Segreto: àncora della vita

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Segreto: àncora della vita
XV edizione
I Colloqui Fiorentini – Nihil Alienum
Giuseppe Ungaretti. “Quel nulla d’inesauribile segreto”
Firenze, Palazzo dei Congressi
25 - 27 febbraio 2016
PRIMO CLASSIFICATO
SEZIONE TESINA BIENNIO
SEGRETO: ÀNCORA DELLA VITA
Studenti: Francesca Maria Pinna, Eleonora Riccardo, Monica Rubeddu
Classe V B
Scuola Liceo Classico "Giorgio Asproni" Nuoro
Docente Referente Prof.ssa Mariantonietta Galizia
Motivazione: Come le parole del poeta, quelle di questo lavoro si muovono, con delicatezza e profondità, al
limitare di una grande struggente scoperta dell'esistenza: "Tutti siamo foglie. Noi siamo foglie". Un dialogo
intenso e serio con Ungaretti, che arriva a guardare con lui alla nostra vita di oggi, alle paure e alle attese che
ci accomunano. E che fa tornare voglia di andare a rileggerlo, e rileggerci.
SEGRETO CHE “ILLUMINA D'IMMENSO”
"C'era una volta" è il titolo di uno dei componimenti della raccolta L'Allegria, in cui la località di Bosco
Cappuccio appare, come all'aprirsi di un sipario, in un "declivio/ di velluto verde", che per il poeta, nell'agosto
del 1916, era "come una dolce/ poltrona". Abbiamo immaginato di incontrarlo lì, appisolato; di scorgerne, al
chiarore di una "luce fievole", i tratti del volto segnati dalla fatica e dal dolore. Con lui, con quell'uomo stanco
e provato, abbiamo dialogato, a lui abbiamo provato a chiedere cosa fosse Quel nulla di inesauribile segreto.
Le risposte arrivavano attraverso le poesie; spesso, però, è stato difficile ritrovarle in parole tanto cariche di
significati affascinanti, ma nascosti e lontani, come echi che giungevano da luoghi che volevamo raggiungere,
benché avessimo l'impressione che fossero irraggiungibili.
È stato come incontrare una persona misteriosa, che in questo essere enigmatica risultava ancora più
seducente, come quando siamo colpiti, prima ancora che dalle idee o dal vissuto di una nuova conoscenza, dal
suo profumo, o dal suono della sua voce. Ecco: il suono della sua voce.. quello ci ha attratto da subito e ha
continuato ad ammaliarci anche quando non riuscivamo a comprendere il significato delle parole con cui essa
giungeva alle nostre orecchie.
Conta poco capire alla lettera la poesia: la sentivo; così dichiara Ungaretti stesso, a proposito del poeta
francese Mallarmé, il quale lo seduceva con la musica delle sue parole, con il segreto, segreto che, afferma lui
stesso, nel momento in cui scriveva era per lui ancora indecifrato.
Forse, ci siamo dette, la bellezza di questo inesauribile segreto sta nel lasciarlo in parte nascosto alla ragione,
nell'arrenderci di fronte al fatto che esso non è del tutto comprensibile, come spesso non lo sono le emozioni
che caratterizzano la vita di ogni uomo. Prima di tutto la poesia, se c'è, seduce mediante la musica dei suoi
vocaboli, mediante un segreto. Sedotte, proprio da questa parola: segreto, abbiamo cercato di cogliere quale
potesse essere, fra le tante suggestioni che essa evoca nelle diverse poesie, quella che riusciva ad offrire
all'animo del poeta una condizione di serenità. Ci siamo affacciate, con lui, a quella "balaustrata di brezza"
sulla quale egli appoggia la sua malinconia, per cercare nell'orizzonte, attraverso i suoi occhi, il punto cui
approdare per trovare la pace.
