conquiste - CISL Scuola Ravenna
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conquiste dellavoro C he il mondo conosca in questi anni uno stato di grave crisi è cosa indiscutibile. La centralità quasi esclusiva che ha assunto la questione economica nasconde però una dimensione della crisi che è assai più ampia. L’Europa vive, si potrebbe dire, una crisi nella crisi; che è prima di qualsiasi altra cosa una crisi della civiltà europea, cioè di una civiltà costruitasi nei secoli, sedimentando valori, principi, interpretazioni della realtà, visioni del mondo, che ha rappresentato un modello di riferimento per l’umanità. Acanfora a pagina 7 ANCHE ON LINE I l racconto “Bartleby lo scrivano” (una storia di Wall Street) di Herman Melville chiude questo ciclo di letture estive, pensate per accompagnarvi nei vostri viaggi, sia fisici che di puro intelletto. Melville alle pag. 3-6 www.conquistedellavoro.it Direttore: Raffaele Bonanni - Direttore Responsabile: Raffaella Vitulano - Direzione e Redazione: Via Po, 22 - 00198 Roma - Tel. 068473430 - Fax 068541233. 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In Italia inflazione in lieve frenata all’1,1% dall’1,2% di luglio. L’Istat segnala come il livello di agosto si riporti ai valori di aprile e maggio, tornando al minimo da dicembre 2009. La frenata è dovuta al rallentamento tendenziale dei prezzi di beni alimentari ed energetici, in parte controbilanciato dai servizi. Rispetto al mese precedente l’indice aumenta invece dello 0,3%. Contribuiscono al rialzo congiunturale dell’indice generale gli aumenti dei prezzi dei servizi relativi ai trasporti, sui quali incidono fattori stagionali, e dei beni energetici non regolamentati. Restano stabili al’1,7% i prezzi del carrello della spesa, i prodotti e servizi acquistati con maggiore frequenza. Sempre l’Istat fa sapere che a luglio i prezzi alla produzione dei prodotti industriali aumentano dello 0,1% rispetto a giugno, ma diminuiscono dello 0,9% nei confronti di luglio 2012. La flessione su base annua è la quinta consecutiva, a giugno era stata dello 0,7% mentre a livello congiunturale c'era stato un aumento dello 0,3%. Lavoro,apicco giovanieSud E’ frattura totale tra Nord e Mezzogiorno: in Trentino e Friuli il tasso è rispettivamente del 5,8 e 6,9%. Campania, Calabria e Sicilia oltre il 21%. E tra le giovani donne meridionali la quota di chi è senza lavoro è il 51%. Segnali di inversione di tendenza in alcune aree della zona Euro S i arresta la crescita della disoccupazione a luglio ma torna a crescere quella giovanile. Lo rivela l’Istat, sottolineando che si allarga la frattura tra Sud e Nord Italia. Se in trentino e Friuli Venezia Giulia il tasso di disoccupazione è rispettivamente del 5,8 e 6,9%, in Calabria, Sicilia e Campagna ha superato il 21%. Storti a pagina 2 Ces alla Ue: sbagliato ridurre salari S ecco no dei sindacati europei alla proposta di Olli Rehn di ridurre i salari del 10% per rilanciare la crescita. “Aggrapparsi all’austerità e alla riduzione dei salari non è la risposta giusta”, ha scritto la Ces in una lettera aperta al vicepresidente della Commissione europea e responsabile per gli affari economici e monetari, con cui respinge la proposta di erosione salariale in Spagna allo scopo di riprodurre i successi irlandese e elettone. Nella lettera la Ces sottolinea che “la Lettonia e l’Irlanda, che hanno perduto rispettivamente il 20% ed il 15% dell’insieme della loro forza lavoro, possono difficilmente passare per esempi”. L'unica lezione da imparare dalla Lettonia è che “l’azione prioritaria è stata quella di rilanciare la crescita”, afferma il sindacato europeo aggiungendo che “l’Europa deve rinviare l’applicazione del limite del 3% di deficit finché le economie nazionali non si saranno riprese” ovvero probabilmente fino al 2016-2017. La Ces inoltre denuncia “la corsa verso il basso” dei salari “provocata in molti stati membri della concorrenza salariale incoraggiata dalla Commissione”. “Come avevamo previsto - ha affermato il segretario generale della Ces, Bernadette Sègol l’austerità non funziona. Noi siamo favorevoli a politiche che stimolano l’attività, accompagnate da salari e pensioni che sostengano i consumi”. Iva, scontro Nuovi senatori a vita tra Pd e Pdl Segnale forte per la Ricerca S contro Pdl - Pd dopo le parole di Stefano Fassina sull’Iva. Il viceministro dell’Economia ha definito “inevitabile” l’aumento ad ottobre. Brunetta (Pdl): fa solo terrorismo a fini politici. Sindacati preoccupati. Per la Cgia di Mestre il rischio è una stangata sulle famiglie a basso reddito. Confcommercio avverte: così si bruciano 10mila posti di lavoro. D’Onofrio a pagina 2 I l presidente della Repubblica ha nominato senatori a vita il maestro Claudio Abbado, la ricercatrice Elena Cattaneo, l’architetto Renzo Piano e il fisico Carlo Rubbia. Napolitano sottolinea il “prestigio mondiale” di cui sono circondate le personalità scelte. In particolare, il capo dello Stato rimarca la nomina di una “donna di scienza di età ancor giovane ma già nettamente affermatasi, la cui scelta ha anche il valore di un forte segno di apprezzamento, incoraggiamento e riferimento per l’impegno di vaste schiere di italiane e italiani di nuove generazioni dedicatisi con passione, pur tra difficoltà, alla ricerca scientifica”. La scelta è molto apprezzata dal segretario nazionale della Fir Cisl Giuseppe De Biase per il quale “ancora una volta Napolitano dimostra attenzione al mondo della Ricerca. Auspichiamo che Governo e Parlamento manifestino con atti concreti la stessa attenzione”. 2 SABATO 31 AGOSTO DOMENICA 1 SETTEMBRE 2013 decreto relativo alla razionalizzazione della Ricerca Ilpubblica amministrazione prevede, tra l’altro, l’immissione in servizio dei vincitori di Fir Cisl: nel concorso in attesa di assunzione e la valorizzazione della professionalità del personale accon contratti a tempo determinato nedecreto P.A. quisita gli enti di appartenenza. Infatti, spiega il segenerale della Fir Cisl Giuseppe De segnali gretario Biase, è normata la possibilità per le amminidi bandire procedure concorsuali importanti strazioni per il personale in possesso dei requisiti previlegge 296/2006, nonché per coloro ma non stichedalla abbiano maturato negli ultimi 5 anni al3 anni di servizio alle dipendenze deldecisivi meno l’amministrazione che emana il bando. Le pro- cedure selettive possono essere avviate a valere sulle risorse assunzionali relative agli anni 2013-2014-2015 anche complessivamente considerate in misura non superiore al 50%. Per gli Epr, poi, l’autorizzazione per l’avvio delle procedure consorsuali ha un percorso più snello. Commenta De Biase: “Apprezziamo l’iniziativa del Ministro D’Alia, si tratta di un segnale importante nei confronti del personale precario degli Enti di ricerca ma evidentemente non risolutivo. Infatti i risultati possibili sono ridimensionati dai vincoli imposti dall’utilizzo del turn over e dai limiti delle piante organiche. Se al di là delle affermazioni retoriche la Ricerca è considerata un elemento essenziale per lo sviluppo del Paese, gli Enti di Ricerca debbono essere posti in grado di funzionare recuperando i danni prodotti da soppressioni ed accorpamenti impropri di Enti, tagli di risorse e di organico che specie negli ultimi anni gli Epr hanno subito e, allo stato, il decreto legge in parola non sembra fornire risposte adeguate”. L’impegno del sindacato “continuerà nei confronti delle Commissioni parlamentari con l’obiettivo di correggere e migliorare le disposizioni previste. Ci aspettiamo comunque che il Ministro Carrozza apra un tavolo di confronto specifico sulla Ricerca con i sindacati”. Istat: disoccupazione ferma al 12% a luglio ma tra i giovani è aumentata dello 0,4% mensile e del 4,3% annuale Occupazionegiovanile, lospettrodiquota-40 N un incremento dell’imposta sul valore aggiunto. In termini percentuali l’incidenza sarebbe invece più ridotta sui redditi elevati. Preoccupata anche Confecooperative, che mette in guardia dalle ricadute di un inasprimento che potrebbe pesare “fino a 100 euro” sulle famiglie. Quel che è peggio, fa notare l’associazione guidata da Maurizio Gardini, è che l’impatto rischia di rilevarsi pesantissimo per il welfare e le fasce più deboli della popolazione: “Da gennaio 2014 - ricorda Gardini - l’Iva passerà dal 4% al 10% sui servizi ad anziani, minori e disabili. Un esborso sostenuto da Comuni e Asl che saranno costretti a tagliare i servizi a oltre 500mila persone, con un contraccolpo occupazionale per oltre 42mila persone”. Sulle barricate, e non potrebbe essere altrimenti, sale pure Confcommercio. Fatti i primi conti, sostiene l’associazione dei commercianti, il caro Iva potrebbe trascinarsi dietro un rincaro dei prezzi compreso tra lo 0,3 e lo 0,4%, un conseguente calo dei consumi e, di riflesso, la perdita di circa 10mila posti di lavoro. un anno prima). In Calabria c’è il tasso di occupazione più basso d’Italia, con appena il 39% di persone occupate nella fascia tra i 15 e i 64 anni (contro il 55,7% medio nazionale). Tra le regioni con il tasso di disoccupazione più basso ci sono il Trentino (5,8%), il Friuli (6,9%), il Veneto (7,5%) e la Lombardia (7,6%). Il tasso di occupazione più alto è a Bolzano, con il 70% delle persone tra i 15 e i 64 anni al lavoro. Anche a livello di Eurozona si confermano le dinamiche registrate in Italia: il tasso di disoccupazione nella zona della moneta unica è rimasto stabile al 12,1% a luglio, per il quarto mese consecutivo dopo un incremento pressoché ininterrotto da inizio 2011. E tuttavia, continua a salire la disoccupazione giovanile che ha toccato il 24%, rispetto al 23,9% di giugno, raggiungendo il picco del 56,1% in Spagna. Secondo Eurostat, in termini numerici il 12,1% significa che 19,2 milioni di cittadini dell’Eurozona sono senza lavoro. I tassi più bassi si registrano in Austria (4,8%) e Germania (5,3%). I più alti in Grecia (27,6%, dato di maggio) e Spagna (26,3%). “I dati sulla disoccupazione - sottolinea il Commissario europeo per il Lavoro, Laszlo Andor - mostrano incoraggianti segnali di leggera riduzione in molti Paesi ma è ancora chiaramente inaccettabile che più di 26,6 milioni di persone nella Ue e 19,2 milioni nell’Eurozona, di cui 5,5 milioni sotto i 25 anni, siano ancora senza lavoro”. I recenti miglioramenti, secondo Andor, sono “minimi” e la situazione “resta fragile”. Per questo il Commissario europeo fa appello ai governi perché aumentino “gli sforzi per il lavoro”. “La leggera riduzione della disoccupazione in alcuni Paesi - afferma - mostra l’importanza delle politiche attive per l’impiego come i sussidi all’occupazione, la riduzione delle tasse sui salari più bassi e i servizi per la collocazione. Questo non è il momento per i festeggiamenti o l’autocompiacimento. Al contrario, ora che vediamo di essere sulla strada di giuste politiche per l’occupazione dobbiamo aumentare i nostri sforzi a favore del lavoro”. C.D’O. I. S. attualità Frattura Nord-Sud: in Trentino il tasso è 5,8%. Campania, Calabria e Sicilia oltre il 21% essun segnale di ripresa ma se non altro la conferma che l’emorragia di posti di lavoro che va avanti da inizio crisi si è fermata. Il raffronto con lo scorso anno resta comunque impietoso. Con l’aggravante che le fasce giovani, che avevano recentemente mostrato segnali di ripresa, tornano a peggiorare. La disoccupazione, rivela l’Istat, a luglio si ferma al 12%, invariata rispetto a giugno ma in aumento dell’1,3% su base annua. Il segnale più allarmante riguarda, però, la disoccupazione giovanile, che torna a salire di ben 0,4 punti percentuali su base mensile (4,3 su base annua), toccando quota 39,5%. Tra i 15-24enni il tasso sale al 37,3% (+3,4 punti), con un picco del 51% per le giovani donne del Mezzogiorno. In termini tendenziali la disoccupazione cresce sia per gli uomini ( +16,6%) sia per le donne (+6,5%). Continua la tendenza avviata nel 2009 che vede conquiste del lavoro D Tassi di disoccupazione Dati in % Il numero di disoccupati ha raggiunto quota 3.075.000 nel secondo trimestre, 370.000 in più rispetto a un anno fa (+13,7%) GIOVANILE (15-24 anni) TOTALE (15-64 anni) 41,9 35,2 33,9 12,8 10,5 39,5 39,1 37,3 12,0 12,0 10,7 12,0 II TRIM I TRIM II TRIM LUGLIO GIUGNO LUGLIO 2012 2013* 2013 2012 2013 2013 Fonte: Istat *record storico fortemente condizionato dalla stagionalità isinnescata la mina Imu, la maggioranza delle larghe intese non ha impiegato molto tempo a trovare un altro terreno di battaglia. Stavolta a far litigare Pd e Pdl è l’Iva, il cui aumento dovrebbe scattare ad ottobre, sempre che nel frattempo non si trovi la copertura finanziaria necessaria ad evitarlo. Eventualità questa che Stefano Fassina, dando fuoco alle polveri, ha escluso senza mezzi termini in quanto diretta conseguenza, a suo avviso, del salasso alle casse dello Stato operato per cancellare l’Imu sulla prima casa. A Fassina ha replicato, in un’intervista al Gr Parlamento, un furente Renato Brunetta, per il quale il viceministro Pd dell’Economia non è altro che un irresponsabile, uno che “fa solo terrorismo a fini politici o a fini congressuali”. Concetti simili a quelli espressi in un colloquio con IlGiornale, nel quale il capogruppo del Pdl alla Camera ha ribadito la linea di sempre: “Vogliamo la riduzione della pressione fiscale, quindi siamo contrari all’aumento dell'Iva”. Nemmeno tra i democratici, però, si sono sprecati gli applausi per la sortita di Fassina. A turno, sia il premier Letta che gli altri componenti della squadra di governo con responsabilità sui dossier economici - da Zanonato a Baretta, passando per il responsabile economia del partito, Matteo Colannino hanno preso le distanze. La posizione resta insomma quella riassunta dallo stesso Baretta: l’esecutivo lavorerà ANSA poi diminuire anche il tasso d'occupazione straniera, passata dal 61,5% del secondo trimestre 2012 all'attuale 58,1%. Non si arresta - annota l’Istat - il calo degli occupati a tempo pieno (-3,4%, pari a 644 mila unità), che in quasi metà dei casi riguarda i dipendenti a tempo indeterminato. In un anno il numero di disoccupati è cresciuto di 325 mila unità, arrivando a quota 3 milioni 76 mila. Nel secondo trimestre, l’incremento interessa in oltre la metà dei casi le persone con almeno 35 anni. In quasi otto casi su dieci la crescita della disoccupazione riguarda le persone in cerca di lavoro da almeno 12 mesi. Le differenze a livello territoriale restano ampie. La situazione di alcune regioni del Sud è tragica. Nel secondo trimestre la disoccupazione era al 21,9% in Campania (dal 18,5% dello stesso periodo del 2012), al 21,6% in Sicilia (dal 19,4% di un anno prima) e al 21,5% in Calabria (dal 19,8% di Scontro Fassina - Brunetta. Governo a caccia delle risorse per evitare l’aumento Partitiallaguerradell’Iva, bruttenotizieperlefamiglie ad una dilazione, anche se c’è la consapevolezza che la coperta si va facendo sempre più corta: ”La possibilità che l'aumento dell' Iva venga eliminato per sempre è sotto il 5% - ammette il sottosegretario all'Economia ma per questi ulteriori tre mesi la possibilità è abbastanza buona”. Fuori dal Palazzo, i sindacati guardano con apprensione alle schermaglie in corso tra i partiti. Già la soluzione trovata sull’Imu dal governo non ha convinto le confederazioni, che temono - parole del leader della Cisl Raffaele Bonanni - che alla fine l’andirivieni tra Imu e service tax si riveli “una partita di giro”. Non bastasse, è evidente che dalla guerriglia fiscale tra le diverse anime della maggioranza rischia di uscire ridimensionata la richiesta numero uno dei sindacati, vale a diro il taglio delle tasse sui redditi da lavoro dipendente e sulle pensioni. A ciò si aggiunga che un eventuale aumento dell’Iva farebbe con tutta probabilità il più alto numero di vittime tra le famiglie a basso reddito. È anche la convinzione della Cgia di Mestre, secondo cui è sui nuclei più numerosi che andrebbero a scaricarsi gli effetti di Conquisteperl’estate 3 il racconto SABATO 31 AGOSTO DOMENICA 1 SETTEMBRE 2013 conquiste del lavoro HERMAN MELVILLE Bartleby lo scrivano S ono piuttosto avanti con l'età. La natura della mia professione, negli ultimi trent'anni, mi ha messo in contatto con un genere di individui interessanti e piuttosto singolari, dei quali, per quanto ne sappia, finora nessuno ha scritto: mi riferisco ai copisti legali, o scrivani. Ne ho conosciuti davvero molti, e, se volessi, potrei raccontare tante di quelle