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Mark Pryor
Il mistero della cripta sepolta
romanzo
Traduzione dall’inglese
di Federico Lopiparo
Dello stesso autore abbiamo pubblicato:
Il libraio di Parigi
Prima edizione: maggio 2014
Titolo originale: The Crypt Thief: A Hugo Marston Novel
© 2013 by Mark Pryor
© 2014 by Sergio Fanucci Communications S.r.l.
Il marchio Timecrime è di proprietà
di Sergio Fanucci
via delle Fornaci, 66 – 00165 Roma
tel. 06.39366384
Indirizzo internet: www.timecrime.it
Proprietà letteraria e artistica riservata
Stampato in Italia – Printed in Italy
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
Mark Pryor
Il mistero della cripta sepolta
A mia madre e a mio padre,
che non hanno mai smesso di ispirarmi.
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L’uomo si fermò, scrutando la notte per eventuali movimenti sospetti. Non vedendone alcuno, lasciò la stradina acciottolata e si addentrò tra un gruppo di cripte in cerca di un
posto dove riposarsi. Trovò quattro tombe basse e si sedette
su una di esse, dopo aver sfilato il mazzo di fiori che ne adornava il fianco. Restò in ascolto per un momento e poi si mise
la borsa di tela sulle ginocchia, rassicurato dal rumore sordo
degli attrezzi all’interno.
Rovistando un poco, tirò fuori la mappa che aveva tracciato due settimane prima, durante la sua precedente visita al
cimitero. Si chinò in avanti, puntando la torcia frontale verso
il basso. Poi la accese e rischiarò la mappa di una luce gialla,
facendo scorrere gli occhi su linee e cerchi familiari.
Una brezza accarezzò le cime degli alberi e il frusciare delle foglie gli parve un sospiro di sollievo dopo una lunga, calda giornata. Quel venticello gentile lo raggiunse, increspando il foglio nella sua mano e accarezzandogli la guancia.
Allora spense la torcia e alzò lo sguardo, godendosi il fresco.
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Chiuse gli occhi solo per un momento, inclinando indietro la
testa in modo che il sudore che gli imperlava il collo potesse
asciugarsi.
A un tratto sentì un calpestio alle sue spalle.
Si girò verso un paio di querce, perfino più scure di quella
notte senza luna, con i rami che si protendevano l’uno verso
l’altro come esitanti sconosciuti, fronde cieche che si contendevano il vento.
Facendo un respiro profondo per rilassarsi, posò lo sguardo sulla lapide di calcestruzzo dietro di sé, colto dall’improvvisa curiosità di sapere a chi appartenessero le ossa su
cui era seduto. Riaccese la torcia frontale, rischiarando le lettere in rilievo di una targa commemorativa in ottone. Mimò
con le labbra le parole ‘James Douglas Morrison’. Sotto il nome c’era una data: 1948-1971. Ancora più in basso figurava
una sequenza di lettere per lui incomprensibili, in latino o
forse in greco.
Ripose la torcia e la mappa nella borsa e tirò fuori una bottiglia d’acqua, già per metà svuotata durante il polveroso tragitto che l’aveva condotto fin lì. Si concesse solo due belle sorsate
e poi la mise via.
Si irrigidì nel sentire delle voci provenire dalla stradina
che aveva appena lasciato, bisbigli cospiratori che serpeggiavano tra le tombe di pietra e di calcestruzzo, parole appena
sussurrate che prendevano forma nel silenzio cristallino della notte.
Due voci, un uomo e una donna.
In un attimo riaprì la borsa e afferrò con le grosse dita il calcio di una pistola che non aveva mai usato, una Ruger calibro
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un bar di Montmartre.
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Fece scivolare la borsa a terra e si spostò in modo da tenere
d’occhio il viottolo, evitando con i suoi piccoli piedi le aree
ricoperte di ghiaia così da aggirare silenziosamente le lastre
di pietra. Da bambino, la madre scherzosamente lo chiamava
mon petit scarabée, ‘il mio piccolo scarabeo’, perché riusciva a
muoversi per casa senza essere visto, sbucando dai punti più
impensati per spaventare lei o mandare in bestia suo padre,
se c’era.
Lo Scarabeo sbirciò nell’oscurità da dietro a una lapide e
vide i due che camminavano verso di lui, a braccetto, con le
teste ravvicinate. Strascicavano lentamente i piedi sulla stradina acciottolata, barcollando come ubriachi e sorreggendosi
l’un l’altro. Il loro abbigliamento era coordinato: t-shirt nere e
pantaloni mimetici infilati in un paio di stivali in stile militare.
