionali,
alla storia così come alle tradizioni filosofiche e civili delle diverse aree del continente.
Questo contributo si colloca nell’ambito di un più vasto progetto di ricerca teso a studiare l’industria del
lobbying in tutti i ventotto paesi membri dell’Unione Europea, svolto attraverso interviste in profondità ad
altrettanti testimoni privilegiati di ogni paese (lobbisti o accademici esperti della materia), interviste svolte
tra 2013 e 2015 (la ricerca è ancora in corso). Obiettivo del presente paper è iniziare a dare conto dei primi
risultati della ricerca, provando a tracciare una comparazione sulla base ristretta di alcuni casi ritenuti
particolarmente significativi e rappresentativi, consentendo un’analisi più circoscritta ma più approfondita
delle principali variabili da prendere in considerazione per studiare un settore, quello dell’industria del
lobbying, particolarmente rilevante per comprendere a fondo la natura delle democrazie europee.
INTRODUZIONE
Per scienziati e teorici della politica, l’industria del lobbying costituisce un campo di osservazione e
di riflessione particolarmente interessante. L’analisi delle dinamiche di influenza del potere e dei
processi decisionali pubblici, infatti, molto ci può raccontare proprio su quel potere e su quei
processi decisionali stessi. Se molta della letteratura esistente sul tema sembra concentrarsi
sull’analisi teorica o storica dei gruppi di interesse e del loro ruolo nella democrazia moderna
(Bentley 1908; Truman 1951; Benn 1959-1960; Meynaud 1965; Olson 1965; Pasquino 1988;
Morlino 1991; Graziano 1995; Fisichella 1997; Rozell, Wilcox e Madland 2006; Andres 2009;
Mattina 2010), sull’analisi idiografica di singoli casi (da ultimo i report di Transparency
International sull’industria del lobbying in diversi paesi europei) o di particolari campagne di
lobbying (per es. Sarlos e Szondi 2015 o Taghizade 2015), un crescente numero di ricerche si sta
muovendo verso un ulteriore orizzonte nello studio dei gruppi di interesse, iniziando ad usare
l’approccio comparativo anche in questo campo. Come sottolineato da Kanol (2015), al fine di
contribuire proficuamente al nascente campo della politica comparata del lobbying, non è
sufficiente prendere in considerazione più di un paese o più regioni dello stesso paese1, ma è
importante mettere in relazione informazioni e dati con un impianto teorico fatto di variabili e di
interpretazioni complesse.
Proprio con questa finalità, il presente paper vuole provare a ragionare sui primi risultati di una
ricerca iniziata due anni fa, mirante ad analizzare l’industria del lobbying in tutti e ventotto i paesi
membri dell’Unione Europea.
Nel prossimo paragrafo si richiamerà il contesto e il percorso vero e proprio della ricerca,
provando a spiegare l’impianto delle variabili prese in considerazione e ad evidenziare già alcuni
problemi emersi durante la ricerca stessa (tuttora in corso).
Nei quattro paragrafi seguenti, invece, si darà conto brevemente di alcuni casi nazionali ritenuti
particolarmente significativi e rappresentativi nel quadro europeo, che possano in questa sede
aiutare il ragionamento offrendo spunti di analisi e materiale empirico da recuperare nel lavoro di
comparazione vera e propria. Tali casi sono il Regno Unito, la Svezia, l’Italia e la Bulgaria.
Nell’ultimo paragrafo, infine, si proveranno a tracciare alcuni spunti di analisi comparata, tentando
di evidenziare i punti cruciali dell’impianto adottato e alcune criticità.
IL PERCORSO DELLA RICERCA
Il presente paper si inserisce nell’ambito di un più vasto progetto di ricerca teso a studiare
l’industria del lobbying in tutti e ventotto i paesi membri dell’Unione Europea (Bitonti e Harris
2016).
L’idea originaria della ricerca nasce in occasione delle annuali attività di cooperazione e
networking della rete PACE (Public Affairs Community of Europe), la quale coinvolge alcune
organizzazioni professionali di rappresentanza dei lobbisti (a livello nazionale) nonché alcuni
singoli professionisti del lobbying e dei public affairs di diversi paesi europei.
Soprattutto in relazione al quadro della regolazione della professione (attraverso interventi
legislativi, regolamentari o di auto-disciplina), è emerso negli ultimi anni un crescente interesse
comparatistico, evidenziato proprio dal sorgere di iniziative di networking internazionale come
quella di PACE e da un numero crescente di pubblicazioni scientifiche dedicate al tema (Chari,
Hogan e Murphy 2007 e 2010; McGrath 2009; Fink-Hafner 2011; Holman e Luneburg 2012; Millar
e Köppl 2014; Kanol 2015).