storie, da far sorridere… o commuovere. Ma fra tutti scelgo di raccontare pochi momenti della vita di Bartleby, il più stravagante scrivano di cui abbia mai avuto notizia. Era, Bartleby, una persona di quelle sui cui non si riesce ad accertare nulla. Prima d'introdurre lo scrivano, come mi apparve per la prima volta, sarà però il caso che faccia un cenno a me stesso, ai miei impiegati, al mio lavoro, ai miei uffici, e all'ambiente in generale. Prima di tutto: fin da giovane, sono stato sempre profondamente convinto che la via più facile sia la migliore. Sono uno di quegli avvocati privi di ambizioni, che non fanno mai appello a una giuria, né stanno lì a cercare di strappare applausi al pubblico; piuttosto trafficano, tranquillamente, con titoli azionari di gente ricca, o ipoteche, o titoli di proprietà. Chiunque mi conosca, mi considera persona cauta. Poco prima dell'epoca in cui ha inizio questa piccola storia, il mio lavoro era molto aumentato. Mi era stato infatti conferito l'incarico, ora abolito dallo stato di New York, di Magistrato della Corte d'equità. Una carica non gravosa, ma assai piacevolmente remunerata. Il mio ufficio era al primo piano di Wall Street. Le finestre si affacciavano da un lato sul muro bianco di un ampio cavedio, che prendeva luce da un lucernario; in cambio, la vista dall'altro lato offriva un buon contrasto: un muro alto, annerito dagli anni e perennemente in ombra. Nel periodo appena precedente l'arrivo di Bartleby avevo al mio servizio due persone in qualità di scrivani e un ragazzo promettente che faceva da fattorino. Il primo: Turkey, "Tacchino"; il secondo: Nippers, "Pinza"; il terzo: Ginger Nut, "Zenzero". In verità erano nomignoli che i tre impiegati si erano reciprocamente affibbiati e che esprimevano bene i rispettivi caratteri. Turkey era un inglese basso e tarchiato, della mia stessa età, ovvero prossimo ai sessant'anni. Al mattino il suo volto aveva un bel colorito florido, ma dopo pranzo gli si infuocava come la grata di un caminetto a Natale, e continuava a fiammeggiare, come smorzandosi a poco a poco, fino alle sei o giù di lì. Proprio quando Turkey emanava i suoi raggi più splendenti, cominciavano le ore in cui consideravo le sue capacità di lavoro seriamente compromesse. Non che fosse pigro, lungi da me, anzi, tendeva ad essere fin troppo attivo, ma c'era una ardente sbadatezza in tutto quello che faceva. Era sbadato nell'intingere la penna nel calamaio, e le macchie sui documenti cadevano tutte allora, dopo le dodici. Faceva chiasso a non finire con la sedia; rovesciava lo scatolino della sabbia; quando aggiustava le penne, per impazienza le buttava per terra, preso dalla rabbia: insomma uno spettacolo davvero triste in un uomo della sua età. Comunque per me era preziosissimo, capace di sbrigare una gran mole di lavoro: per questo sorridevo dei suoi lati eccentrici anche se talvolta lo rimproveravo. "Con rispetto, signore," diceva Turkey, "io mi considero il suo braccio destro. Al mattino mi limito a disporre tutte le mie schiere, ma al pomeriggio mi metto alla loro testa, e vado valorosamente all'assalto del nemico: co- sì!" e giù, una gran stoccata col righello. "Ma le macchie, Turkey?" insinuai. "Vero, ma con tutto il rispetto, signore, una macchia o due in un pomeriggio di afa, non si può rimproverare a questi grigi capelli. La vecchiaia, anche se imbratta una pagina, è onorevole. Con rispetto, signore, tutti e due stiamo invecchiando." Difficile resistere a un tale appello alla mia solidarietà. Nippers, il secondo della lista, era un giovane di circa venticinque anni, olivastro, con un aspetto piuttosto da pirata. Ho sempre pensato che risentisse di due influssi malefici: l'ambizione e la cattiva digestione. La prima era rivelata da una certa tendenza a usurpare pratiche d'ordine strettamente professionale, come la stesura originale di documenti legali. La cattiva digestione si palesava invece con nervosismo e smorfie insofferenti, e, soprattutto, con una insoddisfazione cronica per l'altezza della sua scivania. Nippers non riusciva mai ad adattare a sè il tavolo di lavoro. Ci infilava sotto zeppe di ogni tipo, strisce di cartone, fino alla carta assorbente. Mai niente raggiungeva lo scopo. Se, per dare sollievo alla schiena, lo sistemava ad angolo retto, sollevato fino al mento, ripido come il tetto di una casa olandese, si lagnava che così gli si bloccava la circolazione nelle braccia. Se, invece, lo abbassava all'altezza della vita, doveva curvarsi per scrivere, e sentiva dolori alla schiena. In realtà Nippers non sapeva mai cosa volesse. O, se mai voleva qualcosa, era di liberarsi del tutto del tavolo da copista. Fra le manifestazioni della sua morbosa ambizione c'era la tendenza a ricevere certi loschi individui, intabarrati in palandrane malmesse, che lui chiamava suoi clienti. Ma, con tutti i difetti e i fastidi che mi procurava, Nippers, come Turkey, mi era molto utile; aveva una scrittura rapida e chiara, e, se solo voleva, non gli mancavano i modi da gentiluomo, E da gentiluomo si vestiva, aggiungendo prestigio all'ufficio. Mentre Turkey in questo era una vera vergogna. I suoi abiti unti puzzavano di taverna. D'estate indossava pantaloni larghi e sformati. Le sue giacche erano esecrabili, e il suo cappello ancora peggio. Passi per il cappello che, tanto, da buon inglese, si toglieva appena entrato in ufficio, ma la giacca proprio non andava. Ebbi con lui qualche discussione, ma senza frutto. La verità era, penso, che un uomo dal reddito così modesto non poteva permettersi di esibire una faccia e una giacca ugualmente smaglianti contemporaneamente. Un giorno d'inverno regalai a Turkey una delle mie giacche, molto rispettabile, grigia, imbottita, che dava un bel calduccio e si abbottonava dal ginocchio al colletto. Pensavo che Turkey avrebbe apprezzato il gesto, moderando la sua sregolata avventatezza pomeridiana. Invece no, anzi, aveva su di lui un effetto pericoloso, per lo stesso principio per cui troppa biada fa male ai cavalli. Infatti, con quella giacca indosso, Turkey inclinava all'insolenza. Era un uomo cui nuoceva il benessere. Per mia fortuna, l'irrequietezza di Nippers si rivelava soprattutto al mattino, mentre egli era relativamente calmo al pomeriggio. Perciò, visto che il parossismo di Turkey spuntava al pomeriggio, non dovevo mai a fronteggiare le eccentricità di entrambi contemporaneamente. Le loro crisi si davano il cambio, come sentinelle. Ginger Nut, il terzo della lista, era un ragazzo di circa dodici anni. Suo padre era un carrettiere che, prima di morire, voleva vedere il proprio figlio su un seggio di tribunale invece che su quello di un carro. Perciò lo mise a lavorare nel mio ufficio, come studente di legge, fattorino e addetto a pulire e spazzare, per un dollaro la settimana. Aveva uno scrittoio piccolo, che usava raramente. Tra le mansioni di Ginger Nut, quella che svolgeva con la maggiore alacrità, era di provvedere al rifornimento di dolci e mele per Turkey e Nippers. Essendo la copiatura di carte legali un lavoro proverbialmente arido, i miei due scrivani spedivano spesso Ginger Nut ad acquistare dei dolcetti rotondi, piatti e molto aromatizzati di quella spezia che gli valse il soprannome. Ora, dicevo, che il mio lavoro iniziale era notevolmente cresciuto a seguito della nomina alla Corte d'equità. C'era dunque adesso molto lavoro per gli scrivani. Così, non solo dovevo spronare gli impiegati, ma anche procurarmi un nuovo aiuto. In risposta a un annuncio, una mattina, si stagliò, immobile sulla soglia del mio ufficio - la porta era aperta, perché era estate - un giovane. Rivedo ancora quella figura: dignitosamente pallida, pietosamente rispettabile, irrimediabilmente squallida! Era Bartleby. Dopo qualche cenno sulle sue qualifiche, lo assunsi, felice di avere tra i miei copisti un uomo dall'aspetto così mite, che avrebbe potuto influire in modo benefico sul carattere irrequieto di Turkey e su quello irruento di Nippers. Ah, non ho ancora detto che il mio ufficio era diviso, da porte pieghevoli di vetro satinato in due locali, uno occupato dai miei scrivani, l'altra da me. Decisi di assegnare a Bartleby un angolo vicino alle porte pieghevoli, ma dal mio lato, così da avere quell'uomo tranquillo a portata di voce. Sistemai la sua scrivania accanto a una piccola finestra che non permetteva alcuna vista ma lasciava filtrare comunque un po' di luce. A rendere la sistemazione più soddisfacente, procurai un paravento verde, che riparava Bartleby dal mio sguardo, senza allontanarlo dalla mia voce. Da principio Bartleby svolse una gran mole di lavoro. Si dava da fare notte e giorno, copiando sia con la luce del sole che al lume di candela. Sarei stato anche compiaciuto di tanta solerzia, se fosse stato allegramente operoso. Invece continuava scriveva sempre in silenzio, in modo scialbo e meccanico. È parte inevitabile del lavoro di scrivano verificare che le sue copie siano corrette, parola per parola. Quando in un ufficio ci sono due o più scrivani, si assistono a vicenda in questo controllo: un lavoro noioso, spossante e soporifero, che, per un carattere sanguigno, non sarebbe molto tollerabile. Di tanto in tanto, se c'era fretta, avevo l'abitudine di aiutare a confrontare qualche breve documento, chiamando Turkey e Nippers. Tra le mie mire, nel collocare Bartleby a portata di mano dietro il paravento, c'era infatti di poter ricorrere ai suoi servigi per simili evenienze banali. Era con me, credo, da tre giorni quando, dovendo completare in gran fretta una faccenda, di punto in bianco chiamai Bartleby. Nella fretta e nella naturale aspettativa di un'immediata obbedienza, me ne stavo seduto con la testa china sull'originale posato sulla mia scrivania, la mano destra di lato, nervosamente tesa nel porgere la copia, così che, appena emerso dal suo riparo, Bartleby l'afferrasse e procedesse all'opera senza indugi. Ero in questa esatta posizione, quando lo chiamai, spiegando in fretta che esaminasse con me il breve documento. Immaginate la mia sorpresa, meglio, la mia costernazione, quando, senza muoversi dal suo angolo, Bartleby, con voce mite ma ferma, rispose: "Preferirei di no." Rimasi per qualche istante sbigottito, seduto, in perfetto silenzio, cercando di riavermi dalla sorpresa. Poi pensai di non aver sentito bene, o che Bartleby mi avesse frainteso. Riformulai la mia richiesta col tono più chiaro possibile; mi giunse la stessa risposta: "Preferirei di no." "Preferirei di noo?" gli feci eco, alzandomi e attraversando la stanza d'un balzo. "Come sarebbe a dire? Siete matto? Voglio che m'aiutiate ad controllare questo foglio, prendetelo" e glielo gettai. E lui: "Preferirei di no." Lo fissai di sasso. Il suo viso era smunto: composto, gli occhi grigi: tranquilli. Ci fosse stato anche il minimo disagio, o rabbia, o impertinenza; in altre parole, ci fosse stato in lui un segno di umanità, l'avrei cacciato brutalmente dall'ufficio. Ma, così, sarebbe stato come buttare fuori il busto in gesso di Cicerone. Lo scrutai per qualche istante: continuava a scrivere. Quindi tornai a sedermi al mio tavolo pensando: "Strano, davvero strano. Cosa posso fare?" Ma, non avendo tempo, rinviai la questione. Chiamai Nippers e controllai con lui il documento. Giorni do- 4 il racconto SABATO 31 AGOSTO DOMENICA 1 SETTEMBRE 2013 conquiste del lavoro po, Bartleby terminò la stesura di quattro copie di lunghissimi atti dell'Alta Corte di equità. Era necessario esaminarli. Si trattava di documenti di una causa importante, da trattare con la massima cura. Preparai tutto, chiamai dalla stanza accanto Turkey, Nippers e Ginger Nut: quattro copie, quattro impiegati, io avrei letto l'originale. Turkey, Nippers e Ginger Nut erano già seduti in una fila, ciascuno con la sua copia, quando chiamai Bartleby perché si unisse a questo bel gruppetto. "Bartleby! Forza, stiamo aspettando." Si udì il lento stridere della sua sedia sul pavimento nudo, ed egli apparve, impalato all'imbocco del suo eremo. "Cosa serve?" chiese mansueto. "Le copie, le copie," risposi in fretta "dobbiamo confrontarle. Ecco..." porgendogli intanto la quarta copia. "Preferirei di no," disse, e se ne scivolò dietro il suo paravento. Per un istante rimasi di sale, lì, a capo della mia colonna di impiegati. Mi ripresi, andai verso il paravento e gli chiesi ragione dell'inconsueta condotta: "Ditemi: perché rifiutate?" "Preferirei di no." Con chiunque altro sarei andato su tutte le furie, e senza scrupoli l'avrei cacciato via. Ma c'era qualcosa in Bartleby che, stranamente, mi disarmava, e cercai di ragionare con lui: "Queste sono le vostre copie, dobbiamo controllarle. Si risparmia fatica a controllarle tutte insieme. È così che si fa. Ogni copista controlla la sua copia. Non è così? Non dite niente? Rispondete!" "Preferirei di no," rispose con voce soave. Mi sembrò che, mentre parlavo, egli soppesasse ogni mia parola e ne comprendesse il senso perfettamente, ma poi qualche imperscrutabile motivo lo costringesse a rispondere in quel modo. "Così non obbedirete alla mia richiesta…, una richiesta conforme al comune buon senso?" Mi lasciò intendere brevemente che, su questo, le mie conclusioni erano esatte: sì, la sua decisione era irrevocabile. Spesso accade che, se si è contrariati in modo insolito, sentiamo vacillare le nostre convinzioni più elementari. In quel caso, se ci sono persone neutrali, ci si rivolge a queste alla ricerca di un sostegno per i nostri pensieri dubbiosi. "Turkey," chiesi, "che ne pensate voi? Ho ragione o no?" "Con tutto il rispetto, signore," disse Turkey con calma, "penso di sì." "Nippers," dissi, "voi cosa ne pensate?" "Penso che lo caccerei fuori a calci." (Avrete certo notato che, essendo mattina, la risposta di Turkey è pacata, mentre Nippers risponde di malumore.) "Ginger Nut," dissi, ansioso di raccogliere anche il minimo commento a mio favore "tu? Che ne pensi?" "Io? Signore? Per me quel tizio è un po' sfasato" rispose Ginger Nut ghignando. "Sentito?" dissi rivolto al paravento, " dunque venite fuori a fare il vostro dovere." Non mi degnò di una risposta. Meditai per un momento perplesso, ma, ancora una volta, eravamo in urgenza, e, ancora una volta rinviai la questione a un momento di maggior calma. Con qualche difficoltà controllammo le copie senza Bartleby; anche se Turkey sosteneva continuamente che questo modo di procedere fosse del tutto inusuale; mentre Nippers s'agitava sulla sedia in preda alla sua dispepsia nervosa, sibilando maledizioni a denti stretti in direzione dell'imbecille dietro il paravento. Trascorsero giorni, in cui lo scrivano fu impegnato in un altro lungo lavoro. La sua condotta insolita mi spinse a osservarlo con attenzione. Notai che non usciva mai a pranzo, anzi, non usciva mai in assoluto. Era come una sentinella: fissa al suo posto. Osservai che verso le undici, ogni mattina, come chiamato da un gesto invisibile, Ginger Nut si affacciava al paravento di Bartleby, poi il ragazzo usciva dall'ufficio facendo tintinnare qualche moneta, e ricompariva con una manciata di biscotti allo zenzero, che portava all'eremo, ricevendone un paio per ricompensa. "Allora è di biscotti che vive," pensai, "non fa mai un vero pranzo: forse è vegetariano. Ma no, neanche, mangia solo biscotti allo zenzero." E mi perdevo allora in fantasticherie sull' organismo umano, e sugli effetti di vivere solo di biscotti allo zenzero. Dunque: i biscotti sono allo zenzero. Ora, cos'è lo zenzero? Una spezia piccante. Bartleby è piccante? Per niente. Lo zenzero, dunque, non aveva effetti su Bartleby. Probabilmente egli preferiva che non ne avesse. Nulla esaspera una persona seria quanto la resistenza passiva. Così pensavo a Bartleby e ai suoi modi: "Poveraccio, non è malvagio; è chiaro: non vuole essere insolente; basta guardarlo per capire che la sua eccentricità è involontaria; mi è utile, e posso andarci d'accordo. Se lo mando via, può capitare con un capo meno indulgente; sarà trattato male. Rischia addirittura di morir di fame. Andare incontro a Bartleby, assecondarlo nelle sue stramberie, ecco, sì, posso compiacermi a poco prezzo di una buona coscienza." Ma non ero sempre in questo stato d'animo. La passività di Bartleby a volte m'irritava. Un pomeriggio, un impulso malvagio ebbe su di me il sopravvento, e ne nacque la seguente scena: "Bartleby," dissi, "quando avrete finito di copiare quei documenti, vorrei esaminarli con voi." "Preferirei di no." "Come? Non vorrete certo intestardirvi con questi