Appunti Partigiani
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Appunti Partigiani
estratti da Appunti Partigiani storie d’una certa Resistenza di Michele Vargiu © Dicembre 2011 – Tutti i diritti riservati. Puoi richiedere maggiori informazioni su questo testo scrivendo a [email protected] Scena 1 – L’ultima volta che sono morto. L’ultima volta che sono morto è stato l’anno scorso. Tre volte. Almeno tre volte, sono morto in vita mia. La prima volta che successe ero molto piccolo. Ricordo che me ne stavo li, al caldo, nell’ambiente in cui ero cresciuto; quando d’improvviso arrivarono due mani grandi e raggrinzite a strapparmi via, senza troppi complimenti, dal posto dove stavo. Non vedevo nient’altro che una piccola luce in fondo al tunnel, che andava pian piano allargandosi, accecandomi gli occhi; poi cominciai a vedere tutto intorno delle facce che mai avevo visto prima di allora, e di tutta risposta scoppiai a piangere. E capii qualche istante dopo che non ero morto; ma che anzi, la morte sarebbe stata la cosa più lontana alla quale in quel momento potessi pensare. Che il mio viaggio era appena iniziato, e senza nessun bisogno di treni, aerei, navi; la stazione di partenza si chiamava “nascita”. Nemmeno avevo preparato la valigia e già sarei dovuto partire. Partire, che è un po’ morire, per l’appunto. La seconda volta che sono morto invece è stato tanto tempo dopo, e per la precisione durante una notte di primavera del millenovecentoquarantaquattro. Quella volta sono morto guardando negli occhi un uomo che moriva. Un uomo che però, di morire, non ne avrebbe avuto nessuna intenzione; ma che poi però mori’ lo stesso. E quella volta ho capito che per morire non serve morire davvero. Che a volte ci si sente morire anche quando la morte la si guarda in faccia. Anche quando la vediamo riflessa negli occhi di un altro. La terza volta, poi, sono morto davvero. E quella volta non c’era nessuno a guardarmi negli occhi. E’ successo l’anno scorso; ma tra la mia seconda morte e la terza, quella definitiva, ho fatto in tempo a vedere un sacco di cose; ho visto la guerra, la pace, le biciclette a motore e le radioline a transistor. Ho visto le televisioni pubbliche poi quelle private, quelle in bianco e nero e poi quelle a colori. E in tv ho visto i culi delle ballerine, che sono perfetti. E poi ho visto il culo di certi proprietari di televisioni che proprio grazie al culo non venivano mai processati. E li non si parla di culi perfetti; ma di culi inspiegabili. Ho visto mobili venduti in scatola di montaggio dai nomi impronunciabili. Ho visto gente ridere, gente piangere, gente morire e gente nascere. E alla fine, mi sembra di non avere visto poi tutto questo granchè; perché ogni storia, a furia di raccontarla, dopo un pò non ti diverte più; passa di moda, come le radio a transistor, come la tivvù in bianco e nero. E nonostante i tuoi sforzi, ti sembra che niente cambi, come nella manovella di un vecchio carillon, o di un grammofono al quale non hai mai cambiato il disco; tu giri, tu giri… ma alla fine, la musica, è sempre la stessa. << Siamo i ribelli della montagna, viviam di stenti e di patimenti, ma quella fede che ci accompagna sarà la legge dell'avvenir Siamo i ribelli della montagna, viviam di stenti e di patimenti, ma quella fede che ci accompagna sarà la legge dell'avvenir >>. Chissà se gli altri se la ricordano, questa. Io me le ricordo tutte, le canzoni che ho cantato. E per cantarne, beh, io ne ho cantate tante, di canzoni, quando ero giovane, specialmente di notte. Voi ce l’avete presente, come è fatta la notte? Si; avrete in mente la notte che vi accompagna dolcemente al termine di ogni giornata, rimboccandovi le coperte come una madre, tutti i giorni da quando siete venuti al mondo; quella notte scura e tempestata di stelle cosi’ lontane e cosi’ belle da vedere, mentre si è distesi su un prato a pensare o magari mentre ci si abbraccia e si fanno promesse a chi si ama. Bella, la notte. Anche se però la notte di cui parlo io è una notte completamente diversa; la notte di cui parlo io si