Per questo, si è deciso di provare a costruire una ricerca che, per ampiezza e ambizione, si
inserisse in questo alveo distinguendosi per almeno tre caratteristiche: la prima concerne le
dimensioni della ricerca, vale a dire la totalità dei paesi dell’Unione Europea e non solo alcuni di
essi; la seconda riguarda la profondità dell’analisi di ogni paese, andando oltre il mero studio della
1
Molto divertente, a questo proposito, il commento (richiamato sempre da Kanol) di Sartori, il quale scrive: “A scholar
who studies American presidents is an Americanist, whereas a scholar who studies only French presidents is a
comparativist. Do not ask me how this makes sense – it does not” (Sartori 1991, 243).
regolamentazione del lobbying; la terza è invece costituita dal metodo della ricerca, svolta non
solo attraverso fonti secondarie, ma con il coinvolgimento diretto di testimoni privilegiati, che – in
qualità di accademici ed esperti della materia, o di professionisti del lobbying – provenissero ed
operassero proprio nel paese oggetto della ricerca, e ci aiutassero a raccogliere dati e informazioni
complesse in alcuni casi altrimenti irreperibili, anche grazie al superamento della barriera
linguistica e ad una conoscenza “da dentro” del sistema politico di ogni paese.
Pur nella consapevolezza delle immani difficoltà – legate all’individuazione dei giusti interlocutori
nei vari paesi, alle barriere linguistiche e al coordinamento di una ricerca obiettivamente
complessa per numero di persone coinvolte e dimensioni generali – si è riusciti a raccogliere una
grande quantità di informazioni (di natura sia quantitativa che qualitativa) riguardanti l’industria
del lobbying in ognuno dei paesi considerati.
Seguendo una traccia di intervista, si è chiesto ad ognuno dei partecipanti alla ricerca di fornire
una descrizione dettagliata di alcune variabili ritenute fondamentali per analizzare l’industria del
lobbying di ogni paese.
Tali variabili riguardano:







Il sistema politico del paese (all’interno del quale in particolare: la forma di governo, la
struttura istituzionale e il sistema elettorale, il sistema partitico, le forme della
partecipazione elettorale, etc.)
I principali destinatari delle campagne di lobbying e i principali canali di influenza dei
decisori pubblici (attività dei think tanks, finanziamento della politica, relazioni con i partiti,
etc.)
Il grado di sviluppo dell’industria del lobbying (numero di persone impiegate nel settore;
presenza di percorsi educativi – quali Master e corsi di specializzazione – specificamente
dedicati alla formazione alla professione del lobbista, etc.)
Il profilo tipico del lobbista (background di studi, prestigio sociale, percezione da parte
dell’opinione pubblica)
La regolamentazione pubblica delle attività di lobbying, e dettaglio delle norme previste nel
caso
Presenza o meno (e significatività) di organizzazioni professionali di rappresentanza del
settore; presenza di codici di auto-disciplina sviluppati da queste associazioni o dagli stessi
professionisti del settore
Una previsione sullo sviluppo e il futuro dell’industria del lobbying nel paese, anche in
relazione al livello europeo (UE).
Attraverso la raccolta di queste informazioni e l’elaborazione di un quadro comparativo di
riferimento, la ricerca (tuttora in corso) sta consentendo di individuare tendenze, fenomeni
rilevanti comuni, ma anche diverse problematiche e criticità.
Scopo del presente paper è proprio iniziare a dare conto dei primi risultati della ricerca, a partire
da quattro casi (dei ventotto) ritenuti particolarmente significativi per diverse ragioni, come si
cercherà di spiegare nei prossimi paragrafi.
IL CASO BRITANNICO
Vale la pena ricordare come la parola ‘lobbying’ nel suo senso moderno derivi proprio dalle lobby
di Westminster, le sale del parlamento britannico proprio al centro tra la Camera dei Comuni e la
Camera dei Lord, dove da almeno due secoli (McGrath 2011) i rappresentanti dei più molteplici
interessi interagiscono con Parlamentari e Membri del Governo al fine di influenzarne le decisioni,
dando così il nome ad una professione e ad un’intera industria, legata all’influenza nei confronti
dei detentori del potere. Oltre a questo significativo elemento, basti considerare che – oltre a
essere la più antica democrazia moderna del mondo (primato non da poco!) – il sistema politico
britannico è il caso storico alla base del cosiddetto modello Westminster (Lijphart 1984), che
prende infatti anch’esso il nome dal Parlamento britannico. Già solo questi tre elementi
basterebbero a rendere il caso britannico un caso con il quale fare obbligatoriamente i conti in
qualsiasi comparazione in questo campo, tuttavia vale la pena considerare tale caso anche per gli
sviluppi particolari che l’industria del lobbying nel paese ha seguito, in particolare riguardo alla
regolamentazione del settore e alla maturità della riflessione accademica, iniziata comunque
almeno vent’anni prima rispetto al resto d’Europa.