"Poesia/ è il mondo l'umanità": qui, a nostro avviso, si nasconde il segreto, questa è la parola che, trovata nel
silenzio, rivela e scava l'abisso; nell'umanità di cui Ungaretti si sente parte, nel "delirante fermento"
dell'esistenza di tutti gli uomini, in cui egli scorge anche la propria vita; nella consapevolezza che di fronte alla
straordinaria varietà di casi, spesso dolorosamente laceranti, che segnano il percorso di ogni individuo, tutti
sono "fratelli".
Nella mia poesia non c'è traccia di odio per il nemico, né per nessuno: c'è la presa di coscienza della
condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell'estrema precarietà della loro condizione.
Il poeta, nell'avvertire il singolare sentimento di non essere come gli altri, sente il peso di una speciale
responsabilità, quella di scoprire un segreto e di rivelarlo agli altri: ciò che egli ci propone, lungo tutta la sua
"Vita di un uomo", è dunque il dipanarsi di questo segreto, ora aggrovigliato, offuscato, contorto, ora
improvvisamente più chiaro, come un lampo, come la forza che d'un tratto "illumina/ d'immenso".
FOGLIA TRASPORTATA DAL VENTO DELL'INCERTEZZA
Il segreto è qualcosa che si ha nel profondo del proprio animo, ne è una componente imprescindibile, come
dice Ungaretti stesso: “il mistero non può negarsi ed è in noi costante”, esso genera una forma di paura o
comunque un’emozione che può manifestarsi vibrando dentro e fuori di noi. Questo tremolio è lo stesso che
vibra nella notte, quando Ungaretti pronuncia e sente la parola “Fratelli”. In questo caso "la parola tremante
nella notte” non esprime paura, anche se siamo in un contesto di guerra, in presenza della morte; eppure solo
pronunciarla sembra dare sicurezza. Nella "notte violentata", la parola “fratelli” vibra per l’emozione di
incontrare qualcuno che è come te.
Cos’è che rende tutti gli uomini fratelli? Apparentemente può essere l’indossare la stessa divisa, combattere
dalla stessa parte, ma in realtà in questa poesia sembra che la fratellanza sia qualcosa di più profondo: si è
fratelli quando ci si riconosce come uomini, tutti accomunati dalla vita e dalla morte, “uomini presenti alla
loro fragilità”.
In questa poesia la “Foglia appena nata” è fragile. È fragile la foglia nei primi momenti della vita, ma anche nel
periodo autunnale, ossia nella fase finale della sua vita. Ungaretti ci riporta a questa fragilità in “Soldati”. Qui
troviamo il paragone tra le foglie e chi è ancora attaccato alla vita, ma sta per cadere, ovvero è in una
condizione tra la vita e la morte. Quella foglia sta sull’albero, e si sente fragile, debole, ha paura, prova dolore
e anche un po’ di speranza. È la speranza che ci tiene attaccati alla vita, ma è anche vero che quando non
succede quello che speriamo, rimaniamo delusi e quasi perdiamo delle parti di noi stessi che paiono staccarsi
e dissolversi.
Perché non accade quello che speriamo? Forse perché leghiamo le nostre speranze a ciò che è effimero,
limitato, caduco. Ci illudiamo che la nostra felicità si leghi alla realizzazione di obiettivi in realtà fragili e
destinati a dissolversi e ci guardiamo attorno, in ogni direzione, convinti che le nostre sicurezze siano ora un
luogo, ora una persona, un'immagine familiare, un oggetto. Invece constatiamo che nella vita non ci sono
certezze: il poeta ce lo fa presente, ad esempio, quando si paragona ad un nomade con il volto vecchio e
logorato “come una pergamena” nella poesia ”Dolina notturna”, perché nella sua vita non ha avuto certezze e
ha sempre vissuto nell’insicurezza che lo rende “adunco” e “morbido di neve”, ossia fortemente ricurvo e
fragile per il dolore e per le delusioni che l’hanno accompagnato nel corso della sua esistenza. Si paragona ad
una “foglia accartocciata” caduta dall’albero in solitudine e ferita; il tempo che non ha una fine lo trasporta
come il vento, nell’incertezza e nell’imprevedibilità di una vita in cui non ci sono mai risposte sicure e nella
quale non sempre riesce a trovare un cielo sereno.
