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FABRIZIO FONDI
IL GIORNO DEL PERDONO
Erano appena le sette della mattina e il sole era ancora una palla rosa
che fronteggiava timidamente la finestra dello studio dentistico. Il
medico aprì la tenda e lasciò entrare la luce. Si fermò a contemplare
quella bellezza, ma il viso di suo fratello gli si conficcò di nuovo tra i
pensieri e gli spazzò via di colpo ogni piacevole sensazione,
lasciandolo irritato e preoccupato. Ultimamente quella faccia
disperata veniva a trovarlo troppo spesso.
Scosse la testa e si riportò con decisione alla sua scrivania. Perfino uno
studio dentistico, in quel silenzio celestiale, poteva diventare un
ambiente piacevole.
Se solo non ci fosse stato quel maledetto
ricordo...
Aveva due ore di pace prima di cominciare a lavorare. Si immerse
nella lettura di un articolo e qualche minuto più tardi ne fu
completamente assorbito.
«Buongiorno, dottor Favia».
Il medico saltò sulla sedia per la paura. Avvinghiò la mani sui braccioli
della poltrona e li strinse così tanto da farli gemere.
L'uomo di fronte a lui era alto almeno due metri e spaventosamente
magro. Aveva una voce sferzante e assolutamente priva di sentimento.
Sembrava di sentir parlare un rasoio elettrico. I lunghi capelli, color
biondo cenere, erano pettinati indietro e lasciavano in evidenza un
naso che pareva il becco di un avvoltoio. Due baffetti biondi e sottili
davano alle sue labbra l'impressione di sorridere continuamente.
Aveva ai piedi aveva un paio di stivali neri sui quali spiccavano due
lucenti speroni d'argento. I suoi occhi erano vivi e attenti, e lo stavano
scrutando come due cani da caccia. Furono quegli occhi ad annunciare
al dottor Giovanni Favia che le cose, per qualche ragione che non gli
era ancora chiara, si stavano mettendo piuttosto male.
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L'uomo si accostò lentamente alla finestra e guardò fuori.
«Ti sei sistemato piuttosto bene, dottore» gli disse continuando a
guardare all'esterno.
«Lei...lei..chi...»
«Non importa granché» rispose l'uomo voltandosi con una agilità
insospettata «perché in fondo lo sai, chi sono. C'è davvero bisogno che
te lo spieghi?»
Gli rivolse un sorrisetto obliquo e il medico si sentì avvolgere dentro
una valanga di ghiaccio.
«Qui conta poco chi sono io, caro il mio dottore. Qui conta chi sei tu».
«Io...non capisco...come ha fatto a entrare? La porta è...»
«Sono dettagli, Giovanni. Dettagli che ci portano via tempo e basta».
L'uomo gli sedette di fronte. Il suo odore era nauseabondo. Sembrava
appena spuntato dal centro della terra, pensò il medico, poi si pentì di
quella fantasia. Perché in fondo non era detto che fosse davvero una
fantasia. Sentiva il suo cervello assalito dai pensieri più assurdi.
«Hai paura, Giovanni? E' un po' tardi, ormai...»
«Io voglio solo che lei esca da questo studio. Non l'ho sentita entrare,
ma questo non vuol dire che...»
«Perché vedi» disse l'uomo ignorandolo e alzando un po' la voce «tra
noi due c'è un rapporto molto speciale. E io non mi muovo mai senza
un motivo, caro Giovanni Favia».
Fu spaventato dal modo in cui l'uomo aveva rimarcato il suo nome.
Come se avesse appena letto il nome di una portata appetitosa da una
lista di pietanze.
«Tra noi due non c'è proprio nessun rapporto» rispose gelido il
medico «e io adesso avrei un po' da fare. Perciò la prego cortesemente
di...»
«E' così che pensi di scacciare i fantasmi, dottore? Pensi che basti
metterli cortesemente alla porta? O magari incatenarli a una bella
zavorra e buttarli nel fondo di un fiume, eh?»
Quelle parole lo paralizzarono. Il sole si era alzato e picchiava dentro
la stanza imponendo il suo calore. Ma non era il sole che gli toglieva il
respiro.
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«Eppure uno come te dovrebbe saperlo che i fantasmi prima o poi
tornano a galla, no?»
