04/07/2006 Libero martediComune19

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04/07/2006 Libero martediComune19
COSTUME & SOCIETÀ
Martedì 4 luglio 2006
19
“Calisutra”, carriera e donne di Califano
IL SESSO SECONDO IL CALIFFO
«La mia vita: da plaboy a galeotto salvato da Craxi»
di FRANCESCO SPECCHIA
 C’è. L’afflato letterario è ben nascosto, ma c’è. «Mi chiamo Antonello Mazzeo
detto “Signorino”. Sono amico del Maestro da cinquant’anni. Ero insieme a lui ar
Trionfale, quartiere popolare di Roma che
ci ha visto crescere insieme a un gruppo
d’amici con cui siamo ancora in contatto:
Ricciotti Boriani detto “Marocco”, Danese, Cimolino e altri ancora. Ci ritrovavamo
al bar Giava, prima di sparire nella bischetta di fronte a giocare a flipper....».
Così, a metà fra l’approccio malavitoso
di “Romanzo criminale” e l’incipit del
“Moby Dick” («Chiamatemi Ismaele...»);
così, come una rauca nostalgia; così, come una partitura jazz suonata da un pugile suonato, inizia “Calisutra” (Castelvecchi), ossia l’autobiografia -forse- definitiva, e la vita, e le copule e i miracoli di Franco Califano. Califano è il “Maestro”, per
l’appunto. Ed è più che un uomo; è -sia
detto con sana invidia- una leggenda vivente. Concepito 76 anni fa a Johannesburg e nato -povero- a Tripoli da una casalinga e da un importatore di legname
dipartito anzitempo, cantante, e poeta
moderno insignito della laurea in filosofia
honoris causa alla New York University, il
Califfo («Per via delle mie molteplici attività amorose») oggi vive intrappolato nello stereotipo del seduttore totale.
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Oddio, “intrappolato”, forse, non è il
termine esatto. Meglio “adagiato”. Come
quando s’adagiava con qualsiasi femmina nutriente o vaporosa che gli passasse
vicino nel raggio di cinque metri, sui divanetti del Pipistrello, del Capriccio, del Bar
del tennis del Foro Italico o del Club 84:
cioè di tutte quelle alcove creative che, negli anni 50, il Califfo -basettoni, blazer blu,
abbronzato e bello come un dio- impreziosiva con la sua cricca di dongiovanni
del Testaccio. «La regola numero uno era:
non provarci mai. Per questo posso dire
senza vergogna che nessuna mi ha mai
detto no: l’affronto sarebbe stato pazzesco...» scrive il Maestro, abbondando «...ci
piaceva il sesso, e cambiare menu: a me è
capitato di farlo con tre donne diverse al
giorno. Al mattino mi sono scopato la cameriera, un classico, un po’ come fare colazione a letto, il pomeriggio un’attrice da
Parigi, e la sera quella con cui ho concluso
la serata al Club 84. Ed è stato un giorno
come tanti...». Figurarsi le giornate speciali. Commesse, attrici, insegnanti, modelle usucapite all’harem dell’amico Gigi
Rizzi al Parioli, perfino suore (“Preferiva
l’uccello delle libertà alla colomba della
pace»): nessun sfuggiva alla sua zampata.
Dalla prima esperienza, a 12 anni, con la
mamma d’un “compagnuccio secchione
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PILLOLE DI “CALISUTRA”
PARTICOLARI
«Alle mie donne dico: “hai dei bellissimi polpacci, elegantissimi”, cercate sempre di sorprendere la vostra compagna; è la differenza tra piacioni qualsiasi e playboy di categoria»
CONTEMPORANEITA’
«Potevo fidanzarmi anche con quattro-cinque alla volta. Il gioco è
così: una fidanzata ufficiale, che non sa un cazzo delle altre, e le
tre amanti che sanno solo della fidanzata ufficiale...»
delle medie” emerge dell’immaginifico,
dell’epico, perfino dell’eretico nell’estenuante escalation sessuale del Califfo.
Scorrerne la biografia è storiografia pura. È
guardare nel buco della serratura d’un’intera nazione (compreso il vademecum
shintoista alle posizioni: non lo riportiamo
perchè a rischio di censura).