Capita che il firmamento appaia in tutto il suo nitore, tanto da rendere il poeta “ubriaco d'universo”, quando
un canto di festa “intesse/ di cristallina eco del cuore/ le stelle”: esse risplendono, allora, fuori e dentro di lui.
Ma accade spesso che sia la nebbia a pervadere la vista, quella “Nebbia che ci cancella”: essa appare come il
tempo che sembra annullarci nel suo trascorrere. Il tempo è come la nebbia, impalpabile, sfumata, che
impedisce di vedere forme e oggetti e costringe a procedere per piccoli passi; però man mano che avanziamo,
l’occhio si abitua e impariamo a scorgere ciò che la nebbia non riesce a cancellare del tutto: quel “quasi nulla”,
quelle reliquie, quelle schegge che il tempo non distrugge, ma che restano a ricordarci il “segreto” della vita.
Nella poesia “O notte”, dove il poeta distingue una “dall'ampia ansia dell'alba/ svelata alberatura” dopo
“dolorosi risvegli”, possiamo intuire che quel cielo notturno è coperto da mille dolori. Ungaretti si rivolge alle
foglie definendole “sorelle foglie”: qui ci pare di individuare un riferimento agli uomini, a tutti gli uomini
affratellati dalla loro comune condizione, perché l'uomo si riconosce fibra dell'universo, fragile e sempre
esposta all'imprevedibilità e all'incertezza della vita, e il poeta ascolta il loro lamento.
Tutti siamo foglie. Noi siamo foglie, il ragazzo che si è fatto esplodere a Parigi era foglia, lo erano le numerose
vittime colpite mentre assistevano ad un concerto, così come lo è il presidente della Francia che ha garantito
vendetta; ma anche il compagno di Ungaretti “massacrato/ con la sua bocca digrignata/volta al plenilunio/con
la congestione delle sue mani/penetrata nel mio silenzio”: quel compagno che stava buttato accanto a lui...
anche lui era foglia. È proprio in quel momento che Ungaretti capisce l’importanza della vita cui resta
profondamente “attaccato” e ne esprime la forza scrivendo “lettere piene d'amore”.
Egli non cede al totale annichilimento, non si smarrisce nell'inferno, ma anela sempre a quel segreto capace di
renderlo cosciente di sé; come dichiara lui stesso: «L'hanno detto i miei "Fiumi”, che è il vero momento nel
quale la mia poesia prende insieme a me chiara coscienza di sé: l'esperienza poetica è l'esplorazione d'un
personale continente d'inferno, e l'atto poetico, nel compiersi, provoca e libera, qualsiasi prezzo possa
costare, il sentire che solo in poesia si può cercare e trovare libertà.»
La guerra spezza, lacera, dissolve: con l’espressione “mutilato” Ungaretti sembra riferirsi a se stesso, anche se
la mancanza di punteggiatura rende ambigua la concordanza con l'io lirico o con l'albero al quale egli si tiene.
Eppure in mezzo a questa desolazione, come quella “di un circo/prima o dopo lo spettacolo”, al centro di
questo spettacolo di morte, il poeta si distende “in un'urna d'acqua” e trova una condizione di “riposo”,
“come una reliquia”.
La reliquia è la parte di quello che prima era un tutto. La fibra è scheggia, brandello, è una parte di un essere
vivente. Ungaretti stesso è la scheggia di un nulla che si è perso. Il canto dal nulla della trincea si eleva fino a
spargere un’armonia.
Il paradosso che è l’uomo colloca Ungaretti in una condizione di domanda. Questo viene sottolineato anche
nella poesia “Sono una creatura”, dove egli si paragona ad una pietra “così fredda” e “così dura”, ma allo
stesso tempo “così prosciugata”. La sua è quindi una forza apparente, poiché dentro è fragile. “La morte si
sconta vivendo”: con questa espressione il poeta, sopraffatto dai tanti dolori, considera la morte la pace
eterna che viene pagata a caro prezzo, con le sofferenze della vita.