Il dottor Favia risucchiò avidamente un po' d'aria, poi appoggiò una
mano tremolante sul telefono.
«Chiamo i carabinieri, allora. Se non se ne va prima, ci penseranno
loro».
«No, non lo farai» rispose l'uomo dirigendo il suo sguardo affilato
verso la libreria che stava alle spalle del medico «perché non penso
proprio che tu abbia un buon rapporto con loro. O sbaglio?»
Il medico allontanò rapidamente la mano dalla cornetta come se fosse
incandescente.
«Allora sentiamo cosa vuole. Prima che la sua diventi una violazione
di domicilio, l'avverto che io non...»
«Basta con queste cazzate, dottore. Perchè non parliamo invece delle
tue violazioni? O mi vuoi dire che tu sei un santarello senza macchia?»
Giovanni Favia si sentì sprofondare in un tunnel nero come la pece.
Un tunnel senza uscita.
«Ma...ma lei chi è?»
«Me l'hai già chiesto, pezzente, eppure lo sai bene, chi sono».
Il fetore del suo alito lo stordì. Eppure quello era poca cosa rispetto al
resto. Sentiva la presenza di quell'uomo tra i suoi pensieri, come una
trivella inarrestabile. Gli leggeva dentro come un libro spalancato e...
L'uomo si alzò di nuovo, incredibilmente agile per la sua statura. Gli
inchiodò i suoi occhi addosso e il medico si sentì senza scampo.
«Vogliamo parlare di quella notte, dottore? Eri già così religioso,
quella notte? O forse lo sei diventato più tardi, giusto per mondarti
l'anima...»
Giovanni Favia si portò le mani alla faccia e cercò di fermare il pianto
ma non ci riuscì. Quando staccò le mani dal viso, due minuti dopo, i
suoi occhi erano gonfi e le sue gote di un rosso intenso. Un filo di
muco gli colava dal naso. L'uomo aspettava paziente, scorrendo le
costole dei libri una a una.
«Da quella notte è passato...neanche mi ricordo più, quanto tempo è
passato...»
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«Te lo dico io, dottore. Trent'anni e qualche mese. Esattamente il
tempo che era previsto prima del mio intervento. E adesso eccomi
qua».
L'uomo si sedette di nuovo. Il suo viso si fece di colpo serio e duro
come il diamante.
«Sono venuto a sistemare le cose, Giovanni. A riportare l'equilibrio.
Mancano esattamente ventiquattro minuti. Direi che è proprio l'ora di
cominciare».
«Vuole dei soldi? Dica una cifra, una qualunque...»
«Non ci fai più niente con i tuoi soldi, ora. Tra ventiquattro minuti
sarai morto e i tuoi soldi se li godrà qualcun altro. Spero solo che sia
qualcuno meno bastardo di te».
«Ma insomma! Basta, perdio!»
Il dottor Favia guizzò in piedi. La sua faccia era una perfetta miscela di
disperazione e terrore. Le vene che gli correvano lungo il collo erano
scure e spesse, gli occhi gli debordavano dalle orbite.
«Mi dica che cazzo vuole e se ne vada! E basta con questi giochetti
da...»
L'uomo si alzò dalla sedia con la rapidità di un ghepardo. Lo afferrò
per i capelli e gli sbatté la fronte sul piano della scrivania prima ancora
che lui potesse pronunciare un'altra sillaba, poi lo spinse sulla sedia e
lo mise a sedere. Sulla fronte del medico si aprì un taglio che la
attraversava da una tempia all'altra. Il sangue cominciò a colare,
denso e scuro come succo di ciliegia.
L'uomo attese pazientemente che il medico si riprendesse. Lo vide
sbattere più volte le palpebre, rianimarsi a poco a poco e mettere a
fuoco la situazione.
«Non costringermi ad anticipare i tempi, dottore. Per te sarebbe solo
peggio».
Giovanni Favia si portò una mano alla fronte, poi si pulì sui pantaloni
e si rassegnò a obbedire. Quell'uomo era più forte, più veloce, più
cattivo di lui. Ma le sue parole erano più dolorose dei suoi colpi.
«Ti sei chiesto perché negli ultimi giorni non hai fatto che pensare a
Stefano?»