può vedere soltanto in tempo di guerra. Voi l’avete mai vista, la notte, in tempo di guerra? Quando si è in guerra la notte è la cosa più bella del mondo. L’evento più atteso della giornata, che smette di essere “giornata” per diventare semplicemente notte, buia, nera e silenziosa. In tempo di guerra la notte arriva dolcemente, in punta di piedi, senza fare rumore; come se volesse scusarsi del troppo chiasso che ha combinato il giorno, segnato dalle urla, dai colpi di fucile e dai bombardamenti; in tempo di guerra la notte arriva e avvolge i colori del giorno con il suo mantello scuro, come a volerlo far vergognare di qualcosa di brutto che ha commesso; in tempo di guerra, la notte, al giorno gli tappa la bocca con la sua mano, cosi’ come farebbe una maestra severa. In tempo di guerra, la notte al giorno lo manda in castigo. Ora invece è tutto diverso. Ogni venticinque di Aprile è sempre la solita storia. Ogni anno sembra che nulla cambi, proprio come in un giro di manovella d’un vecchio carillon, o di un grammofono al quale non hai mai cambiato il disco; tu giri, tu giri… ma alla fine, la musica, è sempre la stessa. Ogni 25 di Aprile io mi guardo intorno, e di anno in anno mi sembra che si festeggi una liberazione che di libero non ha più proprio niente, imprigionata dal tempo che passa, assordata dai telefonini che squillano e offuscata dai culi perfetti delle ballerine in tivvù. Una festa che dura da fin troppo tempo, al punto che gli stessi invitati non ricordano più nemmeno il motivo per cui si festeggia. Insieme ai miei vecchi compagni marciamo, con gli stessi abiti stirati di fresco e tirati fuori una volta all’anno, come vecchie reliquie da spolverare; e mentre cammino vedo le stesse bandiere, le stesse medaglie lucidate appese su petti dove l’aria di anno in anno diminuisce man mano; vedo la banda che suona, le autorità con il tricolore addosso che sorridono e stringono mani; e con i miei compagni di un tempo ci abbracciamo, ci sorridiamo, e silenziosamente ci contiamo. Ogni anno un nuovo censimento; ogni anno ricomincia la conta, ad ogni ricorrenza, ad ogni anniversario. E ad ogni ricorrenza, ad ogni anniversario realizziamo di esser sempre meno. Dallo scorso anno, anche io mi sono unito al gruppo dei sempre meno. Perchè il tempo passa; i giorni finiscono, cosi’ come le notti, cosi’ come finiscono le guerre, le epoche, le mani da stringere, le canzoni da cantare e i nomi dei caduti da ricordare. <<Forse aveva ragione mia madre>>, penso. Avevate ragione voi, madre mia, quando mi dicevate che la memoria non è una comodità. Te lo ricordi, madre mia? Mi dicevi sempre cosi’, ogni volta che da bambino non ricordavo una data sul libro di storia, o una tabellina; dicevi sempre che la memoria è come un muscolo; va tenuta in allenamento, la memoria; dicevi sempre che non ha senso ricordare, se poi il giorno appresso ci si dimentica di ciò di cui ci si è ricordati il giorno avanti. Non appena la banda smetteva di suonare e la gente di applaudire, un’intera schiera di giovani padri e giovani madri veniva a darci in braccio i loro figli più piccoli, da tenere per il tempo di una fotografia; e in quel momento della giornata il pensiero andava sempre a te, madre mia; un giorno quella foto finirà nelle mani di quei figli; gliela daranno dicendo loro che noi eravamo come una strana specie di eroi; eroi di non si sa bene che cosa, ma eroi. Ogni bambino, in cuor suo, sogna di poter farsi una foto con il suo eroe preferito; Ma noi non abbiamo tute colorate, né mantelli che svolazzano al vento o superpoteri di quelli che si leggono nei fumetti o si vedono in tivvù. Noi abbiamo soltanto un abito scuro che copre una pelle consumata, e mani tremanti che reggono una bandiera sbiadita. I bambini, regolarmente, ci guardano, e piangono. Scena 3 – La trattoria del Baffo, i compagni e l’inizio del viaggio. E col fatto che il pane non mi fosse mai mancato, e che in tasca ogni tanto qualche soldo ce l’avevo, passavo tante delle mie serate alla trattoria del Baffo, che poi era anche l’unico locale del paese. Questa