Nel sistema politico britannico, caratteristiche fondamentali sono: il Parlamento bicamerale, il cui
ramo principale viene eletto con un metodo elettorale maggioritario a turno unico (“first past the
post”); un sistema tendenzialmente bipartitico2, che vede il leader del partito di maggioranza
diventare Primo Ministro, con una forte connessione quindi tra Governo e la maggioranza della
Camera dei Comuni, che al Governo deve garantire la propria fiducia; un’amministrazione pubblica
politicamente neutrale al servizio del Governo al di là di caratterizzazioni partitiche.
In tale sistema, in virtù del forte ruolo dell’Esecutivo (che presumibilmente può contare su una
solida maggioranza parlamentare, e quindi può veder approvare la maggioranza delle proprie
decisioni), i gruppi di interesse privilegiano il rapporto diretto con Whitehall o con i membri del
Parlamento rispetto ad approcci più indiretti (di grassroots lobbying). Come spiegato da Lijphart,
“the typical interest group system of majoritarian democracy is a competitive and uncoordinated
pluralism of independent groups in contrast with the coordinated and compromise-oriented
system of corporatism that is typical of the consensus model” (1999, 171). È proprio questo il caso
britannico: al di là di uno storico legame del mondo dei sindacati con il Partito Laburista, infatti, i
gruppi di interesse nel Regno Unito preferiscono avere “le mani libere”, non legandosi
esclusivamente ad uno dei due partiti principali, ma piuttosto operando in un sistema pluralistico
2
Per quanto negli ultimi anni tale impianto sia stato messo in discussione, a partire dai risultati delle elezioni del 2010,
che hanno visto una buona affermazione dei Liberal-Democratici (23% dei voti e 57 seggi su 650), costringendo i
Conservatori ad un governo di coalizione con questi ultimi, e dalle elezioni di quest’anno, in cui – pur avendo il Partito
Conservatore conquistato la maggioranza assoluta dei seggi (331 su 650) – terzi partiti hanno avuto una buona
affermazione in termini di seggi o di voti (in particolare il Partito Nazionale Scozzese, che ha conquistato ben 56 seggi
a fronte del 4,7% dei voti, in virtù della concentrazione territoriale dei suoi seggi, premiante nel maggioritario a turno
unico).
di competizione per l’influenza, cercando di volta in volta di diventare insiders dei processi di
policy-making, soprattutto offrendosi come fornitori di expertise e di informazioni sulle singole
questioni oggetto di attenzione da parte del Governo (Baggott 1995).
Nonostante nel Regno Unito la prima agenzia di “lobbying & parliamentary affairs” sia nata nel
1928, e nonostante il carattere pluralista del sistema, anche qui come altrove la figura del lobbista
è guardata con sospetto, e soffre della mancanza di un vasto riconoscimento pubblico, anche a
causa di alcuni scandali che negli anni Novanta del secolo scorso, ma anche recentemente negli
anni Dieci, hanno coinvolto alcuni ex-membri dell’Esecutivo, un Ministro e da ultimo il Tesoriere
del Partito Conservatore.
L’industria del lobbying britannica vede la presenza di tre associazioni di categoria: l’APPC
(Association of Professional Political Consultants), la PRCA (Public Relations Consultants
Association) e il CIPR (Chartered Institute of Public Relations). Tutte e tre, sebbene in misura
diversa, prevedono un codice di autoregolamentazione per i propri membri attivi nel campo del
lobbying e dei public affairs.
