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LA NASCITA DELL’INDUSTRIA AUTOMOBILISTICA ITALIANA
“L’automobile ha fornito all’uomo uno strumento che, accelerando il ritmo della
produzione ed evitando disperdimenti di tempo causati dalla lentezza dei trasporti,
ha creato impensate possibilità di ricchezza e di benessere”, così scriveva Carlo
Biscaretti di Ruffia, fondatore del Museo Nazionale dell’Automobile in Italia e tra i
massimi storici dell’automobilismo.
L’automobile balza improvvisamente alla luce della ribalta il giorno in cui il veicolo
semovente dell’ingegnere lorenese J.Nicolas Cugnot fa la sua prima apparizione a
Parigi nel 1769. Beau de Rochas, Otto, Daimler, Benz porranno poi le basi del
veicolo moderno e prodigioso che oggi ha raggiunto il suo pieno sviluppo.
Sopraggiunta infatti la rivoluzione industriale del diciottesimo secolo, che metteva a
disposizione dei popoli una massa sempre crescente di beni, era assolutamente
indispensabile la creazione di un sistema di locomozione sicuro e veloce, che
permettesse alle industrie di diffondere per il mondo questa enorme quantità di
prodotti, destinati a trasformare di sana pianta il nostro modo di vivere. Ogni paese
mobilita i suoi tecnici, i suoi inventori, i suoi studiosi per continuare e perfezionare
gli esperimenti già compiuti sulle proprietà del vapore acqueo e sulla sua
utilizzazione per la trazione. Nasce così sul finire del 1800 il motore a vapore
leggero, economico, poco ingombrante, destinato a dar vita al nuovo veicolo
rendendolo capace di eccezionali prestazioni. Ma la vera rivoluzione ha inizio con
l’avvento del motore a scoppio, che assume rapidamente il primato detronizzando in
pieno le applicazioni del motore a vapore.
All’Italia non mancano uomini di genio, inventori di avanguardia, come vedremo; ma
le occorreranno molti anni per costruirsi una struttura economica e industriale
di pari livello del resto d’Europa. Pesa infatti, nel suo lentissimo sviluppo, una
struttura essenzialmente agricola, la povertà di materie prime e la penuria di
quei capitali indispensabili per l’impianto di stabilimenti destinati alla
lavorazione del ferro e alla produzione dell’acciaio. Nonostante questo, può
vantare grandi precursori, come Luigi Pagani, di Bologna, che riuscì a costruire nel
1830 una “Locomotiva a vapore applicabile a diversi usi”, come ci dimostra una
stampa dell’epoca. Sei anni dopo iniziano a Torino gli esperimenti del Capitano del
Genio Virginio Bordino che dopo una lunga permanenza in Inghilterra per studiare
ingegneria meccanica, rientrato in Patria progetta cinque veicoli ad uso militare mossi
dalla forza del vapore. Uno di questi é conservato ancora oggi da noi. Va annoverato
anche Enrico Pecori che, nel 1891, costruisce un triciclo a vapore (anch’esso
conservato nella nostra collezione). Ma, oltre al motore a vapore, l’Italia é grande
anche nello sviluppo del motore a scoppio. Il 4 febbraio 1879 Giuseppe Murnigotti da
Martinengo consegue un brevetto per l’applicazione di un motore a gas su un veicolo
a tre o quattro ruote. E’ un’anticipazione assoluta, precedente a molte altre, sia
francesi sia tedesche, che giungono a ben altra rinomanza. Ma si ignora se al progetto
abbia fatto seguito la realizzazione. Di anche maggiore rilevanza sono gli studi di due
nostri grandissimi inventori, Padre Eugenio Barsanti e Felice Matteucci, su cui avete
già sentito parlare in una delle scorse conferenze. Nel periodo che corre dal 1851 al
1858 essi costruiscono un motore atmosferico perfettamente funzionante ed illustrato
in ogni particolare in una memoria segreta depositata presso l’Accademia dei
Georgofili di Firenze nel 1853 e dissuggellata dieci anni dopo. In essa si stabiliscono
alcuni principi basilari del motore a scoppio e cioè: “Impiegare come forza motrice la
combinazione detonante del gas e trasformare il moto istantaneo prodotto dalla
detonazione in moto regolare successivo, uniforme, ed infine di ottenere il miscuglio
detonante al miglior prezzo possibile”. I due scienziati italiani conseguono regolare
brevetto il 28 aprile 1854, stabilendo una data importante per il motore a scoppio.