trattoria stava in una specie di cortilaccio ricavato dai muri di due palazzi mezzi frustati dai bombardamenti, ed era l’unico luogo che accogliesse tutti quelli che alla sera non avevano nessuna voglia di starsene a casa propria. Certo, non che fosse un posto di classe; Aveva muri stanchi, ammuffiti, che cadevano a pezzi, e le bestemmie che si sentivano li dentro erano talmente tante che se solo avessero potuto avrebbero cacciato via tutti gli avventori, ristrutturato le stanze e preso il locale in gestione. In compenso, però, ogni volta che ci entravi sapevi già che avresti ascoltato buona musica, visto qualche faccia conosciuta, e con un pò d’astuzia ti saresti potuto perdere per qualche secondo ad osservare la scollatura della signora Franca, la cameriera più scorbutica che abbia mai conosciuto in vita mia. Le storie che giravano su questa Franca erano tante; c’è chi dice che fosse rimasta orfana all’improvviso, che fosse scappata da un convento di suore dove l’avevano rinchiusa e che prima di lavorare in trattoria facesse la prostituta nelle stradicciole di campagna intorno al paese. Fortuna volle che una sera passasse per quelle strade Luigi, detto “Il Baffo, e leggenda vuole anche che se ne innamorò perdutamente; timido com’era, non era difficile pensare che con Franca, quella prima notte, nemmeno l’amore ci avesse fatto; ma nonostante questo riusci’ a portarsela via, a toglierla dalla strada e a metterla dietro il bancone della sua trattoria. Non che fosse un grande salto di qualità, intendiamoci; ma se non altro, li dentro, avevi un tetto sopra la testa, e Franca poteva risparmiarsi gli scherzi dei ragazzini e le maledizioni delle donne alle quali occasionalmente rapiva i mariti o i fidanzati. Nonostante cadesse a pezzi, la trattoria del baffo trattava tutti allo stesso modo; si mangiava e si beveva democraticamente, per tutti le stesse cose e nella stessa quantità; le brocche del vino venivano riempite con precisione millimetrica, nessuno doveva averne più di un altro; quando Luigi aveva finito con le sue massime, ripristinava l’atmosfera del locale, alzando il volume della radio. Lo fece anche quella volta, e lo fece proprio nel momento esatto in cui la musica si interruppe di colpo, in favore di un annuncio: [al megafono] « Il governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare l'impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta.Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza ». Era l’otto settembre del millenovecentoquarantatrè; e a parlare, era il maresciallo Pietro Badoglio, “sua eccellenza”, cosi’ lo chiamavano. Aveva fatto carriera, il Maresciallo Badoglio, e l’aveva fatta in fretta; tenente colonnello nel 1915, aveva preso parte eroicamente alla prima guerra mondiale, diventando colonnello e capo di stato maggiore del sesto corpo d’armata l’anno dopo. Nel ‘19 diventa Senatore, e pochi mesi dopo Commissario Straordinario Nazionale per la Venezia Giulia. Quando poi, nel ’23, il fascismo sale al potere viene nominato commissario straordinario in Brasile, poi nel ’28 governatore della Tripolitania e della Cirenaica. Dopo vari vagabondaggi di alto livello politico e una sempre crescente intesa con Mussolini, il 25 luglio del 1943 diventerà Primo Ministro per ordine di sua altezza Vittorio Emanuele terzo, un metro e cinquanta di Monarca, che farà arrestare Mussolini, ormai devastato dai suoi errori e da una prematura ed ingiusta calvizie che durava già da parecchio tempo. Nel frattempo, due settimane prima, nella notte fra il 9 e il 10 luglio, le prime truppe inglesi cominciano a sbarcare in Sicilia e ad occupare lentamente l’isola. Mussolini chiede spiegazioni ad Hitler, e comincia a pensare di voler togliere l’Italia dal conflitto, sciogliendo l’alleanza con la Germania. Hitler, una volta saputo questo, viene direttamente a Roma a parlare con Mussolini, che pero’, messo con le spalle al muro, non ha il coraggio di dirgli nulla. Mussolini, con ordine del re, verrà incarcerato e poi liberato dai tedeschi, e si ritirerà a fondare la Repubblica Sociale Italiana, a