Quando a parlare è la “morte, muta parola”, Ungaretti la sente “cantare come una cicala” e sembra dirci che
dopo la guerra, in quel “quasi nulla” rimane un “confuso silenzio”. C'è qualcosa che segna profondamente “le
rughe segrete”, ovvero quei segni che non si possono vedere perché, essendo incisi e segreti, sono nel
profondo dell'“infelice maschera”, cioè nel travestimento che tutti acquisiscono, in quel falso velo dove tutti si
nascondono per non mostrare ciò che realmente sono e provano. Questo è la “beffa infinita dei padri”: il
perpetrarsi di una recita in cui tutti, direbbe Pirandello, siamo “uno, nessuno e centomila”; distinti eppure
tutti uguali di fronte al dolore che ci offende e col quale, pur fratelli, ci offendiamo a vicenda. L'offesa che
hanno ricevuto, e a loro volta inflitto, i nostri antenati: quell'offesa che è “infinita” perché, in quanto parte
della storia, non può essere dimenticata.
Di fronte all'infinito di questa offesa si spalanca il silenzio, “confuso” perché non è muto, ma assordante:
quando si rimane in silenzio i pensieri che percorrono la nostra mente sono tantissimi e sovrapposti, creano
disordine e sembra quasi che prendano vita, insistono come le “cicale irose”, stordiscono come il canto della
morte “nella rosa abbrunata dei riflessi”, stordiscono come le ultime grida che emettono gli uomini prima di
cadere nell'abisso, quando emettono un "impercettibile sussurro" e cessano di fare rumore. Anche i vivi
dovrebbero smettere di gridare, per concedere ai morti la pace, per poter ascoltare il solo autentico suono
capace di farci vivere davvero: quello che ci ricorda che uccidersi a vicenda è assurdo e che dobbiamo
imparare dagli errori drammatici del nostro passato a diventare uomini migliori, fratelli di coloro che sono
tragicamente morti in guerra, fratelli di coloro che, pur apparentemente diversi da noi, sono in realtà foglie
dello stesso albero, fibre dello stesso universo.
In “Mio fiume anche tu” il mondo appare schiavo di un abissale dolore. Un uomo che ha già vissuto la guerra
ne sta vivendo un’altra, e scopre quanta sofferenza possa patire quando vede Roma occupata.
Ecco che ai quattro fiumi nelle cui acque aveva ripercorso la sua esistenza si aggiunge l’immagine del “Tevere
Fatale”: il fiume di quella Roma di un mito, simbolo della potenza dell’uomo. Eppure adesso questa Roma
geme di un “gemito d’agnelli” che si diffonde tra le strade “esterrefatte”, “sgomente” di fronte al “peggiore
dei mali”. Non più regge o monumenti gloriosi, ma cose che “agghiacciano divenute ormai tane incerte, luoghi
dove nessuno più è al sicuro.” Davanti a questa notte che “scorre sconvolta” in mezzo alla “pena abissale” che
soffoca il mondo, il poeta impara quanto un uomo può patire: il dolore più grande, “insopportabile il
tormento”, è quello causato dai “fratelli” sfrenati, senza più remore “in ira a morte”.
Di fronte a tali situazioni le labbra “blasfeme” del poeta non possono che chiedere:
“Cristo pensoso palpito
Perché Tua bontà
S’è tanto allontanata?”
Ungaretti quasi Cristo in croce si chiede per quale motivo la bontà di Dio si sia allontanata lasciando il mondo
nelle mani della guerra, quella guerra che cambia gli uomini. Come leggiamo in “Distacco”, ormai essi hanno
un'“anima deserta” priva di qualsiasi sentimento, apatica, vuota.