In seguito alle attività di una Commissione Speciale della Camera dei Comuni tesa a investigare
proprio il funzionamento dell’industria del lobbying britannica, e dietro la “minaccia” di un forte
intervento legislativo nel settore, nel 2010 le tre associazioni si congiungono per formare lo UKPAC
(UK Public Affairs Council), con il proposito di istituire un registro unico dei lobbisti e di uniformare
i diversi codici di autoregolamentazione, propositi in larga parte inattuati, a causa
dell’incompletezza dei dati del nuovo registro, e del ritiro della PRCA dal nuovo organismo alla fine
del 2011. Così si arriva al Transparency of Lobbying, Non-Party Campaigning and Trade Union
Administration Act del 2014. La legge prevede una regolamentazione parziale del settore,
rivolgendosi esclusivamente ai lobbisti operanti in agenzie ed escludendo dalla disciplina i
cosiddetti in-house. La nuova disciplina, inoltre, istituisce un Registro pubblico delle agenzie di
lobbying, con alcune informazioni basilari su ognuna di esse, senza alcun obbligo di disclosure
rispetto a fatturati e spese per i singoli clienti. Il registro, attivo dal marzo di quest’anno, sembra
addirittura arretrare nella regolazione del settore rispetto al precedente registro volontario dello
UKPAC, comprendendo al momento (settembre 2015) solo 96 soggetti, senza ulteriori
informazioni su singoli professionisti e soprattutto con la significativa e grave esclusione del
settore dei lobbisti in-house, esclusi come si è già detto dalla legge istitutiva.
Secondo una stima del nostro interlocutore britannico, l’industria del lobbying nel paese vede la
presenza di circa 7.200 professionisti tra consulenti e lobbisti in-house, con questi ultimi che
ammonterebbero a circa il quadruplo rispetto ai primi (un dato significativo se si considera la
disciplina di legge appena analizzata).
In termini di formazione, il settore del lobbying appare fortemente intrecciato a quello delle
relazioni pubbliche, almeno fino ai primi anni Duemila, quando iniziano a nascere i primi Master
espressamente dedicati a Lobbying e Public Affairs. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il
background tipico di chi opera nel settore è quello di chi è passato attraverso esperienze politiche
in prima persona o come collaboratore, con una presenza rilevante anche di laureati in discipline
giuridiche, economiche e della comunicazione.
L’intero settore, ad ogni modo, appare fortemente in crescita, nonostante un ruolo pubblico
ancora da conquistare (almeno a livello di opinione pubblica), e una regolamentazione del settore
che presenta, come si è visto, innumerevoli e gravi lacune.
IL CASO SVEDESE
Il sistema politico svedese, che possiamo in questa sede considerare rappresentativo di diversi
paesi del Nord Europa, presenta delle caratteristiche piuttosto peculiari e interessanti nel quadro
di una comparazione sull’industria del lobbying in Europa.
Rispetto ai circa 64 milioni di abitanti del Regno Unito, la Svezia è assai più piccola, avendo una
popolazione di circa 9 milioni e mezzo. Se sul continuum democrazia maggioritaria / consensuale
di Lijphart il Regno Unito si trova ad una estremità, la Svezia è sicuramente più vicina al versante
opposto del continuum, quello della democrazia consensuale. Nel sistema politico svedese
spiccano: una legge elettorale proporzionale di lista su collegio unico nazionale (con sbarramento
nazionale al 4%), la presenza di diversi partiti (al momento nel Riksdag, il Parlamento svedese,
sono rappresentati 8 partiti), maggioranze di governo composte da coalizioni di diversi partiti, una
larga affluenza elettorale (con l’eccezione delle elezioni per il Parlamento europeo), una forte
caratterizzazione corporativa (Lijphart 1999).
L’industria del lobbying assume caratteri peculiari in virtù della grande apertura del sistema
politico e della trasparenza estrema dominante soprattutto in campo istituzionale (vale la pena
ricordare che la Svezia fu il primo paese al mondo a introdurre la libertà di stampa, nel 1776). Una
fiducia molto alta nelle istituzioni e un bassissimo livello di corruzione sono due fattori ambientali
da tenere presenti, anche nel giudicare il modo in cui le migliaia di associazioni non governative e
organizzazioni private (circa uno Svedese su due è attivo nel mondo del volontariato e
dell’associazionismo) si relazionano con i decisori politici, in un processo di “vicinanza naturale”
(usando un’espressione della nostra interlocutrice svedese).
Il termine ‘lobbying’ anche qui è visto con sospetto, e viene associato spesso agli aspetti più
deteriori della politica americana, precipuamente come influenza politica esercitata dal potere
economico. Per questo i professionisti del settore preferiscono usare espressioni meno dirette
come ‘government affairs’ o riferirsi alle più tradizionali relazioni pubbliche.