Salò, sul Lago di Garda. Il giorno stesso dell’arresto di Mussolini, e cioè il 25 luglio, Badoglio diventa primo ministro e dirà alla radio che “l’ Italia sarebbe rimasta accanto ai suoi alleati”, ovvero i tedeschi. Quando poi quell’otto settembre, sempre Badoglio, e sempre alla radio, comunicò che l’Italia era passata con gli angloamericani, i tedeschi… si incazzarono! Dio, come si incazzarono! E quando i tedeschi si incazzano, c’è poco da stare allegri; quelli, anche quando ti parlano d’amore, pare che ti stiano minacciando! Il re, per non essere d’intralcio, quella notte stessa scappa in esilio a Brindisi. I Tedeschi in Italia già c’erano, sparsi su tutto il territorio; come se non bastasse ora c’erano anche gli angloamericani, e noi italiani, che avevamo appena ascoltato il messaggio di Badoglio per radio, cominciammo a non capirci più niente; << ma con chi stiamo noi?>> <<Con gli americani?>> << Con i tedeschi?>> <<Con chi?>> << E i fascisti? Che fine hanno fatto?>> All’interno della trattoria cadde un silenzio totale. Tutti restavano zitti e fermi, a ripetersi ognuno nella propria testa queste domande. Io non solo non sapevo che risposte darmi, ma non sapevo nemmeno quali fossero le domande giuste da farmi! La sensazione che tutti avevamo era quella che un intero paese fosse stato abbandonato, svenduto al miglior offerente; fu quella stessa notte, che in un modo o nell’altro, diventai partigiano. E come si diventava partigiani? Eh! Non c’erano mica i corsi; né bisognava mandare il curriculum a qualcuno con la speranza di un’assunzione, no; molti lo diventavano per volontà; altri per scelta, per amor di patria, per spirito di aggregazione; altri, per assaporare in bocca il gusto della ribellione; io lo diventai per puro caso. Quella stessa sera, quando conobbi Agostino. Ad Agostino mancavano tre dite della mano destra; lui diceva di averle perse in un incidente nella segheria dove lavorava, ma nessuno gli credeva; la versione più accreditata era quella che sosteneva che gliele avessero tranciate di netto tanti anni prima, a causa di un debito di gioco che non aveva mai pagato; debito che pare ammontasse a trecento lire; e proprio cosi’ lo chiamavano tutti, quando volevano parlare male di lui; il signor trecentolire. Cento lire per ogni dito che gli era stato tolto, cosi’, dovevano valere le dita di quel poveraccio. Aveva una barba ispida e folta, Agostino, e un cappotto lungo, sporco e impolverato che non si toglieva mai, e due sopracciglia che gli facevano ombra sugli occhi come a volergli coprire l’anima. Non parlava mai con nessuno, ma quella sera, stranamente, parlò proprio con me. Mi raccontò un sacco di cose, Agostino; mi apri’ la mente sul fatto che i tedeschi in realtà non erano mai stati amici nostri; che Mussolini non aveva fatto altro che fare un errore dopo l’altro; che Badoglio non sapeva neanche mettersi i calzini senza prima chiedere al re e che il re altro non era che un povero nanetto imbecille. Mi disse, Agostino, che i morti non si contavano più; che la voce dei morti che hanno perso la vita per gli errori degli altri, se nessuno avesse fatto niente, un giorno sarebbe stata più forte dell’urlare di tutti i cannoni di tutte le guerre. Mi disse che resistere a questo scempio era necessario. Che il paese bisognava riprenderselo pezzo per pezzo. Che ogni dittatore, una volta finito di strillare la sua scorta di frasi fatte, di fronte al popolo avrebbe contato meno di un pescivendolo al mercato. E poi mi disse… che Antonio era un bel nome. Che pure Gramsci, di nome, si chiamava Antonio. E poi, si alzò. E io gli corsi dietro. Insieme prendemmo i sentieri che vanno verso le colline, in piena notte: che meraviglia la notte, poco fuori dal paese; passato il chiasso del giorno, si sentono solo i grilli che cantano. Io e Agostino dopo non dicemmo più una parola per tutto il viaggio, e quando arrivammo al campo era già l’alba. Lì conobbi i miei compagni, tra cui: Alfredo Gardini, trent’anni portati male, nome di battaglia Atos; poi c’era Duccio Chiesa, meccanico originario di Viareggio; un