Disgraziatamente, però, la morte prematura del Barsanti segna la fine di ogni
esperienza. La loro opera é continuata e ripresa in ogni paese da altri uomini quali
l’italiano De Cristoforis, il francese Lenoir, il tedesco Otto, il francese Beau de
Rochas, le cui teorie sul ciclo a quattro tempi aprono la strada al motore moderno. Ma
soprattutto sono le scoperte di Karl Benz e di Gottlieb Daimler che danno l’avvio
all’utilizzazione pratica e su vasta scala del nuovo mezzo di locomozione.
In Italia sono numerosi i brevetti e le priorità acquisite, ma spesso tali eccellenze non
trovano pieno riconoscimento. Abbiamo già visto Barsanti e Matteucci; un altro che
merita una menzione speciale é il professore veronese Enrico Bernardi. I suoi studi e i
suoi meriti sono assai poco conosciuti in Italia e assolutamente ignorati all’estero,
nonostante i suoi prototipi possedessero innovazioni e ritrovati tecnici di rilevante
portata. Studioso in molti campi, il suo contributo alla creazione del veicolo moderno
rimane fondamentale. Già fin dal 1894, infatti, egli progetta la sua piccola vettura,
ricchissima di anticipazioni e concepita secondo un progetto assolutamente originale.
Il Professore tenne per lunghi anni la cattedra di macchine all’Università di Padova e
continuò a conseguire brevetti nei campi più svariati, per esempio quello della
fotografia, confermando così il suo genio di anticipatore. Ma come spesso succede ai
geni, il suo valore è raramente ricordato.
“L’avvenire non è della bicicletta, bensì dell’automobile, quantunque non ci sia dato
ancora di precisare, neppur vagamente, il tipo di macchina che trionferà sulle altre”.
Così scrive, il 5 ottobre 1895, sulla Gazzetta di Venezia, Mario Morasso, il futuro
direttore di “Motori Aero Cicli & Sports”. Dunque gli italiani sono consapevoli del
grande avvenire che ha questo curioso ritrovato; ma faticano a darne seguito. Fuori, a
Parigi come a Londra, si moltiplicavano gli studi e i tentativi, nascevano le prime
riviste (la parigina “Vie Automobile” è del 1894), si discuteva, si costruiva, venivano
organizzate persino le prime esposizioni. Il 1895, d’altronde, fu un anno cruciale,
denso di avvenimenti che avrebbero avuto grandi conseguenze. E’ l’anno della
scoperta dei raggi X da parte del professor Wilhelm Konrad Rontgen; dei primi
esperimenti, riusciti, di radiotelegrafia del giovane Guglielmo Marconi; della prima
esposizione inglese di autoveicoli, a Turnbridge Wells (in tutto furono presentati
quattro veicoli, fra cui un trattore); è l’anno in cui compare, per la prima volta, nella
corsa Parigi-Bordeaux e ritorno, il “pneumatico smontabile per automobili Michelin”,
adottato dalla Peugeot che si classifica nona, dopo 22 scoppi di camere d’aria; è
l’anno, infine, in cui si svolge, sul tragitto Torino-Asti-Torino, la prima corsa
internazionale italiana per automobili, con cinque concorrenti in tutto.