capricci!?" Nessuna risposta. Spalancate le porte pieghevoli, esclamai a Turkey e Nippers: "Bartleby, per la seconda volta dice che non esaminerà le sue copie. Che ne pensate, Turkey?" (Era pomeriggio, ricordatevene.) Turkey sedeva, bollente come una caldaia di rame; le sue mani raspavano tra i documenti macchiati: "Cosa ne penso?" ruggì "Penso che ora vado là dietro e gli faccio due occhi neri!" e così dicendo si alzò in piedi e si mise in posizione da pugile. Lo trattenni, spaventato dalle conseguenze di aver incautamente risvegliato la sua pomeridiana bellicosità. "Sedetevi, Turkey" dissi, "sentiamo cosa ha da dire Nippers. Che ne pensate, Nippers? Avrei motivo di licenziare Bartleby all'istante?" "Chiedo scusa, signore, ma sta a voi decidere. Penso che la sua condotta sia piuttosto insolita, è vero, e anche ingiusta nei confronti miei e di Turkey. Ma forse è soltanto un capriccio passeggero." "Ah!" esclamai, "quanta indulgenza! Avete stranamente cambiato parere!" "È la birra" gridò Turkey, "la sua comprensione è effetto della birra... Nippers ed io abbiamo oggi pranzato assieme. Guardate quanto sono benevolo io! Vado a fargli due occhi neri!?" "No, non oggi, Turkey" risposi "abbassate quei pugni." Chiusi le porte e mi avvicinai di nuovo a Bartleby. Mi sentivo ancora più pungolato a sfidare la sorte e volevo che mi opponesse ancora un rifiuto. Mi ricordai che egli non lasciava mai l'ufficio. "Bartleby," dissi, "Ginger Nut è fuori, fate un salto all'ufficio postale, per favore (erano solo tre minuti di strada), a vedere se c'è qualcosa per me." "Preferirei di no." "Non volete andarci?" "Preferisco di no." Barcollai alla mia scrivania, e precipitai in meditazione profonda. Potevo espormi a un altro ignominioso rifiuto da parte di quel disgraziato? Da un mio dipendente? Quale altra richiesta perfettamente ragionevole avrebbe ancora rifiutato? "Bartleby!" Nessuna risposta. "BARTLEBY!" con voce più alta. Nessuna risposta. "BARTLEBY!" ruggii. Come uno spettro evocato, al terzo richiamo egli apparve sulla soglia del suo eremo. "Andate a dire a Nippers di venire da me." "Preferirei di no." Lo disse piano, in tono rispettoso, poi, lievemente, svanì. "Molto bene, Bartleby" dissi con un tono serenamente severo, che suggerisse la ferma intenzione di castigo tremendo. E in quel momento era così, ma…, tutto sommato…, era quasi ora di cena, pensai con la mente turbata… meglio andarsene a casa! Devo confessarlo? La conclusione della faccenda fu che nel mio ufficio - c ormai era un dato assodato - c'era uno scrivano, quello giovane e pallido di nome Bartleby, che aveva la sua scrivania, copiava per me a quattro centesimi a foglio ed era esentato, permanentemente, dal controllare gli atti, essendo tale compito demandato a Turkey e Nippers, ovviamente in omaggio alla loro superiore capacità; inoltre, detto Bartleby, non doveva mai, per alcun motivo, essere inviato a sbrigare la commissione più insignificante, di qualsiasi genere; e che, anche se supplicato, fosse ormai generalmente noto che lui "avrebbe preferito di no": o, in altre termini, che egli si sarebbe rifiutato, punto e basta. Col passare dei giorni, però, mi riconciliai con Bartleby: la sua perseveranza, l'industriosità senza risparmio, l'assenza di vizi, la tranquillità e la compostezza inscalfibili in qualsiasi circostanza, lo rendevano un acquisto prezioso. Ecco la sua qualità principale: egli era sempre là, al mattino era il primo, ininterrottamente per tutto il giorno, e ultimo alla sera. Avevo una fiducia assoluta nella sua onestà. Sapevo che i miei documenti più preziosi con lui erano al sicuro. A volte, nella fretta di sbrigare qualche pratica urgente, senza accorgermene lo chiamavo, poniamo, a mettere un dito su un pezzo di nastro rosso con cui rilegare alcune carte. Ovviamente, da dietro il paravento arrivava il solito: "Preferirei di no", e allora, ogni nuovo rifiuto diminuiva le probabilità di commettere di nuovo l'errore. Come era consuetudine di quasi tutti gli studi di avvocati, anche per la porta del mio esistevano molte chiavi. Una l'aveva la donna che lavava i pavimenti. Un'altra l'aveva Turkey, per comodità. La terza la portavo a volte con me. La quarta non sapevo chi l'avesse. Ora, una domenica mattina, mi accadde di andare alla Trinity Church, per ascoltare un celebre predicatore, e mi trovai da quelle parti piuttosto in anticipo, così pensai di fare una passeggiata fino in ufficio. Fortunatamente avevo con me la mia chiave, ma, quando la infilai nella serratura, mi accorsi che non apriva: qualcosa la bloccava da dentro. Ne fui sorpreso, e presi a chiamare; quando, con mia costernazione, una chiave girò dall'interno; e, dalla porta socchiusa, spuntò Bartleby, smunto e in maniche di camicia. Disse con calma che gli dispiaceva, ma che al momento era proprio occupato e... , per adesso, preferiva non farmi entrare. E aggiunse poche altre parole: per consigliarmi di fare il giro dell'isolato un paio volte, ché in in quel tempo avrebbe probabilmente concluso le sue faccende. Ora, la circostanza assolutamente inattesa che Bartleby occupasse il mio ufficio di domenica mattina, insieme a quella sua nonchalance educata e cadaverica, ma nel contempo risoluta e padrona, ebbe su di me un effetto piuttosto bizzarro: sgattaiolai via, dalla mia porta, e feci come richiesto. Non senza fremiti di ribellione contro la mite sfrontatezza di quell'indecifrabile scrivano. Era infatti soprattutto la sua stupefacente docilità che non solo mi disarmava, ma mi rendeva, come dire, impotente. Come altro definire chi permette tranquillamente a un suo dipendente di dargli ordini e di mandarlo via dal suo stesso ufficio? Senza contare l'inquietudine: mi chiedevo cosa mai potesse fare Bartleby nei miei uffici, in maniche di camicia, in condizioni impresentabili, di domenica mattina. C'era qualcosa di losco? No, era fuori questione. Neppure per un momento si poteva pensare che Bartleby fosse una persona immorale. Ma allora cosa ci faceva lì? Non ero tranquillo, e, preso dalla curiosità, finalmente tornai alla porta, inserii la chiave, senza trovare ostacoli, la aprii, ed entrai. Bartleby non c'era più. Guardai attorno, sbirciai dietro il paravento, ma se n'era proprio andato. Ad un esame più attento capii che chissà da quanto Bartleby mangiava, dormiva e si vestiva nel mio ufficio; e senza un piatto, un letto, o uno specchio. Un vecchio sofà, in un angolo, mostrava l'impercettibile impronta di un corpo, e, arrotolata sotto il suo tavolo, trovai una coperta; qui e là altri segni: lucido da scarpe e spazzola, un bacile, del sapone, uno straccio di asciugamano; dentro un giornale, biscotti allo zenzero e un pezzo di formaggio. Così, pensai: "È evidente che Bartleby si è piazzato qui, in una sistemazione da scapolo" Immediatamente fui pervaso dal pensiero: "Che squallida solitudine, che isolamento, qui, sotto i miei occhi! Come è grande la sua povertà! E la sua solitudine? Che cosa orribile! Pensaci: di domenica Wall Street è più deserta di Petra, e la notte, alla fine di ogni brulicante giornata, è il vuoto." Per la prima volta in vita mia fui colto da una struggente malinconia. Prima di allora non avevo mai provato nulla del genere. Una malinconia fraterna! Bartleby ed io: entrambi figli di Adamo. All'improvviso fui attratto dalla scrivania chiusa di Bartleby, con la chiave bene in mostra nella toppa. Non feci nulla di male, soltanto soddisfare una curiosità. La scrivania, in fondo, era di mia proprietà e quindi anche il contenuto. Così presi coraggio e guardai dentro. Tutto era disposto in un ordine metodico. Gli scomparti erano profondi e, spostando i fascicoli e le pratiche, tastai fino in fondo. Dopo un poco toccai qualcosa e la trassi fuori. Era un vecchio fazzoletto di cotone, pesante e annodato. Aprendolo capii che era il suo salvadanaio. Ricordai allora i molti sommessi misteri che avevo notato in lui: che parlava solo per rispondere; che non l'avevo mai visto leggere neppure un giornale; che per lunghe ore restava in piedi davanti alla sua finestra, a guardare quel muro cieco; ero certo che non mettesse mai piede in una trattoria, e il suo volto pallido indicava chiaramente che non beveva mai birra, come Turkey, né tè o caffè, come tutti gli altri; che si era rifiutato di dirmi chi fosse, o da dove venisse, o se avesse parenti al mondo; che, quantunque così scarno e pallido, mai aveva egli lamentato una cattiva salute. E soprattutto ricordai quella sua certa aria, come dire, di inconsapevole, pallida, slavata altezzosità, quasi un alone di austero riserbo, che mi aveva intimorito fino a ridurmi ad accettare docilmente le sue stranezze. Ripensando a tutte queste cose, e sommandole alle recenti scoperte, e non dimenticando il suo carattere morbosamente suscettibile, prese a insinuarsi in me un sentimento di prudenza. Le mie prime emozioni erano state di pura malinconia e compassione autentica; ma più l'idea della condizione disgraziata di Bartleby cresceva nella mia fantasia, più la malinconia si fondeva alla paura, e la compassione trascolorava in un senso di repulsione È così vero, e terribile, che l'impatto con la miseria genera i nostri migliori sentimenti; ma, oltre un certo punto, poi, succede il contrario. Sbaglia chi dice che questo derivi inevitabilmente dall'egoismo innato del cuore degli uomini. Discende piuttosto dall'impotenza a trovare rimedio a un male così estremo. Per un essere sensibile la pietà è spesso sofferenza. E quando poi si intuisce che la pietà non può tradursi in nessun soccorso efficace, il senso comune impone all'anima di sbarazzarsene. Quanto vidi quella mattina mi convinse che lo scrivano era vittima di un disordine incurabile. Avrei potuto soccorrere forse il suo corpo, ma non era il suo corpo a soffrire: era la sua anima, e quella non potevo raggiungerla. Per quel mattino rinunciai all'idea di andare in chiesa; in qualche modo me ne sentivo indegno. Camminai verso casa, pensando a cosa avrei fatto di Bartleby. Alla fine decisi così: l'indomani gli avrei posto qualche domanda pacata, sul suo passato eccetera eccetera, e se si fosse rifiutato di rispondere apertamente e senza riserve - e supposi che lui avrebbe preferito di no - allora gli avrei dato una banconota da venti dollari, in aggiunta a qualsiasi altra somma dovuta, dicendogli che i suoi servizi non erano più richiesti, ma che, se avessi potuto aiutarlo in qualsiasi modo, sarei stato felice di farlo. Specie se avesse voluto tornare al suo paese, dovunque fosse: l'avrei aiutato volentieri a sostenere le spese di viaggio. E se poi, giunto a casa, in qualunque momento si fosse trovato bisognoso d'aiuto, ogni sua lettera avrebbe avuto di certo risposta. Venne il mattino dopo. "Bartleby," dissi rivolgendomi gentilmente a lui dietro il paravento. Nessuna risposta. "Bartleby" dissi in tono ancor più gentile, "venite qui, non vi chiederò di fare nulla che voi preferiate non fare ... Desidero solo parlarvi." Finalmente scivolò fuori in silenzio. "Vorreste dirmi, Bartleby, dove siete nato?" "Preferirei di no." "Non vorreste dirmi niente di voi?" "Preferirei di no." "Ma quale ragionevole obiezione avete a non parlare? lo sono vostro amico." Non mi guardava mentre parlavo, ma teneva lo sguardo fisso sul busto di Cicerone, dietro le mie spalle, a sei pollici circa sopra il mio capo. "Cosa rispondete, Bartleby?" dissi, dopo un bel pezzo che aspettavo una risposta, mentre il suo viso si manteneva immobile, tranne un impercettibile tremore sulle labbra pallide e sottili. "Al momento preferirei non rispondere" disse, e si ritirò. Fu una mia debolezza, lo confesso, ma in quel momento i suoi modi mi irritarono. Non soltanto trovavo che nascondessero, per pacato che fosse, un certo disprezzo, ma la sua testardaggine rasentava l'ingratitudine, considerando l'indulgenza che gli avevo riservato. Rimasi di nuovo seduto, rimuginando sul da farsi, mortificato com'ero dai suoi modi. Così spostai la mia sedia oltre il paravento, mi sedetti accanto a lui e gli dissi: "Bartleby, non importa, se non volete raccontarmi la vostra storia; ma lasciate che vi supplichi, da amico, di adeguarvi pià che potete alle abitudini di questo ufficio. Promettetemi che domani o in seguito darete una mano a controllare i documenti; insomma, ditemi che, prima o poi, comincerete ad essere un po' ragionevole... Dovete dirmelo, Bartleby." "Al momento preferirei non essere un po' ragionevole," fu la smunta, mite risposta. In quell'esatto momento le porte pieghevoli s'aprirono e Nippers s'avvicinò. Sembrava risentire degli effetti di una notte insolitamente agitata, prodotta da una digestione peggiore del solito. Colse soltanto le parole finali di Bartleby: "Preferirebbe di no, eh?" ringhiò Nippers. "Glielo farei preferire io, signore; se fossi in voi," rivolto a me, "gli darei tante di quelle preferenze, a quel mulo cocciuto! Ma sentiamo, signore, cos'è che preferisce non fare, adesso?" Bartleby non batté ciglio. "Signor Nippers!" dissi io " preferirei che vi ritiraste, adesso." In qualche modo, ultimamente mi capitava di usare l'espressione, "preferire", involontariamente, in ogni genere di circostanza. E tremai al pensiero che il contatto con lo scrivano avesse già e seriamente compromesso il mio stato mentale. Quali altre più profonde aberrazioni avrebbe potuto produrre? Mentre Nippers, acido e scontroso, se ne andava, arrivava Turkey con fare placido e ossequioso. "Con rispetto, signore," disse "ieri pensavo al nostro Bartleby e credo che se lui soltanto preferisse bere un buon quarto di birra al giorno, questo lo aiuterebbe a rimettersi in sesto, fino ad aiutarci a controllare le copie." "Così, quella espressione è rimasta attaccata anche alla vostra di lingua," dissi eccitato. "Con tutto il rispetto, signore, quale espressione?" chiese Turkey, entrando nel frattempo nello stretto spazio dietro il paravento e costringendomi a urtare lo scrivano. "Preferirei essere lasciato solo" disse Bartleby, come offeso per quella invasione nel suo angolo privato. "Ecco l'espressione, Turkey," dissi "quella!" "Ooh: "preferire"? Oh, sì..., strano modo di dire, io non lo uso mai. Ma, signore, come stavo dicendo, se solo lui preferisse..." "Turkey!" lo interruppi "fuori!" "Oh, certamente, signore, se preferite." Mentre lui apriva la porta pieghevole per ritirarsi, Nippers dal suo scrittoio gettò un'occhiata, e mi chiese se un certo documento preferissi che fosse copiato su carta bianca o azzurra. Il suo "preferissi" non aveva la minima intonazione maliziosa. Era evidente che se lo era ritrovato, senza volerlo, sulla lingua. Dissi fra me: "Devo assolutamente sbarazzarmi di quest'uomo dalla mente malata, che in qualche modo ha già alterato le nostre lingue, se non turbato i cervelli, a me e ai miei impiegati. Ritenni però prudente non procedere al licenziamento all'istante. Il giorno successivo notai che Bartleby non faceva nient'altro che starsene in piedi alla finestra, perso nelle fantasticherie ispirate dal muro cieco. Quando gli chiesi perché non scrivesse, rispose di aver deciso di non scrivere più. "Come, anche questo adesso? Cos'altro?", esclamai. "Non vuole più neanche scrivere?" "No". "Per quale ragione?" "Non capite da voi la ragione?" rispose lui con indifferenza. Rimasi a guardarlo attento, e mi accorsi che i suoi occhi erano vitrei e spenti. Mi venne subito in mente la sua impareggiabile diligenza nel copiare, lì, vicino alla finestra buia, forse durante le prime settimane di ufficio, aveva avuto un temporaneo danno alla vista. Ne fui commosso. Con qualche parola di rammarico, gli feci intendere che faceva bene naturalmente ad astenersi per un po' dallo scrivere; lo spinsi a cogliere quell'occasione per dedicarsi a qualche salutare attività all'aria aperta. Cosa che, tuttavia, egli non fece. Pochi giorni dopo, con gli altri impiegati assenti e una grande fretta di spedire alcune lettere, pensai che, non avendo assolutamente altro da fare, Bartleby sarebbe certo stato meno irremovibile del solito e avrebbe portato quelle lettere all'ufficio postale. Ma lui si rifiutò, decisamente, così che, con mio grande disagio, ci andai di persona. Altri giorni ancora passarono. Se gli occhi di Bartleby migliorassero o meno, non avrei saputo dire. All'apparenza, avrei detto di sì. Ma quando glielo chiesi, non mi degnò di una risposta. Comunque, non faceva più nessun lavoro. Alla fine, in risposta alle mie sollecitazioni, mi informò che aveva smesso di copiare. Per sempre. "Come!" esclamai "supponiamo che i vostri occhi guariscano del tutto, e tornino anche migliori di prima: allora, non copiereste più?" "Ho smesso di copiare" rispose, e scivolò via. Rimase lì, come prima, fisso dentro il mio studio. Anzi, se possibile, divenne più che mai fisso. Che fare? Lui non voleva fare nulla nell'ufficio: perché allora doveva stare lì? Per dirla schietta, era diventato una pietra al collo, un'inutile collare, e per giunta greve da sopportare. Eppure mi faceva pena. Non esagero dicendo che mi metteva a disagio. Se appena avesse fatto il nome di un solo parente o un amico, gli avrei scritto immediatamente sollecitandolo a portare quel povero disgraziato in qualche posto adatto. Ma sembrava solo, assolutamente solo nell'intero universo. Un relitto nel mezzo dell'Atlantico. Il lavoro finì per travolgere ogni altra considerazione. Con quanto tatto potei, dissi a Bartleby che, entro sei giorni, doveva lasciare il mio ufficio, che lo volesse o no. L'esortai a prendere nel frattempo precauzioni, in modo da procurarsi un altro tetto. Mi offrii di aiutarlo nella ricerca, purché compisse lui il primo passo verso il trasloco. "E quando alla fine andrete, Bartleby," aggiunsi, "farò in modo che non ve ne andiate sprovvisto di mezzi. Sei giorni. A partire da ora. Ricordatevene." Trascorsi i sei giorni guardai dietro il paravento, ed ecco Bartleby: era ancora lì. Mi abbottonai la giacca, mi feci forza, avanzai verso di lui lentamente, gli toccai la spalla e dissi: "È giunto il momento: dovete andarvene. Mi dispiace, eccovi il denaro, ma dovete andarvene." "Preferirei di no," replicò lui, tenendomi sempre le spalle voltate. "Voi dovete andarvene." Rimase in silenzio. Ora, io nutrivo una illimitata fiducia nella sua onestà. Spesso mi aveva restituito degli spiccioli che, sbadatamente, avevo lasciato cadere. Quello che seguì, in quel momento, non vi sembrerà dunque troppo strano. "Bartleby" dissi "vi devo dodici dollari, è quanto vi spetta. Qui ce ne sono trentadue. Anche gli altri venti sono vostri. Volete prenderli?" e spinsi verso di lui le banconote. Ma lui non si mosse. "Li lascio qui, allora" e ci misi sopra un fermacarte che era sul tavolo. Presi il cappello e il bastone e avviandomi alla porta, mi voltai e aggiunsi tranquillamente: "Dopo che avrete portato via dall'ufficio le vostre cose, Bartleby, chiudete bene la porta a chiave, e, vi prego, infilatela poi sotto lo zerbino, ché io possa disporne domattina. Non vi vedrò mai più, perciò addio. Se, in futuro, nella vostra nuova casa, potrò esservi mai di un qualche aiuto, non mancate di avvertirmi per lettera. Addio, Bartleby, e buona fortuna." Ma egli non rispose, non una parola, e, come l'ultima colonna di un tempio in rovina, rimase là in piedi muto e solitario, nel bel mezzo della stanza per il resto deserta. Mentre tornavo verso casa meditabondo, la mia vanità ebbe la meglio sulla pietà. Non potei fare a meno di congratularmi con me per il modo magistrale con cui ero riuscito a liberarmi di Bartleby. Magistrale, dico, come dovrebbe apparire ad ogni pensatore spassionato. La bellezza della mia tattica era nella sua perfetta, tranquilla sobrietà. Nessuna arroganza o volgarità, nessuna spacconata, nessun sopruso collerico, nessun andirivieni concitato per lo studio, sbottando in ordini rabbiosi perché Bartleby facesse fagotto con le sue cianfrusaglie da straccione. Niente del genere. Senza alzar la voce per ordinargli di andarsene - come forse avrebbe fatto un uomo meno perspicace - partivo dal presupposto che doveva andarsene, e su quel presupposto si fondava tutto quello che avevo da dire. Più pensavo al mio procedimento, più ne ero delizia- to. Tuttavia, l'indomani al risveglio, avevo qualche dubbio: col sonno erano svaniti i fumi di vanità. Uno dei momenti in cui un uomo è più lucido e savio, è, appunto, quando si sveglia al mattino. La mia tattica mi sembrava ancora sagace, ma solo in teoria. Il problema era cosa poi avrebbe dimostrato la pratica. Era davvero una bella idea aver assunto che Bartleby dovesse andarsene, ma, dopo tutto, questo assunto era soltanto mio, e non di Bartleby. Il vero problema non era tanto che io presumessi che lui mi lasciasse, quanto se lui preferisse farlo. Ed egli era uomo di preferenze, più che di presupposti. Dopo colazione, mi avviai verso il centro, ragionando sulla questione. In un momento pensavo che tutto si sarebbe rivelato un fallimento, e che avrei ritrovato Bartleby fisso nel mio ufficio come al solito; un momento dopo, ero invece certo che avrei trovato vuota la sua sedia. E mentre continuavo a cambiare opinione, all'angolo tra Broadway e Canal Street vidi un gruppo di persone agitate, impegnate in un'accesa discussione. "Scommetto che non lo fa" disse una voce mentre passavo. "Che non se ne va?" dissi io "D'accordo: fuori i soldi." Stavo istintivamente mettendo mano alla tasca per tirar fuori la mia posta, quando ricordai che quello era giorno di elezioni. Le parole che avevo udito non avevano alcun rapporto con Bartleby, ma con il successo o l'insuccesso di un tizio candidato alla carica di sindaco. Assorto com'ero nei miei pensieri, avevo immaginato, per così dire, che tutta Broadway condividesse il mio turbamento e dibattessero tutti il mio problema. Li superai, grato che il frastuono della strada avesse nascosto la mia momentanea distrazione. Giunsi in ufficio prima del solito, come era mia intenzione. Rimasi davanti alla porta ad ascoltare per qualche secondo. Silenzio. Doveva essersene andato. Tentai di ruotare la maniglia. La porta era chiusa a chiave. SÌ! La mia tattica aveva compiuto il miracolo: doveva essere andato via davvero. Eppure quel pensiero si mischiava con una nota di malinconia: ero quasi dispiaciuto per il mio brillante successo. Frugavo sotto lo zerbino in cerca della chiave che Bartleby aveva certo lasciato, quando per caso il mio ginocchio urtò contro il battente, con un rumore sordo. Dall'interno mi giunse in risposta una voce: "Un momento, ora sono occupato." Era Bartleby. Ne fui folgorato. Per un istante rimasi là come un uomo che, in un pomeriggio senza nubi, viene ucciso da un fulmine estivo, con la pipa ancora in bocca. "Ancora!" mormorai alla fine. Ma ancora una volta obbedendo a quello strano ascendente che aveva su di me l'imperscrutabile scrivano - al quale, non riuscivo a sottrarmi del tutto scesi piano le scale, uscii in strada e, mentre facevo il giro intorno all'isolato, soppesai il da farsi in quell'inaudito dilemma. Buttarlo fuori con la forza non potevo; trascinarlo via a suon di insulti non mi s'addiceva; chiamare la polizia era un' idea che non mi andava. Ma neppure lasciargli assaporare il suo cadaverico trionfo su di me! Neanche questo potevo accettare. Cosa dovevo fare, dunque? Decisi di tornare ancora a discutere con lui della questione. "Bartleby" dissi, entrando nell'ufficio con espressione tranquilla ma ferma, "sono seriamente dispiaciuto. Sono addolorato, Bartleby. Di voi mi ero fatto un'opinione migliore. Avevo creduto che foste una persona rispettosa, educata, alla quale, in qualsiasi difficoltà, sarebbe bastato appena un cenno… Ma a quanto pare mi ingannavo. Come?" aggiunsi, in un sussulto di sincera sorpresa. "Non avete neppure toccato quel denaro!" indicandoglielo esattamente là dove l'avevo lasciato la sera prima. Non rispose. "Volete lasciarmi oppure no?", chiesi a questo punto con impeto improvviso, avvicinandomi a lui. "Preferirei non lasciarla", rispose calcando leggermente sul non. "Che diritto avete mai, voi, di restar qui? Pagate voi l'affitto? Pagate voi tasse? O questa casa vi appartiene?" Non rispose nulla. "Siete pronto, adesso, a continuare il lavoro? I vostri occhi sono guariti? Potreste copiarmi un breve documento questa mattina stessa? O aiutarmi a controllare qualche riga? O fare un salto all'ufficio postale? In breve, farete una cosa qualsiasi per giustificare il vostro rifiuto di lasciare l'ufficio?" Silenziosamente lui si ritirò nel suo eremo. Adesso mi trovavo in un tale stato di nervosismo e di rancore, che ritenni prudente trattenermi per il momento dal dire altro. Io e Bartleby eravamo soli. Mi tornò in mente la tragica fine del povero Adams e dell'ancora più sventurato Colt nell' ufficio vuoto di quest'ultimo: come il povero Colt, portato da Adams a un punto di esasperazione, si abbandonò a un furore selvaggio, trascinato a commettere senza esserne consapevole il suo gesto fatale, che nessuno avrebbe potuto deplorare più di lui stesso. Spesso, riflettendo su quel caso, mi è capitato di pensare che se il litigio avesse avuto luogo su una pubblica strada, non si sarebbe concluso come si concluse. Fu la circostanza d'esser soli in un ufficio solitario, a inasprire la disperata collera dell'infelice Colt. Ma, quando il vecchio rancore di Adams si affacciò in me per spingermi contro Bartleby, per quanto mi tentasse, lo respinsi. A parte più nobili considerazioni, la carità spesso opera come un principio di grande saggezza e prudenza. Gli uomini hanno commesso delitti per gelosia e per rabbia, per odio e per egoismo, perfino per amor proprio; ma nessuno, nessuno di cui abbia mai sentito parlare, ha commesso un delitto per dolce pietà! Ad ogni modo, nella circostanza in questione, mi sforzai di soffocare i miei sentimenti esasperati verso lo scrivano, interpretando con benevolenza la sua condotta: "Poverino, poveruomo!" mi dissi, "lui non ha cattive intenzioni, e poi, ha attraversato brutti momenti, e bisogna avere pazienza!" Mi sforzai anche di trovare subito qualcosa da fare e, nello stesso tempo, di dare sollievo al mio sconforto. Cercai di cullarmi nella fantasia che, nel corso della mattinata, in un momento che gli fosse andato a genio, Bartleby, di sua spontanea volontà, sarebbe emerso dal suo cantuccio per imboccare con decisione la direzione della porta. Niente da fare. Venne la mezza; Turkey cominciò a irradiare luce dal volto, a rovesciare il calamaio, a farsi insofferente; Nippers si acquietò in una cortese compostezza; Ginger Nut prese a rosicchiare la mela del pranzo; Bartleby, in piedi davanti alla finestra, era immerso in una delle sue più profonde fantasticherie sul muro cieco. Lo si crederà? Dovrei ammetterlo? Quel pomeriggio lasciai l'ufficio senza rivolgergli altra parola. A poco a poco, grazie anche ad alcune salutari letture, s'insinuò nel mio animo la convinzione che i guai legati allo scrivano seguissero il disegno di un'eterna predestinazione, e che Bartleby fosse stato inviato per qualche misterioso scopo da una Provvidenza imperscrutabile per un semplice mortale come me. "E sia, Bartleby: rimani dietro il tuo paravento" mi dissi. "Non ti perseguiterò mai più. Sei innocuo e silenzioso come una di queste vecchie seggiole e, a farla corta, mai mi sento mai così solo come quando so che sei là dietro. Perlomeno, mi sembra di vedere, di intuire lo scopo predestinato della mia vita. Può bastarmi. Altri possono avere ruoli più nobili da recitare; ma la mia missione in questo mondo, Bartleby, sta nell'offrirti una stanza d'ufficio per tutto il tempo che tu riterrai opportuno rimanervi." Penso che avrei perseverato in questa felice e saggia disposizione d'animo, se non avessero preso a pesarmi le osservazioni, non richieste e poco caritatevoli, fatte da colleghi che venivano nel mio ufficio. Accade spesso, del resto, che il ripetuto contrasto con menti poco aperte finisca per dissolvere i migliori propositi degli spiriti più generosi. Anche se, a rifletterci, non era affatto strano che, entrando nel mio ufficio, la gente fosse colpita dal singolare aspetto dell'enigmatico Bartleby e si lasciasse dunque andare a qualche maligna osservazione sul suo conto. A volte un procuratore legale, con il quale conducevo affari in comune, capitava nel mio ufficio trovandovi nessun altro che lo scrivano, dal quale tentava d'ottenere qualche precisa informazione su dove io fossi. Ma Bartleby restava del tutto indifferente alle sue domande, immobile, in piedi al centro della stanza. Al procuratore, dopo averlo contemplato in quella posizione per qualche istante, non restava che andarsene, senza aver saputo nulla di quel che voleva. Oppure, quando era in corso un arbitrato e lo studio era affollato di avvocati e testimoni, e il lavoro si faceva pressante, accadeva che qualcuno dei legali presenti, sommerso dalle incombenze, vedendo Bartleby sfaccendato, gli chiedesse di fare una corsa fino al suo ufficio per prendergli un qualche documento. Al che Bartleby opponeva immancabilmente un tranquillo rifiuto, rimanendo tuttavia nell'ozio più assoluto, esattamente come prima. L'autore della richiesta, a questo punto, non mancava di volgere verso di me uno sguardo interrogativo, sgranando gli occhi. Ma cosa mai potevo dire? Finii per rendermi conto che, nella cerchia delle mie conoscenze professionali, circolavano commenti a mezza bocca, piuttosto meravigliati, in ordine alla strana creatura ch'io tenevo nel mio ufficio. Questo m'impensierì molto. E quando poi presero a farsi strada i pensieri che lo scrivano potesse vivere a lungo e continuare ad occupare i miei locali senza riconoscere la mia autorità; e imbarazzare i miei visitatori; e screditare la mia reputazione professionale; e gettare un'ombra sinistra sul mio studio, mantenendosi in vita fino all'ultimo con i suoi risparmi (giacché, non v'è dubbio, egli non spendeva più di cinque centesimi al giorno), e finisse magari per sopravvivermi, avanzando anche pretese sulla proprietà del mio ufficio, per diritto acquisito con la sua perpetua occupazione: quando tutti questi oscuri presagi s'affollarono ingigantendosi nella mia mente, già martellata senza sosta dagli implacabili commenti dei miei amici sullo spettro che ospitavo nella mia stanza, in me intervenne un grande mutamento. Decisi così di raccogliere tutte le mie forze, e liberarmi per sempre da quell'incubo insostenibile. Tuttavia, prima di elaborare un qualche complicato progetto adatto allo scopo, mi limitai a suggerire a Bartleby l'opportunità ch'egli se ne andasse per sempre. Con tono calmo e serio, sottoposi l'idea alla sua attenta e matura considerazione. Ma, dopo averla meditata per tre giorni, egli mi rese noto che la sua decisione rimaneva inalterata; in breve, che ciò che preferiva era di restare ancora sotto il mio tetto. "Cosa farò?" mi chiesi, abbottonandomi il pastrano fino all'ultimo bottone, "Cosa farò? Cosa dovrei fare? Cosa, secondo coscienza, dovrei mai fare di quest'uomo, o piuttosto, di questo spettro? Avrei dovuto liberarmene, e andarsene in ogni caso dovrà. Ma come? Caccerai tu quel pover'uomo pallido e passivo, butterai fuori dalla porta una creatura così indifesa, procurandoti disonore per tanta crudeltà? No, non posso farlo. Preferisco piuttosto ch'egli viva e muoia qui, per poi tumulare i suoi resti mortali in quel muro. Cosa farai, dunque? Per quanto tu lo blandisca, non riuscirai a smuoverlo. Il denaro che dovrebbe convincerlo egli lo lascia sotto il fermacarte, sul tavolo; è chiaro, alla fine, che egli preferisca aggrapparsi a te." "Allora occorrerà qualcosa di risolutivo, di fuori del comune. Cosa? Non vorrai mica farlo mettere in catene da un poliziotto e affidare la sua smunta innocenza alla prigione comune? E, poi, in base a cosa potresti ottenere un tale risultato? È forse egli un vagabondo? Come!, un vagabondo, un errante, lui che rifiuta di muoversi? È perché non è un vagabondo, quindi, che tu cerchi di farlo passare per tale? È troppo assurdo. Privo di mezzi di sostentamento evidenti: ecco fatto, ecco il motivo. No, ti sbagli di nuovo: ha di che sostentarsi, essendo vivo, giacchè l'esser vivi è l'unica prova incontestabile di avere i mezzi per vivere. Allora? Dal momento che egli non se ne va, sarò io, ad andarmene. Cambierò ufficio, mi trasferirò altrove, e gli dirò con estrema chiarezza che, se dovessi trovarlo ancora nei miei nuovi locali, lo denuncerei per violazione di dornicilio." Agendo di conseguenza, l'indomani così mi rivolsi a lui: "Questi locali sono per me troppo lontani dal municipio; e l'aria è insalubre. Insomma, ho intenzione di trasferire i miei uffici la settimana prossima, e non avrò più bisogno dei vostri servigi. Ve lo dico ora, onde voi possiate cercarvi un altro posto." Non rispose nulla e null'altro fu detto. Nel giorno fissato, noleggiai uomini e carri e mi recai nei miei uffici. Poiché il mobilio non era molto, fu portato via in poche ore. Per tutto il tempo, lo scrivano rimase in piedi dietro il suo