tipo alto e magrissimo, e raccontatore di storie alle quali, puntualmente, non credeva mai nessuno. Poi c’era Eliseo Conti, un signore sulla cinquantina, tozzo e con la testa lucida come uno specchio, che aveva raggiunto il gruppo di Agostino qualche mese prima insieme a suo figlio Ettore. Questo Eliseo si diceva che fosse il proprietario dell’unico cinema del suo paese, il cinema “Ulisse”, e per i suoi concittadini era una specie di celebrità; tutti erano convinti che Eliseo i divi del cinematografo li conoscesse davvero, e che anzi venissero in segreto proprio nel suo cinema a vedere in anteprima le proiezioni dei loro film; qualcuno in paese andava in giro dicendo che era stato visto uscire dal suo cinema nel cuore della notte a braccetto con Alida Valli da una parte e Greta Garbo da quell’altra; e insieme ridevano e scherzavano, ed Eliseo si atteggiava da gran signore, mentre con quelle due bellezze fin troppo belle per essere vere scompariva all’orizzonte nel buio della notte. Leggende a parte, Eliseo non era certo un bell’uomo, e bastava guardarlo negli occhi per capire che fosse una persona profondamente sola; la sua unica ricchezza era suo figlio Ettore, che a differenza del padre era un ragazzo bellissimo, anche se un po’ tardo. Quando nacque, tutti in paese si complimentarono con Eliseo: << Eh, Signor Conti, certo che vi è proprio venuto bene questo figlio vostro, bello come un divo del cinematografo>>! Scena 9 – L’innamoramento di Antonio. Io guardo lei. Lei guarda me. Io riguardo lei. Lei riguarda me. E dopo un po’ che andiamo avanti con questo giochetto nessuno si ricorda più chi ha cominciato a guardare chi e perché; ma non importa. Non importa perché lei è bellissima. Più bella di qualsiasi altra cosa, animata o inanimata io abbia mai potuto vedere in vita mia. E nel mentre che ci guardiamo facciamo dei piccoli passi l’uno in corrispondenza dell’altra; e man mano che la vedo avvicinarsi il suo viso si fa sempre più nitido e i suoi occhi diventano sempre più grandi; e mi sembrano grandi e lucidi come le acque di un lago all’alba, quando il sole ci si fa il bagno dentro; mi sembrano profondi come galassie piene di stelle, come i crateri della luna che sta in cielo e ci guarda, come un buco nero che è talmente profondo da risucchiarsi stelle, pianeti, sistemi solari e galassie e portarseli dietro come se niente fosse, girando con un sorriso da scemo e la faccia innocente di chi pur avendo rubato per intero il mondo vuole convincerti di non avere fatto niente. Arriviamo a prenderci per mano; io sono tutto sporco di fango in faccia, ho i capelli impiastricciati e incollati dalla polvere e la camicia talmente lisa e consumata da sembrare trasparente, come una bandiera passata di moda, come la sindone di un povero Cristo. Lei indossa il vestito della festa; e di feste, quel vestito deve averne fatte parecchie, ha più rammendi che ricami, e sul suo viso ci sono tutti i segni di un tempo che è passato lentamente, controvoglia, cosi’ come farebbe un marito che deve partire per il fronte. Quando ci abbracciamo ognuno respira la pelle dell’altro; e dopo esserci abbracciati ci guardiamo e ci sorridiamo; entrambi puzziamo in una maniera incredibile, di una puzza che non lascia spazio a spiegazioni, chiarimenti o giustificazioni, e nonostante questo nessuno sente il bisogno di scusarsi, mortificarsi o giustificarsi, perché la puzza ora non importa; cosi’ come non ci importa delle altre persone che abbiamo intorno, della musica che viene suonata di fronte a noi e dei commenti che stanno cominciando ad arrivare da parte di chi ci sta guardando; niente importa. Niente importa perché lei per me in quel momento è bella come una sposa, come una regina; anzi, è bella come una regina il giorno delle sue nozze: e non esiste regina, nel suo giorno più bello, che non profumi di tutti i fiori del mondo, e che non sia bella come la prima donna che sia mai apparsa sulla terra, forgiata direttamente dalle mani di Dio. Non appena le nostre mani si toccano, poi, la musica ricominciamo a sentirla; facciamo