E non si erano minimamente accorti della sua presenza.
Considerò l’ipotesi di lasciarli passare. Lo avrebbe quasi
preferito, ma i due decisero per lui, fermandosi a una decina
di metri di distanza.
«La sua tomba dovrebbe essere da queste parti» disse la
donna. «Ce l’hai la candela?»
Stavano parlando in inglese, pensò lo Scarabeo; anche lui
lo parlava. Un petit peu.
«Sì, certo.» Il tizio si sfilò lo zaino dalle spalle. «Da qualche
parte.»
«È così emozionante» disse la donna, in un sussurro, quasi senza fiato. Aveva la pelle olivastra e i capelli scuri tirati indietro in una coda di cavallo. Occhi verdi, pensò lo Scarabeo,
senza esserne del tutto sicuro.
Sapeva dov’erano diretti, vicini com’erano alla meta di così
tanti dannati americani: volevano rendere omaggio a un alcolista tossicomane, un uomo che aveva dissipato il suo dono
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musicale e distrutto ogni briciola del proprio talento con un
ago. Se fossero in grado di riconoscere il potere racchiuso nei
sepolcri, pensò, cercherebbero quelli con dentro delle ossa con
qualcosa di positivo da offrire.
Dal suo riparo, li osservò mentre restavano in attesa sul ciglio della strada. Trasalì e avvertì una fitta d’ansia. Vedranno la
mia borsa.
Strinse la mano attorno al calcio della pistola che portava
sul fianco, come per ricordare a sé stesso quella presenza.
Non poteva rischiare che scorgessero i suoi attrezzi e dessero
l’allarme.
Saltò fuori dall’ombra e si avvicinò loro, fendendo l’oscurità con la canna della pistola. Camminò con cautela, senza
fare rumore. Era lo Scarabeo. Sgattaiolò tra le tombe di pietra,
inatteso e inosservato finché non fu abbastanza vicino da vedere i loro occhi sgranarsi e le loro bocche spalancarsi.
La reazione era prevedibile, e il fatto che i due avessero fissato il suo volto così a lungo prima di notare la pistola non
fece che confermargli quanto già sapeva. Suscitava quell’effetto anche senza una pistola in mano, da sempre. Davanti a
loro c’era un uomo alto appena un metro e mezzo, la statura
di un bambino, ma con il fisico tarchiato di un lottatore di
wrestling professionista. Dal padre aveva preso i tratti del viso, il mento pronunciato sotto gli zigomi sporgenti e gli occhi
scavati e imperscrutabili, come nascosti dietro a due strette
fessure. Due buchi neri posti alla base di una fronte insolitamente spaziosa, in alto ornata da alcune spirali di fil di rame.
Li guardò mentre lo osservavano e, quando l’ebbero visto
per bene, decise che ogni parola sarebbe stata superflua. Mirò all’uomo, puntandogli la pistola contro il torace e premendo il grilletto dolcemente, come quando si era esercitato nel
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suo appartamento. Solo che questa volta, invece di un clic,
ci fu uno scoppio acuto. Una volta, e poi una seconda dopo
aver ripreso il controllo dell’arma. Nell’oscurità della notte,
sentì l’uomo cadere sui ciottoli della Avenue de la Chappelle.
Spostò lo sguardo sulla donna, che sembrava in iperventilazione. Si era portata una mano alla bocca, come se restando in
silenzio avesse potuto evitare l’ineluttabile.
Era soddisfatto, per il momento. Una pistola tanto piccola
quanto efficace e facile da usare.
Aggiustò leggermente la mira verso sinistra, puntando
l’arma contro la donna, la ragazza, il dito fermo sul grilletto.
Gli passò per la mente, solo per un momento, che con lei avrebbe potuto fare anche dell’altro, costringerla con la forza
a fare... certe cose per lui.
Incrociò gli occhi di lei, ma non abbastanza a lungo da avere
conferma del loro colore. La ragazza si mise a fissare la pistola,
muovendo la bocca in silenzio. Poi tornò a guardarlo in faccia,
sollevando la mano sinistra e tenendola rigida a mezz’aria come una poliziotta intenta a fermare il traffico. Per un momento
lo Scarabeo osservò il palmo bianco nel buio, quelle dita minute e delicate. Il gesto disperato di una ragazza che non aveva
nient’altro da offrire, come un ragno che volesse bloccare un
treno.
Premette il grilletto, toccandolo appena per non compromettere la mira. Il botto sembrò più forte del precedente, di
maggiore soddisfazione per lo Scarabeo. La pallottola le attraversò il palmo proprio al centro e poi la colpì alla spalla.
