conquiste - CISL Scuola Ravenna

Transcript

conquiste - CISL Scuola Ravenna
conquiste dellavoro
C
he il mondo conosca in questi anni uno stato di grave crisi è cosa indiscutibile.
La centralità quasi esclusiva che
ha assunto la questione economica nasconde però una dimensione della crisi che è assai più
ampia.
L’Europa vive, si potrebbe dire,
una crisi nella crisi; che è prima
di qualsiasi altra cosa una crisi
della civiltà europea, cioè di una
civiltà costruitasi nei secoli, sedimentando valori, principi, interpretazioni della realtà, visioni
del mondo, che ha rappresentato un modello di riferimento
per l’umanità.
Acanfora a pagina 7
ANCHE
ON LINE
I
l racconto “Bartleby lo scrivano” (una storia di Wall Street) di Herman Melville chiude
questo ciclo di letture estive,
pensate per accompagnarvi
nei vostri viaggi, sia fisici che
di puro intelletto.
Melville alle pag. 3-6
www.conquistedellavoro.it
Direttore: Raffaele Bonanni - Direttore Responsabile: Raffaella Vitulano - Direzione e Redazione: Via Po, 22 - 00198 Roma - Tel. 068473430 - Fax 068541233. Email: [email protected]. Proprietà Conquiste del Lavoro Srl. Società sottoposta a direzione e coordinamento esercitata da altri soggetti. ”Impresa beneficiaria, per questa testata, dei contributi di cui alla legge n.250/90 e successive modifiche ed integrazioni”.
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Anno 65 - N. 190/191
SABATO 31 AGOSTO
DOMENICA 1 SETTEMBRE 2013
Quotidiano della Cisl fondato nel 1948 da Giulio Pastore ---------- ISSN 0010-6348
www.conquistedellavoro.it
Bartleby
lo scrivano
Europa: è crisi di sistema
quella del vecchio mondo
Istat: disoccupazione ferma al 12% a luglio ma torna a crescere quella giovanile, più 0,4% su base mensile
Inflazione,
ad agosto
calo all’1,1%
C
rolla l’inflazione nell’Eurozona: 1,3% su
base annuale, secondo la prima stima di Eurostat dei dati di agosto. Nello stesso mese del 2012
era al 2,6%. Cibo-alcol-tabacco il settore con i prezzi in maggior aumento
(3,3%), giù l’energia
(-0,4%), stabili i beni di
consumo (0,3%) mentre
salgono moderatamente i
servizi (1,5%). In Italia inflazione in lieve frenata all’1,1% dall’1,2% di luglio.
L’Istat segnala come il livello di agosto si riporti ai
valori di aprile e maggio,
tornando al minimo da dicembre 2009. La frenata è
dovuta al rallentamento
tendenziale dei prezzi di
beni alimentari ed energetici, in parte controbilanciato dai servizi.
Rispetto al mese precedente l’indice aumenta invece dello 0,3%. Contribuiscono al rialzo congiunturale dell’indice generale
gli aumenti dei prezzi dei
servizi relativi ai trasporti,
sui quali incidono fattori
stagionali, e dei beni energetici non regolamentati.
Restano stabili al’1,7% i
prezzi del carrello della
spesa, i prodotti e servizi
acquistati con maggiore
frequenza.
Sempre l’Istat fa sapere
che a luglio i prezzi alla
produzione dei prodotti
industriali aumentano dello 0,1% rispetto a giugno,
ma diminuiscono dello
0,9% nei confronti di luglio 2012. La flessione su
base annua è la quinta
consecutiva, a giugno era
stata dello 0,7% mentre a
livello congiunturale c'era
stato un aumento dello
0,3%.
Lavoro,apicco
giovanieSud
E’ frattura totale
tra Nord e Mezzogiorno:
in Trentino e Friuli
il tasso è rispettivamente
del 5,8 e 6,9%.
Campania, Calabria
e Sicilia oltre il 21%.
E tra le giovani donne meridionali
la quota di chi
è senza lavoro è il 51%.
Segnali di inversione di tendenza
in alcune aree della zona Euro
S
i arresta la crescita della disoccupazione a luglio ma torna a crescere quella giovanile. Lo rivela l’Istat, sottolineando che si allarga la frattura tra Sud e Nord Italia. Se in
trentino e Friuli Venezia Giulia il tasso di disoccupazione è rispettivamente del 5,8
e 6,9%, in Calabria, Sicilia e Campagna ha superato il 21%.
Storti a pagina 2
Ces alla Ue:
sbagliato
ridurre salari
S
ecco no dei sindacati
europei alla proposta
di Olli Rehn di ridurre
i salari del 10% per rilanciare la crescita. “Aggrapparsi all’austerità e alla riduzione dei salari non è la
risposta giusta”, ha scritto
la Ces in una lettera aperta al vicepresidente della
Commissione europea e
responsabile per gli affari
economici e monetari,
con cui respinge la proposta di erosione salariale in
Spagna allo scopo di riprodurre i successi irlandese
e elettone.
Nella lettera la Ces sottolinea che “la Lettonia e l’Irlanda, che hanno perduto
rispettivamente il 20% ed
il 15% dell’insieme della
loro forza lavoro, possono
difficilmente passare per
esempi”.
L'unica lezione da imparare dalla Lettonia è che “l’azione prioritaria è stata
quella di rilanciare la crescita”, afferma il sindacato europeo aggiungendo
che “l’Europa deve rinviare l’applicazione del limite del 3% di deficit finché
le economie nazionali
non si saranno riprese” ovvero probabilmente fino
al 2016-2017.
La Ces inoltre denuncia
“la corsa verso il basso”
dei salari “provocata in
molti stati membri della
concorrenza salariale incoraggiata dalla Commissione”. “Come avevamo
previsto - ha affermato il
segretario generale della
Ces, Bernadette Sègol l’austerità non funziona.
Noi siamo favorevoli a politiche che stimolano l’attività, accompagnate da salari e pensioni che sostengano i consumi”.
Iva, scontro
Nuovi senatori a vita
tra Pd e Pdl Segnale forte per la Ricerca
S
contro Pdl - Pd dopo le
parole di Stefano Fassina sull’Iva. Il viceministro
dell’Economia ha definito
“inevitabile” l’aumento ad
ottobre. Brunetta (Pdl): fa
solo terrorismo a fini politici. Sindacati preoccupati.
Per la Cgia di Mestre il rischio è una stangata sulle
famiglie a basso reddito.
Confcommercio avverte:
così si bruciano 10mila posti di lavoro.
D’Onofrio a pagina 2
I
l presidente della Repubblica ha nominato senatori a vita il maestro Claudio Abbado, la ricercatrice Elena Cattaneo, l’architetto Renzo Piano e il fisico Carlo Rubbia. Napolitano sottolinea il “prestigio mondiale” di cui sono circondate le personalità scelte. In particolare, il capo dello
Stato rimarca la nomina di una “donna di scienza di età
ancor giovane ma già nettamente affermatasi, la cui scelta ha anche il valore di un forte segno di apprezzamento,
incoraggiamento e riferimento per l’impegno di vaste
schiere di italiane e italiani di nuove generazioni dedicatisi con passione, pur tra difficoltà, alla ricerca scientifica”.
La scelta è molto apprezzata dal segretario nazionale della Fir Cisl Giuseppe De Biase per il quale “ancora una volta
Napolitano dimostra attenzione al mondo della Ricerca.
Auspichiamo che Governo e Parlamento manifestino con
atti concreti la stessa attenzione”.
2
SABATO 31 AGOSTO
DOMENICA 1 SETTEMBRE 2013
decreto relativo alla razionalizzazione della
Ricerca Ilpubblica
amministrazione prevede, tra l’altro, l’immissione in servizio dei vincitori di
Fir Cisl: nel concorso
in attesa di assunzione e la valorizzazione della professionalità del personale accon contratti a tempo determinato nedecreto P.A. quisita
gli enti di appartenenza. Infatti, spiega il segenerale della Fir Cisl Giuseppe De
segnali gretario
Biase, è normata la possibilità per le amminidi bandire procedure concorsuali
importanti strazioni
per il personale in possesso dei requisiti previlegge 296/2006, nonché per coloro
ma non stichedalla
abbiano maturato negli ultimi 5 anni al3 anni di servizio alle dipendenze deldecisivi meno
l’amministrazione che emana il bando. Le pro-
cedure selettive possono essere avviate a valere sulle risorse assunzionali relative agli anni 2013-2014-2015 anche complessivamente
considerate in misura non superiore al 50%.
Per gli Epr, poi, l’autorizzazione per l’avvio
delle procedure consorsuali ha un percorso
più snello.
Commenta De Biase: “Apprezziamo l’iniziativa del Ministro D’Alia, si tratta di un segnale
importante nei confronti del personale precario degli Enti di ricerca ma evidentemente
non risolutivo. Infatti i risultati possibili sono
ridimensionati dai vincoli imposti dall’utilizzo
del turn over e dai limiti delle piante organiche. Se al di là delle affermazioni retoriche la
Ricerca è considerata un elemento essenziale per lo sviluppo del Paese, gli Enti di Ricerca
debbono essere posti in grado di funzionare
recuperando i danni prodotti da soppressioni
ed accorpamenti impropri di Enti, tagli di risorse e di organico che specie negli ultimi anni gli Epr hanno subito e, allo stato, il decreto
legge in parola non sembra fornire risposte
adeguate”. L’impegno del sindacato
“continuerà nei confronti delle Commissioni
parlamentari con l’obiettivo di correggere e
migliorare le disposizioni previste. Ci aspettiamo comunque che il Ministro Carrozza apra
un tavolo di confronto specifico sulla Ricerca
con i sindacati”.
Istat: disoccupazione ferma al 12% a luglio ma tra i giovani è aumentata dello 0,4% mensile e del 4,3% annuale
Occupazionegiovanile,
lospettrodiquota-40
N
un incremento dell’imposta sul valore aggiunto. In termini percentuali l’incidenza sarebbe invece più ridotta sui redditi elevati.
Preoccupata anche Confecooperative, che
mette in guardia dalle ricadute di un inasprimento che potrebbe pesare “fino a 100 euro” sulle famiglie. Quel che è peggio, fa notare l’associazione guidata da Maurizio Gardini, è che l’impatto rischia di rilevarsi pesantissimo per il welfare e le fasce più deboli
della popolazione: “Da gennaio 2014 - ricorda Gardini - l’Iva passerà dal 4% al 10% sui
servizi ad anziani, minori e disabili. Un esborso sostenuto da Comuni e Asl che saranno
costretti a tagliare i servizi a oltre 500mila
persone, con un contraccolpo occupazionale per oltre 42mila persone”.
Sulle barricate, e non potrebbe essere altrimenti, sale pure Confcommercio. Fatti i primi conti, sostiene l’associazione dei commercianti, il caro Iva potrebbe trascinarsi
dietro un rincaro dei prezzi compreso tra lo
0,3 e lo 0,4%, un conseguente calo dei consumi e, di riflesso, la perdita di circa 10mila
posti di lavoro.
un anno prima). In Calabria c’è il tasso di occupazione più basso d’Italia,
con appena il 39% di persone occupate nella fascia tra i 15 e i 64 anni
(contro il 55,7% medio
nazionale). Tra le regioni
con il tasso di disoccupazione più basso ci sono il
Trentino (5,8%), il Friuli
(6,9%), il Veneto (7,5%)
e la Lombardia (7,6%). Il
tasso di occupazione più
alto è a Bolzano, con il
70% delle persone tra i
15 e i 64 anni al lavoro.
Anche a livello di Eurozona si confermano le dinamiche registrate in Italia: il tasso di disoccupazione nella zona della
moneta unica è rimasto
stabile al 12,1% a luglio,
per il quarto mese consecutivo dopo un incremento pressoché ininterrotto da inizio 2011. E
tuttavia, continua a salire la disoccupazione giovanile che ha toccato il
24%, rispetto al 23,9% di
giugno, raggiungendo il
picco del 56,1% in Spagna. Secondo Eurostat,
in termini numerici il
12,1% significa che 19,2
milioni di cittadini dell’Eurozona sono senza lavoro.
I tassi più bassi si registrano in Austria (4,8%)
e Germania (5,3%). I più
alti in Grecia (27,6%, dato di maggio) e Spagna
(26,3%). “I dati sulla disoccupazione - sottolinea il Commissario europeo per il Lavoro, Laszlo
Andor - mostrano incoraggianti segnali di leggera riduzione in molti Paesi ma è ancora chiaramente inaccettabile che
più di 26,6 milioni di persone nella Ue e 19,2 milioni nell’Eurozona, di
cui 5,5 milioni sotto i 25
anni, siano ancora senza
lavoro”. I recenti miglioramenti, secondo Andor, sono “minimi” e la
situazione “resta fragile”. Per questo il Commissario europeo fa appello ai governi perché
aumentino “gli sforzi per
il lavoro”. “La leggera riduzione della disoccupazione in alcuni Paesi - afferma - mostra l’importanza delle politiche attive per l’impiego come i
sussidi all’occupazione,
la riduzione delle tasse
sui salari più bassi e i servizi per la collocazione.
Questo non è il momento per i festeggiamenti o
l’autocompiacimento.
Al contrario, ora che vediamo di essere sulla
strada di giuste politiche
per l’occupazione dobbiamo aumentare i nostri sforzi a favore del lavoro”.
C.D’O.
I. S.
attualità
Frattura Nord-Sud: in Trentino il tasso è 5,8%. Campania, Calabria e Sicilia oltre il 21%
essun segnale
di ripresa ma se
non altro la conferma
che
l’emorragia di posti di lavoro che va avanti da inizio crisi si è fermata. Il
raffronto con lo scorso
anno resta comunque
impietoso. Con l’aggravante che le fasce giovani, che avevano recentemente mostrato segnali
di ripresa, tornano a peggiorare. La disoccupazione, rivela l’Istat, a luglio
si ferma al 12%, invariata rispetto a giugno ma
in aumento dell’1,3% su
base annua. Il segnale
più allarmante riguarda,
però, la disoccupazione
giovanile, che torna a salire di ben 0,4 punti percentuali su base mensile
(4,3 su base annua), toccando quota 39,5%. Tra i
15-24enni il tasso sale al
37,3% (+3,4 punti), con
un picco del 51% per le
giovani donne del Mezzogiorno. In termini tendenziali la disoccupazione cresce sia per gli uomini (
+16,6%) sia per le donne
(+6,5%).
Continua la tendenza avviata nel 2009 che vede
conquiste del lavoro
D
Tassi di disoccupazione
Dati in %
Il numero di disoccupati ha raggiunto quota 3.075.000
nel secondo trimestre, 370.000 in più rispetto a un anno fa (+13,7%)
GIOVANILE (15-24 anni)
TOTALE (15-64 anni)
41,9
35,2
33,9
12,8
10,5
39,5
39,1
37,3
12,0
12,0
10,7
12,0
II TRIM
I TRIM
II TRIM
LUGLIO
GIUGNO
LUGLIO
2012
2013*
2013
2012
2013
2013
Fonte: Istat
*record storico fortemente condizionato dalla stagionalità
isinnescata la mina Imu, la maggioranza delle larghe intese non ha impiegato molto tempo a trovare un altro terreno di battaglia. Stavolta a far litigare Pd e
Pdl è l’Iva, il cui aumento dovrebbe scattare
ad ottobre, sempre che nel frattempo non
si trovi la copertura finanziaria necessaria
ad evitarlo.
Eventualità questa che Stefano Fassina, dando fuoco alle polveri, ha escluso senza mezzi termini in quanto diretta conseguenza, a
suo avviso, del salasso alle casse dello Stato
operato per cancellare l’Imu sulla prima casa.
A Fassina ha replicato, in un’intervista al Gr
Parlamento, un furente Renato Brunetta,
per il quale il viceministro Pd dell’Economia
non è altro che un irresponsabile, uno che
“fa solo terrorismo a fini politici o a fini congressuali”. Concetti simili a quelli espressi in
un colloquio con IlGiornale, nel quale il capogruppo del Pdl alla Camera ha ribadito la linea di sempre: “Vogliamo la riduzione della
pressione fiscale, quindi siamo contrari all’aumento dell'Iva”.
Nemmeno tra i democratici, però, si sono
sprecati gli applausi per la sortita di Fassina.
A turno, sia il premier Letta che gli altri componenti della squadra di governo con responsabilità sui dossier economici - da Zanonato a Baretta, passando per il responsabile
economia del partito, Matteo Colannino hanno preso le distanze.
La posizione resta insomma quella riassunta dallo stesso Baretta: l’esecutivo lavorerà
ANSA
poi diminuire anche il
tasso d'occupazione straniera, passata dal 61,5%
del secondo trimestre
2012 all'attuale 58,1%.
Non si arresta - annota
l’Istat - il calo degli occupati a tempo pieno
(-3,4%, pari a 644 mila
unità), che in quasi metà
dei casi riguarda i dipendenti a tempo indeterminato.
In un anno il numero di
disoccupati è cresciuto
di 325 mila unità, arrivando a quota 3 milioni 76
mila. Nel secondo trimestre, l’incremento interessa in oltre la metà dei
casi le persone con almeno 35 anni. In quasi otto
casi su dieci la crescita
della disoccupazione riguarda le persone in cerca di lavoro da almeno
12 mesi.
Le differenze a livello territoriale restano ampie.
La situazione di alcune
regioni del Sud è tragica.
Nel secondo trimestre la
disoccupazione era al
21,9% in Campania (dal
18,5% dello stesso periodo del 2012), al 21,6% in
Sicilia (dal 19,4% di un
anno prima) e al 21,5%
in Calabria (dal 19,8% di
Scontro Fassina - Brunetta. Governo a caccia delle risorse per evitare l’aumento
Partitiallaguerradell’Iva,
bruttenotizieperlefamiglie
ad una dilazione, anche se c’è la consapevolezza che la coperta si va facendo sempre
più corta: ”La possibilità che l'aumento dell'
Iva venga eliminato per sempre è sotto il 5%
- ammette il sottosegretario all'Economia ma per questi ulteriori tre mesi la possibilità
è abbastanza buona”.
