Guardando le illustrazioni di Augusta Rasponi del Sale, o come

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Guardando le illustrazioni di Augusta Rasponi del Sale, o come
Guardando le illustrazioni di Augusta Rasponi del Sale, o come sempre si firmò Gugù (suo soprannome
infantile) è impossibile pensare che l’autrice non conoscesse le illustrazioni di Kate Greenaway o
Beatrix Potter, che non avesse respirato a pieni polmoni l’atmosfera rarefatta ed elegante delle tavole e
dei dipinti preraffaeliti, che non si fosse formata attraverso pazienti studi e copiature delle tavole di
Randolph Caldecott e di Arthur Rackham, della sapienza grafica di Edmund Dulac o delle coloriture
dell’Art & Craft di cui fu maestro Walter Crane.
I bambini rotondi e leggiadri disegnati da Gugù non abitarono solamente innumerevoli pagine
inedite (cartoline postali, appunti, doni personalizzati indirizzati a bambini amici e parenti) ma posero il
proprio universo espressivo nei tipi di editori esteri di eccellenza, quali l’inglese Heidelmann e il
francese Hachette, che pubblicavano negli anni cruciali a cavallo del 1900 albi che avevano lo
splendore di un momento aurorale.
I bambini di Gugù sono imparentati in primis graficamente, nella loro caratteristica dinamicità e
peculiare personalità, con i bambini illustrati dall’empireo degli illustratori inglesi per l’infanzia attivi
dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, il che equivale a dire, dall’empireo degli illustratori per
l’infanzia tout court. Gugù, contessa ravennate filantropa innamorata dell’infanzia, portatrice di uno
sguardo innovativo sull’educazione e promotrice di una cultura dedicata al tema della cura per il
benessere infantile, esprime nel disegno la precisione e il rigore di questo sguardo.
La vocazione intrinsecamente pedagogica dell’autrice informa i piccoli modelli bambini di una
qualità dinamica imprendibile eppure fortemente presente nelle sue figure leggere, sospese e aggraziate
e sempre al contempo realistiche. È più ai suoi colleghi d’oltremanica che assomiglia Gugù, la
contessina Augusta Rasponi dal Sale di Ravenna, nel tratto, nella sensibilità, nello stesso sguardo
rivolto ai bambini.
Uno sguardo e una penna (fra le prime stilografiche del tempo, a Ravenna) capaci di rappresentare con
una verità antropologica, psicologica e anatomica le figure infantili, in una maniera simile a quella
con cui la sua collega Beatrix Potter rappresentò il mondo botanico e naturale, a partire dal 1902, nelle
storie dedicate a Peter Coniglio e altri altri animali.
Molto inglese è anche l’animale totemico di Gugù, l’oca bianca che ricorre così tante volte nelle sue
narrazioni illustrate da rappresentare un alter ego, una firma, un personaggio virgiliano capace di
guidare gli adulti nelle lande dell’infanzia vera. Spogliata dei tratti umani e soprattutto adulti, Gugù
modernamente (e montessorianamente, si è tentati di dire) si rappresenta come una Mother Goose, una
mamma oca che si avvicina ai bambini posizionandosi alla loro stessa altezza, suggerendo una
interrogazione pedagogicamente moderna sul rapporto fra civiltà e selvatichezza, fra natura e
educazione, cura e condizionamento.
L’oca bianca è una icona fiabesca dalla ricca valenza archetipica e ricorre con straordinaria
costanza nella letteratura per l’infanzia: Charles Perrault intitola a questa figura leggendaria la
celebre raccolta di fiabe pubblicata nel 1697 (Ravel comporrà anche una suite, nel 1910 dedicata a due
di quelle fiabe!); sono innumerevoli le raccolte di filastrocche che seguiranno, anche Inghilterra, a
citare questo personaggio. È a bordo di un’ocone bianco che parte Nils Holgersson, il monello svedese
protagonista di una viaggio meraviglioso nel romanzo di Selma Lagerlof, pubblicato nel 1906.
La storia iconografica di questo animale in rapporto all’infanzia meriterebbe uno studio a sé. In questo
contestò ci interessa sottolineare la molteplicità degli intrecci e la profonda vocazione fiabesca e
internazionale che caratterizza l’arte di Gugù.
Instancabile filantropa, dedicò la sua vita all’infanzia disagiata, lavorando a stretto contatto con
bambini orfani, malati, infelici ed impegnando il suo tempo, il suo ingegno ed il suo patrimonio per
azioni che ne migliorassero le condizioni.