La mano della ragazza schizzò verso l’alto e poi le ricadde
lungo il fianco. Lanciò un gemito acuto, facendo un passo indietro e vacillando per lo sconcerto. Lo Scarabeo si avvicinò
per vedere l’espressione sul suo volto.
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Sorpresa e confusione, pensò. Ma soprattutto paura.
Lei abbassò lo sguardo verso la mano, da cui il sangue
scorreva in un rivolo denso fin sulla strada. Poi lo guardò
dritto negli occhi e spalancò la bocca.
Lo Scarabeo non aspettò le urla. Le sparò altri tre colpi,
sicuro di non poterla mancare da così vicino. La ragazza si
accasciò a terra senza emettere alcun suono.
L’uomo si inginocchiò tra i due cadaveri, tanto per accertarsi che non vi fossero altri intrusi quanto per ammirare il
proprio lavoro, e, quando il buio e il silenzio calarono nuovamente sul cimitero, sfiorò con le mani il corpo della ragazza. Aveva gli arti pesanti, la gola calda e le labbra secche. I
suoi occhi non erano più occhi, ma perle di vetro, senza vita.
Perle verdi. Provò a chiuderle le palpebre, ma non stettero
giù, non del tutto, perciò la lasciò così, metà addormentata e
metà a sbirciare quella notte senza stelle.
Si alzò, raggiunse la borsa e tirò fuori l’amuleto. Non sarebbe più andato alla persona giusta, quella notte non era
più sicuro per lui, ma poteva lasciarlo a quella ragazza. Lo
ripulì dalle impronte e, con cautela, glielo pose sul petto.
Si raddrizzò e si voltò verso l’altro cadavere. Gli sferrò un
calcio in testa, giusto per scrupolo, e il corpo sembrò emettere
un sospiro. Ma al secondo calcio, si limitò a oscillare un poco,
in silenzio.
Una civetta stridette nei paraggi. Lo Scarabeo guardò
l’orologio e gli sembrò che la lancetta dei secondi stesse ticchettando troppo velocemente. Realizzò che anche i battiti
del suo cuore erano accelerati. Li fece rallentare respirando
profondamente per venti secondi, con il vento che gli accarezzava le sopracciglia come la mano gentile di sua madre.
Il che gli fece pensare a un’altra cosa che avrebbe dovuto fare.
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Hugo Marston ignorò il cellulare, dedicando tutta l’attenzione al cameriere che stava posando un cesto di brioches e
una bella tazza di café crème sul tavolo. Ringraziò l’uomo e
guardò fuori dalla finestra il fiume di turisti che attraversavano Pont au Double per raggiungere la cattedrale di Notre Dame. Il Café Panis non era sul tragitto per il suo posto di lavoro,
ma c’era qualcosa in quel luogo che gli infondeva energia, come fosse il fulcro di una ruota che ogni mattina rimetteva in
moto Parigi. Per non parlare di tutte quelle persone da poter
osservare, che per un ex profiler dell’fbi era come lasciare un
bambino davanti alla gabbia delle scimmie allo zoo.
Prima di azzardare un sorso, Hugo scartò una zolletta di
zucchero e la fece cadere nel caffè. Lanciò un’occhiata al cellulare. Tecnicamente era in servizio, perciò fu sorpreso nel
vedere una chiamata del suo amico Tom Green. Lo richiamò.
«Ti sei alzato presto» disse Hugo. «A che ora sei rientrato
questa notte?»
«Non sono affari tuoi.»
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«Ah, sono affari della cia.»
«Anche se fosse, di certo non te lo direi. Che stai facendo?»
«Colazione da Panis. Ti unisci a me?»
«Adesso non posso. Vai in ambasciata fra un po’?»
«Forse» rispose Hugo. «Considerato che è lunedì e che lavoro lì, probabilmente dovrei.»
«Sei a capo della sicurezza, cazzo. Puoi presentarti quando ti pare.»
«Devo ricordarmi di farlo presente all’ambasciatore.»
«Fa’ come vuoi,» replicò Tom «ma di’ a Emma di preparare
lei il caffè questa mattina, d’accordo?»
«Quindi vieni?»
«Sherlock Holmes. Ma dammi un’ora. Devo ripulirmi da
un po’ di schifezze.»
«Cristo Tom, di nuovo. Come si chiamava?»
«Quando paghi,» disse Tom pazientemente «non hai bisogno di chiederlo.»
«Se usassi un po’ di gentilezza non avresti bisogno di pagare.»
«Grazie, ma non accetto consigli amorosi da uno che è ancora vergine, Hugo. Ci vediamo nel tuo ufficio.»