Fuori dal Palazzo, i sindacati guardano con
apprensione alle schermaglie in corso tra i
partiti. Già la soluzione trovata sull’Imu dal
governo non ha convinto le confederazioni,
che temono - parole del leader della Cisl Raffaele Bonanni - che alla fine l’andirivieni tra
Imu e service tax si riveli “una partita di giro”. Non bastasse, è evidente che dalla guerriglia fiscale tra le diverse anime della maggioranza rischia di uscire ridimensionata la
richiesta numero uno dei sindacati, vale a
diro il taglio delle tasse sui redditi da lavoro
dipendente e sulle pensioni.
A ciò si aggiunga che un eventuale aumento
dell’Iva farebbe con tutta probabilità il più
alto numero di vittime tra le famiglie a basso reddito. È anche la convinzione della Cgia
di Mestre, secondo cui è sui nuclei più numerosi che andrebbero a scaricarsi gli effetti di
Conquisteperl’estate
3
il racconto
SABATO 31 AGOSTO
DOMENICA 1 SETTEMBRE 2013
conquiste del lavoro
HERMAN MELVILLE
Bartleby lo scrivano
S
ono piuttosto avanti con l'età. La natura della mia professione, negli
ultimi trent'anni, mi ha messo in contatto con un genere di individui
interessanti e piuttosto singolari, dei quali, per quanto ne sappia,
finora nessuno ha scritto: mi riferisco ai copisti legali, o scrivani. Ne
ho conosciuti davvero molti, e, se volessi, potrei raccontare tante di quelle
storie, da far sorridere… o commuovere. Ma fra tutti scelgo di raccontare
pochi momenti della vita di Bartleby, il più stravagante scrivano di cui abbia
mai avuto notizia. Era, Bartleby, una persona di quelle sui cui non si riesce
ad accertare nulla.
Prima d'introdurre lo scrivano, come mi apparve per la prima volta, sarà
però il caso che faccia un cenno a me stesso, ai miei impiegati, al mio lavoro, ai miei uffici, e all'ambiente in generale. Prima di tutto: fin da giovane,
sono stato sempre profondamente convinto che la via più facile sia la migliore. Sono uno di quegli avvocati privi di ambizioni, che non fanno mai
appello a una giuria, né stanno lì a cercare di strappare applausi al pubblico;
piuttosto trafficano, tranquillamente, con titoli azionari di gente ricca, o
ipoteche, o titoli di proprietà. Chiunque mi conosca, mi considera persona
cauta.
Poco prima dell'epoca in cui ha inizio questa piccola storia, il mio lavoro era
molto aumentato. Mi era stato infatti conferito l'incarico, ora abolito dallo
stato di New York, di Magistrato della Corte d'equità. Una carica non gravosa, ma assai piacevolmente remunerata.
Il mio ufficio era al primo piano di Wall Street. Le finestre si affacciavano da
un lato sul muro bianco di un ampio cavedio, che prendeva luce da un lucernario; in cambio, la vista dall'altro lato offriva un buon contrasto: un muro
alto, annerito dagli anni e perennemente in ombra.
Nel periodo appena precedente l'arrivo di Bartleby avevo al mio servizio
due persone in qualità di scrivani e un ragazzo promettente che faceva da
fattorino. Il primo: Turkey, "Tacchino"; il secondo: Nippers, "Pinza"; il terzo:
Ginger Nut, "Zenzero". In verità erano nomignoli che i tre impiegati si erano
reciprocamente affibbiati e che esprimevano bene i rispettivi caratteri. Turkey era un inglese basso e tarchiato, della mia stessa età, ovvero prossimo
ai sessant'anni. Al mattino il suo volto aveva un bel colorito florido, ma
dopo pranzo gli si infuocava come la grata di un caminetto a Natale, e continuava a fiammeggiare, come smorzandosi a poco a poco, fino alle sei o giù
di lì. Proprio quando Turkey emanava i suoi raggi più splendenti, cominciavano le ore in cui consideravo le sue capacità di lavoro seriamente compromesse. Non che fosse pigro, lungi da me, anzi, tendeva ad essere fin troppo
attivo, ma c'era una ardente sbadatezza in tutto quello che faceva. Era sbadato nell'intingere la penna nel calamaio, e le macchie sui documenti cadevano tutte allora, dopo le dodici. Faceva chiasso a non finire con la sedia;
rovesciava lo scatolino della sabbia; quando aggiustava le penne, per impazienza le buttava per terra, preso dalla rabbia: insomma uno spettacolo
davvero triste in un uomo della sua età. Comunque per me era preziosissimo, capace di sbrigare una gran mole di lavoro: per questo sorridevo dei
suoi lati eccentrici anche se talvolta lo rimproveravo.
"Con rispetto, signore," diceva Turkey, "io mi considero il suo braccio destro. Al mattino mi limito a disporre tutte le mie schiere, ma al pomeriggio
mi metto alla loro testa, e vado valorosamente all'assalto del nemico: co-
sì!" e giù, una gran stoccata col righello. "Ma le macchie, Turkey?" insinuai.
"Vero, ma con tutto il rispetto, signore, una macchia o due in un pomeriggio di afa, non si può rimproverare a questi grigi capelli. La vecchiaia, anche
se imbratta una pagina, è onorevole. Con rispetto, signore, tutti e due stiamo invecchiando."
Difficile resistere a un tale appello alla mia solidarietà.
Nippers, il secondo della lista, era un giovane di circa venticinque anni, olivastro, con un aspetto piuttosto da pirata. Ho sempre pensato che risentisse
di due influssi malefici: l'ambizione e la cattiva digestione. La prima era rivelata da una certa tendenza a usurpare pratiche d'ordine strettamente professionale, come la stesura originale di documenti legali. La cattiva digestione si palesava invece con nervosismo e smorfie insofferenti, e, soprattutto,
con una insoddisfazione cronica per l'altezza della sua scivania. Nippers
non riusciva mai ad adattare a sè il tavolo di lavoro. Ci infilava sotto zeppe di
ogni tipo, strisce di cartone, fino alla carta assorbente. Mai niente raggiungeva lo scopo. Se, per dare sollievo alla schiena, lo sistemava ad angolo
retto, sollevato fino al mento, ripido come il tetto di una casa olandese, si
lagnava che così gli si bloccava la circolazione nelle braccia. Se, invece, lo
abbassava all'altezza della vita, doveva curvarsi per scrivere, e sentiva dolori alla schiena. In realtà Nippers non sapeva mai cosa volesse. O, se mai
voleva qualcosa, era di liberarsi del tutto del tavolo da copista. Fra le manifestazioni della sua morbosa ambizione c'era la tendenza a ricevere certi
loschi individui, intabarrati in palandrane malmesse, che lui chiamava suoi
clienti. Ma, con tutti i difetti e i fastidi che mi procurava, Nippers, come
Turkey, mi era molto utile; aveva una scrittura rapida e chiara, e, se solo
voleva, non gli mancavano i modi da gentiluomo, E da gentiluomo si vestiva, aggiungendo prestigio all'ufficio. Mentre Turkey in questo era una vera
vergogna. I suoi abiti unti puzzavano di taverna. D'estate indossava pantaloni larghi e sformati. Le sue giacche erano esecrabili, e il suo cappello ancora
peggio. Passi per il cappello che, tanto, da buon inglese, si toglieva appena
entrato in ufficio, ma la giacca proprio non andava. Ebbi con lui qualche
discussione, ma senza frutto. La verità era, penso, che un uomo dal reddito
così modesto non poteva permettersi di esibire una faccia e una giacca
ugualmente smaglianti contemporaneamente.
Un giorno d'inverno regalai a Turkey una delle mie giacche, molto rispettabile, grigia, imbottita, che dava un bel calduccio e si abbottonava dal ginocchio al colletto. Pensavo che Turkey avrebbe apprezzato il gesto, moderando la sua sregolata avventatezza pomeridiana. Invece no, anzi, aveva su di
lui un effetto pericoloso, per lo stesso principio per cui troppa biada fa male
ai cavalli. Infatti, con quella giacca indosso, Turkey inclinava all'insolenza.
Era un uomo cui nuoceva il benessere.
Per mia fortuna, l'irrequietezza di Nippers si rivelava soprattutto al mattino, mentre egli era relativamente calmo al pomeriggio. Perciò, visto che il
parossismo di Turkey spuntava al pomeriggio, non dovevo mai a fronteggiare le eccentricità di entrambi contemporaneamente. Le loro crisi si davano
il cambio, come sentinelle. Ginger Nut, il terzo della lista, era un ragazzo di
circa dodici anni. Suo padre era un carrettiere che, prima di morire, voleva
vedere il proprio figlio su un seggio di tribunale invece che su quello di un
carro. Perciò lo mise a lavorare nel mio ufficio, come studente di legge,
fattorino e addetto a pulire e spazzare, per un dollaro la settimana. Aveva
uno scrittoio piccolo, che usava raramente. Tra le mansioni di Ginger Nut,
quella che svolgeva con la maggiore alacrità, era di provvedere al rifornimento di dolci e mele per Turkey e Nippers. Essendo la copiatura di carte
legali un lavoro proverbialmente arido, i miei due scrivani spedivano spesso Ginger Nut ad acquistare dei dolcetti rotondi, piatti e molto aromatizzati
di quella spezia che gli valse il soprannome. Ora, dicevo, che il mio lavoro
iniziale era notevolmente cresciuto a seguito della nomina alla Corte d'equità. C'era dunque adesso molto lavoro per gli scrivani. Così, non solo dovevo
spronare gli impiegati, ma anche procurarmi un nuovo aiuto.
In risposta a un annuncio, una mattina, si stagliò, immobile sulla soglia del
mio ufficio - la porta era aperta, perché era estate - un giovane. Rivedo
ancora quella figura: dignitosamente pallida, pietosamente rispettabile, irrimediabilmente squallida!
Era Bartleby.
Dopo qualche cenno sulle sue qualifiche, lo assunsi, felice di avere tra i miei
copisti un uomo dall'aspetto così mite, che avrebbe potuto influire in modo
benefico sul carattere irrequieto di Turkey e su quello irruento di Nippers.
Ah, non ho ancora detto che il mio ufficio era diviso, da porte pieghevoli di
vetro satinato in due locali, uno occupato dai miei scrivani, l'altra da me.
Decisi di assegnare a Bartleby un angolo vicino alle porte pieghevoli, ma dal
mio lato, così da avere quell'uomo tranquillo a portata di voce. Sistemai la
sua scrivania accanto a una piccola finestra che non permetteva alcuna vista ma lasciava filtrare comunque un po' di luce. A rendere la sistemazione
più soddisfacente, procurai un paravento verde, che riparava Bartleby dal
mio sguardo, senza allontanarlo dalla mia voce. Da principio Bartleby svolse una gran mole di lavoro. Si dava da fare notte e giorno, copiando sia con
la luce del sole che al lume di candela. Sarei stato anche compiaciuto di
tanta solerzia, se fosse stato allegramente operoso. Invece continuava scriveva sempre in silenzio, in modo scialbo e meccanico.
È parte inevitabile del lavoro di scrivano verificare che le sue copie siano
corrette, parola per parola. Quando in un ufficio ci sono due o più scrivani,
si assistono a vicenda in questo controllo: un lavoro noioso, spossante e
soporifero, che, per un carattere sanguigno, non sarebbe molto tollerabile.
Di tanto in tanto, se c'era fretta, avevo l'abitudine di aiutare a confrontare
qualche breve documento, chiamando Turkey e Nippers. Tra le mie mire,
nel collocare Bartleby a portata di mano dietro il paravento, c'era infatti di
poter ricorrere ai suoi servigi per simili evenienze banali. Era con me, credo,
da tre giorni quando, dovendo completare in gran fretta una faccenda, di
punto in bianco chiamai Bartleby. Nella fretta e nella naturale aspettativa
di un'immediata obbedienza, me ne stavo seduto con la testa china sull'originale posato sulla mia scrivania, la mano destra di lato, nervosamente tesa
nel porgere la copia, così che, appena emerso dal suo riparo, Bartleby l'afferrasse e procedesse all'opera senza indugi.
Ero in questa esatta posizione, quando lo chiamai, spiegando in fretta che
esaminasse con me il breve documento. Immaginate la mia sorpresa, meglio, la mia costernazione, quando, senza muoversi dal suo angolo, Bartleby, con voce mite ma ferma, rispose: "Preferirei di no." Rimasi per qualche istante sbigottito, seduto, in perfetto silenzio, cercando di riavermi dalla sorpresa. Poi pensai di non aver sentito bene, o che Bartleby mi avesse
frainteso. Riformulai la mia richiesta col tono più chiaro possibile; mi giunse
la stessa risposta: "Preferirei di no." "Preferirei di noo?" gli feci eco, alzandomi e attraversando la stanza d'un balzo. "Come sarebbe a dire? Siete matto? Voglio che m'aiutiate ad controllare questo foglio, prendetelo" e glielo
gettai. E lui: "Preferirei di no." Lo fissai di sasso. Il suo viso era smunto:
composto, gli occhi grigi: tranquilli. Ci fosse stato anche il minimo disagio, o
rabbia, o impertinenza; in altre parole, ci fosse stato in lui un segno di umanità, l'avrei cacciato brutalmente dall'ufficio. Ma, così, sarebbe stato come
buttare fuori il busto in gesso di Cicerone. Lo scrutai per qualche istante:
continuava a scrivere. Quindi tornai a sedermi al mio tavolo pensando:
"Strano, davvero strano. Cosa posso fare?" Ma, non avendo tempo, rinviai
la questione. Chiamai Nippers e controllai con lui il documento. Giorni do-
4
il racconto
SABATO 31 AGOSTO
DOMENICA 1 SETTEMBRE 2013
conquiste del lavoro
po, Bartleby terminò la stesura di quattro copie di lunghissimi
atti dell'Alta Corte di equità. Era necessario esaminarli. Si trattava di documenti di una causa importante, da trattare con la
massima cura. Preparai tutto, chiamai dalla stanza accanto
Turkey, Nippers e Ginger Nut: quattro copie, quattro impiegati, io avrei letto l'originale. Turkey, Nippers e Ginger Nut erano già seduti in una fila, ciascuno con la sua copia, quando
chiamai Bartleby perché si unisse a questo bel gruppetto.
"Bartleby! Forza, stiamo aspettando."
Si udì il lento stridere della sua sedia sul pavimento nudo, ed
egli apparve, impalato all'imbocco del suo eremo. "Cosa serve?" chiese mansueto. "Le copie, le copie," risposi in fretta
"dobbiamo confrontarle. Ecco..." porgendogli intanto la quarta copia.
"Preferirei di no," disse, e se ne scivolò dietro il suo paravento.
Per un istante rimasi di sale, lì, a capo della mia colonna di
impiegati. Mi ripresi, andai verso il paravento e gli chiesi ragione dell'inconsueta condotta:
"Ditemi: perché rifiutate?"
"Preferirei di no."
Con chiunque altro sarei andato su tutte le furie, e senza scrupoli l'avrei cacciato via. Ma c'era qualcosa in Bartleby che,
stranamente, mi disarmava, e cercai di ragionare con lui:
"Queste sono le vostre copie, dobbiamo controllarle. Si risparmia fatica a controllarle tutte insieme. È così che si fa. Ogni
copista controlla la sua copia. Non è così? Non dite niente?
Rispondete!"
"Preferirei di no," rispose con voce soave. Mi sembrò che,
mentre parlavo, egli soppesasse ogni mia parola e ne comprendesse il senso perfettamente, ma poi qualche imperscrutabile motivo lo costringesse a rispondere in quel modo.
"Così non obbedirete alla mia richiesta…, una richiesta conforme al comune buon senso?" Mi lasciò intendere brevemente
che, su questo, le mie conclusioni erano esatte: sì, la sua decisione era irrevocabile. Spesso accade che, se si è contrariati in
modo insolito, sentiamo vacillare le nostre convinzioni più
elementari. In quel caso, se ci sono persone neutrali, ci si rivolge a queste alla ricerca di un sostegno per i nostri pensieri
dubbiosi. "Turkey," chiesi, "che ne pensate voi? Ho ragione o
no?" "Con tutto il rispetto, signore," disse Turkey con calma,
"penso di sì." "Nippers," dissi, "voi cosa ne pensate?" "Penso
che lo caccerei fuori a calci." (Avrete certo notato che, essendo mattina, la risposta di Turkey è pacata, mentre Nippers
risponde di malumore.)
"Ginger Nut," dissi, ansioso di raccogliere anche il minimo
commento a mio favore "tu? Che ne pensi?"
"Io? Signore? Per me quel tizio è un po' sfasato" rispose Ginger Nut ghignando.
"Sentito?" dissi rivolto al paravento, " dunque venite fuori a
fare il vostro dovere." Non mi degnò di una risposta. Meditai
per un momento perplesso, ma, ancora una volta, eravamo
in urgenza, e, ancora una volta rinviai la questione a un momento di maggior calma. Con qualche difficoltà controllammo le copie senza Bartleby; anche se Turkey sosteneva continuamente che questo modo di procedere fosse del tutto inusuale; mentre Nippers s'agitava sulla sedia in preda alla sua
dispepsia nervosa, sibilando maledizioni a denti stretti in direzione dell'imbecille dietro il paravento.
Trascorsero giorni, in cui lo scrivano fu impegnato in un altro
lungo lavoro. La sua condotta insolita mi spinse a osservarlo
con attenzione. Notai che non usciva mai a pranzo, anzi, non
usciva mai in assoluto. Era come una sentinella: fissa al suo
posto. Osservai che verso le undici, ogni mattina, come chiamato da un gesto invisibile, Ginger Nut si affacciava al paravento di Bartleby, poi il ragazzo usciva dall'ufficio facendo tintinnare qualche moneta, e ricompariva con una manciata di
biscotti allo zenzero, che portava all'eremo, ricevendone un
paio per ricompensa.