paravento, che ordinai di portare via per ultimo. Fu rimosso e, ripiegato come un enorme foglio, lasciò Bartleby immobile inquilino d'una nuda stanza. Mi fermai sull'uscio osservandolo per un attimo, mentre 4 il racconto SABATO 31 AGOSTO DOMENICA 1 SETTEMBRE 2013 conquiste del lavoro po, Bartleby terminò la stesura di quattro copie di lunghissimi atti dell'Alta Corte di equità. Era necessario esaminarli. Si trattava di documenti di una causa importante, da trattare con la massima cura. Preparai tutto, chiamai dalla stanza accanto Turkey, Nippers e Ginger Nut: quattro copie, quattro impiegati, io avrei letto l'originale. Turkey, Nippers e Ginger Nut erano già seduti in una fila, ciascuno con la sua copia, quando chiamai Bartleby perché si unisse a questo bel gruppetto. "Bartleby! Forza, stiamo aspettando." Si udì il lento stridere della sua sedia sul pavimento nudo, ed egli apparve, impalato all'imbocco del suo eremo. "Cosa serve?" chiese mansueto. "Le copie, le copie," risposi in fretta "dobbiamo confrontarle. Ecco..." porgendogli intanto la quarta copia. "Preferirei di no," disse, e se ne scivolò dietro il suo paravento. Per un istante rimasi di sale, lì, a capo della mia colonna di impiegati. Mi ripresi, andai verso il paravento e gli chiesi ragione dell'inconsueta condotta: "Ditemi: perché rifiutate?" "Preferirei di no." Con chiunque altro sarei andato su tutte le furie, e senza scrupoli l'avrei cacciato via. Ma c'era qualcosa in Bartleby che, stranamente, mi disarmava, e cercai di ragionare con lui: "Queste sono le vostre copie, dobbiamo controllarle. Si risparmia fatica a controllarle tutte insieme. È così che si fa. Ogni copista controlla la sua copia. Non è così? Non dite niente? Rispondete!" "Preferirei di no," rispose con voce soave. Mi sembrò che, mentre parlavo, egli soppesasse ogni mia parola e ne comprendesse il senso perfettamente, ma poi qualche imperscrutabile motivo lo costringesse a rispondere in quel modo. "Così non obbedirete alla mia richiesta…, una richiesta conforme al comune buon senso?" Mi lasciò intendere brevemente che, su questo, le mie conclusioni erano esatte: sì, la sua decisione era irrevocabile. Spesso accade che, se si è contrariati in modo insolito, sentiamo vacillare le nostre convinzioni più elementari. In quel caso, se ci sono persone neutrali, ci si rivolge a queste alla ricerca di un sostegno per i nostri pensieri dubbiosi. "Turkey," chiesi, "che ne pensate voi? Ho ragione o no?" "Con tutto il rispetto, signore," disse Turkey con calma, "penso di sì." "Nippers," dissi, "voi cosa ne pensate?" "Penso che lo caccerei fuori a calci." (Avrete certo notato che, essendo mattina, la risposta di Turkey è pacata, mentre Nippers risponde di malumore.) "Ginger Nut," dissi, ansioso di raccogliere anche il minimo commento a mio favore "tu? Che ne pensi?" "Io? Signore? Per me quel tizio è un po' sfasato" rispose Ginger Nut ghignando. "Sentito?" dissi rivolto al paravento, " dunque venite fuori a fare il vostro dovere." Non mi degnò di una risposta. Meditai per un momento perplesso, ma, ancora una volta, eravamo in urgenza, e, ancora una volta rinviai la questione a un momento di maggior calma. Con qualche difficoltà controllammo le copie senza Bartleby; anche se Turkey sosteneva continuamente che questo modo di procedere fosse del tutto inusuale; mentre Nippers s'agitava sulla sedia in preda alla sua dispepsia nervosa, sibilando maledizioni a denti stretti in direzione dell'imbecille dietro il paravento. Trascorsero giorni, in cui lo scrivano fu impegnato in un altro lungo lavoro. La sua condotta insolita mi spinse a osservarlo con attenzione. Notai che non usciva mai a pranzo, anzi, non usciva mai in assoluto. Era come una sentinella: fissa al suo posto. Osservai che verso le undici, ogni mattina, come chiamato da un gesto invisibile, Ginger Nut si affacciava al paravento di Bartleby, poi il ragazzo usciva dall'ufficio facendo tintinnare qualche moneta, e ricompariva con una manciata di biscotti allo zenzero, che portava all'eremo, ricevendone un paio per ricompensa. "Allora è di biscotti che vive," pensai, "non fa mai un vero pranzo: forse è vegetariano. Ma no, neanche, mangia solo biscotti allo zenzero." E mi perdevo allora in fantasticherie sull' organismo umano, e sugli effetti di vivere solo di biscotti allo zenzero. Dunque: i biscotti sono allo zenzero. Ora, cos'è lo zenzero? Una spezia piccante. Bartleby è piccante? Per niente. Lo zenzero, dunque, non aveva effetti su Bartleby. Probabilmente egli preferiva che non ne avesse. Nulla esaspera una persona seria quanto la resistenza passiva. Così pensavo a Bartleby e ai suoi modi: "Poveraccio, non è malvagio; è chiaro: non vuole essere insolente; basta guardarlo per capire che la sua eccentricità è involontaria; mi è utile, e posso andarci d'accordo. Se lo mando via, può capitare con un capo meno indulgente; sarà trattato male. Rischia addirittura di morir di fame. Andare incontro a Bartleby, assecondarlo nelle sue stramberie, ecco, sì, posso compiacermi a poco prezzo di una buona coscienza." Ma non ero sempre in questo stato d'animo. La passività di Bartleby a volte m'irritava. Un pomeriggio, un impulso malvagio ebbe su di me il sopravvento, e ne nacque la seguente scena: "Bartleby," dissi, "quando avrete finito di copiare quei documenti, vorrei esaminarli con voi." "Preferirei di no." "Come? Non vorrete certo intestardirvi con questi capricci!?" Nessuna risposta. Spalancate le porte pieghevoli, esclamai a Turkey e Nippers: "Bartleby, per la seconda volta dice che non esaminerà le sue copie. Che ne pensate, Turkey?" (Era pomeriggio, ricordatevene.) Turkey sedeva, bollente come una caldaia di rame; le sue mani raspavano tra i documenti macchiati: "Cosa ne penso?" ruggì "Penso che ora vado là dietro e gli faccio due occhi neri!" e così dicendo si alzò in piedi e si mise in posizione da pugile. Lo trattenni, spaventato dalle conseguenze di aver incautamente risvegliato la sua pomeridiana bellicosità. "Sedetevi, Turkey" dissi, "sentiamo cosa ha da dire Nippers. Che ne pensate, Nippers? Avrei motivo di licenziare Bartleby all'istante?" "Chiedo scusa, signore, ma sta a voi decidere. Penso che la sua condotta sia piuttosto insolita, è vero, e anche ingiusta nei confronti miei e di Turkey. Ma forse è soltanto un capriccio passeggero." "Ah!" esclamai, "quanta indulgenza! Avete stranamente cambiato parere!" "È la birra" gridò Turkey, "la sua comprensione è effetto della birra... Nippers ed io abbiamo oggi pranzato assieme. Guardate quanto sono benevolo io! Vado a fargli due occhi neri!?" "No, non oggi, Turkey" risposi "abbassate quei pugni." Chiusi le porte e mi avvicinai di nuovo a Bartleby. Mi sentivo ancora più pungolato a sfidare la sorte e volevo che mi opponesse ancora un rifiuto. Mi ricordai che egli non lasciava mai l'ufficio. "Bartleby," dissi, "Ginger Nut è fuori, fate un salto all'ufficio postale, per favore (erano solo tre minuti di strada), a vedere se c'è qualcosa per me." "Preferirei di no." "Non volete andarci?" "Preferisco di no." Barcollai alla mia scrivania, e precipitai in meditazione profonda. Potevo espormi a un altro ignominioso rifiuto da parte di quel disgraziato? Da un mio dipendente? Quale altra richiesta perfettamente ragionevole avrebbe ancora rifiutato? "Bartleby!" Nessuna risposta. "BARTLEBY!" con voce più alta. Nessuna risposta. "BARTLEBY!" ruggii. Come uno spettro evocato, al terzo richiamo egli apparve sulla soglia del suo eremo. "Andate a dire a Nippers di venire da me." "Preferirei di no." Lo disse piano, in tono rispettoso, poi, lievemente, svanì. "Molto bene, Bartleby" dissi con un tono serenamente severo, che suggerisse la ferma intenzione di castigo tremendo. E in quel momento era così, ma…, tutto sommato…, era quasi ora di cena, pensai con la mente turbata… meglio andarsene a casa! Devo confessarlo? La conclusione della faccenda fu che nel mio ufficio - c ormai era un dato assodato - c'era uno scrivano, quello giovane e pallido di nome Bartleby, che aveva la sua scrivania, copiava per me a quattro centesimi a foglio ed era esentato, permanentemente, dal controllare gli atti, essendo tale compito demandato a Turkey e Nippers, ovviamente in omaggio alla loro superiore capacità; inoltre, detto Bartleby, non doveva mai, per alcun motivo, essere inviato a sbrigare la commissione più insignificante, di qualsiasi genere; e che, anche se supplicato, fosse ormai generalmente noto che lui "avrebbe preferito di no": o, in altre termini, che egli si sarebbe rifiutato, punto e basta. Col passare dei giorni, però, mi riconciliai con Bartleby: la sua perseveranza, l'industriosità senza risparmio, l'assenza di vizi, la tranquillità e la compostezza inscalfibili in qualsiasi circostanza, lo rendevano un acquisto prezioso. Ecco la sua qualità principale: egli era sempre là, al mattino era il primo, ininterrottamente per tutto il giorno, e ultimo alla sera. Avevo una fiducia assoluta nella sua onestà. Sapevo che i miei documenti più preziosi con lui erano al sicuro. A volte, nella fretta di sbrigare qualche pratica urgente, senza accorgermene lo chiamavo, poniamo, a mettere un dito su un pezzo di nastro rosso con cui rilegare alcune carte. Ovviamente, da dietro il paravento arrivava il solito: "Preferirei di no", e allora, ogni nuovo rifiuto diminuiva le probabilità di commettere di nuovo l'errore. Come era consuetudine di quasi tutti gli studi di avvocati, anche per la porta del mio esistevano molte chiavi. Una l'aveva la donna che lavava i pavimenti. Un'altra l'aveva Turkey, per comodità. La terza la portavo a volte con me. La quarta non sapevo chi l'avesse. Ora, una domenica mattina, mi accadde di andare alla Trinity Church, per ascoltare un celebre predicatore, e mi trovai da quelle parti piuttosto in anticipo, così pensai di fare una passeggiata fino in ufficio. Fortunatamente avevo con me la mia chiave, ma, quando la infilai nella serratura, mi accorsi che non apriva: qualcosa la bloccava da dentro. Ne fui sorpreso, e presi a chiamare; quando, con mia costernazione, una chiave girò dall'interno; e, dalla porta socchiusa, spuntò Bartleby, smunto e in maniche di camicia. Disse con calma che gli dispiaceva, ma che al momento era proprio occupato e... , per adesso, preferiva non farmi entrare. E aggiunse poche altre parole: per consigliarmi di fare il giro dell'isolato un paio volte, ché in in quel tempo avrebbe probabilmente concluso le sue faccende. Ora, la circostanza assolutamente inattesa che Bartleby occupasse il mio ufficio di domenica mattina, insieme a quella sua nonchalance educata e cadaverica, ma nel contempo risoluta e padrona, ebbe su di me un effetto piuttosto bizzarro: sgattaiolai via, dalla mia porta, e feci come richiesto. Non senza fremiti di ribellione contro la mite sfrontatezza di quell'indecifrabile scrivano. Era infatti soprattutto la sua stupefacente docilità che non solo mi disarmava, ma mi rendeva, come dire, impotente. Come altro definire chi permette tranquillamente a un suo dipendente di dargli ordini e di mandarlo via dal suo stesso ufficio? Senza contare l'inquietudine: mi chiedevo cosa mai potesse fare Bartleby nei miei uffici, in maniche di camicia, in condizioni impresentabili, di domenica mattina. C'era qualcosa di losco? No, era fuori questione. Neppure per un momento si poteva pensare che Bartleby fosse una persona immorale. Ma allora cosa ci faceva lì? Non ero tranquillo, e, preso dalla curiosità, finalmente tornai alla porta, inserii la chiave, senza trovare ostacoli, la aprii, ed entrai. Bartleby non c'era più. Guardai attorno, sbirciai dietro il paravento, ma se n'era proprio andato. Ad un esame più attento capii che chissà da quanto Bartleby mangiava, dormiva e si vestiva nel mio ufficio; e senza un piatto, un letto, o uno specchio. Un vecchio sofà, in un angolo, mostrava l'impercettibile impronta di un corpo, e, arrotolata sotto il suo tavolo, trovai una coperta; qui e là altri segni: lucido da scarpe e spazzola, un bacile, del sapone, uno straccio di asciugamano; dentro un giornale, biscotti allo zenzero e un pezzo di formaggio. Così, pensai: "È evidente che Bartleby si è piazzato qui, in una sistemazione da scapolo" Immediatamente fui pervaso dal pensiero: "Che squallida solitudine, che isolamento, qui, sotto i miei occhi! Come è grande la sua povertà! E la sua solitudine? Che cosa orribile! Pensaci: di domenica Wall Street è più deserta di Petra, e la notte, alla fine di ogni brulicante giornata, è il vuoto." Per la prima volta in vita mia fui colto da una struggente malinconia. Prima di allora non avevo mai provato nulla del genere. Una malinconia fraterna! Bartleby ed io: entrambi figli di Adamo. All'improvviso fui attratto dalla scrivania chiusa di Bartleby, con la chiave bene in mostra nella toppa. Non feci nulla di male, soltanto soddisfare una curiosità. La scrivania, in fondo, era di mia proprietà e quindi anche il contenuto. Così presi coraggio e guardai dentro. Tutto era disposto in un ordine metodico. Gli scomparti erano profondi e, spostando i fascicoli e le pratiche, tastai fino in fondo. Dopo un poco toccai qualcosa e la trassi fuori. Era un vecchio fazzoletto di cotone, pesante e annodato. Aprendolo capii che era il suo salvadanaio. Ricordai allora i molti sommessi misteri che avevo notato in lui: che parlava solo per rispondere; che non l'avevo mai visto leggere neppure un giornale; che per lunghe ore restava in piedi davanti alla sua finestra, a guardare quel muro cieco; ero certo che non mettesse mai piede in una trattoria, e il suo volto pallido indicava chiaramente che non beveva mai birra, come Turkey, né tè o caffè, come tutti gli altri; che si era rifiutato di dirmi chi fosse, o da dove venisse, o se avesse parenti al mondo; che, quantunque così scarno e pallido, mai aveva egli lamentato una cattiva salute. E soprattutto ricordai quella sua certa aria, come dire, di inconsapevole, pallida, slavata altezzosità, quasi un alone di austero riserbo, che mi aveva intimorito fino a ridurmi ad accettare docilmente le sue stranezze. Ripensando a tutte queste cose, e sommandole alle recenti scoperte, e non dimenticando il suo carattere morbosamente suscettibile, prese a insinuarsi in me un sentimento di prudenza. Le mie prime emozioni erano state di pura malinconia e compassione autentica; ma più l'idea della condizione disgraziata di Bartleby cresceva nella mia fantasia, più la malinconia si fondeva alla paura, e la compassione trascolorava in un senso di repulsione È così vero, e terribile, che l'impatto con la miseria genera i nostri migliori sentimenti; ma, oltre un certo punto, poi, succede il contrario. Sbaglia chi dice che questo derivi inevitabilmente dall'egoismo innato del cuore degli uomini. Discende piuttosto dall'impotenza a trovare rimedio a un male così estremo. Per un essere sensibile la pietà è spesso sofferenza. E quando poi si intuisce che la pietà non può tradursi in nessun soccorso efficace, il senso comune impone all'anima di sbarazzarsene. Quanto vidi quella mattina mi convinse che lo scrivano era vittima di un disordine incurabile. Avrei potuto soccorrere forse il suo corpo, ma non era il suo corpo a soffrire: era la sua anima, e quella non potevo raggiungerla. Per quel mattino rinunciai all'idea di andare in chiesa; in qualche modo me ne sentivo indegno. Camminai verso casa, pensando a cosa avrei fatto di Bartleby. Alla fine decisi così: l'indomani gli avrei posto qualche domanda pacata, sul suo passato eccetera eccetera, e se si fosse rifiutato di rispondere apertamente e senza riserve - e supposi che lui avrebbe preferito di no - allora gli avrei dato una banconota da venti dollari, in aggiunta a qualsiasi altra somma dovuta, dicendogli che i suoi servizi non erano più richiesti, ma che, se avessi potuto aiutarlo in qualsiasi modo, sarei stato felice di farlo. Specie se avesse voluto tornare al suo paese, dovunque fosse: l'avrei aiutato volentieri a sostenere le spese di viaggio. E se poi, giunto a casa, in qualunque momento si fosse trovato bisognoso d'aiuto, ogni sua lettera avrebbe avuto di certo risposta. Venne il mattino dopo. "Bartleby," dissi rivolgendomi gentilmente a lui dietro il paravento. Nessuna risposta. "Bartleby" dissi in tono ancor più gentile, "venite qui, non vi chiederò di fare nulla che voi preferiate non fare ... Desidero solo parlarvi." Finalmente scivolò fuori in silenzio. "Vorreste dirmi, Bartleby, dove siete nato?" "Preferirei di no." "Non