Dell’Italietta del boom e, dopo, della
Dolce Vita, in effetti, il Califfo era l’espressione più vivida e beatamente fregnacciara. Era Fred Buscaglione
senza lo smoking. Era il Gassman/
Bruno Cortona del “Sorpasso”,
con l’Aurelia decappotabile, anzi
era James Dean con la Porsche 356,
uno che accarezzava la vita in rettilineo per fotterla, all’improvviso, sui tornanti (e lo fa ancora oggi: con una Tuareg Limited color sabbia, ma
guida con più prudenza). S’è masticato di
tutto, il Califfo. La
chiusura dei bordellie iltrionfodella Dc; il successo
dai primi dischi
con Edoardo Vianello fino all’apoteosi con “Tutto il
resto è noia”; la
schiavitù
della
droga («La prendevo per scrivere e
stare sveglio») e
quella d’un matrimonio contratto per
distrazione; gli anni
milanesi («A Milano ’so
tutte piene de sòrdi. Ogni
ragazza c’aveva la sua bella
casetta di proprietà, la sua
bella macchina, che vita. Per
questo ci sono restato otto anni»)
e i giorni dell’amicizia col boss Francis Turatello detto “faccia d’angelo”,
CASCO OBBLIGATORIO, BASTA MOTO
«Ma scusa, in moto ce vai pe’ fa’ er fico, no? Ma se cor casco nun
te vede nessuno che ce vai a fa’? Cor Casco ’ndo vai?»
FOTOROMANZI
«Avevo spesso il ruolo dell’antagonista proprio pe’ ’sta faccia da
fijo de ’na mignotta; rubavvo le mogli ai mariti»
EDOARDO VIANELLO
«Mi usava tipo specchietto per l’allodole, anzi per le passere...»
uno che squarciava le bocche a mani nude “infilandole dalla mandibola”. Eppoi il
“gabbio” per spaccio di droga, due anni e
mezzo tra Rebibbia e Regina Coeli. Pure lì
col sesso come immancabile chiodo fisso:
«Arrivavano in soccorso le riviste, il rischio
di diventare frocio era veramente basso».
Ma il carcere è anche la linea d’ombra, il
crinale sul quale scivolano le vecchie amicizie, ma pure il setaccio dei nuovi affetti.
Ed ecco che sguscia la notizia. «L’unica
persona che mi ha aiutato in quei momenti terribili è stato Craxi», appunta Califano «dopo un anno che stavo dentro
per camorra gli scrissi una lettera in quanto Presidente del Consiglio, sebbene non
LA COSCIENZA VIRILE DI UNA NAZIONE
Franco Califano sulla copertina di “Calisutra” (Castelvecchi), il nuovo libro che ripercorre
la sua vita che ha, in appendice, il kamasutra personale maturato in 60 anni di attività
l’avessi mai conosciuto...». Da lì, come in
un film, l’intervento del premier che gli
suggerisce -tramite avvocato - di simulare
un infarto in cella; un espediente che lo
condurrà, dopo varie peripezie, agli arresti domiciliari. «Come stai, Franco», dice
Craxi, abbracciandolo al primo incontro;
«Adesso bene, Presidente» e lui : «Ma quale presidente, io per te sono Bettino...»,
ciòdetto Bettino interessa l’allora direttore di Raidue Giampaolo Sodano per tornare a far lavorare il cantante. Ma il Califfo, che possiede il senso dell’onore e la dignità della sconfitta, ignora la raccomandazione, riservandosi un modo più romanzesco per risorgere.
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D’altronde tutta la vita del Califfo è davvero un romanzo. D’accordo, la sua faccia
che pare piallata da un caterpillar, e devastata dal vizio, e tumefatta dal sesso
può incutere diffidenza. D’accordo, quando il Califfo dice: «L’ultimo posto dove
farlo? Il letto. Me fa venire
in mente il ministero.
Un lavoro da impiegato;
te stendi, te tocchi er piedino, te giri, ciuf ciuf e
buona notte amore...»
distrugge le tue poche
certezze sessuali da
borghese
represso.
D’accordo, negli anni
60 era detto “Er Leone” «per come sventravo le prede». E ora,
nonostante una morosa vogliosa e quarantenne, egli nasconde a fatica gli acciacchi dietro la panza
orgogliosa, da Buddha appena uscito da
un privè; ora -si diceva
- per lui «l’astinenza
diventa riposo...» (disse a Panorama, l’unica flessione che gli si
riconosce). D’accordo tutto.