"Allora è di biscotti che vive," pensai, "non fa mai un vero
pranzo: forse è vegetariano. Ma no, neanche, mangia solo biscotti allo zenzero." E mi perdevo allora in fantasticherie sull'
organismo umano, e sugli effetti di vivere solo di biscotti allo
zenzero. Dunque: i biscotti sono allo zenzero. Ora, cos'è lo
zenzero? Una spezia piccante. Bartleby è piccante? Per niente. Lo zenzero, dunque, non aveva effetti su Bartleby. Probabilmente egli preferiva che non ne avesse. Nulla esaspera una
persona seria quanto la resistenza passiva.
Così pensavo a Bartleby e ai suoi modi: "Poveraccio, non è
malvagio; è chiaro: non vuole essere insolente; basta guardarlo per capire che la sua eccentricità è involontaria; mi è utile,
e posso andarci d'accordo. Se lo mando via, può capitare con
un capo meno indulgente; sarà trattato male. Rischia addirittura di morir di fame. Andare incontro a Bartleby, assecondarlo nelle sue stramberie, ecco, sì, posso compiacermi a poco
prezzo di una buona coscienza." Ma non ero sempre in questo stato d'animo. La passività di Bartleby a volte m'irritava.
Un pomeriggio, un impulso malvagio ebbe su di me il sopravvento, e ne nacque la seguente scena:
"Bartleby," dissi, "quando avrete finito di copiare quei documenti, vorrei esaminarli con voi."
"Preferirei di no."
"Come? Non vorrete certo intestardirvi con questi capricci!?"
Nessuna risposta.
Spalancate le porte pieghevoli, esclamai a Turkey e Nippers:
"Bartleby, per la seconda volta dice che non esaminerà le sue
copie. Che ne pensate, Turkey?"
(Era pomeriggio, ricordatevene.)
Turkey sedeva, bollente come una caldaia di rame; le sue mani raspavano tra i documenti macchiati: "Cosa ne penso?" ruggì "Penso che ora vado là dietro e gli faccio due occhi neri!" e
così dicendo si alzò in piedi e si mise in posizione da pugile. Lo
trattenni, spaventato dalle conseguenze di aver incautamente risvegliato la sua pomeridiana bellicosità.
"Sedetevi, Turkey" dissi, "sentiamo cosa ha da dire Nippers.
Che ne pensate, Nippers? Avrei motivo di licenziare Bartleby
all'istante?"
"Chiedo scusa, signore, ma sta a voi decidere. Penso che la
sua condotta sia piuttosto insolita, è vero, e anche ingiusta
nei confronti miei e di Turkey. Ma forse è soltanto un capriccio passeggero."
"Ah!" esclamai, "quanta indulgenza! Avete stranamente cambiato parere!"
"È la birra" gridò Turkey, "la sua comprensione è effetto della
birra... Nippers ed io abbiamo oggi pranzato assieme. Guardate quanto sono benevolo io! Vado a fargli due occhi neri!?"
"No, non oggi, Turkey" risposi "abbassate quei pugni."
Chiusi le porte e mi avvicinai di nuovo a Bartleby. Mi sentivo
ancora più pungolato a sfidare la sorte e volevo che mi opponesse ancora un rifiuto. Mi ricordai che egli non lasciava mai
l'ufficio.
"Bartleby," dissi, "Ginger Nut è fuori, fate un salto all'ufficio
postale, per favore (erano solo tre minuti di strada), a vedere
se c'è qualcosa per me."
"Preferirei di no."
"Non volete andarci?" "Preferisco di no."
Barcollai alla mia scrivania, e precipitai in meditazione profonda. Potevo espormi a un altro ignominioso rifiuto da parte di
quel disgraziato? Da un mio dipendente? Quale altra richiesta perfettamente ragionevole avrebbe ancora rifiutato?
"Bartleby!"
Nessuna risposta.
"BARTLEBY!" con voce più alta. Nessuna risposta. "BARTLEBY!" ruggii.
Come uno spettro evocato, al terzo richiamo egli apparve sulla soglia del suo eremo.
"Andate a dire a Nippers di venire da me."
"Preferirei di no." Lo disse piano, in tono rispettoso, poi, lievemente, svanì.
"Molto bene, Bartleby" dissi con un tono serenamente severo, che suggerisse la ferma intenzione di castigo tremendo. E
in quel momento era così, ma…, tutto sommato…, era quasi
ora di cena, pensai con la mente turbata… meglio andarsene
a casa!
Devo confessarlo? La conclusione della faccenda fu che nel
mio ufficio - c ormai era un dato assodato - c'era uno scrivano,
quello giovane e pallido di nome Bartleby, che aveva la sua
scrivania, copiava per me a quattro centesimi a foglio ed era
esentato, permanentemente, dal controllare gli atti, essendo
tale compito demandato a Turkey e Nippers, ovviamente in
omaggio alla loro superiore capacità; inoltre, detto Bartleby,
non doveva mai, per alcun motivo, essere inviato a sbrigare la
commissione più insignificante, di qualsiasi genere; e che, anche se supplicato, fosse ormai generalmente noto che lui
"avrebbe preferito di no": o, in altre termini, che egli si sarebbe rifiutato, punto e basta.
Col passare dei giorni, però, mi riconciliai con Bartleby: la sua
perseveranza, l'industriosità senza risparmio, l'assenza di vizi, la tranquillità e la compostezza inscalfibili in qualsiasi circostanza, lo rendevano un acquisto prezioso. Ecco la sua qualità
principale: egli era sempre là, al mattino era il primo, ininterrottamente per tutto il giorno, e ultimo alla sera. Avevo una
fiducia assoluta nella sua onestà. Sapevo che i miei documenti più preziosi con lui erano al sicuro. A volte, nella fretta di
sbrigare qualche pratica urgente, senza accorgermene lo chiamavo, poniamo, a mettere un dito su un pezzo di nastro rosso
con cui rilegare alcune carte. Ovviamente, da dietro il paravento arrivava il solito: "Preferirei di no", e allora, ogni nuovo
rifiuto diminuiva le probabilità di commettere di nuovo l'errore.
Come era consuetudine di quasi tutti gli studi di avvocati, anche per la porta del mio esistevano molte chiavi. Una l'aveva
la donna che lavava i pavimenti. Un'altra l'aveva Turkey, per
comodità. La terza la portavo a volte con me. La quarta non
sapevo chi l'avesse.
Ora, una domenica mattina, mi accadde di andare alla Trinity
Church, per ascoltare un celebre predicatore, e mi trovai da
quelle parti piuttosto in anticipo, così pensai di fare una passeggiata fino in ufficio. Fortunatamente avevo con me la mia
chiave, ma, quando la infilai nella serratura, mi accorsi che
non apriva: qualcosa la bloccava da dentro. Ne fui sorpreso, e
presi a chiamare; quando, con mia costernazione, una chiave
girò dall'interno; e, dalla porta socchiusa, spuntò Bartleby,
smunto e in maniche di camicia. Disse con calma che gli dispiaceva, ma che al momento era proprio occupato e... , per adesso, preferiva non farmi entrare.
E aggiunse poche altre parole: per consigliarmi di fare il giro
dell'isolato un paio volte, ché in in quel tempo avrebbe probabilmente concluso le sue faccende. Ora, la circostanza assolutamente inattesa che Bartleby occupasse il mio ufficio di domenica mattina, insieme a quella sua nonchalance educata e
cadaverica, ma nel contempo risoluta e padrona, ebbe su di
me un effetto piuttosto bizzarro: sgattaiolai via, dalla mia porta, e feci come richiesto. Non senza fremiti di ribellione contro la mite sfrontatezza di quell'indecifrabile scrivano. Era infatti soprattutto la sua stupefacente docilità che non solo mi
disarmava, ma mi rendeva, come dire, impotente. Come altro definire chi permette tranquillamente a un suo dipendente di dargli ordini e di mandarlo via dal suo stesso ufficio? Senza contare l'inquietudine: mi chiedevo cosa mai potesse fare
Bartleby nei miei uffici, in maniche di camicia, in condizioni
impresentabili, di domenica mattina. C'era qualcosa di losco?
No, era fuori questione. Neppure per un momento si poteva
pensare che Bartleby fosse una persona immorale. Ma allora
cosa ci faceva lì? Non ero tranquillo, e, preso dalla curiosità,
finalmente tornai alla porta, inserii la chiave, senza trovare
ostacoli, la aprii, ed entrai. Bartleby non c'era più.
Guardai attorno, sbirciai dietro il paravento, ma se n'era proprio andato. Ad un esame più attento capii che chissà da quanto Bartleby mangiava, dormiva e si vestiva nel mio ufficio; e
senza un piatto, un letto, o uno specchio. Un vecchio sofà, in
un angolo, mostrava l'impercettibile impronta di un corpo, e,
arrotolata sotto il suo tavolo, trovai una coperta; qui e là altri
segni: lucido da scarpe e spazzola, un bacile, del sapone, uno
straccio di asciugamano; dentro un giornale, biscotti allo zenzero e un pezzo di formaggio. Così, pensai: "È evidente che
Bartleby si è piazzato qui, in una sistemazione da scapolo"
Immediatamente fui pervaso dal pensiero: "Che squallida solitudine, che isolamento, qui, sotto i miei occhi! Come è grande la sua povertà! E la sua solitudine? Che cosa orribile! Pensaci: di domenica Wall Street è più deserta di Petra, e la notte,
alla fine di ogni brulicante giornata, è il vuoto."
Per la prima volta in vita mia fui colto da una struggente malinconia. Prima di allora non avevo mai provato nulla del genere.
Una malinconia fraterna! Bartleby ed io: entrambi figli di Adamo.
All'improvviso fui attratto dalla scrivania chiusa di Bartleby,
con la chiave bene in mostra nella toppa. Non feci nulla di
male, soltanto soddisfare una curiosità. La scrivania, in fondo, era di mia proprietà e quindi anche il contenuto. Così presi coraggio e guardai dentro. Tutto era disposto in un ordine
metodico. Gli scomparti erano profondi e, spostando i fascicoli e le pratiche, tastai fino in fondo. Dopo un poco toccai qualcosa e la trassi fuori. Era un vecchio fazzoletto di cotone, pesante e annodato. Aprendolo capii che era il suo salvadanaio.
Ricordai allora i molti sommessi misteri che avevo notato in
lui: che parlava solo per rispondere; che non l'avevo mai visto
leggere neppure un giornale; che per lunghe ore restava in
piedi davanti alla sua finestra, a guardare quel muro cieco;
ero certo che non mettesse mai piede in una trattoria, e il suo
volto pallido indicava chiaramente che non beveva mai birra,
come Turkey, né tè o caffè, come tutti gli altri; che si era rifiutato di dirmi chi fosse, o da dove venisse, o se avesse parenti
al mondo; che, quantunque così scarno e pallido, mai aveva
egli lamentato una cattiva salute. E soprattutto ricordai quella sua certa aria, come dire, di inconsapevole, pallida, slavata
altezzosità, quasi un alone di austero riserbo, che mi aveva
intimorito fino a ridurmi ad accettare docilmente le sue stranezze.
Ripensando a tutte queste cose, e sommandole alle recenti
scoperte, e non dimenticando il suo carattere morbosamente suscettibile, prese a insinuarsi in me un sentimento di prudenza. Le mie prime emozioni erano state di pura malinconia
e compassione autentica; ma più l'idea della condizione disgraziata di Bartleby cresceva nella mia fantasia, più la malinconia si fondeva alla paura, e la compassione trascolorava in
un senso di repulsione
È così vero, e terribile, che l'impatto con la miseria genera i
nostri migliori sentimenti; ma, oltre un certo punto, poi, succede il contrario. Sbaglia chi dice che questo derivi inevitabilmente dall'egoismo innato del cuore degli uomini. Discende
piuttosto dall'impotenza a trovare rimedio a un male così
estremo. Per un essere sensibile la pietà è spesso sofferenza.
E quando poi si intuisce che la pietà non può tradursi in nessun soccorso efficace, il senso comune impone all'anima di
sbarazzarsene. Quanto vidi quella mattina mi convinse che lo
scrivano era vittima di un disordine incurabile. Avrei potuto
soccorrere forse il suo corpo, ma non era il suo corpo a soffrire: era la sua anima, e quella non potevo raggiungerla.
Per quel mattino rinunciai all'idea di andare in chiesa; in qualche modo me ne sentivo indegno. Camminai verso casa, pensando a cosa avrei fatto di Bartleby. Alla fine decisi così: l'indomani gli avrei posto qualche domanda pacata, sul suo passato eccetera eccetera, e se si fosse rifiutato di rispondere apertamente e senza riserve - e supposi che lui avrebbe preferito
di no - allora gli avrei dato una banconota da venti dollari, in
aggiunta a qualsiasi altra somma dovuta, dicendogli che i suoi
servizi non erano più richiesti, ma che, se avessi potuto aiutarlo in qualsiasi modo, sarei stato felice di farlo. Specie se avesse voluto tornare al suo paese, dovunque fosse: l'avrei aiutato volentieri a sostenere le spese di viaggio. E se poi, giunto a
casa, in qualunque momento si fosse trovato bisognoso d'aiuto, ogni sua lettera avrebbe avuto di certo risposta.
Venne il mattino dopo. "Bartleby," dissi rivolgendomi gentilmente a lui dietro il paravento. Nessuna risposta. "Bartleby"
dissi in tono ancor più gentile, "venite qui, non vi chiederò di
fare nulla che voi preferiate non fare ... Desidero solo parlarvi." Finalmente scivolò fuori in silenzio. "Vorreste dirmi, Bartleby, dove siete nato?" "Preferirei di no." "Non vorreste dirmi
niente di voi?" "Preferirei di no." "Ma quale ragionevole obiezione avete a non parlare? lo sono vostro amico." Non mi
guardava mentre parlavo, ma teneva lo sguardo fisso sul busto di Cicerone, dietro le mie spalle, a sei pollici circa sopra il
mio capo. "Cosa rispondete, Bartleby?" dissi, dopo un bel pezzo che aspettavo una risposta, mentre il suo viso si manteneva immobile, tranne un impercettibile tremore sulle labbra
pallide e sottili. "Al momento preferirei non rispondere" disse, e si ritirò.
Fu una mia debolezza, lo confesso, ma in quel momento i suoi
modi mi irritarono. Non soltanto trovavo che nascondessero,
per pacato che fosse, un certo disprezzo, ma la sua testardaggine rasentava l'ingratitudine, considerando l'indulgenza che
gli avevo riservato. Rimasi di nuovo seduto, rimuginando sul
da farsi, mortificato com'ero dai suoi modi.
Così spostai la mia sedia oltre il paravento, mi sedetti accanto
a lui e gli dissi: "Bartleby, non importa, se non volete raccontarmi la vostra storia; ma lasciate che vi supplichi, da amico, di
adeguarvi pià che potete alle abitudini di questo ufficio. Promettetemi che domani o in seguito darete una mano a controllare i documenti; insomma, ditemi che, prima o poi, comincerete ad essere un po' ragionevole... Dovete dirmelo,
Bartleby."
"Al momento preferirei non essere un po' ragionevole," fu la
smunta, mite risposta. In quell'esatto momento le porte pieghevoli s'aprirono e Nippers s'avvicinò. Sembrava risentire
degli effetti di una notte insolitamente agitata, prodotta da
una digestione peggiore del solito. Colse soltanto le parole
finali di Bartleby: "Preferirebbe di no, eh?" ringhiò Nippers.
"Glielo farei preferire io, signore; se fossi in voi," rivolto a me,
"gli darei tante di quelle preferenze, a quel mulo cocciuto!
Ma sentiamo, signore, cos'è che preferisce non fare, adesso?" Bartleby non batté ciglio. "Signor Nippers!" dissi io " preferirei che vi ritiraste, adesso."
In qualche modo, ultimamente mi capitava di usare l'espressione, "preferire", involontariamente, in ogni genere di circostanza. E tremai al pensiero che il contatto con lo scrivano
avesse già e seriamente compromesso il mio stato mentale.
Quali altre più profonde aberrazioni avrebbe potuto produrre? Mentre Nippers, acido e scontroso, se ne andava, arrivava Turkey con fare placido e ossequioso. "Con rispetto, signore," disse "ieri pensavo al nostro Bartleby e credo che se lui
soltanto preferisse bere un buon quarto di birra al giorno,
questo lo aiuterebbe a rimettersi in sesto, fino ad aiutarci a
controllare le copie." "Così, quella espressione è rimasta attaccata anche alla vostra di lingua," dissi eccitato.
"Con tutto il rispetto, signore, quale espressione?" chiese Turkey, entrando nel frattempo nello stretto spazio dietro il paravento e costringendomi a urtare lo scrivano.
"Preferirei essere lasciato solo" disse Bartleby, come offeso
per quella invasione nel suo angolo privato. "Ecco l'espressione, Turkey," dissi "quella!" "Ooh: "preferire"? Oh, sì..., strano
modo di dire, io non lo uso mai. Ma, signore, come stavo dicendo, se solo lui preferisse..." "Turkey!" lo interruppi "fuori!" "Oh, certamente, signore, se preferite." Mentre lui apriva
la porta pieghevole per ritirarsi, Nippers dal suo scrittoio gettò un'occhiata, e mi chiese se un certo documento preferissi
che fosse copiato su carta bianca o azzurra. Il suo "preferissi"
non aveva la minima intonazione maliziosa. Era evidente che
se lo era ritrovato, senza volerlo, sulla lingua. Dissi fra me:
"Devo assolutamente sbarazzarmi di quest'uomo dalla mente malata, che in qualche modo ha già alterato le nostre lingue, se non turbato i cervelli, a me e ai miei impiegati. Ritenni
però prudente non procedere al licenziamento all'istante.
Il giorno successivo notai che Bartleby non faceva nient'altro
che starsene in piedi alla finestra, perso nelle fantasticherie
ispirate dal muro cieco. Quando gli chiesi perché non scrivesse, rispose di aver deciso di non scrivere più. "Come, anche
questo adesso? Cos'altro?", esclamai. "Non vuole più neanche scrivere?" "No". "Per quale ragione?"
"Non capite da voi la ragione?" rispose lui con indifferenza.