Tom riagganciò, come al solito, senza neanche salutare.
Era stato il compagno di stanza e il migliore amico di Hugo
durante il corso di addestramento dell’fbi a Quantico, più di
una decina di anni prima, e la loro amicizia si era rafforzata
nel periodo trascorso insieme nell’ufficio distaccato del Bureau a Los Angeles. Poi le loro carriere avevano preso strade
differenti: Hugo aveva scalato i vertici della Behavioral Analysis Unit come profiler, mentre Tom era entrato nella cia
come... Hugo non aveva mai capito in quale ruolo e sospettava di non volerlo sapere. Ad ogni modo, per diversi anni non
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si erano visti e a Hugo era mancato quell’intellettuale senza
peli sulla lingua del suo amico.
Tom era arrivato a Parigi alcuni mesi prima e si era trasferito nella stanza degli ospiti di Hugo. Era sovrappeso, aveva una passione eccessiva per il whisky, almeno secondo gli
standard di Hugo, e sosteneva di essere andato in pensione,
ma di lavorare ancora per la cia come ‘consulente’. Stando a
quel che aveva visto Hugo, ciò significava andare e venire a
qualsiasi ora, sparire per una settimana o più senza preavviso, e a volte dormire per giorni interi. Ovviamente quest’ultimo punto poteva essere dovuto semplicemente alle sbornie.
Hugo sorseggiò il suo caffè, chiedendosi se Tom avesse ricevuto un nuovo incarico. Per quale motivo sarebbe dovuto
venire in ambasciata altrimenti? O alzarsi prima di mezzogiorno?
Si voltò quando sentì che in televisione stava passando il
notiziario. A un tratto, in basso sullo schermo comparve una
scritta in sovraimpressione e Hugo saltò in piedi. Il conduttore stava dicendo che due turisti erano stati trovati morti nel
famoso cimitero di Père Lachaise. Nomi e nazionalità ignoti,
nessun sospetto.
Ma trattandosi di turisti, c’erano buone possibilità che le
vittime fossero americane e in quel caso l’ambasciatore avrebbe voluto tutti ai posti di manovra, compreso il suo regional
security officer in capo.
Hugo buttò giù il resto del caffè e lasciò dodici euro sul
piattino accanto allo scontrino. Poi afferrò una seconda brioche e uscì dal bar in Quai de Montebello, brulicante di traffico e di pedoni diretti ovunque dovessero andare di lunedì
mattina.
Attraversò la strada a un semaforo e si incamminò verso
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ovest, costeggiando la Senna e lanciando dei bonjour con il
capo ai bouquiniste, intenti ad allestire le loro bancarelle lungo
il fiume. Nel vederli, la sua mente non poté fare a meno di evocare l’immagine del suo amico Max, il bouquiniste sgarbato
e irritabile che gli aveva venduto tutti i libri migliori, sempre
fingendo di rapinarlo, ma in realtà lasciandoglieli per quattro
soldi. Mentre passeggiava, Hugo guardò giù verso la Senna
le chiatte che sbuffavano lentamente vicino alla riva, liberando il centro del fiume per i bateaux mouche, i traghetti turistici
con pannelli di vetro che promettevano una vista pittoresca
su entrambe le sponde, sia con la pioggia che con il sole. Erano come dei servitori, quelle chiatte. Scivolavano da un lato
facendo largo ai loro affascinanti padroni, che portavano un
carico più prezioso e più immediatamente redditizio rispetto
al carbone, ai tessuti e al vino.
Il sole estivo era spuntato oltre gli edifici più alti di Parigi,
riscaldando il collo di Hugo. Una fresca e gradevole brezza
mattutina saliva dal fiume, accompagnandolo nel suo tragitto.
Rimase sulla riva sinistra finché non raggiunse il Pont Royal,
che lo portò davanti al museo del Louvre. Amava passeggiare
al mattino nei giardini delle Tuileries, perché era il solo momento della giornata in cui gli capitava di vedere più uccelli
che persone, soprattutto d’estate. Di lì il suo ufficio distava poco più di un chilometro e si sentiva riossigenato mentre attraversava quel luogo in cui gli alberi e l’erba respiravano per la
città. Il suo passo, solitamente rapido e deciso, rallentava fino a
diventare una camminata rilassata, come se un decreto ancora
in vigore emanato da Napoleone in persona impedisse di affrettarsi su quel sacro suolo.
Quando Hugo entrò negli uffici al piano terra del diparti-
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mento di sicurezza dell’ambasciata statunitense, Emma alzò
lo sguardo. Aveva, come sempre, un’acconciatura raffinata e
indossava un’elegante camicetta di seta che metteva in risalto i
sui capelli brizzolati. Al collo portava un filo di perle abbinato.