A parte i geni, i precursori, i pionieri che in infelice solitudine macinano le loro
priorità, l’Italia da questo punto di vista stava partendo davvero male. Mentre la
Francia si arrogava il merito della prima vettura a vapore, quella di Cugnot, già nel
1769; mentre la Germania costruiva la prima automobile a benzina, nel 1886, e con
Berta Benz due anni dopo rivendicava il primo viaggio automobilistico con auto a
benzina; mentre la Francia rispondeva con il primo “Salon de l’Auto”, reparto di
quello del ciclo, e vantava nel 1899 ben 300 fiacres automobiles (ossia vetture
pubbliche), mentre succedeva tutto questo…in Italia era ancora in vigore una legge
sarda del 1855, poi resa operante anche nella successiva legislazione italiana (1865),
che proibiva la costruzione di una strada importante tra due località già unite da una
linea ferroviaria. Alla strada veniva lasciato il solo compito di sobbarcarsi il traffico
locale; a tutto il resto doveva pensare la ferrovia.
Nella seconda metà dell’Ottocento infatti, in Italia si comincia a pensare allo sviluppo
dei trasporti, sì, ma dal punto di vista ferroviario. Vi sarà un vero e proprio boom. La
rete passa in pochi anni da 2.000 km a 4.000 sono gli anni in cui vengono realizzati i
primi trafori: per esempio quello del Fréjus (1871) che si aggiungono alle due gallerie
dei Giovi realizzate fra il 1846 e il 1855; nel 1867 viene aperto il Brennero; nel 1879
la Pontebbana. E poi la Galleria del Gottardo (1882) e nel nuovo secolo quella più
lunga di tutte, la Galleria del Sempione (1906). Vengono costruiti 6500 km di nuove
strade ferrate in soli quindici anni, e di altri 2500 begli anni tra il 1896 e il 1913.
infine, nel 1905, le ferrovie vengono nazionalizzate, favorendo la riorganizzazione
della rete e il suo ammodernamento attraverso la progressiva elettrificazione delle
linee. Data questa grande attenzione alla ferrovia, ne consegue che altrettanta
attenzione non è posta allo sviluppo delle strade. E’ vero che si studia un progetto che
prevede la costruzione di 250.000 km di strade, ma non verrà mai realizzato. Ben
diversa la situazione negli altri Paesi europei, sempre in quegli anni (i ’70
dell’Ottocento): i nostri 102.000 km di strade mal si confrontano con i 220.000 della
Gran Bretagna e i 556.000 della Francia. D’altra parte la geografia non ci aiutava (né
allora né oggi): un paese montagnoso e collinoso come il nostro è ben più difficile da
collegare rispetto alla douce France, prevalentemente pianeggiante.
Arriviamo ad una legge a favore della mobilità su strada soltanto a partire dal 1904: è
un provvedimento che stanzia fondi per l’istituzione di servizi automobilistici nei
luoghi che non è possibile raggiungere con la ferrovia (va da sé che dove ci sono le
ferrovie i fondi non vengono stanziati perciò le strade non si sviluppano). Le
autolinee cominciano a svilupparsi davvero soltanto a partire dal 1908 (con un
ulteriore provvedimento): in sette anni arrivano a 160, lungo una rete di quasi 14.000
km e 630 autobus in servizio (quasi tutti Fiat).