Rimasi a guardarlo attento, e mi accorsi che i suoi occhi erano
vitrei e spenti. Mi venne subito in mente la sua impareggiabile diligenza nel copiare, lì, vicino alla finestra buia, forse durante le prime settimane di ufficio, aveva avuto un temporaneo
danno alla vista.
Ne fui commosso. Con qualche parola di rammarico, gli feci
intendere che faceva bene naturalmente ad astenersi per un
po' dallo scrivere; lo spinsi a cogliere quell'occasione per dedicarsi a qualche salutare attività all'aria aperta. Cosa che, tuttavia, egli non fece. Pochi giorni dopo, con gli altri impiegati assenti e una grande fretta di spedire alcune lettere, pensai
che, non avendo assolutamente altro da fare, Bartleby sarebbe certo stato meno irremovibile del solito e avrebbe portato
quelle lettere all'ufficio postale. Ma lui si rifiutò, decisamente, così che, con mio grande disagio, ci andai di persona.
Altri giorni ancora passarono. Se gli occhi di Bartleby migliorassero o meno, non avrei saputo dire. All'apparenza, avrei
detto di sì. Ma quando glielo chiesi, non mi degnò di una risposta. Comunque, non faceva più nessun lavoro. Alla fine, in risposta alle mie sollecitazioni, mi informò che aveva smesso di
copiare. Per sempre. "Come!" esclamai "supponiamo che i
vostri occhi guariscano del tutto, e tornino anche migliori di
prima: allora, non copiereste più?" "Ho smesso di copiare"
rispose, e scivolò via.
Rimase lì, come prima, fisso dentro il mio studio. Anzi, se possibile, divenne più che mai fisso. Che fare? Lui non voleva fare
nulla nell'ufficio: perché allora doveva stare lì? Per dirla schietta, era diventato una pietra al collo, un'inutile collare, e per
giunta greve da sopportare. Eppure mi faceva pena. Non esagero dicendo che mi metteva a disagio. Se appena avesse fatto il nome di un solo parente o un amico, gli avrei scritto immediatamente sollecitandolo a portare quel povero disgraziato in qualche posto adatto. Ma sembrava solo, assolutamente solo nell'intero universo. Un relitto nel mezzo dell'Atlantico. Il lavoro finì per travolgere ogni altra considerazione. Con
quanto tatto potei, dissi a Bartleby che, entro sei giorni, doveva lasciare il mio ufficio, che lo volesse o no. L'esortai a prendere nel frattempo precauzioni, in modo da procurarsi un altro tetto. Mi offrii di aiutarlo nella ricerca, purché compisse
lui il primo passo verso il trasloco. "E quando alla fine andrete, Bartleby," aggiunsi, "farò in modo che non ve ne andiate
sprovvisto di mezzi. Sei giorni. A partire da ora. Ricordatevene."
Trascorsi i sei giorni guardai dietro il paravento, ed ecco Bartleby: era ancora lì. Mi abbottonai la giacca, mi feci forza, avanzai verso di lui lentamente, gli toccai la spalla e dissi: "È giunto
il momento: dovete andarvene. Mi dispiace, eccovi il denaro,
ma dovete andarvene."
"Preferirei di no," replicò lui, tenendomi sempre le spalle voltate.
"Voi dovete andarvene."
Rimase in silenzio. Ora, io nutrivo una illimitata fiducia nella
sua onestà. Spesso mi aveva restituito degli spiccioli che, sbadatamente, avevo lasciato cadere. Quello che seguì, in quel
momento, non vi sembrerà dunque troppo strano.
"Bartleby" dissi "vi devo dodici dollari, è quanto vi spetta. Qui
ce ne sono trentadue. Anche gli altri venti sono vostri. Volete
prenderli?" e spinsi verso di lui le banconote. Ma lui non si
mosse. "Li lascio qui, allora" e ci misi sopra un fermacarte che
era sul tavolo. Presi il cappello e il bastone e avviandomi alla
porta, mi voltai e aggiunsi tranquillamente: "Dopo che avrete
portato via dall'ufficio le vostre cose, Bartleby, chiudete bene
la porta a chiave, e, vi prego, infilatela poi sotto lo zerbino,
ché io possa disporne domattina. Non vi vedrò mai più, perciò addio. Se, in futuro, nella vostra nuova casa, potrò esservi
mai di un qualche aiuto, non mancate di avvertirmi per lettera. Addio, Bartleby, e buona fortuna."
Ma egli non rispose, non una parola, e, come l'ultima colonna
di un tempio in rovina, rimase là in piedi muto e solitario, nel
bel mezzo della stanza per il resto deserta.
Mentre tornavo verso casa meditabondo, la mia vanità ebbe
la meglio sulla pietà. Non potei fare a meno di congratularmi
con me per il modo magistrale con cui ero riuscito a liberarmi
di Bartleby. Magistrale, dico, come dovrebbe apparire ad
ogni pensatore spassionato. La bellezza della mia tattica era
nella sua perfetta, tranquilla sobrietà. Nessuna arroganza o
volgarità, nessuna spacconata, nessun sopruso collerico, nessun andirivieni concitato per lo studio, sbottando in ordini
rabbiosi perché Bartleby facesse fagotto con le sue cianfrusaglie da straccione. Niente del genere. Senza alzar la voce per
ordinargli di andarsene - come forse avrebbe fatto un uomo
meno perspicace - partivo dal presupposto che doveva andarsene, e su quel presupposto si fondava tutto quello che avevo
da dire. Più pensavo al mio procedimento, più ne ero delizia-
to. Tuttavia, l'indomani al risveglio, avevo qualche dubbio:
col sonno erano svaniti i fumi di vanità. Uno dei momenti in
cui un uomo è più lucido e savio, è, appunto, quando si sveglia
al mattino. La mia tattica mi sembrava ancora sagace, ma solo in teoria. Il problema era cosa poi avrebbe dimostrato la
pratica. Era davvero una bella idea aver assunto che Bartleby
dovesse andarsene, ma, dopo tutto, questo assunto era soltanto mio, e non di Bartleby. Il vero problema non era tanto
che io presumessi che lui mi lasciasse, quanto se lui preferisse
farlo. Ed egli era uomo di preferenze, più che di presupposti.
Dopo colazione, mi avviai verso il centro, ragionando sulla
questione. In un momento pensavo che tutto si sarebbe rivelato un fallimento, e che avrei ritrovato Bartleby fisso nel mio
ufficio come al solito; un momento dopo, ero invece certo
che avrei trovato vuota la sua sedia. E mentre continuavo a
cambiare opinione, all'angolo tra Broadway e Canal Street vidi un gruppo di persone agitate, impegnate in un'accesa discussione. "Scommetto che non lo fa" disse una voce mentre
passavo. "Che non se ne va?" dissi io "D'accordo: fuori i soldi."
Stavo istintivamente mettendo mano alla tasca per tirar fuori
la mia posta, quando ricordai che quello era giorno di elezioni. Le parole che avevo udito non avevano alcun rapporto con
Bartleby, ma con il successo o l'insuccesso di un tizio candidato alla carica di sindaco. Assorto com'ero nei miei pensieri,
avevo immaginato, per così dire, che tutta Broadway condividesse il mio turbamento e dibattessero tutti il mio problema.
Li superai, grato che il frastuono della strada avesse nascosto
la mia momentanea distrazione.
Giunsi in ufficio prima del solito, come era mia intenzione.
Rimasi davanti alla porta ad ascoltare per qualche secondo.
Silenzio. Doveva essersene andato. Tentai di ruotare la maniglia. La porta era chiusa a chiave.
SÌ! La mia tattica aveva compiuto il miracolo: doveva essere
andato via davvero. Eppure quel pensiero si mischiava con
una nota di malinconia: ero quasi dispiaciuto per il mio brillante successo. Frugavo sotto lo zerbino in cerca della chiave che
Bartleby aveva certo lasciato, quando per caso il mio ginocchio urtò contro il battente, con un rumore sordo. Dall'interno mi giunse in risposta una voce: "Un momento, ora sono
occupato."
Era Bartleby. Ne fui folgorato. Per un istante rimasi là come
un uomo che, in un pomeriggio senza nubi, viene ucciso da un
fulmine estivo, con la pipa ancora in bocca.
"Ancora!" mormorai alla fine. Ma ancora una volta obbedendo a quello strano ascendente che aveva su di me l'imperscrutabile scrivano - al quale, non riuscivo a sottrarmi del tutto scesi piano le scale, uscii in strada e, mentre facevo il giro intorno all'isolato, soppesai il da farsi in quell'inaudito dilemma. Buttarlo fuori con la forza non potevo; trascinarlo via a
suon di insulti non mi s'addiceva; chiamare la polizia era un'
idea che non mi andava. Ma neppure lasciargli assaporare il
suo cadaverico trionfo su di me! Neanche questo potevo accettare. Cosa dovevo fare, dunque?
Decisi di tornare ancora a discutere con lui della questione.
"Bartleby" dissi, entrando nell'ufficio con espressione tranquilla ma ferma, "sono seriamente dispiaciuto. Sono addolorato, Bartleby. Di voi mi ero fatto un'opinione migliore. Avevo
creduto che foste una persona rispettosa, educata, alla quale, in qualsiasi difficoltà, sarebbe bastato appena un cenno…
Ma a quanto pare mi ingannavo. Come?" aggiunsi, in un sussulto di sincera sorpresa. "Non avete neppure toccato quel
denaro!" indicandoglielo esattamente là dove l'avevo lasciato la sera prima. Non rispose.
"Volete lasciarmi oppure no?", chiesi a questo punto con impeto improvviso, avvicinandomi a lui.
"Preferirei non lasciarla", rispose calcando leggermente sul
non. "Che diritto avete mai, voi, di restar qui? Pagate voi l'affitto? Pagate voi tasse? O questa casa vi appartiene?"
Non rispose nulla.
"Siete pronto, adesso, a continuare il lavoro? I vostri occhi
sono guariti? Potreste copiarmi un breve documento questa
mattina stessa? O aiutarmi a controllare qualche riga? O fare
un salto all'ufficio postale? In breve, farete una cosa qualsiasi
per giustificare il vostro rifiuto di lasciare l'ufficio?"
Silenziosamente lui si ritirò nel suo eremo.
Adesso mi trovavo in un tale stato di nervosismo e di rancore,
che ritenni prudente trattenermi per il momento dal dire altro. Io e Bartleby eravamo soli. Mi tornò in mente la tragica
fine del povero Adams e dell'ancora più sventurato Colt nell'
ufficio vuoto di quest'ultimo: come il povero Colt, portato da
Adams a un punto di esasperazione, si abbandonò a un furore selvaggio, trascinato a commettere senza esserne consapevole il suo gesto fatale, che nessuno avrebbe potuto deplorare più di lui stesso. Spesso, riflettendo su quel caso, mi è capitato di pensare che se il litigio avesse avuto luogo su una pubblica strada, non si sarebbe concluso come si concluse. Fu la
circostanza d'esser soli in un ufficio solitario, a inasprire la disperata collera dell'infelice Colt.
Ma, quando il vecchio rancore di Adams si affacciò in me per
spingermi contro Bartleby, per quanto mi tentasse, lo respinsi. A parte più nobili considerazioni, la carità spesso opera come un principio di grande saggezza e prudenza. Gli uomini
hanno commesso delitti per gelosia e per rabbia, per odio e
per egoismo, perfino per amor proprio; ma nessuno, nessuno di cui abbia mai sentito parlare, ha commesso un delitto
per dolce pietà! Ad ogni modo, nella circostanza in questione,
mi sforzai di soffocare i miei sentimenti esasperati verso lo
scrivano, interpretando con benevolenza la sua condotta:
"Poverino, poveruomo!" mi dissi, "lui non ha cattive intenzioni, e poi, ha attraversato brutti momenti, e bisogna avere pazienza!"
Mi sforzai anche di trovare subito qualcosa da fare e, nello
stesso tempo, di dare sollievo al mio sconforto. Cercai di cullarmi nella fantasia che, nel corso della mattinata, in un momento che gli fosse andato a genio, Bartleby, di sua spontanea volontà, sarebbe emerso dal suo cantuccio per imboccare con decisione la direzione della porta. Niente da fare. Venne la mezza; Turkey cominciò a irradiare luce dal volto, a rovesciare il calamaio, a farsi insofferente; Nippers si acquietò in
una cortese compostezza; Ginger Nut prese a rosicchiare la
mela del pranzo; Bartleby, in piedi davanti alla finestra, era
immerso in una delle sue più profonde fantasticherie sul muro cieco.
Lo si crederà? Dovrei ammetterlo? Quel pomeriggio lasciai
l'ufficio senza rivolgergli altra parola.
A poco a poco, grazie anche ad alcune salutari letture, s'insinuò nel mio animo la convinzione che i guai legati allo scrivano seguissero il disegno di un'eterna predestinazione, e che
Bartleby fosse stato inviato per qualche misterioso scopo da
una Provvidenza imperscrutabile per un semplice mortale come me.
"E sia, Bartleby: rimani dietro il tuo paravento" mi dissi. "Non
ti perseguiterò mai più. Sei innocuo e silenzioso come una di
queste vecchie seggiole e, a farla corta, mai mi sento mai così
solo come quando so che sei là dietro. Perlomeno, mi sembra
di vedere, di intuire lo scopo predestinato della mia vita. Può
bastarmi. Altri possono avere ruoli più nobili da recitare; ma
la mia missione in questo mondo, Bartleby, sta nell'offrirti
una stanza d'ufficio per tutto il tempo che tu riterrai opportuno rimanervi."
Penso che avrei perseverato in questa felice e saggia disposizione d'animo, se non avessero preso a pesarmi le osservazioni, non richieste e poco caritatevoli, fatte da colleghi che venivano nel mio ufficio. Accade spesso, del resto, che il ripetuto
contrasto con menti poco aperte finisca per dissolvere i migliori propositi degli spiriti più generosi. Anche se, a rifletterci,
non era affatto strano che, entrando nel mio ufficio, la gente
fosse colpita dal singolare aspetto dell'enigmatico Bartleby e
si lasciasse dunque andare a qualche maligna osservazione
sul suo conto. A volte un procuratore legale, con il quale conducevo affari in comune, capitava nel mio ufficio trovandovi
nessun altro che lo scrivano, dal quale tentava d'ottenere
qualche precisa informazione su dove io fossi. Ma Bartleby
restava del tutto indifferente alle sue domande, immobile, in
piedi al centro della stanza. Al procuratore, dopo averlo contemplato in quella posizione per qualche istante, non restava
che andarsene, senza aver saputo nulla di quel che voleva.
Oppure, quando era in corso un arbitrato e lo studio era affollato di avvocati e testimoni, e il lavoro si faceva pressante,
accadeva che qualcuno dei legali presenti, sommerso dalle
incombenze, vedendo Bartleby sfaccendato, gli chiedesse di
fare una corsa fino al suo ufficio per prendergli un qualche
documento. Al che Bartleby opponeva immancabilmente un
tranquillo rifiuto, rimanendo tuttavia nell'ozio più assoluto,
esattamente come prima. L'autore della richiesta, a questo
punto, non mancava di volgere verso di me uno sguardo interrogativo, sgranando gli occhi. Ma cosa mai potevo dire? Finii
per rendermi conto che, nella cerchia delle mie conoscenze
professionali, circolavano commenti a mezza bocca, piuttosto meravigliati, in ordine alla strana creatura ch'io tenevo
nel mio ufficio. Questo m'impensierì molto. E quando poi presero a farsi strada i pensieri che lo scrivano potesse vivere a
lungo e continuare ad occupare i miei locali senza riconoscere la mia autorità; e imbarazzare i miei visitatori; e screditare
la mia reputazione professionale; e gettare un'ombra sinistra
sul mio studio, mantenendosi in vita fino all'ultimo con i suoi
risparmi (giacché, non v'è dubbio, egli non spendeva più di
cinque centesimi al giorno), e finisse magari per sopravvivermi, avanzando anche pretese sulla proprietà del mio ufficio,
per diritto acquisito con la sua perpetua occupazione: quando tutti questi oscuri presagi s'affollarono ingigantendosi nella mia mente, già martellata senza sosta dagli implacabili commenti dei miei amici sullo spettro che ospitavo nella mia stanza, in me intervenne un grande mutamento. Decisi così di raccogliere tutte le mie forze, e liberarmi per sempre da quell'incubo insostenibile.
Tuttavia, prima di elaborare un qualche complicato progetto
adatto allo scopo, mi limitai a suggerire a Bartleby l'opportunità ch'egli se ne andasse per sempre. Con tono calmo e serio,
sottoposi l'idea alla sua attenta e matura considerazione.
Ma, dopo averla meditata per tre giorni, egli mi rese noto che
la sua decisione rimaneva inalterata; in breve, che ciò che preferiva era di restare ancora sotto il mio tetto.
"Cosa farò?" mi chiesi, abbottonandomi il pastrano fino all'ultimo bottone, "Cosa farò? Cosa dovrei fare? Cosa, secondo
coscienza, dovrei mai fare di quest'uomo, o piuttosto, di questo spettro? Avrei dovuto liberarmene, e andarsene in ogni
caso dovrà. Ma come? Caccerai tu quel pover'uomo pallido e
passivo, butterai fuori dalla porta una creatura così indifesa,
procurandoti disonore per tanta crudeltà? No, non posso farlo. Preferisco piuttosto ch'egli viva e muoia qui, per poi tumulare i suoi resti mortali in quel muro. Cosa farai, dunque? Per
quanto tu lo blandisca, non riuscirai a smuoverlo. Il denaro
che dovrebbe convincerlo egli lo lascia sotto il fermacarte, sul
tavolo; è chiaro, alla fine, che egli preferisca aggrapparsi a te."
"Allora occorrerà qualcosa di risolutivo, di fuori del comune.
Cosa? Non vorrai mica farlo mettere in catene da un poliziotto e affidare la sua smunta innocenza alla prigione comune?