«Bonjour, Hugo» disse. «Lascia perdere tutti gli impegni.
L’ambasciatore vuole vederti.»
«Così presto?»
«Sono quasi le dieci.»
«Io seguo il fuso orario francese.»
«Be’, in questo caso... sono quasi le dieci. Ora vai.»
Hugo le fece l’occhiolino e tornò sui suoi passi. Salì le scale fino al terzo piano, dove si trovavano le stanze dell’ambasciatore, compreso il suo ufficio. La sua segretaria, nascosta
dietro a una piccola scrivania bianca, lo salutò con la mano.
Quando Hugo entrò nell’ufficio, trovò l’ambasciatore J.
Bradford Taylor in piedi vicino al caminetto spento. L’uomo
si girò e sorrise, e a Hugo parve di cogliere un pizzico di sollievo sul suo volto.
Dato il loro temperamento molto simile, nei due anni in cui
Hugo era stato di stanza a Parigi avevano trasceso la relazione servo-padrone, due ruoli che non gli erano mai stati congeniali, ed erano diventati amici. Fisicamente, tuttavia, non
avrebbero potuto essere più differenti. Alto circa un metro e
settanta, l’ambasciatore si era lasciato andare a troppi bagordi e aveva messo su un pancione che, negli ultimi mesi, aveva
preso ad accarezzare quando era assorto in qualche pensiero.
Hugo, dal canto suo, era più alto di quindici centimetri e si
limitava a sbocconcellare del foie gras. Di conseguenza, nonostante i quarantatré anni compiuti, aveva le spalle considerevolmente più larghe della vita. E, mentre l’ambasciatore era
ormai calvo, i suoi capelli scuri si erano solo appena ingrigiti.
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Così, qualche mese prima, durante una cena al Le Procope,
Taylor aveva scherzosamente annunciato il loro arrivo ad alcuni uomini d’affari statunitensi dicendo: «Ecco a voi Fatty
Arbuckle e Cary Grant.» E Hugo aveva dovuto ricordare al
suo capo che era pur sempre l’ambasciatore e che aveva diritto a qualche chilo in più e a un certo rispetto.
«Siediti, Hugo.» Taylor gli indicò le poltroncine alla sua
sinistra. «Se non sbaglio conosci già il mio ospite.»
Hugo fece qualche passo in avanti e un sorriso gli attraversò il volto. «Come diavolo fai?»
«Io viaggio al di fuori del continuum spazio-temporale umano» rispose Tom. «Mi muovo alla velocità della luce. Ora
sono qui, fra un attimo sarò sparito.»
«Oppure mi hai mentito quando mi hai detto di essere nel
mio appartamento.»
«Può darsi» replicò Tom. «Ma dicevo sul serio a proposito
del tuo terribile caffè.»
«L’hai notato anche tu?» disse Taylor. «Ringrazio il cielo
che c’è Emma.»
I tre uomini si sedettero e Hugo guardò il suo capo. «Quei
turisti al Père Lachaise erano americani, vero?»
«Sì» rispose Taylor, annuendo. «Be’, uno solo. Il ragazzo.»
«Capisco.» Hugo si rivolse a Tom: «E tu per quale motivo
saresti qui esattamente?»
«Perché la ragazza non lo era» disse Tom. «Non lo era affatto. Vuoi provare a indovinare?»
«Be’, sono seduto con un’ex spia della cia e con una spia
freelance. Il che mi fa pensare a un qualche posto in Medio
Oriente o in Asia centrale.»
«Perspicace, Hugo. Era egiziana.» Tom sorrise e lanciò
un’occhiata a Taylor. «Ho imparato tutto da lui.»
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«Ma l’Egitto è un Paese amico o almeno lo era l’ultima
volta che ho controllato» disse Hugo, spostando lo sguardo
prima sull’uno e poi sull’altro.
«Per lo più» replicò Tom. «Stiamo tenendo d’occhio un paio
di cellule che crediamo abbiano preso di mira i turisti. Temiamo che si stiano espandendo e che stiano cercando dei bersagli americani fuori dall’Egitto.»
«E tuttavia il tuo essere qui mi sembra... una reazione eccessiva.» Hugo ammiccò verso il suo amico. «Senza offesa.»
«Figurati» disse Tom. «Ma non sono qui solo per la ragazza. Anche lui ci interessa.»
«Come mai?»
«Era il figlio del senatore Norris Holmes» intervenne
Taylor.»