vorreste dirmi niente di voi?" "Preferirei di no." "Ma quale ragionevole obiezione avete a non parlare? lo sono vostro amico." Non mi guardava mentre parlavo, ma teneva lo sguardo fisso sul busto di Cicerone, dietro le mie spalle, a sei pollici circa sopra il mio capo. "Cosa rispondete, Bartleby?" dissi, dopo un bel pezzo che aspettavo una risposta, mentre il suo viso si manteneva immobile, tranne un impercettibile tremore sulle labbra pallide e sottili. "Al momento preferirei non rispondere" disse, e si ritirò. Fu una mia debolezza, lo confesso, ma in quel momento i suoi modi mi irritarono. Non soltanto trovavo che nascondessero, per pacato che fosse, un certo disprezzo, ma la sua testardaggine rasentava l'ingratitudine, considerando l'indulgenza che gli avevo riservato. Rimasi di nuovo seduto, rimuginando sul da farsi, mortificato com'ero dai suoi modi. Così spostai la mia sedia oltre il paravento, mi sedetti accanto a lui e gli dissi: "Bartleby, non importa, se non volete raccontarmi la vostra storia; ma lasciate che vi supplichi, da amico, di adeguarvi pià che potete alle abitudini di questo ufficio. Promettetemi che domani o in seguito darete una mano a controllare i documenti; insomma, ditemi che, prima o poi, comincerete ad essere un po' ragionevole... Dovete dirmelo, Bartleby." "Al momento preferirei non essere un po' ragionevole," fu la smunta, mite risposta. In quell'esatto momento le porte pieghevoli s'aprirono e Nippers s'avvicinò. Sembrava risentire degli effetti di una notte insolitamente agitata, prodotta da una digestione peggiore del solito. Colse soltanto le parole finali di Bartleby: "Preferirebbe di no, eh?" ringhiò Nippers. "Glielo farei preferire io, signore; se fossi in voi," rivolto a me, "gli darei tante di quelle preferenze, a quel mulo cocciuto! Ma sentiamo, signore, cos'è che preferisce non fare, adesso?" Bartleby non batté ciglio. "Signor Nippers!" dissi io " preferirei che vi ritiraste, adesso." In qualche modo, ultimamente mi capitava di usare l'espressione, "preferire", involontariamente, in ogni genere di circostanza. E tremai al pensiero che il contatto con lo scrivano avesse già e seriamente compromesso il mio stato mentale. Quali altre più profonde aberrazioni avrebbe potuto produrre? Mentre Nippers, acido e scontroso, se ne andava, arrivava Turkey con fare placido e ossequioso. "Con rispetto, signore," disse "ieri pensavo al nostro Bartleby e credo che se lui soltanto preferisse bere un buon quarto di birra al giorno, questo lo aiuterebbe a rimettersi in sesto, fino ad aiutarci a controllare le copie." "Così, quella espressione è rimasta attaccata anche alla vostra di lingua," dissi eccitato. "Con tutto il rispetto, signore, quale espressione?" chiese Turkey, entrando nel frattempo nello stretto spazio dietro il paravento e costringendomi a urtare lo scrivano. "Preferirei essere lasciato solo" disse Bartleby, come offeso per quella invasione nel suo angolo privato. "Ecco l'espressione, Turkey," dissi "quella!" "Ooh: "preferire"? Oh, sì..., strano modo di dire, io non lo uso mai. Ma, signore, come stavo dicendo, se solo lui preferisse..." "Turkey!" lo interruppi "fuori!" "Oh, certamente, signore, se preferite." Mentre lui apriva la porta pieghevole per ritirarsi, Nippers dal suo scrittoio gettò un'occhiata, e mi chiese se un certo documento preferissi che fosse copiato su carta bianca o azzurra. Il suo "preferissi" non aveva la minima intonazione maliziosa. Era evidente che se lo era ritrovato, senza volerlo, sulla lingua. Dissi fra me: "Devo assolutamente sbarazzarmi di quest'uomo dalla mente malata, che in qualche modo ha già alterato le nostre lingue, se non turbato i cervelli, a me e ai miei impiegati. Ritenni però prudente non procedere al licenziamento all'istante. Il giorno successivo notai che Bartleby non faceva nient'altro che starsene in piedi alla finestra, perso nelle fantasticherie ispirate dal muro cieco. Quando gli chiesi perché non scrivesse, rispose di aver deciso di non scrivere più. "Come, anche questo adesso? Cos'altro?", esclamai. "Non vuole più neanche scrivere?" "No". "Per quale ragione?" "Non capite da voi la ragione?" rispose lui con indifferenza. Rimasi a guardarlo attento, e mi accorsi che i suoi occhi erano vitrei e spenti. Mi venne subito in mente la sua impareggiabile diligenza nel copiare, lì, vicino alla finestra buia, forse durante le prime settimane di ufficio, aveva avuto un temporaneo danno alla vista. Ne fui commosso. Con qualche parola di rammarico, gli feci intendere che faceva bene naturalmente ad astenersi per un po' dallo scrivere; lo spinsi a cogliere quell'occasione per dedicarsi a qualche salutare attività all'aria aperta. Cosa che, tuttavia, egli non fece. Pochi giorni dopo, con gli altri impiegati assenti e una grande fretta di spedire alcune lettere, pensai che, non avendo assolutamente altro da fare, Bartleby sarebbe certo stato meno irremovibile del solito e avrebbe portato quelle lettere all'ufficio postale. Ma lui si rifiutò, decisamente, così che, con mio grande disagio, ci andai di persona. Altri giorni ancora passarono. Se gli occhi di Bartleby migliorassero o meno, non avrei saputo dire. All'apparenza, avrei detto di sì. Ma quando glielo chiesi, non mi degnò di una risposta. Comunque, non faceva più nessun lavoro. Alla fine, in risposta alle mie sollecitazioni, mi informò che aveva smesso di copiare. Per sempre. "Come!" esclamai "supponiamo che i vostri occhi guariscano del tutto, e tornino anche migliori di prima: allora, non copiereste più?" "Ho smesso di copiare" rispose, e scivolò via. Rimase lì, come prima, fisso dentro il mio studio. Anzi, se possibile, divenne più che mai fisso. Che fare? Lui non voleva fare nulla nell'ufficio: perché allora doveva stare lì? Per dirla schietta, era diventato una pietra al collo, un'inutile collare, e per giunta greve da sopportare. Eppure mi faceva pena. Non esagero dicendo che mi metteva a disagio. Se appena avesse fatto il nome di un solo parente o un amico, gli avrei scritto immediatamente sollecitandolo a portare quel povero disgraziato in qualche posto adatto. Ma sembrava solo, assolutamente solo nell'intero universo. Un relitto nel mezzo dell'Atlantico. Il lavoro finì per travolgere ogni altra considerazione. Con quanto tatto potei, dissi a Bartleby che, entro sei giorni, doveva lasciare il mio ufficio, che lo volesse o no. L'esortai a prendere nel frattempo precauzioni, in modo da procurarsi un altro tetto. Mi offrii di aiutarlo nella ricerca, purché compisse lui il primo passo verso il trasloco. "E quando alla fine andrete, Bartleby," aggiunsi, "farò in modo che non ve ne andiate sprovvisto di mezzi. Sei giorni. A partire da ora. Ricordatevene." Trascorsi i sei giorni guardai dietro il paravento, ed ecco Bartleby: era ancora lì. Mi abbottonai la giacca, mi feci forza, avanzai verso di lui lentamente, gli toccai la spalla e dissi: "È giunto il momento: dovete andarvene. Mi dispiace, eccovi il denaro, ma dovete andarvene." "Preferirei di no," replicò lui, tenendomi sempre le spalle voltate. "Voi dovete andarvene." Rimase in silenzio. Ora, io nutrivo una illimitata fiducia nella sua onestà. Spesso mi aveva restituito degli spiccioli che, sbadatamente, avevo lasciato cadere. Quello che seguì, in quel momento, non vi sembrerà dunque troppo strano. "Bartleby" dissi "vi devo dodici dollari, è quanto vi spetta. Qui ce ne sono trentadue. Anche gli altri venti sono vostri. Volete prenderli?" e spinsi verso di lui le banconote. Ma lui non si mosse. "Li lascio qui, allora" e ci misi sopra un fermacarte che era sul tavolo. Presi il cappello e il bastone e avviandomi alla porta, mi voltai e aggiunsi tranquillamente: "Dopo che avrete portato via dall'ufficio le vostre cose, Bartleby, chiudete bene la porta a chiave, e, vi prego, infilatela poi sotto lo zerbino, ché io possa disporne domattina. Non vi vedrò mai più, perciò addio. Se, in futuro, nella vostra nuova casa, potrò esservi mai di un qualche aiuto, non mancate di avvertirmi per lettera. Addio, Bartleby, e buona fortuna." Ma egli non rispose, non una parola, e, come l'ultima colonna di un tempio in rovina, rimase là in piedi muto e solitario, nel bel mezzo della stanza per il resto deserta. Mentre tornavo verso casa meditabondo, la mia vanità ebbe la meglio sulla pietà. Non potei fare a meno di congratularmi con me per il modo magistrale con cui ero riuscito a liberarmi di Bartleby. Magistrale, dico, come dovrebbe apparire ad ogni pensatore spassionato. La bellezza della mia tattica era nella sua perfetta, tranquilla sobrietà. Nessuna arroganza o volgarità, nessuna spacconata, nessun sopruso collerico, nessun andirivieni concitato per lo studio, sbottando in ordini rabbiosi perché Bartleby facesse fagotto con le sue cianfrusaglie da straccione. Niente del genere. Senza alzar la voce per ordinargli di andarsene - come forse avrebbe fatto un uomo meno perspicace - partivo dal presupposto che doveva andarsene, e su quel presupposto si fondava tutto quello che avevo da dire. Più pensavo al mio procedimento, più ne ero delizia- to. Tuttavia, l'indomani al risveglio, avevo qualche dubbio: col sonno erano svaniti i fumi di vanità. Uno dei momenti in cui un uomo è più lucido e savio, è, appunto, quando si sveglia al mattino. La mia tattica mi sembrava ancora sagace, ma solo in teoria. Il problema era cosa poi avrebbe dimostrato la pratica. Era davvero una bella idea aver assunto che Bartleby dovesse andarsene, ma, dopo tutto, questo assunto era soltanto mio, e non di Bartleby. Il vero problema non era tanto che io presumessi che lui mi lasciasse, quanto se lui preferisse farlo. Ed egli era uomo di preferenze, più che di presupposti. Dopo colazione, mi avviai verso il centro, ragionando sulla questione. In un momento pensavo che tutto si sarebbe rivelato un fallimento, e che avrei ritrovato Bartleby fisso nel mio ufficio come al solito; un momento dopo, ero invece certo che avrei trovato vuota la sua sedia. E mentre continuavo a cambiare opinione, all'angolo tra Broadway e Canal Street vidi un gruppo di persone agitate, impegnate in un'accesa discussione. "Scommetto che non lo fa" disse una voce mentre passavo. "Che non se ne va?" dissi io "D'accordo: fuori i soldi." Stavo istintivamente mettendo mano alla tasca per tirar fuori la mia posta, quando ricordai che quello era giorno di elezioni. Le parole che avevo udito non avevano alcun rapporto con Bartleby, ma con il successo o l'insuccesso di un tizio candidato alla carica di sindaco. Assorto com'ero nei miei pensieri, avevo immaginato, per così dire, che tutta Broadway condividesse il mio turbamento e dibattessero tutti il mio problema. Li superai, grato che il frastuono della strada avesse nascosto la mia momentanea distrazione. Giunsi in ufficio prima del solito, come era mia intenzione. Rimasi davanti alla porta ad ascoltare per qualche secondo. Silenzio. Doveva essersene andato. Tentai di ruotare la maniglia. La porta era chiusa a chiave. SÌ! La mia tattica aveva compiuto il miracolo: doveva essere andato via davvero. Eppure quel pensiero si mischiava con una nota di malinconia: ero quasi dispiaciuto per il mio brillante successo. Frugavo sotto lo zerbino in cerca della chiave che Bartleby aveva certo lasciato, quando per caso il mio ginocchio urtò contro il battente, con un rumore sordo. Dall'interno mi giunse in risposta una voce: "Un momento, ora sono occupato." Era Bartleby. Ne fui folgorato. Per un istante rimasi là come un uomo che, in un pomeriggio senza nubi, viene ucciso da un fulmine estivo, con la pipa ancora in bocca. "Ancora!" mormorai alla fine. Ma ancora una volta obbedendo a quello strano ascendente che aveva su di me l'imperscrutabile scrivano - al quale, non riuscivo a sottrarmi del tutto scesi piano le scale, uscii in strada e, mentre facevo il giro intorno all'isolato, soppesai il da farsi in quell'inaudito dilemma. Buttarlo fuori con la forza non potevo; trascinarlo via a suon di insulti non mi s'addiceva; chiamare la polizia era un' idea che non mi andava. Ma neppure lasciargli assaporare il suo cadaverico trionfo su di me! Neanche questo potevo accettare. Cosa dovevo fare, dunque? Decisi di tornare ancora a discutere con lui della questione. "Bartleby" dissi, entrando nell'ufficio con espressione tranquilla ma ferma, "sono seriamente dispiaciuto. Sono addolorato, Bartleby. Di voi mi ero fatto un'opinione migliore. Avevo creduto che foste una persona rispettosa, educata, alla quale, in qualsiasi difficoltà, sarebbe bastato appena un cenno… Ma a quanto pare mi ingannavo. Come?" aggiunsi, in un sussulto di sincera sorpresa. "Non avete neppure toccato quel denaro!" indicandoglielo esattamente là dove l'avevo lasciato la sera prima. Non rispose. "Volete lasciarmi oppure no?", chiesi a questo punto con impeto improvviso, avvicinandomi a lui. "Preferirei non lasciarla", rispose calcando leggermente sul non. "Che diritto avete mai, voi, di restar qui? Pagate voi l'affitto? Pagate voi tasse? O questa casa vi appartiene?" Non rispose nulla. "Siete pronto, adesso, a continuare il lavoro? I vostri occhi sono guariti? Potreste copiarmi un breve documento questa mattina stessa? O aiutarmi a controllare qualche riga? O fare un salto all'ufficio postale? In breve, farete una cosa qualsiasi per giustificare il vostro rifiuto di lasciare l'ufficio?" Silenziosamente lui si ritirò nel suo eremo. Adesso mi trovavo in un tale stato di nervosismo e di rancore, che ritenni prudente trattenermi per il momento dal dire altro. Io e Bartleby eravamo soli. Mi tornò in mente la tragica fine del povero Adams e dell'ancora più sventurato Colt nell' ufficio vuoto di quest'ultimo: come il povero Colt, portato da Adams a un punto di esasperazione, si abbandonò a un furore selvaggio, trascinato a commettere senza esserne consapevole il suo gesto fatale, che nessuno avrebbe potuto deplorare più di lui stesso. Spesso, riflettendo su quel caso, mi è capitato di pensare che se il litigio avesse avuto luogo su una pubblica strada, non si sarebbe concluso come si concluse. Fu la circostanza d'esser soli in un ufficio solitario, a inasprire la disperata collera dell'infelice Colt. Ma, quando il vecchio rancore di Adams si affacciò in me per spingermi contro Bartleby, per quanto mi tentasse, lo respinsi. A parte più nobili considerazioni, la carità spesso opera come un principio di grande saggezza e prudenza. Gli uomini hanno commesso delitti per gelosia e per rabbia, per odio e per egoismo, perfino per amor proprio; ma nessuno, nessuno di cui abbia mai sentito parlare, ha commesso un delitto per dolce pietà! Ad ogni modo, nella circostanza in questione, mi sforzai di soffocare i miei sentimenti esasperati verso lo scrivano, interpretando con benevolenza la sua condotta: "Poverino, poveruomo!" mi dissi, "lui non ha cattive intenzioni, e poi, ha attraversato brutti momenti, e bisogna avere pazienza!" Mi sforzai anche di trovare subito qualcosa da fare e, nello stesso tempo, di dare sollievo al mio sconforto. Cercai di cullarmi nella fantasia che, nel corso della mattinata, in un momento che gli fosse andato a genio, Bartleby, di sua spontanea volontà, sarebbe emerso dal suo cantuccio per imboccare con decisione la direzione della porta. Niente da fare. Venne la mezza; Turkey cominciò a irradiare luce dal volto, a rovesciare il calamaio, a farsi insofferente; Nippers si acquietò in una cortese compostezza; Ginger Nut prese a rosicchiare la mela del pranzo; Bartleby, in piedi davanti alla finestra, era immerso in una delle sue più profonde fantasticherie sul muro cieco. Lo si crederà? Dovrei ammetterlo? Quel pomeriggio lasciai l'ufficio senza rivolgergli altra parola. A poco a poco, grazie anche ad alcune salutari letture, s'insinuò nel mio animo la convinzione che i guai legati allo scrivano seguissero il disegno di un'eterna predestinazione, e che Bartleby fosse stato inviato per qualche misterioso scopo da una Provvidenza imperscrutabile per un semplice mortale come me. "E sia, Bartleby: rimani dietro il tuo paravento" mi dissi. "Non ti perseguiterò mai più. Sei innocuo e silenzioso come una di queste vecchie seggiole e, a farla corta, mai mi sento mai così solo come quando so che sei là dietro. Perlomeno, mi sembra di vedere, di intuire lo scopo predestinato della mia vita. Può bastarmi. Altri possono avere ruoli più nobili da recitare; ma la mia missione in questo mondo, Bartleby, sta nell'offrirti una stanza d'ufficio per tutto