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Giovanni Favia sentì un grumo intasargli la gola. L'uomo stava
finalmente arrivando al dunque.
«Cosa c'entra Stefano, adesso?»
«Cosa c'entra? Diciamo...che quello è il tuo fantasma, no?»
Il medico abbassò lo sguardo. Una goccia di sangue cadde sul piano
della scrivania ma lui non ci badò. Guardò invece l'uomo che
sorrideva, in bocca due chiostre di piccole lapidi giallastre, sbeccate e
consumate da un tempo...eterno. Adesso sembrava invecchiato di
colpo: la sua pelle si era raggrinzita e ingiallita, gli occhi erano due
pozzi neri infiniti, un concentrato di dolore antico.
«Adesso devi solo confessare, dottore. Poi ti falcio via come un mazzo
di spighe».
Giovanni Favia fissò gli occhi dell'uomo e convenne che quello era uno
sguardo capace di ammazzare.
«Allora?» insisté lui.
«Vuole...vuole sapere com'è andata? Vuole che le...»
«Io lo so già com'è andata. Voglio che tu riviva quel momento per filo
e per segno».
Il medico intrecciò le mani sul piano del tavolo e fece un gran respiro.
«Sono pronto».
L'uomo sorrise e allargò le braccia.
«E allora comincia. Io sono qua per ascoltare».
*
*
*
Sono nato il 10 giugno del 1937, nove minuti dopo mio fratello
Stefano. Nostro padre era dentista, nostro nonno era stato dentista e
noi, naturalmente, eravamo destinati a fare lo stesso mestiere.
Pensare ad altro non era neanche in discussione.
Siamo stati abituati dalla vita a dividere tutto da sempre, i giochi e gli
amici durante l'infanzia e l'adolescenza, le paure dei bombardamenti
durante la guerra, abbracciati nei sotterranei a farci coraggio mentre
la sirena fischiava tra le strade e le donne pregavano sotto ai tavoli.
Poi il lavoro, lo studio dentistico, la casa, le auto, i vestiti, gli spazi, i
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guadagni e le rinunce. Ma soprattutto le donne: niente impegni
sentimentali, niente relazioni serie, solo sesso, possibilmente
lussurioso e perverso, consumato alla svelta e diviso da buoni fratelli.
Professionisti irreprensibili durante il giorno, viziosi e goderecci al
calare della sera. Una doppia vita condotta assieme in perfetto
accordo. Talmente identica che stare separati, anche solo per qualche
minuto, ci ha sempre provocato un'ansia irrimediabile. Stare da soli
era come uscire di casa nudi.
Eravamo un raro e clamoroso caso di soggetti identici: nei tratti
somatici, nelle espressioni, nei movimenti. Avevamo addirittura la
stessa voglia color caffellatte sotto la scapola sinistra. Ci dicevano
spesso che sembrava di vedere due bracci di una stessa macchina.
Praticamente due cloni con una vita identica.
Un fratello gemello è una persona alla quale non puoi nascondere
nulla. Perché lui è come te, pensa e agisce come te, desidera ciò che
desideri tu, odia ciò che odi tu. Parlare con lui è come parlare con sé
stessi.
Questo era ciò che avevo sempre pensato fino all'anno 1968. Fino a
quella fatidica e maledetta giornata dell'anno 1968 che cambiò tutto. E
divise per sempre le nostre vite.
*
Era la metà di un pomeriggio zeppo di lavoro quando incrociai Stefano
lungo il corridoio dello studio. Mi prese per un gomito e mi trascinò in
una stanza riservata. Era sudato e ansimava.
«Hai già prenotato alla bisca?» gli chiesi. Il gioco era un'altra di quelle
bestie che ci divorava le carni.
«Stasera non posso venire. Ho appena conosciuto una, giù al bar...»
«E allora?»
«Vedessi che splendore! Non riesco a togliermi dalla testa quelle
gemme verdi, Giò. L'ho abbordata mentre prendeva un cappuccino.
Due chiacchiere, una passeggiata e in un lampo è passata un'ora. L'ho
invitata a cena e lei ha accettato. Ancora non ci credo! È di una
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bellezza accecante, credimi. Stasera la porto alla locanda di
Antonio...»