«Un momento, volete dire che... il ragazzo era Maxwell
Holmes?» Hugo si irrigidì sulla sedia. «Avrebbe dovuto iniziare...»
«Uno stage qui all’ambasciata» concluse Taylor. «Sì. Il che
spiega perché sei qui.»
«Dannazione. È terribile. Come sono andate le cose?»
«Hanno sparato a entrambi sulla stradina che porta alla
tomba di Jim Morrison» disse Taylor. «Un’arma di piccolo
calibro, ma non ci hanno ancora inviato le foto e il rapporto
della scientifica. Per quanto ne sappiamo, non ci sono indizi
che facciano pensare a un movente o a un sospettato.»
«E delle vittime che mi dite? Si sa qualcosa?»
«Non molto» rispose Tom. «Al momento abbiamo solo
un’ipotesi e una certa dose di paranoia.»
«Immagino che l’ipotesi sia che la ragazza fosse una terrorista e che stesse cercando di infiltrarsi nell’ambasciata stringendo un legame con Maxwell Holmes» disse Hugo. «E la
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paranoia sarà dovuta alla totale mancanza di fatti a supporto
di questa teoria.»
«Esattamente» confermò Taylor annuendo. «Sono passate
circa otto ore da quando sono stati trovati e noi siamo ancora
qui a raccogliere informazioni. A volte i francesi sono un po’
restii a collaborare.»
«Se sapete che è egiziana,» disse Hugo «conoscerete anche
il suo nome. Questo dovrebbe aprivi qualche porta.»
Taylor annuì di nuovo. «I poliziotti francesi sono andati
direttamente all’hotel dove soggiornava il figlio del senatore
e nella sua stanza hanno trovato alcuni effetti personali di lei.
Così hanno potuto rintracciare l’appartamento della ragazza, dove hanno scovato il suo passaporto. Perciò sì, hanno il
suo nome e ce l’hanno anche riferito, ma finora non è saltato
fuori nulla. Sembra pulita.»
«A meno che non si tratti di un nome falso» aggiunse Tom.
«E di un passaporto falso. Dovremmo dargli un’occhiata per
esserne sicuri, ma è a questo punto che la collaborazione sta
incontrando qualche intoppo.»
«Avete avvertito il senatore Holmes?» chiese Hugo.
«Sì, gliel’ho detto di persona.» Taylor scosse la testa. «Quel
poveretto l’ha presa molto male, come puoi immaginare. Sta
venendo qui e quando arriverà vorrà delle risposte.»
I tre rimasero in silenzio per un momento, poi Tom e l’ambasciatore si scambiarono un’occhiata. Taylor si schiarì la gola.
«C’è un’altra cosa» disse. «Non sono sicuro che sia coerente
con l’ipotesi legata al terrorismo.»
«Hugo sollevò un sopracciglio. «Cioè?»
«Chiunque sia stato, ha mutilato uno dei corpi» disse Taylor.
«Maxwell Holmes?»
«No» rispose. «La ragazza. So solo quanto mi hanno riferito
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i francesi e non ho visto le foto, ma mi dicono che un’area della
spalla è stata intenzionalmente tagliata con un coltello. Il resto
del corpo è intatto, come quello di Holmes. Non è stata stuprata e non hanno riscontrato nessun’altra ferita significativa
a parte i fori dei proiettili.»
«Interessante» commentò Hugo.
«Lo è davvero» disse Taylor. «Ti viene in mente qualcosa da
poter condividere con noi?»
«Non ancora.» Hugo aggrottò la fronte. «Ho un paio di idee, ma prima devo vedere il corpo della ragazza o almeno
qualche foto. Il corpo sarebbe meglio.»
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Hugo e Tom furono accompagnati all’interno dell’obitorio
da un tecnico che era stato precedentemente avvertito dalla
polizia francese dell’arrivo degli americani. L’uomo, giovane, paffutello e paonazzo in viso, aveva avuto disposizioni di
provvedere alle loro esigenze e bersagliava Hugo di domande sull’America e sull’fbi buttandosi continuamente indietro
i capelli biondi.
Superarono l’area amministrativa e si diressero verso la
camera mortuaria. Hugo riconobbe immediatamente l’atmosfera delicata di quell’ambiente sterilizzato, l’odore intenso
di disinfettante e l’ancor più indicativo profumo di lavanda
e limone che in molti obitori viene usato per mascherare la
puzza di morte. Sotto i loro piedi la moquette lasciò il posto
alle mattonelle. Il ragazzo si fermò davanti a una pesante porta a vento e si girò, restando in attesa della risposta alla sua
ultima domanda.