E, poi, in base a cosa potresti ottenere un tale risultato? È
forse egli un vagabondo? Come!, un vagabondo, un errante,
lui che rifiuta di muoversi? È perché non è un vagabondo,
quindi, che tu cerchi di farlo passare per tale? È troppo assurdo. Privo di mezzi di sostentamento evidenti: ecco fatto, ecco
il motivo. No, ti sbagli di nuovo: ha di che sostentarsi, essendo
vivo, giacchè l'esser vivi è l'unica prova incontestabile di avere i mezzi per vivere. Allora? Dal momento che egli non se ne
va, sarò io, ad andarmene. Cambierò ufficio, mi trasferirò altrove, e gli dirò con estrema chiarezza che, se dovessi trovarlo
ancora nei miei nuovi locali, lo denuncerei per violazione di
dornicilio."
Agendo di conseguenza, l'indomani così mi rivolsi a lui: "Questi locali sono per me troppo lontani dal municipio; e l'aria è
insalubre. Insomma, ho intenzione di trasferire i miei uffici la
settimana prossima, e non avrò più bisogno dei vostri servigi.
Ve lo dico ora, onde voi possiate cercarvi un altro posto." Non
rispose nulla e null'altro fu detto. Nel giorno fissato, noleggiai
uomini e carri e mi recai nei miei uffici. Poiché il mobilio non
era molto, fu portato via in poche ore. Per tutto il tempo, lo
scrivano rimase in piedi dietro il suo paravento, che ordinai di
portare via per ultimo. Fu rimosso e, ripiegato come un enorme foglio, lasciò Bartleby immobile inquilino d'una nuda stanza. Mi fermai sull'uscio osservandolo per un attimo, mentre
4
il racconto
SABATO 31 AGOSTO
DOMENICA 1 SETTEMBRE 2013
conquiste del lavoro
po, Bartleby terminò la stesura di quattro copie di lunghissimi
atti dell'Alta Corte di equità. Era necessario esaminarli. Si trattava di documenti di una causa importante, da trattare con la
massima cura. Preparai tutto, chiamai dalla stanza accanto
Turkey, Nippers e Ginger Nut: quattro copie, quattro impiegati, io avrei letto l'originale. Turkey, Nippers e Ginger Nut erano già seduti in una fila, ciascuno con la sua copia, quando
chiamai Bartleby perché si unisse a questo bel gruppetto.
"Bartleby! Forza, stiamo aspettando."
Si udì il lento stridere della sua sedia sul pavimento nudo, ed
egli apparve, impalato all'imbocco del suo eremo. "Cosa serve?" chiese mansueto. "Le copie, le copie," risposi in fretta
"dobbiamo confrontarle. Ecco..." porgendogli intanto la quarta copia.
"Preferirei di no," disse, e se ne scivolò dietro il suo paravento.
Per un istante rimasi di sale, lì, a capo della mia colonna di
impiegati. Mi ripresi, andai verso il paravento e gli chiesi ragione dell'inconsueta condotta:
"Ditemi: perché rifiutate?"
"Preferirei di no."
Con chiunque altro sarei andato su tutte le furie, e senza scrupoli l'avrei cacciato via. Ma c'era qualcosa in Bartleby che,
stranamente, mi disarmava, e cercai di ragionare con lui:
"Queste sono le vostre copie, dobbiamo controllarle. Si risparmia fatica a controllarle tutte insieme. È così che si fa. Ogni
copista controlla la sua copia. Non è così? Non dite niente?
Rispondete!"
"Preferirei di no," rispose con voce soave. Mi sembrò che,
mentre parlavo, egli soppesasse ogni mia parola e ne comprendesse il senso perfettamente, ma poi qualche imperscrutabile motivo lo costringesse a rispondere in quel modo.
"Così non obbedirete alla mia richiesta…, una richiesta conforme al comune buon senso?" Mi lasciò intendere brevemente
che, su questo, le mie conclusioni erano esatte: sì, la sua decisione era irrevocabile. Spesso accade che, se si è contrariati in
modo insolito, sentiamo vacillare le nostre convinzioni più
elementari. In quel caso, se ci sono persone neutrali, ci si rivolge a queste alla ricerca di un sostegno per i nostri pensieri
dubbiosi. "Turkey," chiesi, "che ne pensate voi? Ho ragione o
no?" "Con tutto il rispetto, signore," disse Turkey con calma,
"penso di sì." "Nippers," dissi, "voi cosa ne pensate?" "Penso
che lo caccerei fuori a calci." (Avrete certo notato che, essendo mattina, la risposta di Turkey è pacata, mentre Nippers
risponde di malumore.)
"Ginger Nut," dissi, ansioso di raccogliere anche il minimo
commento a mio favore "tu? Che ne pensi?"
"Io? Signore? Per me quel tizio è un po' sfasato" rispose Ginger Nut ghignando.
"Sentito?" dissi rivolto al paravento, " dunque venite fuori a
fare il vostro dovere." Non mi degnò di una risposta. Meditai
per un momento perplesso, ma, ancora una volta, eravamo
in urgenza, e, ancora una volta rinviai la questione a un momento di maggior calma. Con qualche difficoltà controllammo le copie senza Bartleby; anche se Turkey sosteneva continuamente che questo modo di procedere fosse del tutto inusuale; mentre Nippers s'agitava sulla sedia in preda alla sua
dispepsia nervosa, sibilando maledizioni a denti stretti in direzione dell'imbecille dietro il paravento.
Trascorsero giorni, in cui lo scrivano fu impegnato in un altro
lungo lavoro. La sua condotta insolita mi spinse a osservarlo
con attenzione. Notai che non usciva mai a pranzo, anzi, non
usciva mai in assoluto. Era come una sentinella: fissa al suo
posto. Osservai che verso le undici, ogni mattina, come chiamato da un gesto invisibile, Ginger Nut si affacciava al paravento di Bartleby, poi il ragazzo usciva dall'ufficio facendo tintinnare qualche moneta, e ricompariva con una manciata di
biscotti allo zenzero, che portava all'eremo, ricevendone un
paio per ricompensa.
"Allora è di biscotti che vive," pensai, "non fa mai un vero
pranzo: forse è vegetariano. Ma no, neanche, mangia solo biscotti allo zenzero." E mi perdevo allora in fantasticherie sull'
organismo umano, e sugli effetti di vivere solo di biscotti allo
zenzero. Dunque: i biscotti sono allo zenzero. Ora, cos'è lo
zenzero? Una spezia piccante. Bartleby è piccante? Per niente. Lo zenzero, dunque, non aveva effetti su Bartleby. Probabilmente egli preferiva che non ne avesse. Nulla esaspera una
persona seria quanto la resistenza passiva.
Così pensavo a Bartleby e ai suoi modi: "Poveraccio, non è
malvagio; è chiaro: non vuole essere insolente; basta guardarlo per capire che la sua eccentricità è involontaria; mi è utile,
e posso andarci d'accordo. Se lo mando via, può capitare con
un capo meno indulgente; sarà trattato male. Rischia addirittura di morir di fame. Andare incontro a Bartleby, assecondarlo nelle sue stramberie, ecco, sì, posso compiacermi a poco
prezzo di una buona coscienza." Ma non ero sempre in questo stato d'animo. La passività di Bartleby a volte m'irritava.
Un pomeriggio, un impulso malvagio ebbe su di me il sopravvento, e ne nacque la seguente scena:
"Bartleby," dissi, "quando avrete finito di copiare quei documenti, vorrei esaminarli con voi."
"Preferirei di no."
"Come? Non vorrete certo intestardirvi con questi capricci!?"
Nessuna risposta.
Spalancate le porte pieghevoli, esclamai a Turkey e Nippers:
"Bartleby, per la seconda volta dice che non esaminerà le sue
copie. Che ne pensate, Turkey?"
(Era pomeriggio, ricordatevene.)
Turkey sedeva, bollente come una caldaia di rame; le sue mani raspavano tra i documenti macchiati: "Cosa ne penso?" ruggì "Penso che ora vado là dietro e gli faccio due occhi neri!" e
così dicendo si alzò in piedi e si mise in posizione da pugile. Lo
trattenni, spaventato dalle conseguenze di aver incautamente risvegliato la sua pomeridiana bellicosità.
"Sedetevi, Turkey" dissi, "sentiamo cosa ha da dire Nippers.
Che ne pensate, Nippers? Avrei motivo di licenziare Bartleby
all'istante?"
"Chiedo scusa, signore, ma sta a voi decidere. Penso che la
sua condotta sia piuttosto insolita, è vero, e anche ingiusta
nei confronti miei e di Turkey. Ma forse è soltanto un capriccio passeggero."
"Ah!" esclamai, "quanta indulgenza! Avete stranamente cambiato parere!"
"È la birra" gridò Turkey, "la sua comprensione è effetto della
birra... Nippers ed io abbiamo oggi pranzato assieme. Guardate quanto sono benevolo io! Vado a fargli due occhi neri!?"
"No, non oggi, Turkey" risposi "abbassate quei pugni."
Chiusi le porte e mi avvicinai di nuovo a Bartleby. Mi sentivo
ancora più pungolato a sfidare la sorte e volevo che mi opponesse ancora un rifiuto. Mi ricordai che egli non lasciava mai
l'ufficio.
"Bartleby," dissi, "Ginger Nut è fuori, fate un salto all'ufficio
postale, per favore (erano solo tre minuti di strada), a vedere
se c'è qualcosa per me."
"Preferirei di no."
"Non volete andarci?" "Preferisco di no."
Barcollai alla mia scrivania, e precipitai in meditazione profonda. Potevo espormi a un altro ignominioso rifiuto da parte di
quel disgraziato? Da un mio dipendente? Quale altra richiesta perfettamente ragionevole avrebbe ancora rifiutato?
"Bartleby!"
Nessuna risposta.
"BARTLEBY!" con voce più alta. Nessuna risposta. "BARTLEBY!" ruggii.
Come uno spettro evocato, al terzo richiamo egli apparve sulla soglia del suo eremo.
"Andate a dire a Nippers di venire da me."
"Preferirei di no." Lo disse piano, in tono rispettoso, poi, lievemente, svanì.
"Molto bene, Bartleby" dissi con un tono serenamente severo, che suggerisse la ferma intenzione di castigo tremendo. E
in quel momento era così, ma…, tutto sommato…, era quasi
ora di cena, pensai con la mente turbata… meglio andarsene
a casa!
Devo confessarlo? La conclusione della faccenda fu che nel
mio ufficio - c ormai era un dato assodato - c'era uno scrivano,
quello giovane e pallido di nome Bartleby, che aveva la sua
scrivania, copiava per me a quattro centesimi a foglio ed era
esentato, permanentemente, dal controllare gli atti, essendo
tale compito demandato a Turkey e Nippers, ovviamente in
omaggio alla loro superiore capacità; inoltre, detto Bartleby,
non doveva mai, per alcun motivo, essere inviato a sbrigare la
commissione più insignificante, di qualsiasi genere; e che, anche se supplicato, fosse ormai generalmente noto che lui
"avrebbe preferito di no": o, in altre termini, che egli si sarebbe rifiutato, punto e basta.
Col passare dei giorni, però, mi riconciliai con Bartleby: la sua
perseveranza, l'industriosità senza risparmio, l'assenza di vizi, la tranquillità e la compostezza inscalfibili in qualsiasi circostanza, lo rendevano un acquisto prezioso. Ecco la sua qualità
principale: egli era sempre là, al mattino era il primo, ininterrottamente per tutto il giorno, e ultimo alla sera. Avevo una
fiducia assoluta nella sua onestà. Sapevo che i miei documenti più preziosi con lui erano al sicuro. A volte, nella fretta di
sbrigare qualche pratica urgente, senza accorgermene lo chiamavo, poniamo, a mettere un dito su un pezzo di nastro rosso
con cui rilegare alcune carte. Ovviamente, da dietro il paravento arrivava il solito: "Preferirei di no", e allora, ogni nuovo
rifiuto diminuiva le probabilità di commettere di nuovo l'errore.
Come era consuetudine di quasi tutti gli studi di avvocati, anche per la porta del mio esistevano molte chiavi. Una l'aveva
la donna che lavava i pavimenti. Un'altra l'aveva Turkey, per
comodità. La terza la portavo a volte con me. La quarta non
sapevo chi l'avesse.
Ora, una domenica mattina, mi accadde di andare alla Trinity
Church, per ascoltare un celebre predicatore, e mi trovai da
quelle parti piuttosto in anticipo, così pensai di fare una passeggiata fino in ufficio. Fortunatamente avevo con me la mia
chiave, ma, quando la infilai nella serratura, mi accorsi che
non apriva: qualcosa la bloccava da dentro. Ne fui sorpreso, e
presi a chiamare; quando, con mia costernazione, una chiave
girò dall'interno; e, dalla porta socchiusa, spuntò Bartleby,
smunto e in maniche di camicia. Disse con calma che gli dispiaceva, ma che al momento era proprio occupato e... , per adesso, preferiva non farmi entrare.
E aggiunse poche altre parole: per consigliarmi di fare il giro
dell'isolato un paio volte, ché in in quel tempo avrebbe probabilmente concluso le sue faccende. Ora, la circostanza assolutamente inattesa che Bartleby occupasse il mio ufficio di domenica mattina, insieme a quella sua nonchalance educata e
cadaverica, ma nel contempo risoluta e padrona, ebbe su di
me un effetto piuttosto bizzarro: sgattaiolai via, dalla mia porta, e feci come richiesto. Non senza fremiti di ribellione contro la mite sfrontatezza di quell'indecifrabile scrivano. Era infatti soprattutto la sua stupefacente docilità che non solo mi
disarmava, ma mi rendeva, come dire, impotente. Come altro definire chi permette tranquillamente a un suo dipendente di dargli ordini e di mandarlo via dal suo stesso ufficio? Senza contare l'inquietudine: mi chiedevo cosa mai potesse fare
Bartleby nei miei uffici, in maniche di camicia, in condizioni
impresentabili, di domenica mattina. C'era qualcosa di losco?
No, era fuori questione. Neppure per un momento si poteva
pensare che Bartleby fosse una persona immorale. Ma allora
cosa ci faceva lì? Non ero tranquillo, e, preso dalla curiosità,
finalmente tornai alla porta, inserii la chiave, senza trovare
ostacoli, la aprii, ed entrai. Bartleby non c'era più.
Guardai attorno, sbirciai dietro il paravento, ma se n'era proprio andato. Ad un esame più attento capii che chissà da quanto Bartleby mangiava, dormiva e si vestiva nel mio ufficio; e
senza un piatto, un letto, o uno specchio. Un vecchio sofà, in
un angolo, mostrava l'impercettibile impronta di un corpo, e,
arrotolata sotto il suo tavolo, trovai una coperta; qui e là altri
segni: lucido da scarpe e spazzola, un bacile, del sapone, uno
straccio di asciugamano; dentro un giornale, biscotti allo zenzero e un pezzo di formaggio. Così, pensai: "È evidente che
Bartleby si è piazzato qui, in una sistemazione da scapolo"
Immediatamente fui pervaso dal pensiero: "Che squallida solitudine, che isolamento, qui, sotto i miei occhi! Come è grande la sua povertà! E la sua solitudine? Che cosa orribile! Pensaci: di domenica Wall Street è più deserta di Petra, e la notte,
alla fine di ogni brulicante giornata, è il vuoto."
Per la prima volta in vita mia fui colto da una struggente malinconia. Prima di allora non avevo mai provato nulla del genere.
Una malinconia fraterna! Bartleby ed io: entrambi figli di Adamo.
All'improvviso fui attratto dalla scrivania chiusa di Bartleby,
con la chiave bene in mostra nella toppa. Non feci nulla di
male, soltanto soddisfare una curiosità. La scrivania, in fondo, era di mia proprietà e quindi anche il contenuto. Così presi coraggio e guardai dentro. Tutto era disposto in un ordine
metodico. Gli scomparti erano profondi e, spostando i fascicoli e le pratiche, tastai fino in fondo. Dopo un poco toccai qualcosa e la trassi fuori. Era un vecchio fazzoletto di cotone, pesante e annodato. Aprendolo capii che era il suo salvadanaio.
Ricordai allora i molti sommessi misteri che avevo notato in
lui: che parlava solo per rispondere; che non l'avevo mai visto
leggere neppure un giornale; che per lunghe ore restava in
piedi davanti alla sua finestra, a guardare quel muro cieco;
ero certo che non mettesse mai piede in una trattoria, e il suo
volto pallido indicava chiaramente che non beveva mai birra,
come Turkey, né tè o caffè, come tutti gli altri; che si era rifiutato di dirmi chi fosse, o da dove venisse, o se avesse parenti
al mondo; che, quantunque così scarno e pallido, mai aveva
egli lamentato una cattiva salute. E soprattutto ricordai quella sua certa aria, come dire, di inconsapevole, pallida, slavata
altezzosità, quasi un alone di austero riserbo, che mi aveva
intimorito fino a ridurmi ad accettare docilmente le sue stranezze.
Ripensando a tutte queste cose, e sommandole alle recenti
scoperte, e non dimenticando il suo carattere morbosamente suscettibile, prese a insinuarsi in me un sentimento di prudenza. Le mie prime emozioni erano state di pura malinconia
e compassione autentica; ma più l'idea della condizione disgraziata di Bartleby cresceva nella mia fantasia, più la malinconia si fondeva alla paura, e la compassione trascolorava in
un senso di repulsione
È così vero, e terribile, che l'impatto con la miseria genera i
nostri migliori sentimenti; ma, oltre un certo punto, poi, succede il contrario. Sbaglia chi dice che questo derivi inevitabilmente dall'egoismo innato del cuore degli uomini. Discende
piuttosto dall'impotenza a trovare rimedio a un male così
estremo. Per un essere sensibile la pietà è spesso sofferenza.
E quando poi si intuisce che la pietà non può tradursi in nessun soccorso efficace, il senso comune impone all'anima di
sbarazzarsene. Quanto vidi quella mattina mi convinse che lo
scrivano era vittima di un disordine incurabile. Avrei potuto
soccorrere forse il suo corpo, ma non era il suo corpo a soffrire: era la sua anima, e quella non potevo raggiungerla.