E’ un circolo vizioso: le strade sono poche, e la mobilità su strada poco incoraggiata,
perché le automobili sono poche. Le automobile sono poche anche perché le si
scoraggiano in ogni maniera. La prima automobile a circolare in Italia, la prima ad
essere venduta, è la Peugeot tipo 3 consegnata nel gennaio 1893 a Gaetano Rossi di
Schio (titolare delle Industrie Lanerossi). Deve passare un anno perché arrivi in Italia
la seconda vettura, una Panhard Levassor acquistata dal marchese Carlo Ginori di
Firenze. La curiosità popolare guardava con simpatia le evoluzioni dei primi
automobilisti: un giornale milanese del 1894 dedicò largo spazio alle evoluzioni
rapide e repentine di Carlo Brena sulla sua Benz, a largo Cairoli, sottolineando che la
macchina si fermava “quasi istantaneamente”. Questo stesso Brena, con la sua
macchina che come dicevano i cronisti “percorreva il km in due minuti”, fece nel
1895 un lungo giro attraverso la penisola – Milano, Roma, Napoli e ritorno, via
Genova e Torino – accolto ovunque entusiasticamente. Ma anche questo concorse a
risvegliare l’interesse, e i sospetto, delle autorità. Non potendo applicare i
regolamenti in vigore per la circolazione delle vetture a cavalli – perché proprio i
cavalli mancanti differenziavano questi veicoli dagli altri – si pensò bene di
equiparare le automobili alle biciclette. Non era una decisione di poco conto. La
bicicletta era vista malissimo dai consigli comunali, che si esercitavano spesso a
imporre regolamenti assurdi. Non a caso nel 1894 era sorto il Touring Club Italiano,
nato per diffondere la cultura del turismo, inizialmente proprio in bicicletta. Tre anni
dopo nacque il Club Automobilisti Italiani, primo sodalizio automobilistico italiano e
terzo del mondo, dopo quelli di Francia (1895) e d’Inghilterra (1896). Ce n’era
bisogno. Tre mesi dopo la costituzione del CAI (16 marzo 1897) il Comune di
Milano votò il suo regolamento per la circolazione degli automobili, prescrivendo che
il proprietario di un’automobile dovesse chiedere preventivamente, per iscritto,
l’autorizzazione alle autorità comunali, per ogni uscita del veicolo, indicando l’ora e
le strade che intendeva percorrere. Le proteste furono vibranti, e fortunatamente tra i
soci del Cai vi erano alcuni esperti in diritto, che contestarono la competenza
amministrativa del comune di Milano, e riuscirono a dimostrare che sulle automobili
poteva solo applicarsi la legge del 1881 sulla circolazione stradale. L’argomento ebbe
successo, e due furono i risultati: il regolamento comunale venne abrogato, e la tassa
di circolazione, che era stata immediatamente prevista, finì avocata allo Stato. Fu
comunque anche questo un risultato positivo, perché – perso l’incentivo fiscale –
diminuì l’interesse dei comuni a occuparsi dell’automobile.
Permane comunque un grande ritardo in Italia rispetto al resto dell’Europa, e fu un
ritardo che si colmò davvero soltanto un cinquantennio più tardi. In Francia
l’industria automobilistica aveva prodotto nel 1897 più di tremila veicoli, per un
valore di 15 milioni di franchi (diciamo 10 milioni di euro odierni). In Germania la
situazione era analoga. Le consegne, per il grande numero di ordini, venivano
dilazionate di sei mesi, talvolta anche un anno. In Italia per avere tremila veicoli
prodotti toccherà aspettare fino al 1904, sette anni più tardi. Ancora nel 1899
circolano appena 111 veicoli, che salgono a 2174 nel 1905, e 7762 nel 1910. Nel
1915, anno della nostra entrata in guerra, sono balzati a quasi 25.000.
Torino é la città in cui il motorismo si sviluppa più rapidamente e più
grandiosamente. Dimostra infatti una vivacità imprenditoriale unica nel panorama
italiano. D’altronde, la disponibilità di energia idraulica (e poi idroelettrica), grazie
alla presenza di quattro fiumi, la vicinanza a collegamenti ferroviari cruciali, per
esempio con la Francia (il traforo del Fréjus è del 1871), la tradizione di lavoro
industriale, la presenza dell’industria del legno (che favorì l’insediamento delle
carrozzerie automobilistiche), l’esistenza di una manodopera specializzata grazie alle
numerose fabbriche d’armi insediatesi nella città capitale del regno di Sardegna, la
disponibilità di energia elettrica a bassi costi, le agevolazioni fiscali di vario tipo, la
presenza di scuole specializzate, la rete di trasporto pubblico (che agevola gli
spostamenti da una parte all’altra della città anche dei lavoratori), le stesse
lungimiranti politiche delle amministrazioni locali, attente a creare le migliori
condizioni per far ritrovare a torino una sua identità dopo il trauma della perdita di
ruolo politico, sono tutti elementi che non è facile trovare radunati tutti insieme e tutti
contemporaneamente nella stessa area geografica, come invece è stato per Torino.