Nonostante queste incertezze lessicali, il lobbying viene ovviamente esercitato nel Paese: uno
studio di qualche anno fa riporta come, nel 2009, 3 parlamentari svedesi su 4 abbiano affermato di
essere stati contattati con frequenza da diverse organizzazioni al fine di influenzare un processo di
policy-making (Möller 2010); tuttavia, sembra non esistano agenzie di consulenza specificamente
dedicate al lobbying nel Paese, e che la funzione venga esercitata insieme ad altri compiti legati
generalmente al branding e alla comunicazione, principalmente in chiave di staff.
Non esiste una legge che regolamenti il settore nel paese, ma esistono un Codice etico elaborato
dall’Associazione delle Agenzie di Consulenza di Relazioni Pubbliche (PRECIS), che prevede
fondamentalmente un obbligo di trasparenza su chi si rappresenta.
Anche qui chi opera nel settore proviene prevalentemente da precedenti esperienze politiche o di
ufficio stampa, e non presenta background formativi dedicati. Nel Paese si ritrovano solo alcuni
corsi privati in advocacy o dei moduli specifici in corsi di comunicazione, ma non dei Master
espressamente dedicati alla professione del lobbista.
Lo sviluppo ulteriore del mercato, trainato da una complessità crescente del sistema politico e dal
sempre più preponderante ruolo dell’Unione Europea nelle legislazioni nazionali, probabilmente
contribuirà alla maggiore professionalizzazione del settore e all’acquisizione di uno status pubblico
diverso per una figura – quella del lobbista – ancora poco presente nel contesto svedese.
Resta da chiedersi, tuttavia, in che modo sull’industria del lobbying svedese pesi l’influenza del
carattere aperto del sistema politico, fortemente basato sul consenso e sul coinvolgimento
“naturale” di tutte le parti nei processi decisionali, e se non sia forse il caso di riflettere
ulteriormente sui contorni semantici della parola ‘lobbying’.
IL CASO ITALIANO
Il caso italiano può essere considerato un buon esempio rispetto al gruppo dei paesi europei
mediterranei. Con una popolazione di circa 60 milioni di abitanti, l’Italia appare da anni impegnata
in una difficile transizione, che ha visto il sistema politico del paese cambiare (o tentare di
cambiare) in molte delle sue caratteristiche, almeno dai primi anni Novanta del secolo scorso
(Guarnieri 2006).
Il termine ‘lobbying’ soffre anche in Italia di una connotazione negativa, in virtù di una confusione
concettuale mai sufficientemente dipanata (soprattutto sulla stampa) tra lobbying,
corporativismo, traffico di influenze, corruzione, etc. Non stupisce, quindi, che anche qui (come in
Svezia) la maggior parte dei professionisti del settore preferisca usare espressioni quali ‘relazioni
istituzionali’ e ‘public affairs’ al posto del più diretto ‘lobbying’.
Come nei casi precedenti, è opportuno provare a mettere in relazione alcuni aspetti fondamentali
del sistema politico con le caratteristiche del sistema dei gruppi di interesse per valutare appieno
condizioni di sviluppo e fattori influenti.
In primis, bisogna considerare il quadro della costituzione formale. Sul piano istituzionale, l’organo
centrale del sistema politico italiano è – almeno costituzionalmente – il Parlamento, il quale vota
la fiducia ad un Esecutivo nominato dal Presidente della Repubblica sulla base delle maggioranze
parlamentari. In realtà, occorre analizzare l’architettura costituzionale in un quadro complessivo
che tenga conto anche del sistema partitico, oltre che delle pratiche di fatto sviluppatesi
concretamente nel processo di policy-making. Per quanto riguarda il primo aspetto, occorre
distinguere almeno i due periodi della Prima Repubblica (1946-1993) e della Seconda Repubblica
(dal 1994 in poi). Nel primo periodo si rinvengono: pluralismo polarizzato (Sartori 1976), legge
elettorale proporzionale, alta partecipazione politica (riscontabile nell’affluenza elettorale e
nell’appartenenza partitica), dominio di un solo partito, in ottica anti-comunista (Galli 1966;
Colarizi 1996), forte intervento dello Stato nell’economia. In questo periodo, quindi, il sistema
della rappresentanza verte quasi esclusivamente sui partiti politici (oltre che sui sindacati,
comunque anch’essi affiliati al sistema partitico), lasciando pochissimi spazi per un’industria del
lobbying autonoma. Con la Seconda Repubblica, invece, molte delle condizioni succitate cambiano
radicalmente: con Tangentopoli, la fine della Guerra Fredda e l’arrivo di una nuova legge elettorale
di stampo prettamente maggioritario, emerge un nuovo sistema partitico, basato tendenzialmente
sul confronto e l’alternanza tra due poli alternativi3, favorita anche dalle nuove dinamiche della
comunicazione elettorale e della personalizzazione della politica. In questo quadro, vanno rilevate
una concentrazione crescente del potere nella mani dell’Esecutivo (evidenziata da un uso assai più
sostanzioso della decretazione d’urgenza e della legislazione delegata), e un’economia sempre più
“libera”, che vede il ruolo dello Stato passare da una presenza diretta nel mercato (con aziende di
Stato, partecipazioni pubbliche, etc.) ad un ruolo indiretto di regolatore di settori ormai
totalmente in mano privata.