«Sono abbastanza sicuro» disse Hugo, aggrottando le sopracciglia «che il Bureau non assuma tecnici di obitorio spe-
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cializzati. Ma se dovessi scoprire di essermi sbagliato, glielo
farò sapere.»
«Vraiment, lo farebbe?»
«Assolutamente. Anzi, nel caso le spedirò personalmente
il modulo per la domanda.»
«Merci!» Il ragazzo era raggiante. «Alors, nous sommes ici,
messieurs. Mi sono preso la libertà di esporre i corpi. Vi lascerò
soli adesso. Passate per il mio ufficio quando avete finito, così
potrò metterli via.»
«D’accordo» disse Hugo. «Sa per quando sono previste le
autopsie?»
Il tecnico scrollò le spalle. «Quando le autorità smetteranno di litigare su chi debba farle. Questa sera, forse domani. I
guanti sterilizzati sono sul carrello, nel caso voleste toccare i
cadaveri. Quelli della scientifica li hanno già esaminati, quindi non c’è problema.»
Pur senza finestre, la stanza refrigerata era ben illuminata
dai tubi al neon appesi al soffitto, la cui luce si rifrangeva sulle mattonelle bianche che rivestivano le pareti e il pavimento. La camera mortuaria era più piccola di quanto Hugo si
aspettasse. C’era spazio solo per due tavoli da autopsia e per
tre celle frigorifere, di cui si vedevano i portelli sulla parete
di fronte. Su un carrello di metallo era in mostra tutta una
gamma di strumenti per tagliare e, appoggiati a delle braccia
estraibili che sporgevano da entrambi i tavoli, Hugo riconobbe gli altri strumenti fondamentali della professione: una sega, una telecamera e un registratore vocale.
Hugo si avvicinò al cadavere della ragazza. Solo il suo volto cereo era visibile, mentre il resto del corpo era nascosto da
una spessa coperta asettica di colore azzurro. Hugo la sollevò
e la piegò con cura, guardando il corpo dall’alto in basso.
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«Una bella ragazza» disse Tom.
«Già. E non mi hai ancora detto il suo nome.»
«Hanan Elserdi. Ventisei anni. Nata a Il Cairo, ma residente a Parigi da otto mesi. Almeno secondo il passaporto.»
Solo un giorno prima era una donna giovane e sana. Ora se
ne stava distesa lì su quel tavolo di metallo, senza vita e rigida
per il rigor mortis, impotente sotto lo sguardo di completi estranei che osservavano le sue forme nude con l’occhio di due
scienziati intenti a studiare una nuova specie. Hugo scosse la
testa. «Immagino stiate indagando sul suo passato.»
«Sto aspettando una telefonata a momenti» rispose Tom.
Il tono della sua voce era insolitamente gentile. Era rispettoso
del cadavere che aveva di fronte, ma senza sentimentalismi.
Rude, facile all’imprecazione e, sospettava Hugo, spesso letale, Tom era una persona più gentile di quanto non desse a
vedere. E alle volte lui glielo faceva notare.
«Le ha sparato cinque volte» disse Tom. «Alla mano, alla
spalla, due colpi al torace e uno alla gola.»
«Forse» osservò Hugo. «O forse no.» Si chinò sulla ferita al­
la spalla, poi si tirò su e si spostò verso il fianco del cadavere.
«Direi quattro volte. Guarda.» Prese il braccio sinistro e lo sollevò, forzando il rigor mortis per creare un angolo retto con il
corpo. «La ferita alla spalla è meno profonda delle altre perché
il proiettile ha attraversato prima la mano. Deve averla alzata
d’istinto, per cercare di fermarlo. «È solo un’ipotesi, ovviamente.»
«Certo. Cos’altro?»
In qualche modo era come un gioco, un puzzle. Un puzzle
raccapricciante, senza dubbio, e con un retrogusto tragico,
considerato che la sua essenza riguardava un essere umano
passato all’improvviso dalla vita alla morte. Ma il modo mi-
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gliore, di solito l’unico, per gettare un po’ di luce sugli eventi
che hanno portato a un decesso è osservare i resti con occhio
critico e distaccato. Per risolvere il puzzle che aveva portato
quella ragazza su un tavolo di metallo bisognava individuare
i pezzi che combaciavano.
Hugo studiò tutte le ferite, facendo attenzione a non toccare i fori di entrata. Anche se gli uomini della scientifica avevano già fatto le rilevazioni necessarie, chiunque si fosse
occupato dell’autopsia avrebbe dovuto misurare i fori delle
pallottole, il diametro e la profondità, e non voleva compromettere i risultati dell’esame.