Per quel mattino rinunciai all'idea di andare in chiesa; in qualche modo me ne sentivo indegno. Camminai verso casa, pensando a cosa avrei fatto di Bartleby. Alla fine decisi così: l'indomani gli avrei posto qualche domanda pacata, sul suo passato eccetera eccetera, e se si fosse rifiutato di rispondere apertamente e senza riserve - e supposi che lui avrebbe preferito
di no - allora gli avrei dato una banconota da venti dollari, in
aggiunta a qualsiasi altra somma dovuta, dicendogli che i suoi
servizi non erano più richiesti, ma che, se avessi potuto aiutarlo in qualsiasi modo, sarei stato felice di farlo. Specie se avesse voluto tornare al suo paese, dovunque fosse: l'avrei aiutato volentieri a sostenere le spese di viaggio. E se poi, giunto a
casa, in qualunque momento si fosse trovato bisognoso d'aiuto, ogni sua lettera avrebbe avuto di certo risposta.
Venne il mattino dopo. "Bartleby," dissi rivolgendomi gentilmente a lui dietro il paravento. Nessuna risposta. "Bartleby"
dissi in tono ancor più gentile, "venite qui, non vi chiederò di
fare nulla che voi preferiate non fare ... Desidero solo parlarvi." Finalmente scivolò fuori in silenzio. "Vorreste dirmi, Bartleby, dove siete nato?" "Preferirei di no." "Non vorreste dirmi
niente di voi?" "Preferirei di no." "Ma quale ragionevole obiezione avete a non parlare? lo sono vostro amico." Non mi
guardava mentre parlavo, ma teneva lo sguardo fisso sul busto di Cicerone, dietro le mie spalle, a sei pollici circa sopra il
mio capo. "Cosa rispondete, Bartleby?" dissi, dopo un bel pezzo che aspettavo una risposta, mentre il suo viso si manteneva immobile, tranne un impercettibile tremore sulle labbra
pallide e sottili. "Al momento preferirei non rispondere" disse, e si ritirò.
Fu una mia debolezza, lo confesso, ma in quel momento i suoi
modi mi irritarono. Non soltanto trovavo che nascondessero,
per pacato che fosse, un certo disprezzo, ma la sua testardaggine rasentava l'ingratitudine, considerando l'indulgenza che
gli avevo riservato. Rimasi di nuovo seduto, rimuginando sul
da farsi, mortificato com'ero dai suoi modi.
Così spostai la mia sedia oltre il paravento, mi sedetti accanto
a lui e gli dissi: "Bartleby, non importa, se non volete raccontarmi la vostra storia; ma lasciate che vi supplichi, da amico, di
adeguarvi pià che potete alle abitudini di questo ufficio. Promettetemi che domani o in seguito darete una mano a controllare i documenti; insomma, ditemi che, prima o poi, comincerete ad essere un po' ragionevole... Dovete dirmelo,
Bartleby."
"Al momento preferirei non essere un po' ragionevole," fu la
smunta, mite risposta. In quell'esatto momento le porte pieghevoli s'aprirono e Nippers s'avvicinò. Sembrava risentire
degli effetti di una notte insolitamente agitata, prodotta da
una digestione peggiore del solito. Colse soltanto le parole
finali di Bartleby: "Preferirebbe di no, eh?" ringhiò Nippers.
"Glielo farei preferire io, signore; se fossi in voi," rivolto a me,
"gli darei tante di quelle preferenze, a quel mulo cocciuto!
Ma sentiamo, signore, cos'è che preferisce non fare, adesso?" Bartleby non batté ciglio. "Signor Nippers!" dissi io " preferirei che vi ritiraste, adesso."
In qualche modo, ultimamente mi capitava di usare l'espressione, "preferire", involontariamente, in ogni genere di circostanza. E tremai al pensiero che il contatto con lo scrivano
avesse già e seriamente compromesso il mio stato mentale.
Quali altre più profonde aberrazioni avrebbe potuto produrre? Mentre Nippers, acido e scontroso, se ne andava, arrivava Turkey con fare placido e ossequioso. "Con rispetto, signore," disse "ieri pensavo al nostro Bartleby e credo che se lui
soltanto preferisse bere un buon quarto di birra al giorno,
questo lo aiuterebbe a rimettersi in sesto, fino ad aiutarci a
controllare le copie." "Così, quella espressione è rimasta attaccata anche alla vostra di lingua," dissi eccitato.
"Con tutto il rispetto, signore, quale espressione?" chiese Turkey, entrando nel frattempo nello stretto spazio dietro il paravento e costringendomi a urtare lo scrivano.
"Preferirei essere lasciato solo" disse Bartleby, come offeso
per quella invasione nel suo angolo privato. "Ecco l'espressione, Turkey," dissi "quella!" "Ooh: "preferire"? Oh, sì..., strano
modo di dire, io non lo uso mai. Ma, signore, come stavo dicendo, se solo lui preferisse..." "Turkey!" lo interruppi "fuori!" "Oh, certamente, signore, se preferite." Mentre lui apriva
la porta pieghevole per ritirarsi, Nippers dal suo scrittoio gettò un'occhiata, e mi chiese se un certo documento preferissi
che fosse copiato su carta bianca o azzurra. Il suo "preferissi"
non aveva la minima intonazione maliziosa. Era evidente che
se lo era ritrovato, senza volerlo, sulla lingua. Dissi fra me:
"Devo assolutamente sbarazzarmi di quest'uomo dalla mente malata, che in qualche modo ha già alterato le nostre lingue, se non turbato i cervelli, a me e ai miei impiegati. Ritenni
però prudente non procedere al licenziamento all'istante.
Il giorno successivo notai che Bartleby non faceva nient'altro
che starsene in piedi alla finestra, perso nelle fantasticherie
ispirate dal muro cieco. Quando gli chiesi perché non scrivesse, rispose di aver deciso di non scrivere più. "Come, anche
questo adesso? Cos'altro?", esclamai. "Non vuole più neanche scrivere?" "No". "Per quale ragione?"
"Non capite da voi la ragione?" rispose lui con indifferenza.
Rimasi a guardarlo attento, e mi accorsi che i suoi occhi erano
vitrei e spenti. Mi venne subito in mente la sua impareggiabile diligenza nel copiare, lì, vicino alla finestra buia, forse durante le prime settimane di ufficio, aveva avuto un temporaneo
danno alla vista.
Ne fui commosso. Con qualche parola di rammarico, gli feci
intendere che faceva bene naturalmente ad astenersi per un
po' dallo scrivere; lo spinsi a cogliere quell'occasione per dedicarsi a qualche salutare attività all'aria aperta. Cosa che, tuttavia, egli non fece. Pochi giorni dopo, con gli altri impiegati assenti e una grande fretta di spedire alcune lettere, pensai
che, non avendo assolutamente altro da fare, Bartleby sarebbe certo stato meno irremovibile del solito e avrebbe portato
quelle lettere all'ufficio postale. Ma lui si rifiutò, decisamente, così che, con mio grande disagio, ci andai di persona.
Altri giorni ancora passarono. Se gli occhi di Bartleby migliorassero o meno, non avrei saputo dire. All'apparenza, avrei
detto di sì. Ma quando glielo chiesi, non mi degnò di una risposta. Comunque, non faceva più nessun lavoro. Alla fine, in risposta alle mie sollecitazioni, mi informò che aveva smesso di
copiare. Per sempre. "Come!" esclamai "supponiamo che i
vostri occhi guariscano del tutto, e tornino anche migliori di
prima: allora, non copiereste più?" "Ho smesso di copiare"
rispose, e scivolò via.
Rimase lì, come prima, fisso dentro il mio studio. Anzi, se possibile, divenne più che mai fisso. Che fare? Lui non voleva fare
nulla nell'ufficio: perché allora doveva stare lì? Per dirla schietta, era diventato una pietra al collo, un'inutile collare, e per
giunta greve da sopportare. Eppure mi faceva pena. Non esagero dicendo che mi metteva a disagio. Se appena avesse fatto il nome di un solo parente o un amico, gli avrei scritto immediatamente sollecitandolo a portare quel povero disgraziato in qualche posto adatto. Ma sembrava solo, assolutamente solo nell'intero universo. Un relitto nel mezzo dell'Atlantico. Il lavoro finì per travolgere ogni altra considerazione. Con
quanto tatto potei, dissi a Bartleby che, entro sei giorni, doveva lasciare il mio ufficio, che lo volesse o no. L'esortai a prendere nel frattempo precauzioni, in modo da procurarsi un altro tetto. Mi offrii di aiutarlo nella ricerca, purché compisse
lui il primo passo verso il trasloco. "E quando alla fine andrete, Bartleby," aggiunsi, "farò in modo che non ve ne andiate
sprovvisto di mezzi. Sei giorni. A partire da ora. Ricordatevene."
Trascorsi i sei giorni guardai dietro il paravento, ed ecco Bartleby: era ancora lì. Mi abbottonai la giacca, mi feci forza, avanzai verso di lui lentamente, gli toccai la spalla e dissi: "È giunto
il momento: dovete andarvene. Mi dispiace, eccovi il denaro,
ma dovete andarvene."
"Preferirei di no," replicò lui, tenendomi sempre le spalle voltate.
"Voi dovete andarvene."
Rimase in silenzio. Ora, io nutrivo una illimitata fiducia nella
sua onestà. Spesso mi aveva restituito degli spiccioli che, sbadatamente, avevo lasciato cadere. Quello che seguì, in quel
momento, non vi sembrerà dunque troppo strano.
"Bartleby" dissi "vi devo dodici dollari, è quanto vi spetta. Qui
ce ne sono trentadue. Anche gli altri venti sono vostri. Volete
prenderli?" e spinsi verso di lui le banconote. Ma lui non si
mosse. "Li lascio qui, allora" e ci misi sopra un fermacarte che
era sul tavolo. Presi il cappello e il bastone e avviandomi alla
porta, mi voltai e aggiunsi tranquillamente: "Dopo che avrete
portato via dall'ufficio le vostre cose, Bartleby, chiudete bene
la porta a chiave, e, vi prego, infilatela poi sotto lo zerbino,
ché io possa disporne domattina. Non vi vedrò mai più, perciò addio. Se, in futuro, nella vostra nuova casa, potrò esservi
mai di un qualche aiuto, non mancate di avvertirmi per lettera. Addio, Bartleby, e buona fortuna."
Ma egli non rispose, non una parola, e, come l'ultima colonna
di un tempio in rovina, rimase là in piedi muto e solitario, nel
bel mezzo della stanza per il resto deserta.
Mentre tornavo verso casa meditabondo, la mia vanità ebbe
la meglio sulla pietà. Non potei fare a meno di congratularmi
con me per il modo magistrale con cui ero riuscito a liberarmi
di Bartleby. Magistrale, dico, come dovrebbe apparire ad
ogni pensatore spassionato. La bellezza della mia tattica era
nella sua perfetta, tranquilla sobrietà. Nessuna arroganza o
volgarità, nessuna spacconata, nessun sopruso collerico, nessun andirivieni concitato per lo studio, sbottando in ordini
rabbiosi perché Bartleby facesse fagotto con le sue cianfrusaglie da straccione. Niente del genere. Senza alzar la voce per
ordinargli di andarsene - come forse avrebbe fatto un uomo
meno perspicace - partivo dal presupposto che doveva andarsene, e su quel presupposto si fondava tutto quello che avevo
da dire. Più pensavo al mio procedimento, più ne ero delizia-
to. Tuttavia, l'indomani al risveglio, avevo qualche dubbio:
col sonno erano svaniti i fumi di vanità. Uno dei momenti in
cui un uomo è più lucido e savio, è, appunto, quando si sveglia
al mattino. La mia tattica mi sembrava ancora sagace, ma solo in teoria. Il problema era cosa poi avrebbe dimostrato la
pratica. Era davvero una bella idea aver assunto che Bartleby
dovesse andarsene, ma, dopo tutto, questo assunto era soltanto mio, e non di Bartleby. Il vero problema non era tanto
che io presumessi che lui mi lasciasse, quanto se lui preferisse
farlo. Ed egli era uomo di preferenze, più che di presupposti.
Dopo colazione, mi avviai verso il centro, ragionando sulla
questione. In un momento pensavo che tutto si sarebbe rivelato un fallimento, e che avrei ritrovato Bartleby fisso nel mio
ufficio come al solito; un momento dopo, ero invece certo
che avrei trovato vuota la sua sedia. E mentre continuavo a
cambiare opinione, all'angolo tra Broadway e Canal Street vidi un gruppo di persone agitate, impegnate in un'accesa discussione. "Scommetto che non lo fa" disse una voce mentre
passavo. "Che non se ne va?" dissi io "D'accordo: fuori i soldi."
Stavo istintivamente mettendo mano alla tasca per tirar fuori
la mia posta, quando ricordai che quello era giorno di elezioni. Le parole che avevo udito non avevano alcun rapporto con
Bartleby, ma con il successo o l'insuccesso di un tizio candidato alla carica di sindaco. Assorto com'ero nei miei pensieri,
avevo immaginato, per così dire, che tutta Broadway condividesse il mio turbamento e dibattessero tutti il mio problema.
Li superai, grato che il frastuono della strada avesse nascosto
la mia momentanea distrazione.
Giunsi in ufficio prima del solito, come era mia intenzione.
Rimasi davanti alla porta ad ascoltare per qualche secondo.
Silenzio. Doveva essersene andato. Tentai di ruotare la maniglia. La porta era chiusa a chiave.
SÌ! La mia tattica aveva compiuto il miracolo: doveva essere
andato via davvero. Eppure quel pensiero si mischiava con
una nota di malinconia: ero quasi dispiaciuto per il mio brillante successo. Frugavo sotto lo zerbino in cerca della chiave che
Bartleby aveva certo lasciato, quando per caso il mio ginocchio urtò contro il battente, con un rumore sordo. Dall'interno mi giunse in risposta una voce: "Un momento, ora sono
occupato."
Era Bartleby. Ne fui folgorato. Per un istante rimasi là come
un uomo che, in un pomeriggio senza nubi, viene ucciso da un
fulmine estivo, con la pipa ancora in bocca.
"Ancora!" mormorai alla fine. Ma ancora una volta obbedendo a quello strano ascendente che aveva su di me l'imperscrutabile scrivano - al quale, non riuscivo a sottrarmi del tutto scesi piano le scale, uscii in strada e, mentre facevo il giro intorno all'isolato, soppesai il da farsi in quell'inaudito dilemma. Buttarlo fuori con la forza non potevo; trascinarlo via a
suon di insulti non mi s'addiceva; chiamare la polizia era un'
idea che non mi andava. Ma neppure lasciargli assaporare il
suo cadaverico trionfo su di me! Neanche questo potevo accettare. Cosa dovevo fare, dunque?
Decisi di tornare ancora a discutere con lui della questione.
"Bartleby" dissi, entrando nell'ufficio con espressione tranquilla ma ferma, "sono seriamente dispiaciuto. Sono addolorato, Bartleby. Di voi mi ero fatto un'opinione migliore. Avevo
creduto che foste una persona rispettosa, educata, alla quale, in qualsiasi difficoltà, sarebbe bastato appena un cenno…
Ma a quanto pare mi ingannavo. Come?" aggiunsi, in un sussulto di sincera sorpresa. "Non avete neppure toccato quel
denaro!" indicandoglielo esattamente là dove l'avevo lasciato la sera prima. Non rispose.
"Volete lasciarmi oppure no?", chiesi a questo punto con impeto improvviso, avvicinandomi a lui.
"Preferirei non lasciarla", rispose calcando leggermente sul
non. "Che diritto avete mai, voi, di restar qui? Pagate voi l'affitto? Pagate voi tasse? O questa casa vi appartiene?"
Non rispose nulla.
"Siete pronto, adesso, a continuare il lavoro? I vostri occhi
sono guariti? Potreste copiarmi un breve documento questa
mattina stessa? O aiutarmi a controllare qualche riga? O fare
un salto all'ufficio postale? In breve, farete una cosa qualsiasi
per giustificare il vostro rifiuto di lasciare l'ufficio?"
Silenziosamente lui si ritirò nel suo eremo.
Adesso mi trovavo in un tale stato di nervosismo e di rancore,
che ritenni prudente trattenermi per il momento dal dire altro. Io e Bartleby eravamo soli. Mi tornò in mente la tragica
fine del povero Adams e dell'ancora più sventurato Colt nell'
ufficio vuoto di quest'ultimo: come il povero Colt, portato da
Adams a un punto di esasperazione, si abbandonò a un furore selvaggio, trascinato a commettere senza esserne consapevole il suo gesto fatale, che nessuno avrebbe potuto deplorare più di lui stesso. Spesso, riflettendo su quel caso, mi è capitato di pensare che se il litigio avesse avuto luogo su una pubblica strada, non si sarebbe concluso come si concluse. Fu la
circostanza d'esser soli in un ufficio solitario, a inasprire la disperata collera dell'infelice Colt.
Ma, quando il vecchio rancore di Adams si affacciò in me per
spingermi contro Bartleby, per quanto mi tentasse, lo respinsi. A parte più nobili considerazioni, la carità spesso opera come un principio di grande saggezza e prudenza. Gli uomini
hanno commesso delitti per gelosia e per rabbia, per odio e
per egoismo, perfino per amor proprio; ma nessuno, nessuno di cui abbia mai sentito parlare, ha commesso un delitto
per dolce pietà! Ad ogni modo, nella circostanza in questione,
mi sforzai di soffocare i miei sentimenti esasperati verso lo
scrivano, interpretando con benevolenza la sua condotta:
"Poverino, poveruomo!" mi dissi, "lui non ha cattive intenzioni, e poi, ha attraversato brutti momenti, e bisogna avere pazienza!"