Per tutti questi motivi Torino sarebbe cresciuta con l’automobile e per l’automobile.
Nel 1901 su 335mila abitanti, i metalmeccanici sono 15 mila, ma solo poche
centinaia si occupavano dell’auto. Nel 1904 Torino é la città del Regno con il
maggior numero di vetture, 497, un primato piuttosto modesto se paragonato alla
mole di biciclette, quaranta volte più diffuse sul territorio cittadino (si era passati dai
1000 ciclisti del 1894 ai 7500 nel 1899 e ai 20mila nel 1904). Nel 1905 é fondata la
Scuola Torinese per meccanici e conduttori, allo scopo di fornire una preparazione
teorico-pratica sul funzionamento dei veicoli a motore. Ce n’è bisogno davvero: nel
1908 sono in attività a Torino 27 società automobilistiche (contro le 11 di Milano, le
5 di Genova, le 4 di Napoli, le 2 di Roma e Bologna). Dal 1898 al 1908 si
costituiscono a Torino 47 marche per la produzione di automobili (contro le 32 di
Milano, le 8 di Roma, le 5 di Genova). Altro grande punto a favore è la Scuola di
Ingegneria, fiorentissima in quei tempi, ricca di giovani studiosi, che sforna
generazioni di tecnici capaci di seguire le orme degli specialisti stranieri e di
affiancarsi a loro nella preparazione del nuovo mondo meccanizzato. Ma non solo dal
Politecnico escono i più brillanti nomi dell’imprenditoria torinese, come Alberto
Balloco, Giulio Cesare Cappa, Giovanni e Matteo Ceirano, Giovanni Enrico, Aristide
Faccioli, Guido Fornaca, Michele Lanza. A loro vanno aggiunti i nomi di giovani e
coraggiosi esponenti del mondo industriale e borghese, quali Giovanni Agnelli,
Roberto Biscaretti di Ruffia, Emanuele di Bricherasio, Cesare Goria Gatti, Enrico
Marchesi, Emanuele Rosselli e tanti altri, che rischiano le proprie capacità e i propri
capitali nella nuova industria del secolo. L’azione di tutte queste forze riesce a
destare nella vecchia capitale piemontese l’entusiasmo per l’automobile. Fioriscono
iniziative, piccole officine si attrezzano per importare macchine, sorgono dappertutto
uffici di rappresentanza. Ma quel che più conta compaiono le prime fabbriche
specializzate.
Il primo di questa lunga teoria di coraggiosi progettisti è Michele Lanza, a cui oggi è
intitolato nella nostra città il sottopasso di corso Massimo d’Azeglio (cosa che molti
torinesi ignorano). Giovane imprenditore torinese, Michele Lanza, portato dal suo
lavoro a frequenti viaggi all’estero, soprattutto a Parigi, si lasciò presto ammaliare da
questa atmosfera febbrile che percorreva l’Europa. Erede di una affermata
“Manifattura di candele steariche e Fabbrica di sapone”, Michele Lanza ci appare, nel
fisico e nel morale, come il tipico personaggio piemontese di fine secolo. I suoi
bisnonni venivano da Fobello, nell’Alta Val Sesia, origine di curiosa importanza,
perché la stessa di Vincenzo Lancia, fondatore nel 1906 dell’azienda omonima; e a
sottolineare questa comune provenienza, e magari anche una parentela, sta di fatto
che il nome, all’origine, era lo stesso, Lancia. Quando, trasferiti a Torino, i bisnonni
di Lanza pronunciarono il proprio nome (“Lancia”) all’impiegato dell’anagrafe, si
espressero in dialetto(“Lansa”), e questi, per italianizzarlo, lo trascrissero come
“Lanza”. Lanza rimasero, e con questo nome fondarono nel 1832 una fabbrica per la
produzione di candele ed affini. Michele, subentrato ai suoi genitori nella cura
dell’azienda, nutriva con una vivace curiosità per il mondo esterno e lo dimostrò
progettando e costruendo, nel 1895, la prima vera automobile a quattro ruote
realizzata in Italia; fondando, nel 1898, una Fabbrica di automobili; continuando ad