Il poeta vorrebbe svegliarsi e ritrovare quel bene che aveva ormai perso, il bene che ci accomuna tutti, che ci
rende fibre dell'universo, perché anche le persone che in apparenza sembrano prive di qualsiasi emozione
oltre l'odio, probabilmente hanno nascosto dentro di sé ogni tipo di bontà per far fronte al dolore di una vita
troppo dura. Questo gran bene è nato piano piano, ma nel tempo in cui egli ha partecipato al conflitto,
“insensibilmente s'è spento”: in tali condizioni non sente nessuna emozione e a lui sembra così più facile
affrontare ciò che stava succedendo.
C’è un momento in cui il poeta sembra aver perso “tutto”, quando il dolore ha generato una “disperazione
che incessante aumenta”, tanto che non c’è spazio neppure per il pianto, fermo, bloccato come un nodo che
sembra rinchiudere tutta la vita “infondo alla gola”. Quella vita che prima era navigazione, attraverso l’abisso,
verso il “porto sepolto”; quella vita che è stata immersione nei fiumi del suo passato, fino alle acque
dell’Isonzo in cui il poeta si è sentito fibra dell’universo, quella vita non è più per lui che “una roccia di gridi”.
Per il poeta l'esistenza è divenuta quindi come una roccia: un qualcosa di freddo, vuoto e senza più forza e
sentimento, che ha dentro solo gridi che esprimono dolore e disperazione, che in questo momento sono
l’unica sostanza della sua esistenza, privata di pace e gioia. Una roccia la cui unica materia fa ormai parte dei
suoi giorni e ne riempie il cuore imprigionando la vita e il suo essere fibra dell’universo, cioè parte di quel
tutto che si è perso. Non vi è neanche quel segreto a rassicurarlo, segreto che era per lui consolatorio e fonte
inesauribile di vita. Egli si sente totalmente perso e sconfortato e non trova più consolazione in nulla.
Il dolore ha generato una frattura nel tempo, come il taglio di una “spada invisibile”, che non ha solo
allontanato il poeta dal suo passato, ma ha irrimediabilmente dissolto la sua infanzia, sotterrata nel “fondo
delle notti”, perduta, tutta. Il “grido” di fanciullo, quello spensierato che dava voce alla vita, è inghiottito nei
“gridi” stagliati nella roccia, suoni senza anima.
La memoria, sua urna d’acqua che un tempo ha dato quiete al poeta, come una reliquia, ora è preclusa al suo
animo, chiuso in un presente senza il conforto di quei suoni, eco delle voci dell’infanzia, di quell’esultanza che
scaturiva dall’amore per il fratello.
Il passato offre di solito rassicuranti punti di riferimento, nella cui rievocazione l’uomo ritrova le proprie
identità, mentre ora il poeta è perduto, “in infinito delle notti”. Il dolore è tale che egli considera i suoi ricordi
“un inutile infinito”, come afferma nella poesia I ricordi: essi sono ormai radicati nel passato, forse fin troppo
deboli, eppure restano gli unici capaci di contrastare e frenare il mare simbolo dello scorrimento impetuoso
della vita travolgente, che l'uomo non può placare tanto da restarne sconvolto.