Ma c’è ancora qualcosa nel Califfo, nella
sua marcia ed eterna
dissolutezza, che ipnotizza. Il Califfo è un Nitzesche moderno: non si
può prenderlo per il naso. Primo: perchè un naso vero e proprio
non ce l’ha (forse l’aveva un tempo, ora
è un mozzicone). Secondo: perchè il Califfo, scomparsi D’Annunzio, Valentino,
Tognazzi, Gassman è ancora la coscienza
virile della nostra nazione. Basta, naturalmente, non ricordarglielo troppo spesso.
Curiositalia
di MITÌ VIGLIERO
La misteriosa morte dell’ “Angelovergine” del pennello
Era un tipico agosto bolognese, quello del 1665; afa e
caldo infernali. Ma in via Urbana 7, casa del pittore
Giovan Andrea Sirani, l'atmosfera era di
cupo gelo, quello che raggela l'anima.
Era preoccupato per la salute di Elisabetta, la primogenita ventisettenne che da un po' soffriva di terribili
dolori al ventre. Adorava quella figlia; era diventata pittrice più famosa di lui, di riflesso dava lustro al
suo nome e alla sua arte, che senza di
lei darebbe stata mediocre ed ignorata.
Era davvero brava, la Sirani; in un'epoca in
cui le donne difficilmente emergevano nella vita quotidiana -e artistica- da quando aveva 17 anni nobili,
religiosi, borghesi, popolani le commissionavano
quadri: duchesse di Parma, di Baviera, di Braunschweigh, principi di Toscana avevano in casa almeno una sua opera.
Dipingeva ininterrottamente e velocissima (200 quadri in 10 anni!) specie donne, Madonne, eroine mitologiche e bibliche; in ogni suo quadro poneva la firma
su pizzi, gioielli, scollature, ogni cosa dimostrasse
femminilità. Era un business vivente; il padre faceva
da amministratore, lei passava ore chiusa in studio,
lavorando in pubblico perché molti non credevano
fosse lei a dipingere e disquisendo coltamente con gli
spettatori. Cosimo de' Medici, in cambio d'un quadro
le donò una croce con 56 diamanti che venne posta
dal padre nell' “armadio dell'ammirazione”, zeppo
d'oggetti preziosi donati alla figlia e mostrato ai visitatori come un reliquiario che provocava invidie.
Carlo Cesare Malvasia, celebre esperto di pittura dell'epoca, la venerava definendola “prodigio dell'arte,
gloria del sesso donnesco, gemma d'Italia, sole d'Europa, l'Angelovergine che dipinge da homo, ma anzi
più che da homo”.
Vergine perché non s'era mai innamorata; tranne
forse che d'un allievo del padre, il parmense Battista
Zani, già promesso alla bolognese Ginevra che della
pittrice era gelosissima. Elisabetta iniziò a star male il
giorno 11; il medico Gallarata diagnosticò “distillazione di catarro” da curare con “sciroppo acetoso”. Il
27 la crisi; urlava dal dolore, inizò a “sudare gelato”; il
medico prescrisse “lavativi, unzioni del corpo, vomi-
tivi e brodi”. Si fece “negra l'estremità delle dita delle
mani e dei piedi, mutò tutta colore”. E il 29 la fine:
“Dopo morta si gonfiò tutta e pareva fosse vecchia di
60 anni...”. Così testimoniò la zia al processo, che ci fu
perché il padre accusò d'omicidio una cameriera, Lucia Tolomelli; testimoni l'avrebbero vista comprare
una venefica polvere rossa e metterla nel pancotto, cena di Elisabetta: forse una sicaria di Ginevra? Lucia fu
interrogata, torturata, il processo durò un anno; infine i patologi diagnosticarono “morte da ulcera perforata” causata da stress e iperlavoro.
La Tolomelli venne in ogni caso esiliata da Bologna
ed ebbe per sempre la nomea d'avvelenatrice. I funerali di Elisabetta furono “lacrimosi e solenni come
quelli d'una santa papessa”: è sepolta nella chiesa di
San Domenico a fianco di Guido Reni, idolo di suo
padre.