Me lo disse con una certa riluttanza. Sapeva bene che le rarissime
volte che dovevamo separarci nasceva un problema per entrambi, ma
intuivo chiaramente che non avrebbe potuto rinunciarne per niente al
mondo. Già riuscivo a scorgere l'affacciarsi di una forza nuova e
potente che lo stava trasformando. Soltanto un'ora, era passata, ma
sufficiente a scavare tra noi un solco formidabile. La sua immensa
portata non mi era ancora del tutto chiara.
Anzi, non mi era per niente chiara.
*
*
*
«Come sarebbe a dire niente sesso? Hai sprecato una serata intera a
chiacchierare del nulla? Ma sei impazzito?»
Lo fissavo perplesso, quasi incredulo. I suoi occhi guardavano lontano,
come se la sua vita con me fosse già passato morto e sepolto.
«Al momento di affondare il colpo non me la sono sentita. Non lo so.
All'improvviso mi è sembrata...una cosa da non fare. Avevo paura
che...»
«Che non ci stesse? Bastava che mi raggiungessi alla bisca e ti saresti
divertito alla grande. La carne fresca non mancava, Ste'. Non ti invidio
proprio...»
«Beh, che posso dirti. Non ce l'ho fatta e basta. Domani sera la vedo di
nuovo e forse stavolta...»
«Ancora? Sei proprio un masochista, allora! Quella è una scassaballe,
Ste', lo sai meglio di me. Le abbiamo sempre rifuggite come la peste,
quelle così».
Stefano si alzò e se ne andò dritto a dormire. Quelle battute gli
facevano male e io ne godevo. E mi impegnavo cercando di distruggere
una felicità che gli vedevo traboccare dagli occhi. Già allora avrei
dovuto riconoscere che i nostri volti, ancora identici in superficie,
avevano assunto due espressioni profondamente diverse. Il mio era
ancora il ritratto del cinismo, il suo quello della speranza.
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*
«Non ho voglia di parlarne, adesso».
Era passato un altro giorno. Ridevo a crepapelle e continuavo a
punzecchiarlo ma Stefano teneva la testa bassa e si manteneva serio,
addirittura contrariato. Stavolta era davvero un'altra cosa. Amava già
quella ragazza con tutto sé stesso, potevo sentirlo nell'aria. Lo frenava
soltanto la paura delle ripercussioni sul nostro rapporto.
E io, invece di venirgli incontro, godevo a rigirare il coltello nella
piaga.
« Quando sono rientrato, ieri sera, già dormivi della grossa. Che c'è, la
mamma la vuole a casa entro la mezzanotte?»
«Ha ventisette anni, frequenta l'ultimo anno di medicina e vive da
sola. Sarò rientrato al massimo un'ora prima di te».
«Ma insomma, te la sei scopata o no?»
«No».
«No?! E che diavolo hai fatto con lei fino alle due di notte?»
«Abbiamo conversato, Giovanni. Di un sacco di cose. E ho scoperto
che è una persona meravigliosa. E' intelligente, è determinata, è leale.
Mi piace da morire...»
«Ma niente sesso...»
«Prima o poi succederà, non mi faccio tutta questa fretta».
«Questo significa che la vedrai ancora?»
«Stasera alle nove. Andiamo a cena alla Pagoda. Mi aspetta qui al bar
di fronte».
«E così un'altra serata se ne va a puttane...»
«Ti consiglio di farci l'abitudine, Giò. Per una così potrei anche
appendere le scarpette al chiodo. Tu ti rifiuti ancora di crederci, ma io
non sono mai stato così serio. Insieme ne abbiamo fatte Dio solo sa
quante, però adesso mi interessa questa ragazza, Gio'. Voglio provare
a costruire una relazione con un minimo di spessore. Mi rendo conto
che detto da uno come me fa ridere, ma stavolta vado fino in fondo».
Gli sedetti accanto, estrassi due banconote da cinquantamila lire e le
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posai sulla scrivania.
«Centomila che è come le altre. Me la faccio nel giro di una serata».
«Stavolta niente scommesse, Gio'. Stavolta siamo su un altro livello».
Si alzò velocemente dalla sedia e afferrò il camice senza indossarlo. Si
avviò a testa bassa verso l'uscita.