Nella nuova era della Seconda Repubblica, i partiti politici (insieme a sindacati e Confindustria)
continuano ad esercitare un ruolo predominante, ma evidentemente il bisogno di rappresentanza
politica e sociale non può più essere soddisfatto esclusivamente da questi soggetti tradizionali, in
una realtà più complessa e dinamica che vede crescere l’attività “politica” del Terzo Settore
(Antonucci 2014), delle singole associazioni di categoria, nonché delle stesse aziende.
Sono proprio queste le condizioni che consentono la nascita e lo sviluppo di un’industria del
lobbying in Italia. Purtroppo la percezione pubblica non è cambiata nel tempo, anche a causa della
mancanza di una regolamentazione ad hoc del settore, e della mancata attuazione di alcune
disposizioni legislative in teoria già presenti a riguardo (Petrillo 2011).
Sul piano della rappresentanza del settore, occorre menzionare l’attività dell’unica associazione di
categoria specificamente dedicata al lobbying, Il Chiostro (che questo autore ha contribuito a
fondare e coordinare dal 2008 in poi), la quale ha elaborato un Codice Etico che tutti i soci sono
tenuti a sottoscrivere, e che organizza numerose attività di formazione e di promozione pubblica
della professione, oltre a quella della Federazione italiana dei professionisti delle relazioni
Pubbliche (FERPI), che pure comprende al suo interno una divisione dedicata ai public affairs.
Anche sommando il numero degli associati a entrambe le organizzazioni (sebbene vi siano
sovrapposizioni), non si supera il numero di 1000 professionisti. Un numero certamente molto
lontano dal rappresentare la realtà di un settore in continua espansione nel Paese, come
testimoniano anche l’attività di diversi Master specificamente dedicati al campo del lobbying e dei
public affairs.
3
Anche qui, come per il caso britannico, le recenti tornate elettorali segnano una discontinuità rilevante, grazie
all’affermazione, nelle elezioni del 2013, di un terzo polo (Diamanti, Bordignon e Ceccarini 2013). È ancora presto,
tuttavia, per diagnosticare un cambiamento duraturo del sistema partitico nel Paese.
IL CASO BULGARO
L’ultimo caso che prendiamo qui in considerazione, in parziale rappresentanza di alcune tendenze
comuni ai paesi dell’Europa orientale, è la Bulgaria.
Sebbene i processi di influenza del potere riguardino tutti i tipi di regime politico, si può affermare
che una vera e propria industria del lobbying possa esistere unicamente nei contesti democratici,
per questo si può propriamente indagare il fenomeno – in Bulgaria come negli altri paesi una volta
appartenenti al blocco sovietico – solo a partire dal collasso dell’Unione Sovietica, appurando
semmai il retaggio che quest’esperienza storica ha prodotto.
Proprio la difficile transizione democratica che la Bulgaria (con i suoi circa 7 milioni e mezzo di
abitanti) vive a partire dal 1990 molto può dirci sulle condizioni necessarie per un’industria del
lobbying “matura”, a partire da una società civile autonoma, un processo di policy-making
trasparente e aperto, un alto livello di fiducia nelle istituzioni. Tutti fattori che nella Bulgaria postcomunista difficilmente si possono riscontrare. In effetti, fin da subito nel Paese si può dire che
abbiano fatto sentire la propria influenza soprattutto alcuni soggetti stranieri, miranti a cancellare
velocemente le tracce del regime precedente e ad influenzare la nuova politica bulgara secondo i
propri interessi strategici (Anguelova-Lavergne 2008; Mavrov 2011).
La Bulgaria è una repubblica presidenziale, che prevede una legge elettorale proporzionale in
collegi plurinominali per l’elezione dell’Assemblea Nazionale (con sbarramento nazionale al 4%), e
un maggioritario a doppio turno per l’elezione del Presidente. Nel Parlamento nazionale sono al
momento presenti 8 partiti.