«Quattro colpi, tutti a distanza ravvicinata» disse Hugo.
«Non è un tiratore esperto, perché i fori sono sparsi qua e là e
non ha preso organi vitali.»
«Nessun colpo alla testa o al cuore. Perciò non è un professionista.»
«Esattamente.»
«Stai cercando di dirmi che non può essere un terrorista»
disse Tom. «Ma...»
«Lo so» lo interruppe Hugo. «Ci sono un mucchio di fondamentalisti amatoriali in giro. Hai ragione, non credo che si possa ancora escludere la cosa, non sulla base delle ferite almeno.»
«Sono d’accordo» disse Tom annuendo. «Forse conosceva
l’omicida, se ha lasciato che si avvicinasse tanto.»
«Può darsi, anche se era buio e si trovavano in un cimitero. In condizioni simili è abbastanza facile restare nascosti e
saltar fuori all’ultimo secondo.»
«Il che ci porta a una domanda.»
«Già. Se il nostro assassino non è un killer professionista
e non ha esperienza come tiratore, per quale motivo se ne va
in giro in un cimitero a sparare alla gente?»
27
Mark Pryor
«Proprio quello che mi stavo chiedendo» disse Tom. «Tu
avrai una risposta, immagino.»
«No.» Hugo alzò lo sguardo. «L’unica cosa che mi viene
da pensare è che fosse lì per qualche altra ragione. Si è imbattuto nei ragazzi, o viceversa, e li ha uccisi.»
«Questo significa che oltre a capire perché l’assassino si
trovasse lì, dobbiamo scoprire cosa ci facessero loro due.»
«Sì. Magari stavano facendo solo un’escursione notturna
per vedere la tomba di Morrison. Non sarebbero stati certo i primi. Ma una cosa è sicura, dobbiamo saperne di più
sulle vittime.» Hugo si spostò verso il lenzuolo che copriva
Maxwell Holmes. Lo sollevò e lo ripiegò come aveva fatto
con l’altro, distrattamente, osservando il cadavere.
«Stessa storia» disse Tom, guardando da dietro alle spalle
di Hugo. «Gli ha sparato due volte. Di sicuro i colpi non erano letali e i fori sono a circa mezzo metro di distanza l’uno
dall’altro.»
Hugo si avvicinò di nuovo al tavolo di Elserdi. «La sola differenza rilevante tra i cadaveri è questa.» Con cautela, la girò
su un fianco per rendere visibile la spalla. Tom lo raggiunse
e osservò insieme a lui la pelle slabbrata attorno alla zona da
cui l’assassino aveva rimosso la carne. L’area era all’incirca
grande come un disco da hockey e l’uomo ci si era accanito a
oltranza. La pelle era lacerata e Hugo realizzò che, taglio dopo taglio, aveva fatto in modo di scavarle un pezzo di spalla.
«Che cazzo significa?» chiese Tom.
Per Hugo ogni traccia trovata su un cadavere aveva un significato. Ogni livido, taglio, graffio o imperfezione gli diceva qualcosa su come la vittima era morta o sulla sua vita.
«Indossavano entrambi una t-shirt quando gli hanno sparato, giusto?» domandò Hugo.
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Il mistero della cripta sepolta
«Sì. Ma la polizia li ha trovati a torso nudo. Un feticista
delle tette?»
«Non vedo tette sul corpo di Maxwell» disse Hugo.
«Valida osservazione.»
«Ma dovremmo controllare una cosa.» Hugo risistemò
la ragazza come l’aveva trovata e andò di nuovo dall’altra
vittima. Dopo aver osservato il cadavere sul davanti, lo girò
su un fianco. Lo esaminò dalla testa ai piedi, mordendosi le
labbra e ispezionando la pelle con attenzione. Soddisfatto, lo
adagiò di nuovo sul tavolo. Poi tornò dalla ragazza, questa
volta sollevandole la spalla per vedere meglio l’area con la
carne maciullata sopra la clavicola.
«Interessante» disse Hugo, parlando più a sé stesso che a
Tom.
«Cosa c’è di interessante? Hugo, andiamo, che hai scoperto?»
«Se l’è presa con lei.»
«In preda all’ira?»
«No. Se fosse stato arrabbiato, le ferite sarebbero più profonde. Si vedrebbero i muscoli, perfino le ossa. Questa... non
è rabbia.»
«Be’, grazie per avermi detto cosa non è. Molto utile.»
«Prego.» Hugo alzò lo sguardo verso Tom. «Non c’è di
che.» Fece l’occhiolino al suo amico, facendogli capire che c’era dell’altro.
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