«Vado a lavorare adesso».
Chiuse la porta dietro di sé lasciandomi attonito. Ancora non riuscivo
ancora a crederci. Per la prima volta quella splendida vita in simbiosi,
che appariva agli occhi di tutti eterna e indistruttibile,
rischiava
seriamente di avere fine. Per la prima volta ebbi paura. Paura di
perdere metà di me stesso.
*
*
*
Quando fermai l'auto di fronte ai tavoli esterni del bar, dovetti
ammettere che Giovanni non aveva esagerato. Dana si alzò e si diresse
verso di me come se sfilasse in passerella. Sembrava scesa
direttamente dal paradiso. Entrò in auto e il suo profumo inondò
l'abitacolo mentre, per la prima volta, sentivo una punta di invidia
farsi largo nel mio cuore. Sciolse i capelli lasciandoli liberi di fluttuare
lungo la schiena fin quasi all'altezza dei fianchi. In prossimità delle
punte erano giallissimi.
«Non so cosa dire. Sei splendida».
«Grazie. Anche tu sei niente male, "dottor Favia"».
Aveva un sorriso radioso. Il ristorante era a pochi minuti di auto. Ma
alla sua altezza tirai dritto lungo la strada principale.
«Guarda che dovevi svoltare qui».
«Lo so. Ma voglio prima farti vedere una cosa».
«Cosa?»
«Abbi due minuti di pazienza e vedrai».
Lei rispose con un sorriso indimenticabile. Un sorriso fiducioso.
La portai in un posto sterrato a buio alla periferia della città. Quando
frenai in uno spiazzo deserto, le ruote stridettero alzando attorno una
spessa nube di polvere.
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«Mamma mia, che posto!»
Non le risposi. Mi voltai verso di lei e le infilai una mano tra le cosce.
La sentii irrigidirsi ma non mi fermai. Non ero abituato a fermarmi.
«Stefano...cosa fai? Io non credo di essere pronta...»
Avevo cominciato a baciarla sul collo, poi le appoggiai una mano sul
seno. Spinsi un bottone laterale e il suo sedile cominciò a sdraiarsi
gradualmente.
«Stefano...aspetta. Aspetta un attimo, perdio!»
Le sbottonai i primi due bottoni della camicetta e fiondai la testa tra i
suoi seni senza neppure ascoltarla ma lei mi schiaffeggiò decisa.
«Stefano! Maledizione! Falla finita!»
Mi prese la testa tra le mani e quando ci guardammo lessi nel suo viso
un terrore autentico. La luce nei miei occhi, il mio sguardo, la piega
tortuosa della mia bocca: tutto di me in quel momento le faceva paura.
E io ero a un passo dall'essere fuori di me. La sua bellezza mi mozzava
il respiro, ma il mio desiderio era in realtà ingigantito dall'idea che
non potesse essere mia. Era di Stefano e lui non l'avrebbe mai divisa
con me. E per questo dovevo averla.
Poi un lampo nei suoi occhi e tutto precipitò.
«Tu...tu non sei Stefano! Tu... tu sei... Giovanni! Vi...vi siete scambiati
di ruolo, eh? Siete due bastardi. Siete due carogne! Lasciami, metti giù
le mani, lasciami! Non mi toccare! Non ti azzardare a toccarmi!»
In trenta anni mai mi era successo che qualcuno riuscisse a
distinguerci solo dal viso.
Provai la orribile sensazione di essere
smascherato. Qualcuno aveva scavato sotto la superficie. E in
quell'attimo qualcosa si lacerò per sempre.
«Sta' zitta, puttana. Sta' zitta e ferma. Apri 'ste cosce e sta' zitta!»
Ma lei non cedette. Mi schiaffeggiò e gridò con tutta la sua forza. Mi
colpì all'addome con le ginocchia. Mi insultò in tutti i modi,
sbracciando e cercando di liberarsi. Cercai di calmarla ma peggiorai le
cose. Finchè non sentii la rabbia montarmi addosso alla velocità della
luce. E la bestia prese il sopravvento.
«Zitta, Cristo! Zitta! Zitta! Zitta!»