Mi sforzai anche di trovare subito qualcosa da fare e, nello
stesso tempo, di dare sollievo al mio sconforto. Cercai di cullarmi nella fantasia che, nel corso della mattinata, in un momento che gli fosse andato a genio, Bartleby, di sua spontanea volontà, sarebbe emerso dal suo cantuccio per imboccare con decisione la direzione della porta. Niente da fare. Venne la mezza; Turkey cominciò a irradiare luce dal volto, a rovesciare il calamaio, a farsi insofferente; Nippers si acquietò in
una cortese compostezza; Ginger Nut prese a rosicchiare la
mela del pranzo; Bartleby, in piedi davanti alla finestra, era
immerso in una delle sue più profonde fantasticherie sul muro cieco.
Lo si crederà? Dovrei ammetterlo? Quel pomeriggio lasciai
l'ufficio senza rivolgergli altra parola.
A poco a poco, grazie anche ad alcune salutari letture, s'insinuò nel mio animo la convinzione che i guai legati allo scrivano seguissero il disegno di un'eterna predestinazione, e che
Bartleby fosse stato inviato per qualche misterioso scopo da
una Provvidenza imperscrutabile per un semplice mortale come me.
"E sia, Bartleby: rimani dietro il tuo paravento" mi dissi. "Non
ti perseguiterò mai più. Sei innocuo e silenzioso come una di
queste vecchie seggiole e, a farla corta, mai mi sento mai così
solo come quando so che sei là dietro. Perlomeno, mi sembra
di vedere, di intuire lo scopo predestinato della mia vita. Può
bastarmi. Altri possono avere ruoli più nobili da recitare; ma
la mia missione in questo mondo, Bartleby, sta nell'offrirti
una stanza d'ufficio per tutto il tempo che tu riterrai opportuno rimanervi."
Penso che avrei perseverato in questa felice e saggia disposizione d'animo, se non avessero preso a pesarmi le osservazioni, non richieste e poco caritatevoli, fatte da colleghi che venivano nel mio ufficio. Accade spesso, del resto, che il ripetuto
contrasto con menti poco aperte finisca per dissolvere i migliori propositi degli spiriti più generosi. Anche se, a rifletterci,
non era affatto strano che, entrando nel mio ufficio, la gente
fosse colpita dal singolare aspetto dell'enigmatico Bartleby e
si lasciasse dunque andare a qualche maligna osservazione
sul suo conto. A volte un procuratore legale, con il quale conducevo affari in comune, capitava nel mio ufficio trovandovi
nessun altro che lo scrivano, dal quale tentava d'ottenere
qualche precisa informazione su dove io fossi. Ma Bartleby
restava del tutto indifferente alle sue domande, immobile, in
piedi al centro della stanza. Al procuratore, dopo averlo contemplato in quella posizione per qualche istante, non restava
che andarsene, senza aver saputo nulla di quel che voleva.
Oppure, quando era in corso un arbitrato e lo studio era affollato di avvocati e testimoni, e il lavoro si faceva pressante,
accadeva che qualcuno dei legali presenti, sommerso dalle
incombenze, vedendo Bartleby sfaccendato, gli chiedesse di
fare una corsa fino al suo ufficio per prendergli un qualche
documento. Al che Bartleby opponeva immancabilmente un
tranquillo rifiuto, rimanendo tuttavia nell'ozio più assoluto,
esattamente come prima. L'autore della richiesta, a questo
punto, non mancava di volgere verso di me uno sguardo interrogativo, sgranando gli occhi. Ma cosa mai potevo dire? Finii
per rendermi conto che, nella cerchia delle mie conoscenze
professionali, circolavano commenti a mezza bocca, piuttosto meravigliati, in ordine alla strana creatura ch'io tenevo
nel mio ufficio. Questo m'impensierì molto. E quando poi presero a farsi strada i pensieri che lo scrivano potesse vivere a
lungo e continuare ad occupare i miei locali senza riconoscere la mia autorità; e imbarazzare i miei visitatori; e screditare
la mia reputazione professionale; e gettare un'ombra sinistra
sul mio studio, mantenendosi in vita fino all'ultimo con i suoi
risparmi (giacché, non v'è dubbio, egli non spendeva più di
cinque centesimi al giorno), e finisse magari per sopravvivermi, avanzando anche pretese sulla proprietà del mio ufficio,
per diritto acquisito con la sua perpetua occupazione: quando tutti questi oscuri presagi s'affollarono ingigantendosi nella mia mente, già martellata senza sosta dagli implacabili commenti dei miei amici sullo spettro che ospitavo nella mia stanza, in me intervenne un grande mutamento. Decisi così di raccogliere tutte le mie forze, e liberarmi per sempre da quell'incubo insostenibile.
Tuttavia, prima di elaborare un qualche complicato progetto
adatto allo scopo, mi limitai a suggerire a Bartleby l'opportunità ch'egli se ne andasse per sempre. Con tono calmo e serio,
sottoposi l'idea alla sua attenta e matura considerazione.
Ma, dopo averla meditata per tre giorni, egli mi rese noto che
la sua decisione rimaneva inalterata; in breve, che ciò che preferiva era di restare ancora sotto il mio tetto.
"Cosa farò?" mi chiesi, abbottonandomi il pastrano fino all'ultimo bottone, "Cosa farò? Cosa dovrei fare? Cosa, secondo
coscienza, dovrei mai fare di quest'uomo, o piuttosto, di questo spettro? Avrei dovuto liberarmene, e andarsene in ogni
caso dovrà. Ma come? Caccerai tu quel pover'uomo pallido e
passivo, butterai fuori dalla porta una creatura così indifesa,
procurandoti disonore per tanta crudeltà? No, non posso farlo. Preferisco piuttosto ch'egli viva e muoia qui, per poi tumulare i suoi resti mortali in quel muro. Cosa farai, dunque? Per
quanto tu lo blandisca, non riuscirai a smuoverlo. Il denaro
che dovrebbe convincerlo egli lo lascia sotto il fermacarte, sul
tavolo; è chiaro, alla fine, che egli preferisca aggrapparsi a te."
"Allora occorrerà qualcosa di risolutivo, di fuori del comune.
Cosa? Non vorrai mica farlo mettere in catene da un poliziotto e affidare la sua smunta innocenza alla prigione comune?
E, poi, in base a cosa potresti ottenere un tale risultato? È
forse egli un vagabondo? Come!, un vagabondo, un errante,
lui che rifiuta di muoversi? È perché non è un vagabondo,
quindi, che tu cerchi di farlo passare per tale? È troppo assurdo. Privo di mezzi di sostentamento evidenti: ecco fatto, ecco
il motivo. No, ti sbagli di nuovo: ha di che sostentarsi, essendo
vivo, giacchè l'esser vivi è l'unica prova incontestabile di avere i mezzi per vivere. Allora? Dal momento che egli non se ne
va, sarò io, ad andarmene. Cambierò ufficio, mi trasferirò altrove, e gli dirò con estrema chiarezza che, se dovessi trovarlo
ancora nei miei nuovi locali, lo denuncerei per violazione di
dornicilio."
Agendo di conseguenza, l'indomani così mi rivolsi a lui: "Questi locali sono per me troppo lontani dal municipio; e l'aria è
insalubre. Insomma, ho intenzione di trasferire i miei uffici la
settimana prossima, e non avrò più bisogno dei vostri servigi.
Ve lo dico ora, onde voi possiate cercarvi un altro posto." Non
rispose nulla e null'altro fu detto. Nel giorno fissato, noleggiai
uomini e carri e mi recai nei miei uffici. Poiché il mobilio non
era molto, fu portato via in poche ore. Per tutto il tempo, lo
scrivano rimase in piedi dietro il suo paravento, che ordinai di
portare via per ultimo. Fu rimosso e, ripiegato come un enorme foglio, lasciò Bartleby immobile inquilino d'una nuda stanza. Mi fermai sull'uscio osservandolo per un attimo, mentre
6
il racconto
SABATO 31 AGOSTO
DOMENICA 1 SETTEMBRE 2013
conquiste del lavoro
qualcosa dentro di me mi rimordeva.
Rientrai nella stanza, con la mano in tasca e il cuore in gola.
"Addio, Bartleby, me ne vado… Addio, e che il Signore in qualche modo vi protegga.
Prendete". Gli feci scivolare qualcosa nella mano, ma egli lo lasciò cadere a terra, e
allora - strano a dirsi - dovetti fare uno sforzo per staccarmi da lui, pur dopo aver
tanto desiderato liberarmene.
Stabilitomi nei miei nuovi quartieri, per un giorno o due mantenni la porta chiusa a
chiave, e sobbalzavo ad ogni rumor di passi nel corridoio. Ogni volta che tornavo ai
miei uffici, dopo qualche breve assenza, sostavo sulla soglia per un istante, in attento
ascolto, prima d'introdurre la chiave. Ma tali timori erano fuori luogo. Bartleby non si
fece mai vivo.
Pensavo che tutto andasse per il meglio quando un estraneo dall'aria sconvolta mi
fece visita per chiedermi se fossi io la persona ch'aveva occupato, fino a poco ternpo
addietro, l'appartamento a quel certo numero di Wall Street.
Assalito da funesti presentimenti, assentii. "Ebbene, signore," disse lo sconosciuto,
che risultò essere un avvocato "voi siete responsabile per l'uomo che avete lasciato
in quei locali. Egli si rifiuta di copiare, rifiuta in verità di fare qualsiasi cosa. Dice di
"preferire di no", e si rifiuta d'abbandonare i locali."
"Sono molto spiacente, signore," dissi, simulando calma ma in preda a un tremito
interiore. "L'uomo al quale fate cenno, in realtà, non è nulla per me, non è né un
parente né un apprendista del quale io debba sentirmi responsabile."
"In nome di Dio, chi è?" "Io per certo non potrei dirvelo. Non so nulla sul suo conto. In
passato fu alle mie dipendenze come copista; ma non svolge per me alcun lavoro da
molto tempo." "Allora, lo sistemerò io... Buon giorno, signore." Trascorsero vari giorni senza che sapessi altro. Anche se a volte sentivo un caritatevole impulso ad andare
a trovare il povero Bartleby, una certa riluttanza, non so verso cosa, mi trattenne.
Al termine di un'altra settimana, non avendo rìcevuto nuove sul suo conto, pensai
che la vicenda con lui fosse terminata, finalmente. Ma, giungendo l'indomani al mio
ufficio, trovai parecchie persone alla mia porta, e tutte molto agitate.
"Eccolo.., eccolo che viene," disse colui ch'era innanzi agli altri, nel quale riconobbi
l'avvocato già venuto a visitarmi da solo. "Voi dovete portarlo via, signore, immediatamente" gridò tra di loro un imponente personaggio, facendosi largo verso di me, e
nel quale riconobbi il proprietario dello stabile di quel certo numero di Wall Street.
"Questi signori, miei affittuari, non possono tollerare più a lungo la cosa. Il signor B." e
indicava l'avvocato "l'ha messo alla porta, ed ora egli s'ostina a infestare il palazzo
con la sua presenza, sedendo sulla ringhiera delle scale di giorno e dormendo dì notte
nell'ingresso. Tutti sono preoccupati: i clienti fuggono dagli uffici, v'è timore d'una
sommossa… Dovete fare qualcosa, e subito." Arretrai, atterrito da quel torrente di
parole, e volentieri mi sarei chiuso a chiave nel mio nuovo ufficio. Invano continuai a
ripetere che Bartleby non era nulla per me, nulla più di quanto non fosse per chiunque altro. Tutto inutile: ero l'ultima persona, per quel che si sapeva, ad aver avuto a
che fare con lui ed essi mi chiedevano conto della tremenda situazione. Impaurito,
allora, di finire sui giornali (come uno dei presenti minacciò oscuramente), considerai
il caso e infine dissi che se l'avvocato m'avesse concesso d'intrattenermi privatamente nel suo ufficio con lo scrivano, quello stesso pomeriggio avrei fatto del mio meglio
per liberarli della fastidiosa situazione all'origine delle loro proteste.
Salendo le scale della mia vecchia tana, trovai Bartleby che sedeva silenzioso sulla
ringhiera del pianerottolo. "Cosa fate qui, Bartleby?" dissi. "Siedo sulla ringhiera,"
rispose mansueto. Gli feci segno d'entrare nello studio dell'avvocato, il quale s'affrettò a lasciarci soli.
"Bart1eby," dissi, "vi rendete conto che mi state procurando grossi fastidi, ostinandovi ad occupare l'ingresso, dopo esser stato licenziato dall'ufficio?" Nessuna risposta.
"Ora non vi sono altre soluzioni. Voi dovrete fare qualcosa, oppure qualcosa dovrà
esser fatto a voi. Ditemi, in qual genere di lavoro vorreste occuparvi? Vorreste tornare a copiare per qualcuno?" "No, preferirei lasciare le cose come stanno." "Vi piacerebbe esser contabile in un emporio?" "Si sta troppo chiusi, a far quello. No, non
vorrei esser contabile; ma non pretendo molto." "Troppo chiusi?" esclamai "ma se
voi ve ne restate rinchiuso tutto il tempo!" "Preferirei non fare il contabile" soggiunse, come a sistemare quella piccola questione. "Cosa ne direste d'un lavoro di barista? In quello non ci si sforza gli occhi." "Nossignore, non mi piacerebbe, anche se,
come le ho già detto, non ho molte pretese." Questa sua insolita loquacità mi diede
animo. Tornai alla carica. "Be', allora, vi piacerebbe viaggiare attraverso il paese, riscuotendo i crediti dei commercianti? Ciò gioverebbe alla vostra salute," "No, preferirei fare altre cose. "Che ne direste, allora, d'andare in Europa come accompagnatore
per intrattenere qualche giovane di buona famiglia con la vostra conversazione: v'andrebbe a genio, questo?" "No. Non mi pare molto sicuro. A me piace rimanere fermo
da qualche parte. Ma non pretendo molto." "E fermo da qualche parte rimarrete,
allora," gridai, perdendo infine ogni pazienza, e, per la prima volta dacché intrattenevo rapporti con l'esasperante scrivano, concedendomi di andare del tutto fuori dai
gangheri. "Se non ve n'andate da qui prima di notte, sarò costretto… davvero sono
costretto... a.. a... ad andarmene io!" conclusi piuttosto assurdamente, non sapendo
con quale altra possibile minaccia tentare di spaventarlo per scuoterlo dalla sua immobilità e spingerlo ad obbedire. Disperando che ogni altro sforzo avesse un esito,
stavo per andarmene precipitosamente, quando mi venne un'ultima idea, un pensiero che già in passato non avevo mai del tutto smesso di considerare.
"Bartleby" dissi, nel più gentile dei toni che riuscii a trovare in quello stato di concitazione "verreste a casa mia, ora? Non nel mio ufficio, ma nella mia abitazione, e rimanerci fino a che non potremo trovare qualche conveniente sistemazione, con vostro
comodo? Venite, andiamocene subito."
"No, al momento preferirei lasciare le cose come stanno."
Non risposi, ma evitando tutti con una fuga abile e fulminea, mi precipitai fuori dal
palazzo, risalii velocemente Wall Street verso Broadway, e, balzando sul primo omnibus, fui presto in salvo da ogni possibile inseguitore. Non appena recuperai la calma
necessaria, compresi con chiarezza d'aver fatto tutto ciò che potevo sia per soddisfare le richieste del padrone di casa e dei suoi affittuari, sia per appagare il mio desiderio e il mio obbligo morale di aiutare Bartleby e proteggerlo da una dura persecuzione.
Cercai allora di levarmi il peso di ogni affanno e inquietudine, e la mia coscienza mi
approvò, senza che ciò desse invero i frutti desiderati. La paura d'esser nuovamente
scovato dal furibondo proprietario e dai suoi esasperati inquilini era tale che, dopo
aver affidato per alcuni giorni tutti i miei affari alle mani di Nippers, mi diressi col
calesse verso la parte superiore della città e i suoi sobborghi; attraversai il fiume
verso Jersey City e Hoboken, quindi feci una rapida puntata a Manhattanville ed Astoria. Di fatto, si può dire, vissi in calesse per tutto il tempo. Quando rientrai a studio,
ahimè, un messaggio del proprietario del palazzo m'attendeva sulla scrivania. L'aprii
con mani tremanti. Venivo informato che era stato richiesto l'intervento della polizia
e che Bartleby era stato condotto in prigione per vagabondaggio. Inoltre, giacché io
ne sapevo su di lui più di chiunque altro, mi si chiedeva di recarmi al carcere per
rendere una circostanziata deposizione sui fatti. Queste notizie ebbero su di me effetti contrastanti. Sulle prime provai sdegno. Ma, alla fine, quasi approvavo quell'azione. L'atteggiamento energico e sbrigativo del proprietario del palazzo aveva portato
a una decisione alla quale non penso avrei saputo risolvermi; e tuttavia, in quelle
insolite circostanze, quella sembrava esser l'unica soluzione possibile. Come in seguito appresi, quando gli fu comunicato che dovevano condurlo alle Tombe, il povero
scrivano non aveva opposto la benché minima resistenza, piegandosi alla decisione
con la sua pallida, imperturbabile mansuetudine. Alcuni tra gli astanti, mossi da compassione e curiosità, s'erano uniti al gruppo; e, guidato da un ufficiale di polizia che
teneva Bartleby sottobraccio, il silenzioso corteo era sfilato nel frastuono, il caldo, e
l'allegria delle rumorose strade di mezzogiorno.
Il giorno stesso in cui ricevetti quella lettera, mi recai alle Tombe, o, per esprimermi in
modo più corretto, nel carcere giudiziario. Cercato il funzionario competente, dichia-
rai lo scopo della mia visita e fui informato che l'individuo da me descritto era effettivamente ospite di quelle mura. Assicurai allora quel funzionario che Bartleby era
persona della massima onestà, e degno di grande compassione, sebbene stravagante oltre ogni misura. Gli esposi tutto ciò che sapevo, e conclusi suggerendo di trattarlo con quanta più indulgenza possibile, nel periodo della sua reclusione, fino a quando non si fosse trovato qualche rimedio meno drastico; benché, a dire il vero, non
sapessi quale. Ad ogni modo, se null'altro si fosse trovato, avrebbe potuto accoglierlo
l'ospizio dei poveri. Alla fine, chiesi d'incontrarlo.