solo in tempo a sussurrarci i nostri nomi: Antonio, dico io. Cristina, risponde lei. E di colpo sembrava che i nostri piedi andassero da soli; che il mio corpo, che prima di allora mai aveva ballato in vita sua, se non con esiti disastrosi, fosse improvvisamente diventato più agile, leggero; e nella mia testa, durante quei minuti, su quella piazza, mi sembrava che ci fossimo solo noi; che tutti, di colpo, si fossero fermati per guardare me e Cristina, che eravamo i più grandi ballerini del mondo, talenti cresciuti in paese e che ora tutto il mondo invidiava; ci aspettavamo che l’intera orchestrina si inchinasse al termine della nostra esibizione, che gli ubriachi seduti ai tavolini ai lati della piazza ci lanciassero mazzi di fiori, che i soldati venissero a chiederci gli autografi, uno per loro, uno per la moglie, e uno per i commilitoni rimasti in caserma, che il Sindaco ci onorasse con una medaglia istituita per l’occasione, che il Duce in persona, da Salò dove si era rintanato come un cane venisse a complimentarsi per quella danza meravigliosa, chiedesse scusa a tutti nuovamente per il disturbo, e scomparisse al grido di “La danza è l’arma più forte”. Scena 12 – Passare il testimone. Si, lo so. Forse ho esagerato; forse sono uscito fuori tema. Mi sono dilungato troppo; ma non è facile raccontare sempre la stessa storia, per anni, senza annoiarsi. Io sono morto l’anno scorso. Tre volte, sono morto, in vita mia. La prima ancora me la ricordo; me ne stavo li, tranquillo, e vennero delle grandi mani a strapparmi via… la seconda volta invece invece sono morto guardando negli occhi un uomo che moriva; Duccio, si chiamava, e gli avevano sparato proprio a pochi metri da me; poi la terza volta fu quella definitiva. E ora, visto che sono morto davvero, forse dovrei cominciare a stare zitto. Dovrei passare il testimone, perché ora tocca a voi. Tocca a voi resistere, perché la resistenza non è mica finita; la vita intera è fatta di resistenza. E allora resistete. Resistete alle umiliazioni, alle discriminazioni, alle prepotenze; resistete all’ignoranza, all’omologazione, a chi vuole vendervi pensieri non vostri; resistete alla crisi, ai soldi che si vorrebbero e che mancano sempre; resistete a chi vuole convincervi che avere tanti soldi possa davvero migliorarvi la vita; resistete al lavoro precario, flessibile, assente; resistete alla conta dei morti sul lavoro, ai deportati dei call center, che non hanno più il numero di matricola tatuato sul braccio, ma inciso su un bel tesserino da tenere al collo, da passare ogni giorno su una macchinetta che ricordi agli sfruttatori che stanno sopra di noi che esistiamo; resistete alle ingiustizie; resistete a chi vuole farvi ricadere negli stessi errori; e resistete anche a chi pretende di raccontarvi sempre la stessa storia. Quella stessa storia che racconto da più di sessant’anni e che qualcuno, in un modo o nell’altro, ricorderà e racconterà di nuovo, a modo suo. Una storia che passerà nuovamente di bocca in bocca, che cambierà le sue parole, forse perderà dei dettagli e se ne inventerà di altri; perchè le storie di guerra più si fanno lontane e più si riempiono di leggende, invenzioni e bugie. Ma le storie sui morti della guerra no. Perchè non si sputa nel piatto della memoria. Non si dicono le bugie, ai morti. Ricordarli certo non li riporta in vita; ma ricordare fa semplicemente in modo che tutti quei morti che si sono avvicendati nel corso della storia non siano morti invano. E adesso, è proprio ora che vada. E so già che quando arriverò li ritroverò tutti li, ad aspettarmi; Agostino, Duccio, Laura e la sua bicicletta, Cristina con i suoi capelli ricci, la trattoria del Baffo e la signora Franca; e una volta arrivato so che potrò finalmente prendere fiato, fare un bel respiro, e ricominciare a raccontarla, questa mia storia, a loro che ancora non hanno potuto ascoltarla; questa storia che è come un giro di manovella di un vecchio carillon, o di un grammofono al quale non hai mai cambiato il disco; tu giri, tu giri… ma alla fine, la musica, è sempre la stessa.