Anche qui il termine ‘lobbying’ è vissuto come un termine “d’importazione americana” dagli
esperti, mentre dall’opinione pubblica e dalla stampa è apertamente visto come legato a qualcosa
di oscuro e non trasparente all’interno del processo politico (Transparency International Bulgaria,
2014).
Come per l’Italia, non c’è una specifica regolamentazione legislativa del settore, sebbene diverse
disposizioni possano rinvenirsi a proposito di conflitti d’interesse, di finanziamento elettorale e di
Pubblica Amministrazione (Mavrov 2011). La mancanza di una disciplina dedicata e soprattutto il
quadro di un processo politico ancora percepito come oscuro e accessibile solo per alcuni interessi
ben precisi determina un quadro in cui difficilmente può prosperare un’industria del lobbying
matura. Alla fine, sembrano pesare su questo mancato sviluppo diversi fattori sistemici, quali la
concezione prevalente del rapporto tra lo Stato e gli interessi privati, e in generale una cultura
politica ancora pesantemente condizionata da cinquant’anni di comunismo.
L’assenza di percorsi di formazione dedicati, così come di associazioni professionali dedicate
(l’unica organizzazione nel campo è la BAPRA - Bulgarian Association of Public Relations Agencies),
appare pertanto un sintomo naturale di questo quadro.
Resta da vedere quale influenza, sulla società bulgara e sulle sue istituzioni, eserciterà nel mediolungo-periodo l’appartenenza all’Unione Europea (di cui la Bulgaria è parte dal 2007), anche in
virtù delle particolari caratteristiche dell’apparato pubblico bulgaro all’interno dello stesso
contesto est-europeo (Mihova 2014).
CONCLUSIONI
Alla luce dei quattro casi considerati in questo paper, possiamo provare a delineare alcune
considerazioni – di metodo e di merito – emergenti da una prima comparazione.
Iniziamo dalle considerazioni di metodo. La prima riguarda un incerto inquadramento teorico del
fenomeno lobbistico all’interno di confini concettuali ben precisi. Come emerge già dai quattro
casi considerati – ma anche la letteratura accademica sul tema non sembra offrire soluzioni
univoche – siamo in presenza di un problema definitorio non indifferente, costituito da una
sovrapposizione parziale tra le attività di lobbying, di public affairs, nonché di relazioni pubbliche e
più in generale di comunicazione. Da una parte è vero che – in linea pratica – tali attività si
intrecciano concretamente, sia per competenze che per funzioni organizzative all’interno di
agenzie di consulenza e di aziende, tuttavia, in un lavoro di ricerca come il nostro, rimane da
risolvere il problema di poter comparare informazioni e dati che si riferiscano alla medesima realtà
anche in tempi e luoghi diversi, al fine di non perdersi in un miasma di cifre incommensurabili poco
significative se viste nel loro insieme. Per fare un esempio concreto sui nostri casi: se per Regno
Unito e Italia abbiamo potuto facilmente individuare le associazioni di rappresentanza dei lobbisti
(UKPAC e il Chiostro), possiamo comparare e mettere sullo stesso piano le associazioni dei
professionisti delle relazioni pubbliche individuate invece nel caso svedese e nel caso bulgaro
(PRECIS e BAPRA)? Vale la pena ricordare che nello stesso caso britannico, due delle tre
organizzazioni alla base della UKPAC fanno riferimento al mondo delle public relations, mentre la
terza si concentra sui political consultants. Anche in Italia abbiamo preso in considerazione la
FERPI, anch’essa facente riferimento alla più “vecchia” e affermata professione delle relazioni
pubbliche. Ma come risolvere questo problema? Quale definizione può farci distinguere con
certezza l’industria del lobbying da quelle affini ma diverse delle relazioni pubbliche, dei public
affairs, della comunicazione? Vanno in effetti distinte oppure no?
Una seconda considerazione di metodo deriva anch’essa dallo stesso problema definitorio. Nel
computo dei professionisti del settore, occorre considerare diversamente i lobbisti di agenzia e
lobbisti in-house (come fa la legge britannica, che esclude totalmente i secondi), oppure no? Come
elaborare un metodo di calcolo coerente e soprattutto che possa essere applicato allo stesso
modo in contesti diversi in chiave comparata? Come comparare, a tale proposito, paesi con un
Registro pubblico obbligatorio (Regno Unito) con paesi in cui non è prevista alcuna
regolamentazione pubblica (Italia, Svezia, Bulgaria)?