Appare dalla poliedricità del suo talento l’immagine di un’artista spinta da una motivazione così
profonda e personale da evitare ogni sfoggio egocentrico, non si vantò mai delle pur importanti
committenze editoriali estere né di un suo status artistico di eccellenza che oggi, al filtro del tempo,
appare evidente.
I suoi bambini sono imbronciati, scomodi, scattanti, contriti, felici, arrossati, sudati e spettinati oppure
gioiosi o anche indecisi, sono bambini ritratti nella loro bellissima e imperfetta verità. Nella loro realtà
di individui. Non sono bambini idealizzati ma bambini che l’immagine interroga, in modo quasi
Leonardesco per conoscerli (Leonardo da Vinci considerava il disegno una forma di
conoscenza)consapevole di una appartenenza e di un dialogo continuo con la grande tradizione
illustrativa.
Gugù infatti dedicava quella verità di ricerca all’indagine sulle condizioni dei bambini in relazione alle
modalità con cui venivano curati e allevati. Il saggio importante sulle sue ricerche sull’infanzia è La
mia statistica. Piccolo studio sull’allevamento dei bambini (Bologna 1914), un libretto illustrato in
grado di persuadere e informare, sulle migliori pratiche igieniche e sulle necessità dei bambini anche
molto piccoli.
La sua è una illustrazione che restituisce dignità, sottolinea le differenze e le emozioni dei bambini,
con il linguaggio poetico ed efficace dell’immagine propone con grande chiarezza un riconoscimento
di diritto all’infanzia: il diritto alla cura, diritto allo sguardo, diritto alla proprie costitutive differenze, ai
propri gusti. In un tempo in cui l’infanzia non è così visibile né rispettata, la penna di Gugù è lo
strumento di un pensiero pedagogico innovativo e intelligente che si rivolge agli adulti.
L’arte dell’illustrazione di Gugù possiede il beat di cui scrive Maurice Sendak, il dono ritmico degli
illustratori capaci di trasmettere la dinamicità dell’infanzia alle figure, l’argento vivo del battito del
cuore alle immagini, talento di cui Randolph Caldecott è forse il maggiore esponente.
Se la parentela figurativa più evidente appare quella con i bambini leggiadri ritratti da Kate Greenaway,
esiste anche un dialogo fra le illustrazioni di Gugù e quelle del suo tempo, per esempio nella
collaborazione che l’illustratrice ravennate ebbe con il Giornalino dei Bambini, il periodico per
l’infanzia che, Giornalino della Domenica a partire dal 1906 (sotto la direzione di Vamba) fino al
1927 ospitò una grande varietà di proposte narrative e illustrative, riconducibili a diverse poetiche
d’infanzia e filiazioni artistiche.
Fra i molti illustratori, decoratori o “figurinai” che si avvicendarono in quella che fu una straordinaria
esperienza editoriale, erano ravvisabili le mode pedagogiche e figurative del tempo e del tempo
passato. Giungevano d’oltralpe le icone classiche di area anglosassone, i “fondatori” cui abbiamo già
fatto riferimento, commisti e riletti dai modi eleganti dell’Art Noveau, già presenti nelle riviste
francesi, e gli esiti dello Jugendstil tedesco, le figurette bamboleggianti e vezzose e la retorica della
serenità domestica, sensa dimenticare la vena parodica e caricaturale (anch’essa molto frequentata nel
secolo precedente da grandi illustratori fra cui citiamo Wilhelm Busch e Hoffman di Pierino
Porcospino) erano ben ravvisabili nella sensibilità figurativa degli artigiani dell’illustrazione italiani
impegnati a descrivere l’infanzia, o ad abbellirne la descrizione, nelle pagine de Il giornalino.
Se in questo contesto lavorò Gugù, ebbe in una collocazione tutta sua e speciale, dove è evidente la sua
vocazione pedagogica, nella vocazione realistica combinata con la grammatica illustrativa di quello che
Paola Pallottino indica come tradizione del nursery decò.
Ci sono tanti neonati, nei disegni di Gugù. C’è la loro vita quotidiana, una vita invisibile e poco
considerata fino ad allora. Ci sono non solo le fasce scomode e crudeli che li impediscono, ma anche la
possibilità, illustrata nel senso doppio del termine di mostrata e spiegata, di rendere loro la vita più
felice, e più sana.
Un’illustrazione insieme felice e rigorosa, pienamente pervasa da una volontà conoscitiva e demiurga.
L’illustrazione di Gugù, si può dire, mentre rappresenta l’infanzia la crea, la studia, la discute.