Di fronte alla dinamicità degli anni che si susseguono senza che possiamo controllarne il corso, la nostra unica
arma sono i ricordi, il passato che appare a noi naufraghi come il solo appiglio in grado di condurci superstiti
alla riva. In quanto fibre dell'universo, nude e fragili, ci ritroviamo spesso in balia delle onde, incapaci di
contrastare la potenza del nostro esistere, impetuoso come un mare in tempesta, forza libera da ogni schema
e quasi onnipotente. Questo mare è emblema di una vita che mette in pericolo anche i ricordi, capace di
distruggerli e annullarli e piuttosto rapido nel farlo, esperto nel cancellare ogni traccia di un “pensiero fedele”
a cui spesso il cuore è affezionato. Un mare con le sue onde simili alle carezze che arrivano in riva “feroci”,
colpendo forte gli scogli, ma che contemporaneamente si fanno attendere e vanno incontro alla loro agonia,
un'agonia che è sempre lì ad aspettare e che si ripete, dando l'idea del movimento delle onde, alcune volte
troppo lente e altre troppo travolgenti, un po' come la vita. I ricordi del poeta sembrano il ricadere della
“sabbia che si muove”, poggiandosi su se stessa, leggera e delicata; essi rimbombano nella testa di Ungaretti,
probabilmente brevi istanti che però sembrano durare un lunghissimo tempo; ricordi degli addii silenziosi che
per attimi erano anche momenti felici; ricordi, appunto, che non riescono a contrastare il suo dolore. "Il
mare,/voce d'una grandezza libera,/ma innocenza nemica nei ricordi".
Se dunque anche i ricordi sembrano inghiottiti dalle onde, fagocitati dalle acque senza posa, è davvero tutto
perduto?
Anche se il poeta ha affermato “Tutto è perduto” e con questa espressione ha dato il titolo ad un'intera
raccolta, essa sembra indicare di fatto solo uno sconforto momentaneo, terribile, devastante, segnato da una
“disperazione che incessante aumenta”, ma non è la fine: non è il “nulla”. C'è ancora un “gesto inestinguibile”,
quello che delicato appare ne "L'angelo del povero".
In un momento in cui la guerra ha avvolto gli uomini nel buio di una notte profonda, le menti “oscurate”,
private di qualsiasi luce, sono invase da una pietà “più aspra” del sangue, quello versato inutilmente, e della
terra, quella che non è più madre che dà la vita ma arido deserto di morte; la pietà allora non è compassione
bensì un sentimento aspro, che sembra legato ad un fastidio dovuto alla consapevolezza dell'assurdità di una
guerra in cui gli uomini si uccidono tra di loro. La pietà non permette agli uomini di riconoscersi come fratelli
ma sembra avere solo il sapore acre del sangue delle vittime.
Come il buio fagocita le menti così domina il “silenzio di tante ingiuste morti” eppure è proprio questo silenzio
“che ci misura” cioè dà a noi che “ora” restiamo in vita il senso del nostro vivere: di solito dovrebbe essere la
parola a spiegarci chi siamo, le parole che vengono dal passato o quelle del presente, ma “ora” che sembra
esserci spazio solo per la morte, è la voce di quel “silenzio” a continuare a parlarci. Alla morte si oppone il
palpito: questo significa che non è “tutto perduto”, che, anche se debole, c'è un anelito di vita; infatti dopo la
parola “morti” non c'è un punto ma una virgola, non c'è la fine ma lo spazio bianco prima dell'invito rivolto
all'angelo del povero perché “si svegli”, perché sul sonno della morte abbia la meglio la “gentilezza superstite
dell'anima”.
Quindi non esistono solo buio, silenzio e sangue: non è il nulla, ma il quasi nulla; il segreto è inesauribile come
è “inestinguibile”, senza fine, il “gesto dell'angelo del povero” che ancora discende a guidare il “suo vecchio
popolo in mezzo alle ombre”. E così in tutta la poesia non c'è un punto, ma dopo “anima” e “ombre” solo
puntini di sospensione: è forse lì, tra quei puntini, che si nasconde quel nulla d'inesauribile segreto?
L'UOMO DI VETRO SUL FILO DI RAGNO
Abbiamo ricostruito la biografia di Ungaretti basandoci sulle informazioni che lui stesso ci ha fornito
attraverso le sue poesie, grazie alle quali siamo riuscite a comprendere, almeno in parte, i suoi pensieri e le
sue emozioni.