il tempo che tu riterrai opportuno rimanervi." Penso che avrei perseverato in questa felice e saggia disposizione d'animo, se non avessero preso a pesarmi le osservazioni, non richieste e poco caritatevoli, fatte da colleghi che venivano nel mio ufficio. Accade spesso, del resto, che il ripetuto contrasto con menti poco aperte finisca per dissolvere i migliori propositi degli spiriti più generosi. Anche se, a rifletterci, non era affatto strano che, entrando nel mio ufficio, la gente fosse colpita dal singolare aspetto dell'enigmatico Bartleby e si lasciasse dunque andare a qualche maligna osservazione sul suo conto. A volte un procuratore legale, con il quale conducevo affari in comune, capitava nel mio ufficio trovandovi nessun altro che lo scrivano, dal quale tentava d'ottenere qualche precisa informazione su dove io fossi. Ma Bartleby restava del tutto indifferente alle sue domande, immobile, in piedi al centro della stanza. Al procuratore, dopo averlo contemplato in quella posizione per qualche istante, non restava che andarsene, senza aver saputo nulla di quel che voleva. Oppure, quando era in corso un arbitrato e lo studio era affollato di avvocati e testimoni, e il lavoro si faceva pressante, accadeva che qualcuno dei legali presenti, sommerso dalle incombenze, vedendo Bartleby sfaccendato, gli chiedesse di fare una corsa fino al suo ufficio per prendergli un qualche documento. Al che Bartleby opponeva immancabilmente un tranquillo rifiuto, rimanendo tuttavia nell'ozio più assoluto, esattamente come prima. L'autore della richiesta, a questo punto, non mancava di volgere verso di me uno sguardo interrogativo, sgranando gli occhi. Ma cosa mai potevo dire? Finii per rendermi conto che, nella cerchia delle mie conoscenze professionali, circolavano commenti a mezza bocca, piuttosto meravigliati, in ordine alla strana creatura ch'io tenevo nel mio ufficio. Questo m'impensierì molto. E quando poi presero a farsi strada i pensieri che lo scrivano potesse vivere a lungo e continuare ad occupare i miei locali senza riconoscere la mia autorità; e imbarazzare i miei visitatori; e screditare la mia reputazione professionale; e gettare un'ombra sinistra sul mio studio, mantenendosi in vita fino all'ultimo con i suoi risparmi (giacché, non v'è dubbio, egli non spendeva più di cinque centesimi al giorno), e finisse magari per sopravvivermi, avanzando anche pretese sulla proprietà del mio ufficio, per diritto acquisito con la sua perpetua occupazione: quando tutti questi oscuri presagi s'affollarono ingigantendosi nella mia mente, già martellata senza sosta dagli implacabili commenti dei miei amici sullo spettro che ospitavo nella mia stanza, in me intervenne un grande mutamento. Decisi così di raccogliere tutte le mie forze, e liberarmi per sempre da quell'incubo insostenibile. Tuttavia, prima di elaborare un qualche complicato progetto adatto allo scopo, mi limitai a suggerire a Bartleby l'opportunità ch'egli se ne andasse per sempre. Con tono calmo e serio, sottoposi l'idea alla sua attenta e matura considerazione. Ma, dopo averla meditata per tre giorni, egli mi rese noto che la sua decisione rimaneva inalterata; in breve, che ciò che preferiva era di restare ancora sotto il mio tetto. "Cosa farò?" mi chiesi, abbottonandomi il pastrano fino all'ultimo bottone, "Cosa farò? Cosa dovrei fare? Cosa, secondo coscienza, dovrei mai fare di quest'uomo, o piuttosto, di questo spettro? Avrei dovuto liberarmene, e andarsene in ogni caso dovrà. Ma come? Caccerai tu quel pover'uomo pallido e passivo, butterai fuori dalla porta una creatura così indifesa, procurandoti disonore per tanta crudeltà? No, non posso farlo. Preferisco piuttosto ch'egli viva e muoia qui, per poi tumulare i suoi resti mortali in quel muro. Cosa farai, dunque? Per quanto tu lo blandisca, non riuscirai a smuoverlo. Il denaro che dovrebbe convincerlo egli lo lascia sotto il fermacarte, sul tavolo; è chiaro, alla fine, che egli preferisca aggrapparsi a te." "Allora occorrerà qualcosa di risolutivo, di fuori del comune. Cosa? Non vorrai mica farlo mettere in catene da un poliziotto e affidare la sua smunta innocenza alla prigione comune? E, poi, in base a cosa potresti ottenere un tale risultato? È forse egli un vagabondo? Come!, un vagabondo, un errante, lui che rifiuta di muoversi? È perché non è un vagabondo, quindi, che tu cerchi di farlo passare per tale? È troppo assurdo. Privo di mezzi di sostentamento evidenti: ecco fatto, ecco il motivo. No, ti sbagli di nuovo: ha di che sostentarsi, essendo vivo, giacchè l'esser vivi è l'unica prova incontestabile di avere i mezzi per vivere. Allora? Dal momento che egli non se ne va, sarò io, ad andarmene. Cambierò ufficio, mi trasferirò altrove, e gli dirò con estrema chiarezza che, se dovessi trovarlo ancora nei miei nuovi locali, lo denuncerei per violazione di dornicilio." Agendo di conseguenza, l'indomani così mi rivolsi a lui: "Questi locali sono per me troppo lontani dal municipio; e l'aria è insalubre. Insomma, ho intenzione di trasferire i miei uffici la settimana prossima, e non avrò più bisogno dei vostri servigi. Ve lo dico ora, onde voi possiate cercarvi un altro posto." Non rispose nulla e null'altro fu detto. Nel giorno fissato, noleggiai uomini e carri e mi recai nei miei uffici. Poiché il mobilio non era molto, fu portato via in poche ore. Per tutto il tempo, lo scrivano rimase in piedi dietro il suo paravento, che ordinai di portare via per ultimo. Fu rimosso e, ripiegato come un enorme foglio, lasciò Bartleby immobile inquilino d'una nuda stanza. Mi fermai sull'uscio osservandolo per un attimo, mentre 6 il racconto SABATO 31 AGOSTO DOMENICA 1 SETTEMBRE 2013 conquiste del lavoro qualcosa dentro di me mi rimordeva. Rientrai nella stanza, con la mano in tasca e il cuore in gola. "Addio, Bartleby, me ne vado… Addio, e che il Signore in qualche modo vi protegga. Prendete". Gli feci scivolare qualcosa nella mano, ma egli lo lasciò cadere a terra, e allora - strano a dirsi - dovetti fare uno sforzo per staccarmi da lui, pur dopo aver tanto desiderato liberarmene. Stabilitomi nei miei nuovi quartieri, per un giorno o due mantenni la porta chiusa a chiave, e sobbalzavo ad ogni rumor di passi nel corridoio. Ogni volta che tornavo ai miei uffici, dopo qualche breve assenza, sostavo sulla soglia per un istante, in attento ascolto, prima d'introdurre la chiave. Ma tali timori erano fuori luogo. Bartleby non si fece mai vivo. Pensavo che tutto andasse per il meglio quando un estraneo dall'aria sconvolta mi fece visita per chiedermi se fossi io la persona ch'aveva occupato, fino a poco ternpo addietro, l'appartamento a quel certo numero di Wall Street. Assalito da funesti presentimenti, assentii. "Ebbene, signore," disse lo sconosciuto, che risultò essere un avvocato "voi siete responsabile per l'uomo che avete lasciato in quei locali. Egli si rifiuta di copiare, rifiuta in verità di fare qualsiasi cosa. Dice di "preferire di no", e si rifiuta d'abbandonare i locali." "Sono molto spiacente, signore," dissi, simulando calma ma in preda a un tremito interiore. "L'uomo al quale fate cenno, in realtà, non è nulla per me, non è né un parente né un apprendista del quale io debba sentirmi responsabile." "In nome di Dio, chi è?" "Io per certo non potrei dirvelo. Non so nulla sul suo conto. In passato fu alle mie dipendenze come copista; ma non svolge per me alcun lavoro da molto tempo." "Allora, lo sistemerò io... Buon giorno, signore." Trascorsero vari giorni senza che sapessi altro. Anche se a volte sentivo un caritatevole impulso ad andare a trovare il povero Bartleby, una certa riluttanza, non so verso cosa, mi trattenne. Al termine di un'altra settimana, non avendo rìcevuto nuove sul suo conto, pensai che la vicenda con lui fosse terminata, finalmente. Ma, giungendo l'indomani al mio ufficio, trovai parecchie persone alla mia porta, e tutte molto agitate. "Eccolo.., eccolo che viene," disse colui ch'era innanzi agli altri, nel quale riconobbi l'avvocato già venuto a visitarmi da solo. "Voi dovete portarlo via, signore, immediatamente" gridò tra di loro un imponente personaggio, facendosi largo verso di me, e nel quale riconobbi il proprietario dello stabile di quel certo numero di Wall Street. "Questi signori, miei affittuari, non possono tollerare più a lungo la cosa. Il signor B." e indicava l'avvocato "l'ha messo alla porta, ed ora egli s'ostina a infestare il palazzo con la sua presenza, sedendo sulla ringhiera delle scale di giorno e dormendo dì notte nell'ingresso. Tutti sono preoccupati: i clienti fuggono dagli uffici, v'è timore d'una sommossa… Dovete fare qualcosa, e subito." Arretrai, atterrito da quel torrente di parole, e volentieri mi sarei chiuso a chiave nel mio nuovo ufficio. Invano continuai a ripetere che Bartleby non era nulla per me, nulla più di quanto non fosse per chiunque altro. Tutto inutile: ero l'ultima persona, per quel che si sapeva, ad aver avuto a che fare con lui ed essi mi chiedevano conto della tremenda situazione. Impaurito, allora, di finire sui giornali (come uno dei presenti minacciò oscuramente), considerai il caso e infine dissi che se l'avvocato m'avesse concesso d'intrattenermi privatamente nel suo ufficio con lo scrivano, quello stesso pomeriggio avrei fatto del mio meglio per liberarli della fastidiosa situazione all'origine delle loro proteste. Salendo le scale della mia vecchia tana, trovai Bartleby che sedeva silenzioso sulla ringhiera del pianerottolo. "Cosa fate qui, Bartleby?" dissi. "Siedo sulla ringhiera," rispose mansueto. Gli feci segno d'entrare nello studio dell'avvocato, il quale s'affrettò a lasciarci soli. "Bart1eby," dissi, "vi rendete conto che mi state procurando grossi fastidi, ostinandovi ad occupare l'ingresso, dopo esser stato licenziato dall'ufficio?" Nessuna risposta. "Ora non vi sono altre soluzioni. Voi dovrete fare qualcosa, oppure qualcosa dovrà esser fatto a voi. Ditemi, in qual genere di lavoro vorreste occuparvi? Vorreste tornare a copiare per qualcuno?" "No, preferirei lasciare le cose come stanno." "Vi piacerebbe esser contabile in un emporio?" "Si sta troppo chiusi, a far quello. No, non vorrei esser contabile; ma non pretendo molto." "Troppo chiusi?" esclamai "ma se voi ve ne restate rinchiuso tutto il tempo!" "Preferirei non fare il contabile" soggiunse, come a sistemare quella piccola questione. "Cosa ne direste d'un lavoro di barista? In quello non ci si sforza gli occhi." "Nossignore, non mi piacerebbe, anche se, come le ho già detto, non ho molte pretese." Questa sua insolita loquacità mi diede animo. Tornai alla carica. "Be', allora, vi piacerebbe viaggiare attraverso il paese, riscuotendo i crediti dei commercianti? Ciò gioverebbe alla vostra salute," "No, preferirei fare altre cose. "Che ne direste, allora, d'andare in Europa come accompagnatore per intrattenere qualche giovane di buona famiglia con la vostra conversazione: v'andrebbe a genio, questo?" "No. Non mi pare molto sicuro. A me piace rimanere fermo da qualche parte. Ma non pretendo molto." "E fermo da qualche parte rimarrete, allora," gridai, perdendo infine ogni pazienza, e, per la prima volta dacché intrattenevo rapporti con l'esasperante scrivano, concedendomi di andare del tutto fuori dai gangheri. "Se non ve n'andate da qui prima di notte, sarò costretto… davvero sono costretto... a.. a... ad andarmene io!" conclusi piuttosto assurdamente, non sapendo con quale altra possibile minaccia tentare di spaventarlo per scuoterlo dalla sua immobilità e spingerlo ad obbedire. Disperando che ogni altro sforzo avesse un esito, stavo per andarmene precipitosamente, quando mi venne un'ultima idea, un pensiero che già in passato non avevo mai del tutto smesso di considerare. "Bartleby" dissi, nel più gentile dei toni che riuscii a trovare in quello stato di concitazione "verreste a casa mia, ora? Non nel mio ufficio, ma nella mia abitazione, e rimanerci fino a che non potremo trovare qualche conveniente sistemazione, con vostro comodo? Venite, andiamocene subito." "No, al momento preferirei lasciare le cose come stanno." Non risposi, ma evitando tutti con una fuga abile e fulminea, mi precipitai fuori dal palazzo, risalii velocemente Wall Street verso Broadway, e, balzando sul primo omnibus, fui presto in salvo da ogni possibile inseguitore. Non appena recuperai la calma necessaria, compresi con chiarezza d'aver fatto tutto ciò che potevo sia per soddisfare le richieste del padrone di casa e dei suoi affittuari, sia per appagare il mio desiderio e il mio obbligo morale di aiutare Bartleby e proteggerlo da una dura persecuzione. Cercai allora di levarmi il peso di ogni affanno e inquietudine, e la mia coscienza mi approvò, senza che ciò desse invero i frutti desiderati. La paura d'esser nuovamente scovato dal furibondo proprietario e dai suoi esasperati inquilini era tale che, dopo aver affidato per alcuni giorni tutti i miei affari alle mani di Nippers, mi diressi col calesse verso la parte superiore della città e i suoi sobborghi; attraversai il fiume verso Jersey City e Hoboken, quindi feci una rapida puntata a Manhattanville ed Astoria. Di fatto, si può dire, vissi in calesse per tutto il tempo. Quando rientrai a studio, ahimè, un messaggio del proprietario del palazzo m'attendeva sulla scrivania. L'aprii con mani tremanti. Venivo informato che era stato richiesto l'intervento della polizia e che Bartleby era stato condotto in prigione per vagabondaggio. Inoltre, giacché io ne sapevo su di lui più di chiunque altro, mi si chiedeva di recarmi al carcere per rendere una circostanziata deposizione sui fatti. Queste notizie ebbero su di me effetti contrastanti. Sulle prime provai sdegno. Ma, alla fine, quasi approvavo quell'azione. L'atteggiamento energico e sbrigativo del proprietario del palazzo aveva portato a una decisione alla quale non penso avrei saputo risolvermi; e tuttavia, in quelle insolite circostanze, quella sembrava esser l'unica soluzione possibile. Come in seguito appresi, quando gli fu comunicato che dovevano condurlo alle Tombe, il povero scrivano non aveva opposto la benché minima resistenza, piegandosi alla decisione con la sua pallida, imperturbabile mansuetudine. Alcuni tra gli astanti, mossi da compassione e curiosità, s'erano uniti al gruppo; e, guidato da un ufficiale di polizia che teneva Bartleby sottobraccio, il silenzioso corteo era sfilato nel frastuono, il caldo, e l'allegria delle rumorose strade di mezzogiorno. Il giorno stesso in cui ricevetti quella lettera, mi recai alle Tombe, o, per esprimermi in modo più corretto, nel carcere giudiziario. Cercato il funzionario competente, dichia- rai lo scopo della mia visita e fui informato che l'individuo da me descritto era effettivamente ospite di quelle mura. Assicurai allora quel funzionario che Bartleby era persona della massima onestà, e degno di grande compassione, sebbene stravagante oltre ogni misura. Gli esposi tutto ciò che sapevo, e conclusi suggerendo di trattarlo con quanta più indulgenza possibile, nel periodo della sua reclusione, fino a quando non si fosse trovato qualche rimedio meno drastico; benché, a dire il vero, non sapessi quale. Ad ogni modo, se null'altro si fosse trovato, avrebbe potuto accoglierlo l'ospizio dei poveri. Alla fine, chiesi d'incontrarlo. Essendo l'imputazione non troppo grave e mantenendo un atteggiamento sempre pacato e docile, a Bartebly era stato concesso di vagare in libertà per la prigione, specialmente negli erbosi cortili interni. E là per l'appunto lo trovai, in piedi e tutto solo nell'angolo più tranquillo, col viso rivolto ad un alto muro, mentre tutt'attorno, dalle strette feritoie delle finestre della prigione, mi sembrò di scorgere gli occhi d'assassini e di ladri che ci osservavano. "Bartleby!" "So chi siete, voi," disse, senza voltarsi a guardare, "e non ho nulla da dirvi." "Non sono stato io a mandarvi qui, Bartleby," dissi, vivamente addolorato per l'implicito sospetto. "E per voi, questo non dovrebbe essere un posto così spregevole. Non siete qui per accuse infamanti. E, vedete, non è poi un luogo tanto triste quanto si potrebbe pensare. Osservate, c'è il cielo, c'è l'erba." "So dove sono," rispose, ma non disse altro, e così lo lasciai. Ritornando nel corridoio, un tale dall'aspetto sanguigno, con grembiule, si accostò, e, accennando col pollice sopra la sua spalla, chiese: "È un vostro amico?" "Sì." "Cos'è, vuole crepare di fame quello lì? Allora, basta dargli la razione