ideare e a studiare prototipi sempre diversi; brevettando (1899) un nuovo tipo di
carburatore; fondando, il 1° dicembre 1898, insieme a Roberto Biscaretti e Goria
Gatti, l’Automobile Club; e infine dando vita, quattordici giorni dopo, alla rivista
“L’Automobile” primo periodico del genere in Italia. Si dimostrò, insomma,
assolutamente, appassionatamente, cocciutamente convinto che anche in Italia si
potesse e dovesse tentare l’avventura dell’automobile abbracciata con entusiasmo e
intelligenza in altre parti d’Europa. Nel 1903 però la Lanza automobili chiudeva. Di
vetture costruite, sembra ce ne siano state sei o sette. Di vetture effettivamente
consegnate ai clienti forse nessuna. Di riconoscimenti, tributi, onori, neanche a
parlarne. Un nome dimenticato come tanti altri, se non fosse per quell’assonanza con
una “Mira Lanza” (di cui tutti coloro che hanno più di trent’anni hanno ricercato i
miracolosi “punti” negli anni Sessanta) e per quelle scatole di detersivo in polvere ora
prodotte dalla multinazionale tedesca Benckiser, che ancora fanno mostra di sé sugli
scaffali degli odierni supermercati.
Fu per l’Italia, nel suo slancio iniziale, sul piano di ciò che sono stati Panhard,
Levassor, Daimler e Benz per Francia e Germania: l’inventore di un veicolo con
motore a scoppio, in grado di muoversi da solo su quattro ruote (il Bernardi, nel
1894, aveva costruito un triciclo, e dunque risulta prioritario ma ancora lontano da
una più moderna concezione di automobile). Preciso il suo obiettivo: “Costruire una
automobile in grado di coprire almeno cento chilometri senza pannes” e impegnare i
propri guadagni, la propria credibilità, le proprie relazioni, nel tentativo di arrivare,
utilizzando tutte le capacità e risorse della sua città, ad un risultato concreto.
Se fu Lanza a ideare e progettare la sua prima “wagonnette” (tipo di carrozzeria
simile al break) a sei posti, furono i fratelli Martina, di largo Vanchiglia a Torino,
titolari di un’officina di macchinari, a realizzarla, basandosi sul progetto generale di
Lanza e sui disegni tecnici elaborati da Giuseppe Stefanini, a sua volta destinato a
lasciare grande ricordo di sé all’Isotta Fraschini in anni successivi. Il motore era un
due cilindri orizzontali e paralleli, di 8 CV, con l’accensione a tubetti di platino. La
potenza veniva trasmessa a un semplice cambio a due velocità, senza retromarcia,
tramite una frizione a cono, con comando a pedale; da un contralbero si effettuava il
passaggio finale, a mezzo di catene, alle corone dentate e applicate alle ruote
posteriori. Queste erano ruote da carretto; la “sterza” si otteneva ruotando tutto
l’avantreno con un volantino a manopola, installato su un piantone verticale dove
erano situati i comandi delle marce e dell’acceleratore a mano.
I pedali erano soltanto due, frizione e freno; curiosamente, il freno d’emergenza era a
leva collocata all’esterno, sulla destra della vettura e perciò poteva essere azionata
soltanto dal passeggero seduto vicino al conducente, essendo il posto guida a sinistra.
Evidentemente il Lanza non temeva la solitudine; d’altra parte, una delle poche foto
arrivate fino a noi (quella che vediamo) ci mostra una wagonnette carica al pieno
delle sue possibilità, che ospita in un colpo solo, il Lanza al volante e al suo fianco
Luigi Damevino, uno dei futuri fondatori della Fiat; dietro, i due fratelli Martina,
Giovanni Ceirano (che insieme a Giovanni Agnelli, ai fratelli Ceirano e a Vincenzo
Lancia seguiva con passione l’opera del Lanza, ansioso di imitarlo) e lo Stefanini.