Le tavole e il testo insieme, ne La mia statistica, concorrono ad una finalità che oggi definiremmo di
educazione degli adulti, una finalità dunque pedagogica in senso ampio.
Il libro per bambini, il libro con l’infanzia illustrata non è solo la restituzione di uno speciale diritto
all’essere rappresentati nella propria visibile verità, ma anche un terreno di confronto pedagogico che
vuole promuovere una cultura dell’infanzia curata, rispettata, amata con consapevolezza moderna.
Non sono dunque le famiglie ideali o i bambini ideali l’interesse di Gugù, al contrario sono le
condizioni singole e irriducibili di ogni bambino e di ogni situazione pragmatica, psicologica ed
emotiva di cura che lo interessano. L’arte è qui al servizio della pedagogia, ne interpreta le motivazioni
filosofiche: pensiero e stupore estetico sono unite nella felicità della poetica di Gugù che si fa
comunicazione efficace secondo una grammatica di grande modernità.
Mentre corregge le pratiche igieniche e di cura scorrette Gugù riesce a non redarguire mai il lettore in
modo diretto, perché ha l’obiettivo di tenerlo saldamente legato a lei attraverso la narrazione e la cura
riposta nella scrittura grafica, nella descrizione sempre affettuosa della complessa realtà della relazione
educativa.
Non sono metafore di infanzia e non sono metafore di cura, sono narrazioni capaci di mediare una
relazione che è insieme educazione e informazione, e di rivolgersi agli adulti con la stessa cura ed
attenzione comunicativa che auspica nei confronti dei bambini.
Una convinzione pedagogica che doveva pervadere poi tutta la missione editoriale del Giornalino,
come scrive Antonio Faeti (del catalogo L’irripetibile stagione de Il giornalino della Domenica, a cura
di Paola Pallottino, BUP, pag. 81).
La copertina di Gugù del 1909, l’alba rosea del numero secondo dell’anno quarto (sempre sotto la
direzione di Vamba) presenta quattro neonati stretti in quello che sembra un unico nastro, come salami:
hanno fra le mani il biberon, “la bottiglietta”, strumento che Gugù difese e lodò, da preferire alla tanto
diffusa pratica crudele del baliatico (affidare i bambini ad una nutrice che li allattasse al seno), per
poter assicurare nutrimento ai piccoli senza negare loro la presenza materna. I quattro neonati hanno
espressioni diverse, uno piange, uno è assorto, uno gioca e uno sembra sul punto di addormentarsi, con
la “bottiglietta” alla bocca.
Era questo Gugù, una esploratrice fresca e instancabile del territorio infantile, capace di raccontare,
con la voce limpida della grande letteratura illustrata, che l’infanzia è terreno di segreti e di diritti, una
zona dove si esprime ciò che è più specificamente umano, cioè la relazione fra la forma adulta e la
forma giovanile, la più impegnativa e lunga nel tempo fra tutte le specie animali. (vedi la neotenia)
Bambini borghesi vestiti e agghindati, infanti fasciati, immobilità e costrizioni non riescono a contenere
la vitalità inarrestabile e la grazia dell’energia infantile nei disegni di Gugù.
Verranno poi in seguito Angoletta e Rubino, sensibilità così diverse e così capaci di mostrare la realtà
dell’infanzia nel segno contorto e arabesco cui il liberty fu così votato, in una operazione
dialetticamente opposta a quella di Gugù.
Gugù conosce i segreti dell’infanzia ma ne è così affascinata da rimanere sempre nella condizione di
una testimone privilegiata e al contempo stupefatta: un’oca, appunto, come si ritrae. Capace (forse) di
vedere ciò che altri non vedono, capace (di certo) di restituire la verità della sua visione senza porsi in
cattedra, modernamente impegnata nella funzione esistenziale della letteratura, quella che crede che le
storie, le figure, tutte le narrazioni possano servire per vivere meglio.
Più nota all’estero che in Italia, Gugù si iscrive nel firmamento dei grandi narratori per l’infanzia,
coloro i quali sembrano vedere più degli altri, con maggior precisione e chiarezza quello che vedono i
bambini; forse per memoria infantile o per affinità poetica, certamente a causa di un Daimon, insieme
dannazione e talento, che si fa scintilla creativa del loro lavoro.
Oggi vengono in mente le parole di Helen Oxenbury, illustratrice per l’infanzia pluripremiata, quando
scrive che un artista visivo sa riconoscere ciò che vedono i bambini. Ecco Gugù sapeva questo e sapeva
vedere, e tradurre, per offrire nuovi occhi sull’infanzia. Cosa che ancora oggi avviene, come succede
solo per i classici.