del rancio che passa la prigione, ed è bell'e fatta." "Chi siete?" gli chiesi, non sapendo cosa ci facesse, in quel luogo, un individuo dal linguaggio così poco ortodosso. "Sono il vivandiere. I signori che hanno qui degli amici, mi pagano perché io porti loro qualcosa di buono da mangiare." "È davvero così?" chiesi, voltandomi verso il secondino. Lo confermò. "Ebbene" dissi, facendo scivolare qualche moneta d'argento nelle mani del vivandiere (così almeno lo chiamavano) "voglio che voi abbiate una particolare cura per il mio amico laggiù; fategli avere il miglior pranzo che potete procurarvi. E siate più gentile che potete, con lui." "Perché non me lo presentate?" disse il vivandiere, guardandomi con l'aria di chi non vede l'ora di avere un'occasione per dimostrare le sue buone maniere. Ritenendo che ciò avrebbe potuto giovare allo scrivano, acconsentii, e dopo aver chiesto al vivandiere come si chiamasse, raggiungemmo Bartleby. "Bartleby, costui è un amico; v'accorgerete che può esservi molto utile." "Servitore vostro, signore, servitor vostro," disse il vivandiere, facendo un profondo inchino dietro il suo grembiule. "Spero vi troviate bene, qui, signore: bel giardino… stanze fresche…. spero vorrete trattenervi con noi un po', farò del mio meglio per farvi stare bene. Cosa desiderate oggi per pranzo?" "Oggi preferirei non pranzare," disse Bartleby, voltandosi altrove. "Mi farebbe male: non sono abituato ai pranzi." Detto questo, lentamente s'allontanò verso l'altro lato del recinto, e s'appostò di fronte al muro cieco. "Che razza di discorso è?" fece il vivandiere, rivolgendosi a me con sguardo attonito. "È un po' toccato, quello lì, eh?" "Credo sia un po' alterato di mente," confermai con tristezza. "Alterato? alterato, dite? Be', però, parola mia, avrei detto che quel vostro amico era un signor falsario. Sono sempre pallidi e con un'aria tanto distinta, quei falsari lì. Mi viene compassione per loro, mi viene, signore. Conoscete voi Monroe Edwards?" aggiunse, con tono commosso, e tacque. Poi, posandomi patetìcamente la mano sulla spalla, sospirò: "È morto di tisi a Sing-Sing. Ah, voi dunque non conoscevate Monroe, eh?" "No, non ho mai intrattenuto rapporti sociali con i falsari. Ma ora non posso trattenermi oltre. Badate al mio amico laggiù. Non ci rimetterete. Arrivederci." Alcuni giorni dopo, nuovamente ottenni il permesso di entrare nelle Tombe, cercando Bartleby lungo i corridoi, ma senza trovarlo. "L'ho visto che usciva dalla sua cella poco fa" disse un secondino. "Forse è andato a far due passi nei cortili." Mi avviai in quella direzione. "State cercando l'uomo che non parla?" disse un altro secondino, passandomi accanto. "È laggiù disteso... dorme nel cortile. Sarà una ventina di minuti, l'ho visto che si stendeva." Nel cortile tutto era calmo. I prigionieri comuni non vi erano ammessi. Le mura di cinta, di straordinario spessore, lo riparavano dai rumori dell'esterno. L'aspetto egizio di quella costruzione in muratura mi pesava sull'animo con tutta la sua cupezza. E tuttavia, sotto i piedi, cresceva un soffice tappeto d'erba prigioniera. Il cuore delle piramidi eterne, sembrava là dentro, dove, per qualche strana magia, semi d'erba lasciati cadere dagli uccelli erano germogliati nelle fenditure. Rannicchiato in modo bizzarro ai piedi del muro, le ginocchia piegate, disteso su un fianco e con la testa appoggiata sulle fredde pietre, vidi il desolato Bartleby. Nulla si muoveva. Mi fermai, poi mi accostai a lui; mi chinai e vidi che i suoi occhi opachi erano aperti. Per il resto, pareva immerso in un sonno profondo. Qualcosa mi spinse a toccarlo. Tastai la mano e un brivido pungente mi risalì il braccio e percorse la schiena fino ai piedi. La faccia rotonda del vivandiere sbucò alle mie spalle. "Il suo pranzo è pronto. Cos'è? Non mangia neanche oggi? Oppure, quello lì, vive senza mai pranzare?" "Vive senza pranzare," dissi, e gli chiusi gli occhi. "Ah! se la dorme, eh?" "Dorme, con i re e i consiglieri della terra" mormorai. Quanto al seguito di questa storia, non ci sarebbe altro da aggiungere. L'immaginazione potrà facilmente supplire allo scarno rituale della sepoltura del povero Bartleby. Ma, prima di congedarmi, vorrei dire che se questa piccolo racconto ha risvegliato la curiosità di sapere chi fosse Bartleby, e quale vita conducesse prima, posso solo rispondere ch'io condivido appieno tale curiosità, ma non sono affatto in grado di soddisfarla. Peraltro, non so bene se debba divulgare una piccola chiacchiera che giunse al mio orecchio, pochi mesi dopo il decesso dello scrivano. Quale fondamento essa abbia, non ho mai avuto modo di accertarlo; e pertanto non posso dire se e quanto essa risponda a verità. Ma, giacché questa vaga notizia a me non sembra priva di una qualche suggestione, e così forse potrà essere per gli altri, ne darò un breve cenno. La notizia è questa: Bartleby sarebbe stato un impiegato subalterno nell'ufficio delle lettere smarrite, a Washington, dal quale sarebbe stato dimesso senza preavviso per un cambiamento nell'amministrazione. Quando rifletto su questa diceria, a fatica riesco a esprimere le emozioni che mi afferrano. Lettere smarrite, lettere morte! Non suona come uomini morti? Pensate ad un uomo che, per natura e per sventura, sia incline a una languida disperazione: quale altro lavoro potrebbe accentuare una tale condizione, più del maneggiare continuamente queste lettere morte per poi ordinarle e darle alle fiamme? Perché ogni anno se ne bruciano cataste, di simili lettere!.... Dalle pieghe di un foglio, a volte, il pallido impiegato estrae un anello, mentre il dito cui era destinato forse già imputridisce nella tomba; o estrae una banconota inviata in un impeto di sollecita carità, mentre chi avrebbe dovuto trarne sollievo più non mangia né soffre la fame; o parole di perdono per chi morì disperato; o una speranza per chi morì nello sconforto; o buone notizie per chi fu soffocato dal peso di inconsolabili sventure. Inviate per portare vita, queste lettere rovinano verso la morte. Ah, Bartleby! Ah, umanità! Tradotto da Giorgio Flavio Pintus per Edizioni Full Color Sound, che ne ha realizzato uno dei suoi “Audio Racconti”, distribuiti in tutte le librerie e, in download su iTunes 7 SABATO 31 AGOSTO DOMENICA 1 SETTEMBRE 2013 La modernità ha travolto le società tradizionali ma oggi mostra tutte le sue insufficienze Lacrisieuropea èunacrisidisistema Per affrontare le difficoltà odierne occorre una visione d’insieme della realtà che rimetta al centro l’uomo prendendo atto dei limiti della scienza e della ragione di Paolo Acanfora * dibattito C he il mondo conosca in questi anni uno stato di grave crisi è cosa indiscutibile. Ovviamente si tratta di una crisi diseguale, asimmetrica. Quando si parla di crisi su scala planetaria occorre sempre considerare che essa colpisce in maniera più acuta alcune aree del mondo e, all’interno di esse, alcune categorie sociali più di altre. È un’ovvietà che vale però la pena richiamare semplicemente per non anestetizzarsi nella percezione indifferenziata della categoria “crisi globale”. La centralità quasi esclusiva che ha assunto la questione economica nasconde però una dimensione della crisi che è assai più ampia. L’Europa vive, si potrebbe dire, una crisi nella crisi. I problemi di struttura, dovuti innanzitutto alla parzialità della sua unificazione, la rendono particolarmente vulnerabile. Ma la crisi in Europa è prima di qualsiasi altra cosa una crisi della civiltà europea, cioè di una civiltà costruitasi nei secoli, sedimentando valori, principi, interpretazioni della realtà, visioni del mondo, che ha rappresentato un modello di riferimento per l’umanità. Di certo, si potrebbe fare una storia delle crisi in Europa. La storia del vecchio continente ne è piena, essendo ricchissima di conflitti e problematicità. Il Novecento ne ha rappresentato, se vogliamo, l’apogeo. Le due guerre mondiali hanno segnato la definitiva perdita di centralità dell’Europa nelle relazioni internazionali a vantaggio degli Stati Uniti d’America. Ma, ancor di più, la cultura novecentesca è stata una cultura della crisi. La civiltà conquiste del lavoro M europea, che era anche civiltà occidentale, veniva percepita come una civiltà al tramonto, destinata a perire. All’idea di progresso indefinito che aveva caratterizzato il positivismo ottocentesco, si sostituiva la percezione di una decadenza irreversibile. La fine della seconda guerra mondiale, con la ricostruzione ed un rinnovato sviluppo economico hanno portato, almeno nella parte occidentale dell’Europa, benessere e fiducia. Tuttavia la subalternità alle dinamiche della guerra fredda, ha reso il vecchio continente un palcoscenico sostanzialmente marginale. entre al Centro Studi nazionale di via della Piazzola continuano di buona lena i lavori di ristrutturazione con l’intervento avviato nella Villa Grandi, è altresì in fase di partenza anche la nuova stagione di formazione sindacale per l’attuazione del Piano Formativo 2013-14 rivolta ai quadri e ai dirigenti dell’organizzazione. Il Congresso Cisl ha dato precisi contenuti all’azione sindacale delle nostre strutture, sia per quanto riguarda le politiche nuove da sviluppare con l’impegno contrattuale e concertativo, sia per i nuovi assetti organizzativi finalizzati alla semplificazione e al decentramento. La formazione è ora dunque chiamata, in termini virtuosi, a dare gambe e sostegno alle scel- La fotografia dell’Europa di oggi è, sotto molti punti di vista, drammatica. Vi è una crisi demografica, naturalmente diseguale ma comunque, in linea generale, notevole. Vi è una crisi delle relazioni sociali, dovuta alle nuove comunicazioni (la virtualità), ai mescolamenti avvenuti in seguito ai flussi migratori anche in società che questi flussi avevano precedentemente vissuto in maniera assai meno copiosa e problematica, al venir meno di elementi di coagulo (come, ad esempio, le ideologie) in funzione solidale. Vi è una crisi morale dettata da una generalizzata supremazia dell’interesse egoistico sulle esi- genze della comunità, sul senso del dovere, in nome di un’assoluta autonomia ed autoreferenzialità dell’io. Vi è una crisi del rapporto tra l’essere umano e la natura, con un ambiente trasformato dall’inquinamento, con paesaggi naturali ampiamente degradati che mettono a rischio la salute dell’uomo e delle altre specie. Vi è una crisi economica, che non è solo legata alle contingenze di cicli di crisi alternate a cicli di sviluppo ma riguarda l’idea stessa dell’homo economicus, la sua dimensione puramente razionale, la centralità del mercato come unico principio di regolazione, la perdita di valore dell’uo- mo e del lavoro all’interno del processo produttivo deregolarizzato e globalizzato. Vi è una crisi nella percezione del processo storico: nell’idea di progresso che pareva essersi riproposta dopo la fine della guerra fredda, spingendo a parlare addirittura di fine della storia; nell’idea di presente, dominato per buona parte della popolazione dalla precarietà, dall’incertezza, dall’angoscia e che non permette alcuna pianificazione del futuro; nell’idea di passato, che subisce i contraccolpi dello schiacciamento sul presente e di una conoscenza umanistica (tra cui, appunto, la storia) sempre più relegata in secondo Centro Studi. Parte la nuova stagione per l’attuazione del Piano formativo 2013-2014 Formazioneinprimopiano te congressuali, fornendo strumenti di analisi, occasioni di riflessione, esempi di buone pratiche. Il Centro Studi di Firenze, che compie quest’anno i 60 anni dell’attività in via della Piazzola, è più che mai il luogo deputato non solo per il livello confederale, ma per tutte le strutture Cisl, dove realizzare e far vivere una rinnovata attività formativa. Ci sembra quindi utile, alla ripresa, dar conto dei corsi e dei percorsi che partiranno nelle pros- sime settimane, in ottemperanza e secondo le modalità delle circolari inviate ad oggi dalla Segreteria generale a tutte le strutture. Percorso ”Nuovi Dirigenti Cisl” , 5 moduli residenziali con formazione a distanza dal Dicembre 2013 a Settembre 2014; fase propedeutica con modulo residenziale dal 9 al 13 Settembre 2013. Corso ”Ambiente e Contrattazione”, 2 moduli residenziali con formazione a distanza, dal Settembre al Novembre 2013. Corso Segretari organizzativi e amministrativi, 2 moduli residenziali a Settembre e Novembre 2013. Corso “Agenda Europa 2020 e riforme istituzionali”, 2 moduli residenziali a Ottobre e Novembre 2013. Percorso su ”Mercato del lavoro, invecchiamento attivo, formazione continua e forme di tutela”, 3 moduli residenziali da Ottobre 2013 a Febbraio 2014 Corso ”Previdenza e Sanità integrativa”, seminario residenziale di 1 modulo, Settembre piano, in attività marginale, improduttiva, parassitaria. È, in sintesi, una crisi prodotta da una modernità che ha travolto gli scenari propri delle società tradizionali e che oggi appare in tutta la sua imponenza. La civiltà che l’Europa ha costruito nei secoli e ha posto come modello da insegnare alle altre civiltà è divenuta un moltiplicatore di problemi. Non si tratta ovviamente di segnalare solo gli aspetti negativi. Questa stessa civiltà ha portato grandi benefici, sviluppo e prosperità ma ora richiede un profondo ripensamento, un cambiamento di prospettiva e di metodo e soprattutto un cambiamento sul piano cognitivo. Reinterpretare e ripensare la realtà sulla base di nuove categorie e paradigmi interpretativi. Se alla crisi della modernità non si può rispondere con una proposta antimoderna (molti sono stati nella storia i fallimenti in questa direzione), si può però porre un obiettivo di fondo: recuperare una lettura della realtà che non sia per compartimenti stagni, che non sia scollegata e scompaginata in innumerevoli ambiti, conosciuti perfettamente nella loro specificità ma di cui si ignorano le relazioni. Un filosofo tra i più noti al grande pubblico, Edgar Morin, ha proposto di affidarsi al principio di complessità ed al metodo della problematizzazione. Potrà sembrare ad alcuni un procedere per pura astrazione ma ridare la centralità al pensiero significa proporsi di tornare a dominare, per quanto possibile, i processi, cercando di coglierne le implicazioni, le molte connessioni. Qui il ruolo della conoscenza non puramente tecnica può tornare ad essere cruciale per i destini dell’umanità. Una conoscenza capace di rimettere al centro l’uomo e il suo ambiente, riproponendo una visione umanista figlia di una nuova consapevolezza dei limiti della scienza, della tecnica, della ragione. Una consapevolezza che, in tal modo, possa pienamente valorizzare scienza, tecnica e ragione senza il pericoloso rischio dell’assolutizzazione. E l’Europa dovrebbe essere chiamata ad una sorta di ritorno funzionale alle proprie origini. Tornare a problematizzare, a non schiacciare l’uomo sulle singole dimensioni. * Storico 2013. Corso per Formatori/Docenti in materia di Salute e Sicurezza sul lavoro, 1 modulo residenziale Ottobre 2013. Corso per Operatori Cisl di Uffici Vertenze (Sindacare), 3 moduli residenziali da Ottobre 2013 a Febbraio 2014. Al Centro Studi sono altresì programmati o in via di calendarizzazione per l’autunno attività e percorsi formativi di Federazioni di categoria, di Usr, di Enti e Servizi che con rinnovata attenzione decidono di utilizzare la nuova sistemazione logistica e residenziale del Centro Studi. E’ anche questo un modo , e neanche dei più marginali, per vivere e praticare una più ampia e consapevole confederalità. Mario Scotti Sito web: [email protected] Il salto di qualità con CISL! I VANTAGGI NON FINISCONO MAI OFFERTE LAST MINUTE OFFERTE GRANDI PARTNERS Le offerte sono aggiornate in tempo reale, tienile d’occhio per coglierle al volo. www.convenzioni.unipol.it/CISL /CIS /C CONVENZIONE CISL - UNIPOL VOGLIAMO ESSERE OGNI GIORNO ACCANTO A TE PER OFFRIRTI: Soluzioni innovative Tariffe scontate Garanzie esclusive Servizi aggiuntivi gratuiti Scopri i vantaggi esclusivi previsti dalla Convenzione per gli Iscritti e i loro familiari presso le Sedi CISL e le Agenzie Unipol Assicurazioni. Per ogni g nuova p polizza e conto corrente sottoscritti in Convenzione, Unipol destina 1 Euro al progetto p g Libera Terra che p promuove il riutilizzo sociale e culturale dei beni confiscati alle mafie. Messaggio pubblicitario. Prima della sottoscrizione leggere il Fascicolo Informativo da richiedere in Agenzia e consultabile sul sito www.unipolassicurazioni.it