Nel 1898 il Lanza fonda la sua “Fabbrica di Automobili” . Nello stesso anno
partecipa alla Esposizione Internazionale di Torino con un Phaeton 4 posti, sul quale
gareggia anche alla Torino-Alessandria-Torino.
Poche altre vetture, sempre in esemplare unico poi il silenzio. Un silenzio in realtà
intessuto di una miriade di altre voci: perché nel frattempo sono nate decine di altre
Case automobilistiche sulla scia di Lanza; la Fiat, innanzitutto. Si racconta infatti che
qualche anno prima il cavalier Agnelli avesse esclamato, osservando i coraggiosi
tentativi del Lanza: “Se io avessi i suoi soldi, sì che metterei su una fabbrica come
dico io”. E i “criteri” industriali di Agnelli si rivelarono effettivamente un’altra cosa.
Degli esordi con i tanti fratelli Ceirano, della nascita della Fiat avete già sentito
parlare nelle scorse conferenze. Adesso preme sottolineare come la nascita della Fiat
trascini con sé la fondazione di innumerevoli altre industrie automobilistiche,
soprattutto a Torino. Per esempio la Lancia, fondata da quel Vincenzo che, grande
pilota Fiat, nel 1906 decise di dar vita ad una fabbrica che portasse il suo nome, come
fecero anche, con minor fortuna, altri due grandi piloti Fiat, Nazzaro e Storero. Ma
nacquero anche l’Aquila Italiana, la Junior, la Diatto, la Fiat Ansaldi, la Gallia,
l’Itala, la Padus, la Rapid, la Rosselli, la Scat, la Spa, la Stae, la Standard, la Taurinia,
e sono solo alcune. Lo stesso fervore imprenditoriale pervade in breve tutta l’Italia,
particolarmente Milano il cui apporto é notevolissimo, e di cui si possono ricordare,
tra i costruttori ed innovatori, Luigi Brigatti, Alessandro Carcano, Luigi Figini, il
barone Franchetti, i fratelli Fraschini, Corrado Frera, Cesare Isotta, Federico Johnson,
Luigi Meda, Ottolini, Giuseppe Ricordi e tanti altri. Anche questo gruppo di uomini
diede vita ad un superbo gruppo di fabbriche, come la Edoardo Bianchi, che doveva
poi assurgere a tanta rinomanza con le sue automobili e i suoi motocicli, la Carcano,
la Devecchi & Strada, la Figini, la Frera, la Isotta & Fraschini, l’Officina Majocchi, le
Officine Meccaniche, la Otav, la Prinetti & Stucchi, la Ricordi & Molinari, la
Serpollet Italiana, la Sive, la Turinelli, la Zust, che si deve considerare l’antesignana
della OM. Tra tutte primeggia l’azienda che, fondata nel 1910 come Anonima
Lombarda Fabbrica Automobili, rilevataria degli stabilimenti della Darracq Italiana,
venne assorbita agli inizi della prima guerra mondiale dalla Soc. Ing. Nicola Romeo,
assumendo la nuova denominazione Alfa Romeo.
Un denominatore comune può essere facilmente evidenziato in molte di queste
imprese, come in molte imprese europee: la spinta all’internazionalizzazione, che
scaturisce dalla ristrettezza del mercato nazionale e dalla omogeneità delle
caratteristiche sociali degli acquirenti. Questo è tanto più vero in Italia, in cui il
mercato interno, come abbiamo visto, era particolarmente ristretto. Produrre per
esportare diventa un obiettivo comune a Fiat, Itala, Lancia, Alfa Romeo: tanto più
che la domanda non si differenziava granchè, tra paese e paese (proprio per quella
omogeneità sociale degli acquirenti) e anzi, molto spesso veniva acquistato soltanto
lo chassis, che in seguito veniva fatto carrozzare ad hoc in relazione a specifiche
esigenze del cliente. Si può tranquillamente affermare che le opportunità di sviluppo
di una casa automobilistica, in Italia, risultano strettamente legate alla sua capacità di
far assumere alle esportazioni il ruolo di fattore trainante della propria offerta. Ma
questo non poteva essere fatto facilmente da piccole imprese a cui mancava la
struttura essenziale di vendita, di assistenza, di trasporto, di relazioni, per poter
lanciarsi sui mercati esteri. Ciò può spiegare facilmente la posizione rapidamente
assunta dalla Fiat nel quadro dell’industria automobilistica nazionale.