Ciò che più ci ha attirato è stato quell'“inesauribile segreto” che abbiamo provato a scoprire; ma esso, per
definizione, è quella cosa che nonostante tu riesca a scoprire rimarrà sempre, seppur in piccola parte,
invisibile e misterioso. Ungaretti nasconde questo segreto eppure ogni tanto lo fa vedere, anche se non nella
sua completa interezza. Non sempre riuscivamo a comprendere le sue poesie, ciò che lui voleva comunicarci.;
frequentemente le abbiamo messe da parte per poi tornarci di nuovo, alla ricerca di una spiegazione a quelle
parole attraverso le quali, grazie ad uno stretto contatto con il testo, abbiamo conosciuto l'autore.
Abbiamo così colto la fragilità dell’uomo, domandandoci, durante tutto il lavoro, che cosa intendesse
Ungaretti per fragilità. Forse essa è sinonimo dell'insicurezza e della precarietà dell'esistenza umana che
permette però all'uomo di riconoscere la sua vera natura e che gli consente di comprendere e compatire i
dolori e il bisogno dell'altro. Abbiamo visto il poeta stanco, malinconico, consumato dalla guerra e dai dolori
della sua esistenza: l'esperienza in trincea lo ha inevitabilmente condizionato.
“Ogni guerra racchiude in sé tutte le precedenti”, afferma Elias Canetti: questa frase molto famosa vuole
indicare il ritorno alle barbarie, che caratterizzano ogni guerra, a cui periodicamente si affaccia l'umanità. In
questi periodi le morali e i principi di civiltà vengono a mancare, ma forse proprio in simili momenti di
involuzione, il poeta riscopre in sé la sua vera natura: la guerra ha scatenato in lui una reazione positiva,
poiché la trincea provocò in lui un disperato attaccamento alla vita.
Che cosa c’è di più doloroso e devastante della morte di un figlio? Ungaretti ci ha insegnato che anche a un
dolore così assoluto si sopravvive, si deve sopravvivere, ci mostra “le stelle” che “si svelano ad una a una”
dopo tanta nebbia.. Il tempo che passa ammorbidisce ogni asperità. Forse quello che abbiamo capito è che,
nonostante tutte le sue sofferenze, egli ha sempre trovato la forza di ricomporsi e di continuare a vivere,
anche con la morte negli occhi; ha preso coscienza di sé, del fatto che crollare è umano e che quindi siamo
tutte nude creature accomunate dalla morte ma anche dalla vita.
I “naufragi” ricorrenti della vita non hanno mai piegato del tutto la fibra di quest’uomo/poeta, il suo essere
“foglia accartocciata”: così anche noi pensiamo di avere punti di riferimento, sicurezze, mura e basi solide e
quando li vediamo dissolversi inizialmente crolliamo, ma poi capiamo il nostro essere umani, in apparenza soli
di fronte alla rapidità della vita, in realtà insieme ai nostri fratelli. Il nulla ci circonda, talora ci opprime, ma in
quel mare di disperazione riusciamo a trovare un’ancora a cui aggrapparci: l’inesauribile segreto.
Che il segreto sia proprio prendere coscienza di sé e della propria condizione? L’ uomo di Ungaretti è un uomo
di vetro, fragile, “Attaccato sul vuoto/ al suo filo di ragno” vive nell’instabilità, non può contare sul presente,
sul passato né sul futuro, eppure in ogni circostanza: di fronte alla vita, al dolore, alla morte, si riscopre docile
fibra.
Siamo tutti vetro. Abbiamo paura di romperci in mille pezzettini, facciamo di tutto affinché questo non
accada, camminiamo in punta di piedi in questo filo di ragno sottile e pieno di ostacoli. Ma quando, per un
qualsiasi motivo, cadiamo e ci frantumiamo allora ci disperiamo, ci appare tutto buio e il mondo si rivela un
involucro di sofferenze e delusioni. È proprio in momenti del genere che si capisce quanta forza abbiamo per
ricomporre i pezzettini... non tutti tornano allo stesso posto, non tutti vegono ritrovati, ma non importa: quel
poco che rimane, quel quasi nulla ci basta per proseguire il nostro viaggio, viaggio che merita di vincere la
paura, per gustare la felicità.