Essendo l'imputazione non troppo grave e mantenendo un atteggiamento sempre
pacato e docile, a Bartebly era stato concesso di vagare in libertà per la prigione,
specialmente negli erbosi cortili interni. E là per l'appunto lo trovai, in piedi e tutto
solo nell'angolo più tranquillo, col viso rivolto ad un alto muro, mentre tutt'attorno,
dalle strette feritoie delle finestre della prigione, mi sembrò di scorgere gli occhi d'assassini e di ladri che ci osservavano.
"Bartleby!" "So chi siete, voi," disse, senza voltarsi a guardare, "e non ho nulla da
dirvi." "Non sono stato io a mandarvi qui, Bartleby," dissi, vivamente addolorato per
l'implicito sospetto. "E per voi, questo non dovrebbe essere un posto così spregevole. Non siete qui per accuse infamanti. E, vedete, non è poi un luogo tanto triste
quanto si potrebbe pensare. Osservate, c'è il cielo, c'è l'erba."
"So dove sono," rispose, ma non disse altro, e così lo lasciai.
Ritornando nel corridoio, un tale dall'aspetto sanguigno, con grembiule, si accostò, e,
accennando col pollice sopra la sua spalla, chiese: "È un vostro amico?"
"Sì."
"Cos'è, vuole crepare di fame quello lì? Allora, basta dargli la razione del rancio che
passa la prigione, ed è bell'e fatta." "Chi siete?" gli chiesi, non sapendo cosa ci facesse, in quel luogo, un individuo dal linguaggio così poco ortodosso. "Sono il vivandiere.
I signori che hanno qui degli amici, mi pagano perché io porti loro qualcosa di buono
da mangiare."
"È davvero così?" chiesi, voltandomi verso il secondino.
Lo confermò.
"Ebbene" dissi, facendo scivolare qualche moneta d'argento nelle mani del vivandiere (così almeno lo chiamavano) "voglio che voi abbiate una particolare cura per il mio
amico laggiù; fategli avere il miglior pranzo che potete procurarvi. E siate più gentile
che potete, con lui."
"Perché non me lo presentate?" disse il vivandiere, guardandomi con l'aria di chi non
vede l'ora di avere un'occasione per dimostrare le sue buone maniere.
Ritenendo che ciò avrebbe potuto giovare allo scrivano, acconsentii, e dopo aver
chiesto al vivandiere come si chiamasse, raggiungemmo Bartleby. "Bartleby, costui è
un amico; v'accorgerete che può esservi molto utile." "Servitore vostro, signore, servitor vostro," disse il vivandiere, facendo un profondo inchino dietro il suo grembiule.
"Spero vi troviate bene, qui, signore: bel giardino… stanze fresche…. spero vorrete
trattenervi con noi un po', farò del mio meglio per farvi stare bene. Cosa desiderate
oggi per pranzo?"
"Oggi preferirei non pranzare," disse Bartleby, voltandosi altrove. "Mi farebbe male:
non sono abituato ai pranzi." Detto questo, lentamente s'allontanò verso l'altro lato
del recinto, e s'appostò di fronte al muro cieco.
"Che razza di discorso è?" fece il vivandiere, rivolgendosi a me con sguardo attonito.
"È un po' toccato, quello lì, eh?" "Credo sia un po' alterato di mente," confermai con
tristezza.
"Alterato? alterato, dite? Be', però, parola mia, avrei detto che quel vostro amico era
un signor falsario. Sono sempre pallidi e con un'aria tanto distinta, quei falsari lì. Mi
viene compassione per loro, mi viene, signore. Conoscete voi Monroe Edwards?"
aggiunse, con tono commosso, e tacque. Poi, posandomi patetìcamente la mano
sulla spalla, sospirò: "È morto di tisi a Sing-Sing. Ah, voi dunque non conoscevate
Monroe, eh?"
"No, non ho mai intrattenuto rapporti sociali con i falsari. Ma ora non posso trattenermi oltre. Badate al mio amico laggiù. Non ci rimetterete. Arrivederci."
Alcuni giorni dopo, nuovamente ottenni il permesso di entrare nelle Tombe, cercando Bartleby lungo i corridoi, ma senza trovarlo. "L'ho visto che usciva dalla sua cella
poco fa" disse un secondino. "Forse è andato a far due passi nei cortili." Mi avviai in
quella direzione. "State cercando l'uomo che non parla?" disse un altro secondino,
passandomi accanto. "È laggiù disteso... dorme nel cortile. Sarà una ventina di minuti, l'ho visto che si stendeva."
Nel cortile tutto era calmo. I prigionieri comuni non vi erano ammessi. Le mura di
cinta, di straordinario spessore, lo riparavano dai rumori dell'esterno. L'aspetto egizio di quella costruzione in muratura mi pesava sull'animo con tutta la sua cupezza. E
tuttavia, sotto i piedi, cresceva un soffice tappeto d'erba prigioniera. Il cuore delle
piramidi eterne, sembrava là dentro, dove, per qualche strana magia, semi d'erba
lasciati cadere dagli uccelli erano germogliati nelle fenditure.
Rannicchiato in modo bizzarro ai piedi del muro, le ginocchia piegate, disteso su un
fianco e con la testa appoggiata sulle fredde pietre, vidi il desolato Bartleby. Nulla si
muoveva. Mi fermai, poi mi accostai a lui; mi chinai e vidi che i suoi occhi opachi erano
aperti. Per il resto, pareva immerso in un sonno profondo. Qualcosa mi spinse a toccarlo. Tastai la mano e un brivido pungente mi risalì il braccio e percorse la schiena
fino ai piedi. La faccia rotonda del vivandiere sbucò alle mie spalle. "Il suo pranzo è
pronto. Cos'è? Non mangia neanche oggi? Oppure, quello lì, vive senza mai pranzare?" "Vive senza pranzare," dissi, e gli chiusi gli occhi.
"Ah! se la dorme, eh?" "Dorme, con i re e i consiglieri della terra" mormorai. Quanto
al seguito di questa storia, non ci sarebbe altro da aggiungere. L'immaginazione potrà facilmente supplire allo scarno rituale della sepoltura del povero Bartleby. Ma,
prima di congedarmi, vorrei dire che se questa piccolo racconto ha risvegliato la curiosità di sapere chi fosse Bartleby, e quale vita conducesse prima, posso solo rispondere ch'io condivido appieno tale curiosità, ma non sono affatto in grado di soddisfarla.
Peraltro, non so bene se debba divulgare una piccola chiacchiera che giunse al mio
orecchio, pochi mesi dopo il decesso dello scrivano. Quale fondamento essa abbia,
non ho mai avuto modo di accertarlo; e pertanto non posso dire se e quanto essa
risponda a verità. Ma, giacché questa vaga notizia a me non sembra priva di una
qualche suggestione, e così forse potrà essere per gli altri, ne darò un breve cenno. La
notizia è questa: Bartleby sarebbe stato un impiegato subalterno nell'ufficio delle
lettere smarrite, a Washington, dal quale sarebbe stato dimesso senza preavviso per
un cambiamento nell'amministrazione.
Quando rifletto su questa diceria, a fatica riesco a esprimere le emozioni che mi afferrano. Lettere smarrite, lettere morte! Non suona come uomini morti? Pensate ad un
uomo che, per natura e per sventura, sia incline a una languida disperazione: quale
altro lavoro potrebbe accentuare una tale condizione, più del maneggiare continuamente queste lettere morte per poi ordinarle e darle alle fiamme? Perché ogni anno
se ne bruciano cataste, di simili lettere!....
Dalle pieghe di un foglio, a volte, il pallido impiegato estrae un anello, mentre il dito
cui era destinato forse già imputridisce nella tomba; o estrae una banconota inviata
in un impeto di sollecita carità, mentre chi avrebbe dovuto trarne sollievo più non
mangia né soffre la fame; o parole di perdono per chi morì disperato; o una speranza
per chi morì nello sconforto; o buone notizie per chi fu soffocato dal peso di inconsolabili sventure.
Inviate per portare vita, queste lettere rovinano verso la morte.
Ah, Bartleby! Ah, umanità!
Tradotto da Giorgio Flavio Pintus per Edizioni Full Color Sound, che
ne ha realizzato uno dei suoi “Audio Racconti”, distribuiti in tutte
le librerie e, in download su iTunes
7
SABATO 31 AGOSTO
DOMENICA 1 SETTEMBRE 2013
La modernità ha travolto le società tradizionali ma oggi mostra tutte le sue insufficienze
Lacrisieuropea
èunacrisidisistema
Per affrontare le difficoltà odierne occorre una visione d’insieme della realtà
che rimetta al centro l’uomo prendendo atto dei limiti della scienza e della ragione
di Paolo Acanfora *
dibattito
C
he il mondo conosca in questi anni
uno stato di grave
crisi è cosa indiscutibile. Ovviamente si
tratta di una crisi diseguale, asimmetrica. Quando
si parla di crisi su scala planetaria occorre sempre
considerare che essa colpisce in maniera più acuta alcune aree del mondo
e, all’interno di esse, alcune categorie sociali più di
altre. È un’ovvietà che vale però la pena richiamare semplicemente per
non anestetizzarsi nella
percezione indifferenziata della categoria “crisi
globale”.
La centralità quasi esclusiva che ha assunto la questione economica nasconde però una dimensione
della crisi che è assai più
ampia. L’Europa vive, si
potrebbe dire, una crisi
nella crisi. I problemi di
struttura, dovuti innanzitutto alla parzialità della
sua unificazione, la rendono particolarmente vulnerabile. Ma la crisi in Europa è prima di qualsiasi
altra cosa una crisi della
civiltà europea, cioè di
una civiltà costruitasi nei
secoli, sedimentando valori, principi, interpretazioni della realtà, visioni
del mondo, che ha rappresentato un modello di
riferimento per l’umanità.
Di certo, si potrebbe fare
una storia delle crisi in Europa. La storia del vecchio continente ne è piena, essendo ricchissima
di
conflitti
e
problematicità. Il Novecento ne ha rappresentato, se vogliamo, l’apogeo. Le due guerre mondiali hanno segnato la definitiva
perdita
di
centralità dell’Europa nelle relazioni internazionali
a vantaggio degli Stati
Uniti d’America. Ma, ancor di più, la cultura novecentesca è stata una cultura della crisi. La civiltà
conquiste del lavoro
M
europea, che era anche civiltà occidentale, veniva
percepita come una civiltà al tramonto, destinata
a perire. All’idea di progresso indefinito che aveva caratterizzato il positivismo ottocentesco, si sostituiva la percezione di
una decadenza irreversibile.
La fine della seconda
guerra mondiale, con la ricostruzione ed un rinnovato sviluppo economico
hanno portato, almeno
nella parte occidentale
dell’Europa, benessere e
fiducia. Tuttavia la
subalternità alle dinamiche della guerra fredda,
ha reso il vecchio continente un palcoscenico sostanzialmente marginale.
entre al Centro Studi
nazionale di via della
Piazzola continuano di
buona lena i lavori di ristrutturazione con l’intervento avviato
nella Villa Grandi, è altresì in fase di partenza anche la nuova
stagione di formazione sindacale per l’attuazione del Piano Formativo 2013-14 rivolta ai quadri e ai dirigenti dell’organizzazione.
Il Congresso Cisl ha dato precisi
contenuti all’azione sindacale
delle nostre strutture, sia per
quanto riguarda le politiche
nuove da sviluppare con l’impegno contrattuale e concertativo, sia per i nuovi assetti organizzativi finalizzati alla semplificazione e al decentramento.
La formazione è ora dunque
chiamata, in termini virtuosi, a
dare gambe e sostegno alle scel-
La fotografia dell’Europa
di oggi è, sotto molti punti di vista, drammatica. Vi
è una crisi demografica,
naturalmente diseguale
ma comunque, in linea
generale, notevole. Vi è
una crisi delle relazioni sociali, dovuta alle nuove
comunicazioni
(la
virtualità), ai mescolamenti avvenuti in seguito
ai flussi migratori anche
in società che questi flussi avevano precedentemente vissuto in maniera
assai meno copiosa e problematica, al venir meno
di elementi di coagulo
(come, ad esempio, le
ideologie) in funzione solidale. Vi è una crisi morale dettata da una generalizzata supremazia dell’interesse egoistico sulle esi-
genze della comunità, sul
senso del dovere, in nome di un’assoluta autonomia ed autoreferenzialità
dell’io. Vi è una crisi del
rapporto tra l’essere
umano e la natura, con
un ambiente trasformato
dall’inquinamento, con
paesaggi naturali ampiamente degradati che mettono a rischio la salute
dell’uomo e delle altre
specie. Vi è una crisi economica, che non è solo legata alle contingenze di
cicli di crisi alternate a cicli di sviluppo ma riguarda l’idea stessa dell’homo economicus, la sua dimensione puramente razionale, la centralità del
mercato come unico principio di regolazione, la
perdita di valore dell’uo-
mo e del lavoro all’interno del processo produttivo deregolarizzato e globalizzato. Vi è una crisi
nella percezione del processo storico: nell’idea di
progresso che pareva essersi riproposta dopo la fine della guerra fredda,
spingendo a parlare addirittura di fine della storia;
nell’idea di presente, dominato per buona parte
della popolazione dalla
precarietà, dall’incertezza, dall’angoscia e che
non permette alcuna pianificazione del futuro;
nell’idea di passato, che
subisce i contraccolpi dello schiacciamento sul presente e di una conoscenza umanistica (tra cui, appunto, la storia) sempre
più relegata in secondo
Centro Studi. Parte la nuova stagione per l’attuazione del Piano formativo 2013-2014
Formazioneinprimopiano
te congressuali, fornendo strumenti di analisi, occasioni di riflessione, esempi di buone pratiche.
Il Centro Studi di Firenze, che
compie quest’anno i 60 anni
dell’attività in via della Piazzola, è più che mai il luogo deputato non solo per il livello confederale, ma per tutte le strutture Cisl, dove realizzare e far vivere
una rinnovata attività formativa.
Ci sembra quindi utile, alla ripresa, dar conto dei corsi e dei percorsi che partiranno nelle pros-
sime settimane, in ottemperanza e secondo le modalità delle
circolari inviate ad oggi dalla Segreteria generale a tutte le
strutture.
Percorso ”Nuovi Dirigenti Cisl” ,
5 moduli residenziali con formazione a distanza dal Dicembre
2013 a Settembre 2014; fase
propedeutica con modulo residenziale dal 9 al 13 Settembre
2013.
Corso ”Ambiente e Contrattazione”, 2 moduli residenziali
con formazione a distanza, dal
Settembre al Novembre 2013.
Corso Segretari organizzativi e
amministrativi, 2 moduli residenziali a Settembre e Novembre 2013.
Corso “Agenda Europa 2020 e
riforme istituzionali”, 2 moduli
residenziali a Ottobre e Novembre 2013.
Percorso su ”Mercato del lavoro, invecchiamento attivo, formazione continua e forme di tutela”, 3 moduli residenziali da
Ottobre 2013 a Febbraio 2014
Corso ”Previdenza e Sanità integrativa”, seminario residenziale di 1 modulo, Settembre
piano, in attività marginale, improduttiva, parassitaria.
È, in sintesi, una crisi prodotta da una modernità
che ha travolto gli scenari
propri delle società tradizionali e che oggi appare
in tutta la sua imponenza. La civiltà che l’Europa
ha costruito nei secoli e
ha posto come modello
da insegnare alle altre civiltà è divenuta un moltiplicatore di problemi.
Non si tratta ovviamente
di segnalare solo gli aspetti negativi. Questa stessa
civiltà ha portato grandi
benefici, sviluppo e prosperità ma ora richiede
un profondo ripensamento, un cambiamento di
prospettiva e di metodo
e soprattutto un cambiamento sul piano cognitivo. Reinterpretare e ripensare la realtà sulla base di nuove categorie e
paradigmi interpretativi.
Se alla crisi della modernità non si può rispondere
con una proposta antimoderna (molti sono stati
nella storia i fallimenti in
questa direzione), si può
però porre un obiettivo
di fondo: recuperare una
lettura della realtà che
non sia per compartimenti stagni, che non sia scollegata e scompaginata in
innumerevoli ambiti, conosciuti perfettamente
nella loro specificità ma
di cui si ignorano le relazioni. Un filosofo tra i più
noti al grande pubblico,
Edgar Morin, ha proposto di affidarsi al principio di complessità ed al
metodo della problematizzazione. Potrà sembrare ad alcuni un procedere
per pura astrazione ma ridare la centralità al pensiero significa proporsi di
tornare a dominare, per
quanto possibile, i processi, cercando di coglierne
le implicazioni, le molte
connessioni. Qui il ruolo
della conoscenza non puramente tecnica può tornare ad essere cruciale
per i destini dell’umanità. Una conoscenza capace di rimettere al centro
l’uomo e il suo ambiente,
riproponendo una visione umanista figlia di una
nuova consapevolezza
dei limiti della scienza,
della tecnica, della ragione. Una consapevolezza
che, in tal modo, possa
pienamente valorizzare
scienza, tecnica e ragione
senza il pericoloso rischio
dell’assolutizzazione. E
l’Europa dovrebbe essere chiamata ad una sorta
di ritorno funzionale alle
proprie origini. Tornare a
problematizzare, a non
schiacciare l’uomo sulle
singole dimensioni.
* Storico
2013.
Corso per Formatori/Docenti in
materia di Salute e Sicurezza
sul lavoro, 1 modulo residenziale Ottobre 2013.
Corso per Operatori Cisl di Uffici Vertenze (Sindacare), 3 moduli residenziali da Ottobre
2013 a Febbraio 2014.
Al Centro Studi sono altresì programmati o in via di calendarizzazione per l’autunno attività e
percorsi formativi di Federazioni di categoria, di Usr, di Enti e
Servizi che con rinnovata attenzione decidono di utilizzare la
nuova sistemazione logistica e
residenziale del Centro Studi.
E’ anche questo un modo , e neanche dei più marginali, per vivere e praticare una più ampia
e consapevole confederalità.
Mario Scotti
Sito web:
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