Collegata direttamente a queste due prime considerazioni, è una terza di carattere generale,
riguardante l’affidabilità dei dati e delle informazioni rinvenute. Nel caso dei paesi non
regolamentati (o meglio, in cui non è previsto un registro obbligatorio dei lobbisti), si può fare
riferimento ai numeri degli associati alle organizzazioni di categoria (come abbiamo fatto ad
esempio per l’Italia, sommando i soci del Chiostro e quelli della Ferpi). Tuttavia, è piuttosto
intuitivo che – trattandosi di associazioni volontarie (e non per esempio di Ordini professionali ad
iscrizione obbligatoria) – tali associazioni non riescano a raccogliere al loro interno la totalità dei
professionisti del settore, e quindi che una parte del fenomeno sfugga comunque alla rete del
ricercatore. Come colmare questa lacuna?
Volendo tracciare ora qualche considerazione di merito, è possibile riscontrare in tutti e quattro i
casi considerati una crescente professionalizzazione dell’industria del lobbying, sebbene in gradi
molto diversi: nascente nel caso bulgaro (soprattutto per cause esogene), a uno stadio ben più
avanzato nel caso britannico (nonostante una regolamentazione pubblica del settore arrivata solo
lo scorso anno). In tutti e quattro i casi, la percezione pubblica del lobbista è negativa, e sconta
gravi pregiudizi da parte della stampa e dell’opinione pubblica in generale, che sovrappongono il
termine ‘lobbying’ con quello di corruzione nel peggiore dei casi o di opacità decisionale nel
migliore.
Al netto delle osservazioni definitorie svolte poc’anzi, si può dire che la presenza di associazioni
professionali, nonché la presenza di un dibattito sulla regolamentazione del settore in tutti e
quattro i contesti (sebbene solo nel caso britannico si sia arrivati all’approvazione di una legge,
comunque molto blanda), possano costituire due indicatori rilevanti nella definizione di un settore
tendenzialmente in crescita ovunque.
Oltremodo interessante appare mettere in relazione lo sviluppo di un’industria del lobbying vera e
propria con le tradizionali forme della rappresentanza e i tradizionali canali di accesso al processo
di decisione pubblica nei vari paesi. Se nel caso italiano appare ancora evidente un ruolo
preminente dei partiti politici (retaggio di una Prima Repubblica in cui essi esercitavano il ruolo di
interpreti delle diverse istanze sociali ed economiche in modo quasi esclusivo) – ruolo dagli anni
Novanta messo in discussione da uno scenario sociale, economico e politico assai cambiato – nel
caso svedese l’estrema apertura del sistema politico, nonché i numeri ridotti del Paese –
sembrano affermare una cultura di partecipazione politica tesa ad includere più facilmente i vari
attori, anche in virtù della caratterizzazione del Paese come democrazia basata sul consenso e
sull’inclusione, secondo l’inquadramento suggerito anche da Lijphart (1984 e 1999). Nel caso
bulgaro sembra invece pesare l’assenza di una società civile sufficientemente sviluppata in
dinamismo e autonomia, con un retaggio del vecchio regime i cui segni rimangono ancora visibili
tutt’oggi, nel quale l’apertura del processo decisionale appare più l’eccezione che la regola.
Ad ogni modo, un’ultima considerazione di metodo generale, alla luce dell’analisi svolta e dei casi
considerati, riguarda la necessità – non abbastanza messa in luce nella letteratura sul tema – di
integrare l’analisi dell’inquadramento giuridico e della regolamentazione dell’industria del
lobbying (su cui sembra essersi concentrata la comparatistica negli ultimi anni) con un’analisi
approfondita dei sistemi politici nei quali le diverse industrie del lobbying sono immerse. Senza
una visione integrata del sistema dei gruppi di interesse dei diversi paesi, con le loro diverse
strutture istituzionali, i loro diversi sistemi della rappresentanza, le diverse culture politiche e
filosofiche e i diversi quadri sociali ed economici, si corre il rischio di concentrare un’analisi
comparata sugli aspetti più evidenti e facilmente indagabili del fenomeno, ignorando tuttavia la
parte più importante dell’iceberg, costituito dal sistema dell’influenza e dai processi reali di
decisione di ogni paese.
Resta da chiedersi se gli indicatori scelti nella presenta ricerca, evidenziati nel secondo paragrafo,
siano sufficienti a cogliere la ricchezza di una realtà, quella dell’industria del lobbying,
intimamente legata a tutti gli altri aspetti del sistema politico di ogni Paese.
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