I pugni mi partirono dalle mani uno dietro l'altro. Sette, otto, nove,
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dieci. Tutti al volto, forti, furibondi. Non ricordo di aver mai più
provato un'ira così profonda. Venti, ventuno, ventidue. Quando mi
fermai, la ragazza aveva smesso di parlare da un pezzo. Le mani mi
tremavano, gocciolavano di sangue ed erano livide. Il suo volto era
irriconoscibile, le sue braccia, che un attimo prima avevano così
fieramente dato battaglia, si erano adagiate inerti lungo il corpo. Mi
sforzai di riprendere il controllo, cercando di calmare quell'incalzante
batticuore che aveva accompagnato l'ondata di panico. Attorno
all'auto c'erano soltanto un buio fitto e un silenzio di tomba.
E piangere sul passato non sarebbe servito a niente. Potevo solo
scegliere di andare a costituirmi al primo commissariato oppure far
sparire il cadavere e pulire meticolosamente l'automobile.
E questo decisi di fare.
*
*
*
Dormiva ancora profondamente e provai una gran pena per lui. Gli
avevo fatto uno sgarro senza precedenti, ma adesso potevo solo
seguire la corrente e sperare che ci portasse presto fuori dal tunnel.
Feci un lungo respiro e attaccai con la recita.
«Ste'. Vuoi svegliarti o no? Ste' !»
Ci volle un po' prima che si svegliasse, poi aprì gli occhi d'improvviso,
si sedette sul letto con la bocca aperta e lo sguardo smarrito. Si guardò
attorno cercando di raccapezzarsi. Sapevo cosa stava pensando. Un
attimo prima era uscito dalla doccia, aveva indossato l'accappatoio e
stava scegliendo il vestito da indossare per la cena con Dana. Poi si era
sdraiato un istante sul letto per placare quel terribile attacco di
sonnolenza che lo aveva assalito. E in un baleno si erano fatte le nove
di mattina.
«Dobbiamo andare, Ste'».
Lui continuava a guardarsi attorno spaesato.
«Ma...ma...che cazzo succede? Ieri sera...»
«Ieri sera dormivi come un sasso. Ho provato a svegliarti in tutti i
modi ma non c'è stato niente da fare. Allora ti ho lasciato perdere e
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sono andato alla bisca da solo. Che serata! Ho vinto quattrocentomila.
Non hai idea di cosa ti sei perso...»
Stefano neanche mi ascoltava. Si vestì alla meglio, senza neppure
legarsi le scarpe. Si fermò davanti allo specchio e si diede una
sistemata veloce ai capelli.
«Ci vediamo più tardi allo studio. Poi ti spiego».
Lo lasciai correre via e del resto non potevo fare altrimenti.
La tragedia puntava verso di noi. Riuscivo a scorgerla come un
capitano di vascello riesce a scorgere la tempesta dalle prime
avvisaglie. Ancora lontana ma inesorabilmente piazzata sulla nostra
rotta. In un modo o nell'altro, in quella tempesta bisognava passarci
attraverso. Io ci avevo ficcato dentro entrambi, io avrei dovuto tirare
entrambi fuori.
*
*
*
«Sparita. Scomparsa nel nulla dall'oggi al domani. Non è possibile,
non è possibile...»
I gomiti appoggiati sul tavolo, le mani tra i capelli, da quel momento
Stefano aveva passato giorni interi a macerarsi. Le giornate successive
le aveva trascorse dentro al bar nella speranza che lei si facesse viva.
Aveva chiesto in giro finché la rassegnazione lo aveva domato.
L'insonnia e l'inappetenza l'avevano già trasformato profondamente.
Aveva gli occhi stanchi e un viso distrutto..
«Dai, Ste'. Mangia qualcosa. Se lo vorrà, si farà viva lei. L'hai sempre
detto anche tu che le donne sono strane. Magari aveva un impegno
importante e non ha avuto il tempo di avvisarti. Cosa vuoi saperne,
possono esserci migliaia di motivi...»
«E' successo qualcosa di brutto, lo sento. Non sono mai stato così
male, Gio'. La cosa terribile è che mi sono accorto di amarla. E' la
donna della mia vita, Gio'. Se le è successo qualcosa...»
Abbassò la testa tra le mani e ricominciò a sospirare e a parlare da
solo. Si torturava per essersi addormentato quella maledetta sera, si
arrovellava per ottenere risposte che non potevano arrivare. E io
soffrivo con lui. Dovevo lavorare per due e passare il resto del giorno a
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rifilargli
una bugia dietro l'altra. Non era come vivere la sua
esperienza, ma mi stava sfinendo comunque.
Furono quaranta giorni di inferno nei quali mai mi riuscì di
intravedere uno spiraglio di ripresa. Poi, quando finalmente
all'orizzonte si profilava una schiarita, il cadavere riaffiorò dal fiume e
la ferita di Stefano si riaprì con violenza.
Lo trovò un pescatore che si era imbattuto in un grosso sacco nero un
chilometro prima della foce del Tevere. Il corpo era ormai
irriconoscibile. Lungo il tragitto aveva battuto violentemente sulle
sponde riportando numerose fratture. I pesci e i granchi avevano fatto
il resto. Nonostante ciò, due giorni dopo il corpo venne identificato
come quello di Dana Bernardi.
E così entrammo nella fase culminante.
*
*
*
Giornate interminabili e sempre uguali. Lo lasciavo a letto e a letto lo
ritrovavo, in condizioni sempre peggiori: barba lunga, capelli arruffati,
sporco, maleodorante. Non parlava quasi più.
Aveva dovuto subire anche due pressanti interrogatori da parte della
polizia. La sua versione non li aveva convinti del tutto e le indagini
erano ancora aperte. Non c'erano prove schiaccianti a suo carico e solo
per questo, probabilmente, non l'avevano ancora arrestato. Ma l'idea
di finire in galera neppure lo sfiorava. Era Dana, solo Dana, la causa
della sua disperazione.
Massimo un anno, mi dissi per farmi coraggio. Un anno e torniamo in
carreggiata.
Invece le cose peggiorarono. A poco a poco smisi di combattere e finii
per considerare quella situazione come una pena da scontare per i
miei peccati. Rientravo all'ora di pranzo, lo accudivo come un animale
domestico, e tornavo a lavorare. Un giorno dietro l'altro.
Quando rientrai alla villa quel giorno, il sole ancora colorava di rosa le
facciate chiare della casa mentre la tenda della veranda si agitava sotto
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le raffiche del vento. Dietro la tenda c'era qualcosa che sbatteva
ritmicamente su di essa gonfiandone il tessuto dall'interno. Non
riuscivo a togliere gli occhi da quel gonfiore mentre un'idea folle mi
attraversava la mente. Aprii lo sportello dell'auto con il cuore in gola.
Venti metri di corsa con il fiato sospeso mentre dalla bocca mi usciva
un gemito strano, un suono a metà strada tra il lamento, la preghiera e
il pianto. Superai le tre scalette con un salto e lo trovai così, con il
volto viola e gli occhi spiritati, penzolante da una corda agganciata
all'anello fissato sul soffitto della veranda. Un'immagine terribile che
ancora mi capita di sognare. Non ebbi neppure la forza di tentare un
salvataggio impossibile; caddi in ginocchio, infilai la testa tra i suoi
piedi e lo abbracciai. Urlai il mio dolore, la mia disperazione, lo strinsi
con forza e rimasi non so quanto tempo in quella posizione, a
domandarmi come avevo potuto essere così stupido e così crudele. In
quel momento avrei dato ogni cosa al mondo per essere al suo posto.
*
*
*
Quando trovai la lettera, Stefano era stato sepolto da dieci giorni.
L'aveva nascosta in un cassetto dove sapeva che periodicamente
andavo a guardare. Era firmata e datata il giorno della sua morte.
Sentii le gambe farsi molli e per un attimo fui tentato di gettarla via.
Ma sarebbe stata l'ennesima vigliaccheria nei suoi confronti. Non
potevo scappare ancora.
Con il groppo alla gola, la aprii lentamente con un tagliacarte e mi
sedetti. Mi dissi che forse avrei trovato qualche risposta. Ma quello
che in realtà desideravo davvero era il suo perdono. E il suo perdono
non c'era.
Lo so che sei stato tu. L'ho sempre saputo. Ma pensavo che prima o
poi me l'avresti detto. Invece no, una vigliaccata dietro l'altra. Certo
che l'hai veramente conciata bene. Cos'hai fatto, l'hai picchiata?
L'hai violentata? Non voleva starci e hai perso la ragione? Ho visto
le tue mani, Gio', le ho viste subito. Vederle mi ha fatto star male da
morire, più di tutto il resto. L'idea di te che la prendi a sberle, che le
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stringi la gola, che la getti nel fiume...
Avevo trovato qualcosa di più consistente di una bisca o di una
scopata prezzolata. Avevo trovato una compagna per la vita, Gio'.
Prima o poi sarebbe successo anche a te, cosa credi? E allora la tua
vita ti sarebbe apparsa come una lunga infanzia dalla quale
finalmente uscire. Ho già preparato la corda, Gio'. Chiudo questa
lettera e poi mi ammazzo, ma in realtà sono già morto. Certe
occasioni passano una volta sola e io non ho potuto afferrare la mia
per colpa tua. Mi hai condannato per sempre a una vita che non mi
interessa più.
Se un giorno proverai ciò che sto provando io, allora capirai
davvero. Solo allora. Nel frattempo, vivi per il meglio quanto ti
resta.
*
*
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«E questo è tutto. Proprio tutto».
Il dottor Favia alzò la testa con fierezza cercando di sostenere lo
sguardo del pazzo che aveva di fronte. Ma ben presto la paura gli si
strinse di nuovo addosso.
«Che...che succede adesso?» chiese con voce tremante.
«Succede che muori. Fai la stessa fine di quella ragazza bionda che hai
steso trent'anni fa».
«E' stato un incidente, gliel'ho detto. Da quel giorno ho cambiato vita.
Sono diventato un'altra persona e...»
«Ti sei fatto trent'anni di vita di troppo, è già più di quanto meritavi. E
la Giustizia arriva per tutti, Giovanni».
«Aspetti, la supplico» disse il medico alzandosi in piedi e sollevando le
braccia come se quel gesto potesse fermare l'uomo.
«Ho aspettato quanto dovevo».
«La prego. La prego! Le faccio una proposta: se...»
Il coltello gli si infilò nel petto veloce come una freccia. Affondò nel
suo cuore squarciandolo in due.
«Questo te lo manda Dana Bernardi, brutto bastardo».
L'uomo estrasse il coltello e lo infilò di nuovo nel petto, ancora più
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forte, ancora più veloce.
«Questo invece te lo manda Stefano».
Il medico si accasciò a terra e cominciò a vomitare sangue. La voce
dell'uomo gli giungeva ancora comprensibile ma già lontana.
«Non c'è altro da dire, dottore. Il posto dove stai andando è pieno di
gente come te. Starai in buona compagnia».
Favia vide gli stivali dell'uomo sfilare davanti ai suoi occhi e ripartire
verso l'uscita della stanza. Sentì la porta aprirsi e richiudersi. Rimase
solo un silenzio chiassoso che ingigantiva la confusione violenta dei
suoi pensieri. Ma durò solo qualche attimo.
Poi il mondo si spense.
*
*
*
Il corpo lo trovò la sua assistente. La donna entrò nello studio qualche
minuto prima delle otto e trenta. Giovanni Favia sedeva nella sua
poltrona preferita di fronte alla scrivania, aperta tra le mani una
rivista scientifica. La stanza era in perfetto ordine, come raramente le
era capitato di vedere in venti anni che lavorava presso di lui.
Il suo medico curante ne certificò la morte pochi minuti più tardi. Gli
aveva consigliato più volte di farsi operare al cuore. E' l'unico modo
per prevenire un infarto, continuava a dirgli, ma lui aveva sempre
rifiutato.
Due giorni più tardi si tennero i funerali. Vi partecipò un quartiere
intero. Il parroco descrisse Giovanni Favia come un uomo adorabile e
gentile, cortese con tutti e infinitamente comprensivo.
«Ci mancherà da morire» aggiunse prima di concludere la cerimonia.
Questo racconto è opera della fantasia. Nomi, personaggi, luoghi, avvenimenti sono il
prodotto dell'immaginazione dell'autore e, se reali, sono utilizzati in modo assolutamente
fittizio. Ogni riferimento a fatti e persone viventi o scomparse è del tutto casuale.
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