Certo l’euforia dei primi anni si spense rapidamente, e le crisi economiche ricorrenti,
ultima quella terribile della fine degli anni venti, rimbalzata in Europa dagli Stati
Uniti, fece strage delle imprese più fragili. Troppi, persino senza una solida base
tecnica, si erano lanciati nell’impresa di costruire automobili, incoscienti delle
difficoltà a cui sarebbero andati incontro. Già la prima guerra mondiale fu fatale a
queste aziende; ma fu soprattutto nel periodo tra la prima e la seconda guerra
mondiale che la successiva ondata di aziende senza base tecnica e finanziaria si
infranse dolorosamente di fronte alla concorrenza di organismi più forti, come Fiat,
Lancia, Alfa Romeo, Maserati, in grado di costruire prodotti eccellenti e impiantare
una rete commerciale e di post vendita efficace.
Ecco un elenco dei più importanti studi e dei brevetti conseguiti dagli scienziati
italiani fino al 1890 e riferentisi particolarmente al motore a scoppio ed alle prime
automobili.
1776
1841
1851
1853
Volta – pistola a gas metano con accensione elettrica
De Cristoforis – motore atmosferico a gas e vapori di nafta (funzionante)
Barsanti e Matteucci – Esperienze sull’accensione di miscele gassose
Barsanti e Matteucci – motore atmosferico (memoria depositata presso
l’Accademia dei Georgofili di Firenze)
1854
1856
1856
1858
1859
1861
1863
1868
1874
1878
1879
1882
1891
1892
1893
1894
1895
1896
1896
1897
1898
1899
1899
Barsanti e Matteucci – brevetto inglese per un motore atmosferico
Barsanti e Matteucci – motore costruito presso le Officine Benini di
Firenze e funzionante
Barsanti e Matteucci – 1° brevetto italiano di un motore atmosferico
Barsanti e Matteucci – 2° brevetto italiano e brevetto francese per un
motore a pistoni concorrenti
De Cristoforis – motore a combustione continua
Barsanti e Matteucci – 3° brevetto italiano con unione con Babaci
Barsanti e Matteucci – motore a sistema misto costruito presso le officine
Bauer
Babacci – motore a doppio effetto
Bernardi – motore a gas
Bernardi – motore atmosferico (sistema Otto)
Murnigotti – brevetto di motore a 4 tempi
Bernardi – motrice a benzina “Pia”
Faccioli – motore a idrocarburi per vetture
Faccioli – applicazione dei motori a gas per trazione vetture
Bernardi – motore ad alto regime (600 giri) a 4 tempi
Castellazzi e Farina – motore Optimus a compressione variabile
Bernardi – Motore a benzina “Lauro”
Adami – motore a miscela tonante
Miari e Giusti – motore a scoppio
applicabile ad un veicolo
Lanza – motore a scoppio con nuovo carburatore
Adami e Bini – motore Elsa
Rosselli e Castellazzi – motore a scoppio adattabile a veicoli leggeri o a
biciclette
Soc. It. Bernardi – nuovo motore a scoppio per autoveicoli
Brevetti e costruzioni di veicoli a motore
1830
1854
1859
1873
1879
1891
1895
1896
1899
Pagani – vettura a vapore applicabile a diversi casi
Bordino – vettura a vapore (funzionante ed esistente)
Bordino – autotreno e vettura a vapore
Riva – vettura a vapore a tre ruote
Murnigotti – applicazione del motore al velocipede o alla vettura
Pecori – triciclo a vapore (funzionante ed esistente)
Lanza e Martina – vettura a vapore
Faccioli e Carrera – nuova vettura automobile
Ceirano Giovanni – vettura Welleyes
Donatella Biffignandi
Centro di Documentazione del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino