Undicidieci - Ira facit versus - Amici della poesia
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Undicidieci - Ira facit versus - Amici della poesia
Emiliano Moncia UNDICIDIECI ira facit versus Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/ 2 questo libro è per Ricardo E. Che proprio là, ovunque io nasca, possa incontrare lo Ydam di questa vita, potendo appena nato già parlare e capire, possa io ricordare le precedenti nascite e non dimenticarle possa io al solo udire, pensare, vedere, comprendere le infinite conoscenze superiori, medie e inferiori. Possa il paese in cui io nasco essere benedetto, e tutti gli esseri dimorarvi felici (…) Il Libro Tibetano dei Morti La morte, sappilo, dura appena qualche secondo per i parenti e gli amici che assistono chi sta morendo. Ma per quest’ultimo il viaggio dura vite intere, attraversate in tempo reale. In queste vite egli potrà ritrovare ciò che ama sotto altre forme. Saprà riconoscerle. Morirà molte volte ancora e salirà sempre, sino a quella Chiara Luce che alcuni chiamano Dio, e che è la sostanza vuota ed eterna dell’universo. Dugpa Rimpoce 3 manuale d’uso Questo non è un libro di poesie. E non è nemmeno un libro di racconti. Eppure se ne hai voglia lui può trasformarsi in entrambe le cose: tecnicamente questo stratagemma letterario viene definito prosimetro, che significa libro misto di poesie e prosa. Pare abbia origini antichissime. Io però non le conosco e non ho ritenuto importante calarmi in un’approfondita ricerca sull’argomento. Piuttosto mi interessava questo: l’idea di lavorare su un prosimetro partendo dalla banale voglia di scriverti un racconto in versi, ma senza i cliché propri del genere. Più precisamente, la cronaca di una giornata della mia vita: l’11 ottobre 2006, anniversario del mio cristologico trentatreesimo compleanno. Credo possa interessare anche te ciò che mi accadde quel giorno. Tu ora puoi fare tre cose: puoi leggere solo le parti in prosa, puoi leggerti solo le parti in versi, oppure (meglio ancora) puoi andare dietro al filo del libro intero, accostandoti sia all’una che all’altro. Sento però la necessità di spiegarti un paio di cose prima di lasciarti entrare nella lettura. La prima riguarda la genesi di questo progetto: quel giorno lì s’era in un meriggio pallido e assorto, dominato dai limoni piantati nel giardino davanti casa mia da mio padre. All’improvviso, mentre meriggiavo – appunto - in testa mi guizzò una vecchia frase di Eugenio Montale (se non ricordo male a proposito di una sua recensione al Finnegan’s Wake di James Joyce) sulla correlazioni che intercorrono tra prosa e versi in letteratura: ha scritto infatti l’Eusebio che “la prosa è il semenzaio della poesia”. Significa che è all’interno della prosa che vanno coltivati e cercati tutti quei semi che germoglieranno poi in versi. Chissà da quale sperduto meandro del mio cervello quella frase scelse di arrivarmi proprio quella volta lì? Da una mia antica lettura per un esame, sicuramente, quando ancora frequentavo l’Università di Genova. Comunque per arrivare era arrivata, e mi piacque fin da subito ricordarla, per via della miscela, del mixaggio tra i generi letterari intendo. Fino ad allora nel piccolo mondo antico delle lettere che frequentavo l’incrocio tra i due generi era inammissibile come una bestemmia in chiesa. Ricordo una volta che per mero spirito provocatorio scrissi a una rivista letteraria on line (la maggior parte delle quali, lasciatelo dire senza riserve, fa schifo), lamentandomi del fatto che molti narratori mi restituissero i manoscritti poetici adducendo come scusa il fatto che loro non se ne capivano molto di poesia, e viceversa. Una testa di cazzo più arguta degli altri mi rispose: “perché non provi a mandare le poesie ai poeti e le prose ai narratori?” Ma io dico: ma quando vai dal macellaio a fare la spesa compri solo la carne o trovi anche salumi e formaggi? Perché a me risulta che persino tra i più sperduti macellai della Valle Arroscia, o tra quelli imbelinati tra i carrugi dei borghi nel nostro entroterra, o tra quelli di paese che hanno ancora il negozietto piccolo per servire quasi esclusivamente le bigotte ottuagenarie… Ecco, in quei posti lì insieme alla carne trovi anche i cerini, magari, o delle candele, o qualche prodotto per il bucato, no? Vogliamo alzare un po’ il tiro? Ma nei supermercati non trovi di tutto? Dalle 4 scatole di fagioli ai vasetti Plasmon? Mi pare evidente che solo in letteratura c’è chi si occupa solo di sottofiletti e chi si specializza esclusivamente nei vitelloni. Ma lasciamola perdere, per ora, questa inutile polemica, perché ho urgenza di dirti ancora dell’altro riguardo al libro che hai tra le mani. La seconda cosa che è bene che tu sappia ora è che questo progetto è stato partorito dopo la lettura di Tarantula, libro semi sconosciuto – anche questo è un prosimetro scritto nel 1965 dal Bob Dylan (ma che ora puoi trovare ristampato bene in edizione Feltrinelli) in cui il menestrello di Duluth seppe mescolare e riproporre, sotto una fittissima trama di nonsense e ingorghi di parole, alterazioni di senso e giochi della sintassi, la stessa materia di cui erano plasmate le sue canzoni d’allora, e gli stessi temi: l’incomunicabilità tra i sessi, gli orrori della guerra, le metamorfosi della società, il senso ineluttabile di sconfitta dell’uomo moderno di fronte al mondo e il desiderio d’avventura. Tarantula è un collage a tema, insomma tante parole diverse per raccontare la stessa storia; leggerlo ha fatto nascere in me il desiderio di fare la stessa cosa, più o meno. Di Dylan ho un’altra cosa da proporti, e dal momento che va a coincidere con la terza cosa che avevo voglia tu sapessi prima di iniziare a leggermi lo faccio ora. Per le parti in prosa di questo libro non hai problemi: è tutta farina del mio sacco. Per le parti in versi, invece, mi sono basato su un altro stratagemma, questa volta prettamente musicale: si tratta del concetto di “cover”. Sai cos’è una cover, vero? E’ la versione di una canzone fatta da un altro artista. Michael Bublè che ricanta Moondance di Van Morrison, ad esempio. I Green Day che interpretano Working Class Hero di John Lennon, e via discorrendo. Ecco, per me la cover è anche qualcosina di più di una semplice rivisitazione: in fondo io credo sia la “visione” che un artista possiede di un pezzo non suo che va a toccare talune corde della sua sensibilità in un modo talmente vibrante da costringerlo ad appropriarsene. Come sai esistono infinite migliaia di cantanti e interpreti e registi (pensa solo a Psyco di Gus Van Sant…o a Ocean’s Eleven di Steven Soderbergh, tanto per farti due esempi banali), che si permettono di fornire al pubblico le loro varianti di opere altrui. Non vedo perché questo non possa accadere anche in poesia. Ho la sensazione che nello scrivere in versi si sia più timidi: la “cover” si preferisce chiamarla “travestimento”, ci si nasconde un po’ troppo dietro stratagemmi troppo complicati, si gioca spesso sulla parodia, sulla rievocazione, sul riadattamento ironico, ma quasi mai sul senso di “impossessarsi di una poesia altrui al fine di farla propria”. Dylan in questo genere di cose fu maestro, e lo è ancor oggi quando ripropone i suoi stessi brani, magari quelli composti trenta o quaranta anni fa, riarrangiati, distorti, confusi a volte, vestendoli d’altre melodie, persistendo nello stravolgerli suonandoli live nel corso del suo Neverending Tour. E gli esempi sono innumerevoli, pur senza andare a toccare le vette dilaniane: possiamo in questa sede ricordare anche Io canto l’ultimo album di Laura Pausini, onesta interprete dotata di un’ottima vocalità che ha voluto 5 rendere omaggio alle canzoni che amava cantare da piccolina sola davanti allo specchio o in uno sperduto karaoke di provincia. Una cosa che è bene tu tenga a mente è sapere che quando si fa una “cover” non sempre la si ricalca perfettamente: a volte si prendono solo degli spunti, a volte si mantiene il significato originale ma si stravolgono le parole, a volte addirittura si ricopiano gli stessi schemi. Ma a volte no, può capitare di capovolgere i testi, di allungarli, di trasformarli e di manipolarli. Ecco perché al termine del libro ho voluto lasciarti una sezione che si intitola “Crediti e Fonti” così, se ne hai voglia, puoi andare a divertirti per scoprire tutti gli altarini che sono andato a incensare. Ci siamo: era questo che volevo tu sapessi: ho scelto di raccontarti quell’undici ottobre della mia vita in prosa, cercando di farne emergere la poesia attraverso le parole dei poeti che mi hanno toccato di più, che per me sono stati importanti, in special modo nella prima giovinezza e nell’adolescenza. E’ anche il mio modo di ringraziarli, di omaggiarli e di ricordarli. Gli autori che ho scelto di riscrivere non rispondono ad alcun criterio preciso, spesso non hanno nulla in comune gli uni con gli altri. Appartengono anche a epoche diverse. E pur se qualcuno ha vissuto nella stessa epoca d’un altro, ha proposto stili e correnti di pensiero differenti, se non addirittura opposti. Una sola cosa hanno in comune i miei poeti: la parola immersa nella quotidianità. Niente massimi sistemi qui, niente scritti sul senso del vivere e del morire, niente Salmi o invettive rivolte a Dei o a Santi. Qui troverai rubinetti che perdono, carta igienica dimenticata al supermercato, polvere sul comodino e letti da rifare. Ora concludo davvero: immagina di avere sotto gli occhi il libro di un contadino (e io sono figlio di contadini) che nel raccontarti i fatti suoi a volte cita qualche poeta, e magari lo cita male (vuoi perché lo ha letto tanti anni fa, vuoi perché non si ricorda esattamente le parole giuste, vuoi perché ha solo voglia di regalarti un suo rigo che ha dato, una volta, un senso importante anche solo ad un istante della sua esistenza). Mi pare pleonastico sottolinearti a questo punto che ogni episodio o fatto che qui si racconta è vero, e che la verità spesso è impoetica, e si fa fatica a cantarla in versi. A me è venuta voglia invece di cantarti proprio questi versi, affinché la poesia sia e rimanga sempre un gesto quotidiano del vivere. L’autore 6 Emiliano Moncia UNDICIDIECI ira facit versus A) La nostra letteratura possiede il diario di un modesto mercante del Toggenburg, vissuto nel secolo scorso; a questo pover’uomo capitarono tra le mani, fra gli altri, anche le opere di Shakespeare. Egli le lesse e gustò e commentò a modo suo, secondo il proprio giudizio. Anch’io farò così, e desidero che le mie riflessioni siano considerate come l’espressione delle mie impressioni personali. Ermanno Grimm, Introduzione a Iliade B) Così nel mio parlar voglio esser aspro com’è ne li atti questa bella petra, la quale ognora impetra maggior durezza e più natura cruda (…) Dante, Rime (46 CIII) C) Sono del parere che ogni uomo è inerentemente poeta, come è matematico. Non è la scuola che lo fa poeta, né che lo fa matematico. Depositate nella mente umana ci sono delle relazioni logiche fondamentali, che, come ha dimostrato Bertrand Russell, sono alla base della matematica, dalla più semplice alla più complessa. L’insegnamento della matematica sviluppa e organizza le intuizioni preesistenti, non insegna propriamente nulla, nel senso in cui insegnano, per esempio, la storia e la geografia. Il professore della Cantatrice calva di Ionesco cerca di insegnare alla sua allieva perché 1+1 fa 2 – ma ciò non porta a nulla di matematico, porta solo il professore a uccidere l’allieva. Nello stesso modo non si insegna la poesia: la si può solo praticare, illustrare. Chi avrà mai insegnato ai ragazzi che è proprio davanti al verso: ma tutto questo Alice non lo sa che ti deve cogliere il brivido poetico? E quando il professore sarà riuscito ad ottenere i presupposti necessari per la lettura di Leopardi, non gli sarà necessario nessun commento per il verso dell’Infinito, davanti al quale si può provare lo stesso brivido poetico e il naufragar m’è dolce in questo mare Il poetico si trova in natura sempre mescolato a altri elementi. Lorenzo Renzi, Come leggere la poesia 7 1. immersione – h. 00:00 “do per scontato che abbiate tutti letto e che conosciate freud, dostoevskij, san michele, confucio, coco joe, einstein, Melville, porgy shaker, john zulù, kafka sartre, due di briscola e tolstoj. Ebbene, quindi, il mio lavoro consiste, non fa che riprendere da dove costoro si sono interrotti - niente di più” Bob Dylan, Tarantula : e invece don don don batterono i rintocchi delle campane dell’undici dieci zero sei, e finalmente che sollievo… ci arrivò anche lui, grazie a Dio, nel bel mezzo della sua vita ritrovandosi in una selva scura che la diritta via era smarrita; tutto sommato però stava bene nella sua stanza quell’undici dieci lì, seduto alla scrivania e illuminato dalla calda luce della lampada e dal chiarore dello schermo del computer acceso. Filtrava attraverso la portafinestra spalancata una brezza scivolosa e tumida, che gli faceva rilucere gli occhi attenti e vitrei. Una breve soffio alitava da dietro le sue spalle, nella notte, e non aveva alcuna preoccupazione in corpo se non quella di riannodare tutti i movimenti che aveva attraversato nella vita per arrivare a quel giorno lì. Aveva voglia di scrivere versi. I vasi di gerani disposti in ordine accanto a lui donavano una piacevole atmosfera d’allegrezza alla stanza, mentre il salice piangente ombreggiava la luna dal giardino, ma a malapena. In lontananza i cani avevano smesso di abbaiare, d’ottobre la canicola ligure ancora persisteva e intorpidiva persino le loro fauci. Oltre, nel piccolo stagno, alla ricerca di un umido refrigerio alcune papere boccheggiavano sonnecchiando. Davanti a sé la visuale piena della vallata del Prino: il miglior modo di distrarsi quando invece sarebbe opportuno rimanere concentrati sul verso, sulla parola scritta, sul racconto dei propri ricordi. Stava bene nella sua stanza. La sua condizione di figlio assurdo e sghembo ritrovata non lo infastidiva più a quell’ora: il distratto, il ragazzo strano che parla poco, il piccolo sciocco discreto e sottile, bravo giovane formato dalla buona razza di un’educazione forte. L’orgoglio di genitori e parenti e amici. Peccato solo per l’Università. Tutti ce lo inchiodavano ancora, dopo anni, al suo fallimento universitario. Chiodo scaccia chiodo, ma quattro chiodi fanno una croce. Quel maledetto pezzo di carta a casa non l’aveva ancora portato, e il boato dei parenti attorno a lui ingrassava giorno dopo giorno. Ma la cosa più oscura della vicenda è che ciò che pensavano loro, in un modo o nell’altro a lui importava. Don don don…Non volle pensare a quelle cose. Il suono delle campane. Concentrarsi solo su se stesso. La sua pelle, cazzo. La guardò con attenzione. La sua pelle ormai s’era seccata sotto una decina d’anni di recessione. Una diabolica recessione squamosa, tale da farlo assomigliare giorno dopo giorno a un pesce. Si sentiva spesso 8 così, un pesce chiuso in una bolla d’acqua stagna. Gli venne in mente la sequenza de “Il Laureato” in cui il giovane Dustin Hoffmann viene obbligato dai parenti a vestirsi con uno scafandro da palombaro al fine di essere buttato dal padre in piscina solo per farli divertire. Il futuro è nella plastica. Ma se quello doveva essere il suo destino, se quella notte la condizione che gli toccava era quella d’ essere un pesce chiuso in una bolla d’acqua così perdio sarebbe stato. E dal fondo degli oceani ai chiarori del mondo il pesce con la pelle secca avrebbe lasciato dare al massimo un’occhiata veloce alle proprie branchie, avendo cura di nascondersi le altre pelli sotto i ferri della paura e alla vergogna, abbracciato in un senso infinito di sfida con il mondo. Scarsi, frustranti e comunque falliti sarebbero stati i tentativi di strapparsene qualche lembo da solo, giusto per lasciare boccheggiare qualche istante le ossa, respirarsele un po’ anche lui, alla fine. Comprese che più di quindici anni d’impegno nel trasformarsi in pesce, avendo cura di mantenere come obiettivo lo scarto degli strumenti più ovvi d’osservazione, erano serviti a qualcosa: finalmente aveva perduto la capacità di leggere qualsiasi segnale arrivasse al suo corpo. Più di quindici anni impegnato nel diventare stupido. Ripensò, dalla sua stanza, a tutte le ore spese nel mascherare il suo corpo, nel corrompere gli amici con la sua simpatia, nel corazzarsi così tanto di lardo da assumere l’aspetto di un odioso obeso, così da non avere paura né del dolore infetto dei vecchi urticanti amori, né tanto meno da bruciature nuove e ustioni di femmine folli. Più di quindici anni a braccetto con la recessione, compagna così sottile da non aver neppure avuto il pudore di farsi generare da un qualsiasi canale esterno, bensì generata e non creata dal caos, partorita figlia di una condizione speciale. Ma nella sua stanza stava bene. Solo un paio di volte sentì pulsare il malessere sotto la pelle più del solito, ma si avvolse nella nube tossica dell’inspiegabilità. Quando si provano certe cose e non si ha sottomano nulla per schiacciarle, è sufficiente arretrare dentro il fondo del doppiofondo del cervello, lasciarsi cullare dalle nenie di sirene indistinte, quelle ornate da squame morbide e avvolgenti che a volte si incontrano nel corso della vita. La sua pelle squamosa non gli apparteneva, di questo ne era saldamente certo. Non era un pesce. Eppure in quanti modi, nel corso del tempo, era riuscito nell’avventura di farsela sua, stratificandola anno dopo anno, mese dopo mese, giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo? L’idea di girare a vuoto dentro una bolla piena d’acqua iniziò a disturbarlo. Era necessario fare qualcosa per spezzarla, far precipitare i cocci e l’acqua per terra e imparare a respirare. Era giunto il momento di imparare. Si mise alla scrivania per mettere un minimo d’ordine tra i files sparsi per la sua mente, non importava come e quanto tempo ci avrebbe impiegato. Conosceva bene soltanto una cosa. Da dove partire. Dall’impoetico. Così iniziò stringendo in una mano un bicchiere d’acqua e nell’altra una scatola di Tavor da 2, 5 mg, una boccetta di Minias, e una scatola di Xanax da 50 mg. 9 D’improvviso un dubbio: era forse nella stessa situazione accaduta più di quindici anni prima? Non ricordava più bene ma…no, no….allora voleva solo farsi fuori, ora non più, ora questo argomento era chiuso, non gli importava più. Ora voleva nuotare come un pesce, immergersi nudo nel Mississippi dei suoi ricordi, come il giovane Jeff Buckley a cui non importava saperne riemergere. Guardò il bicchiere e le compresse: non riuscì a far altro che respirare bene il suo malessere tutto d’un fiato, lasciarsi infettare da un’ansia ogni momento più strisciante e diffusa, rassegnarsi a legarsela ben bene ancora una volta sulle spalle come uno zaino e alla fine tuffarsi nel fiume. Mentre scendeva in profondità in acqua, il peso dello zaino si fece via via più insostenibile, tanto che un narratore esterno, non coinvolto direttamente nella storia quanto il sottoscritto, avrebbe potuto definire quell’immersione come una sorta di tracollo esistenziale. Dalla scrivania si immerse, i gerani e la brezza un po’ lo sollevavano dal boccheggiare ma ormai quasi non li notava più. Portava sulle spalle lo zaino con i files ma più scendeva più le fibbie tiravano, così violentemente cercando di risalire verso la superficie che il fondo della sua pelle iniziò a lacerarsi, con sempre maggiore brutalità. A un certo punto un brandello si squarciò di netto, e la cappa di dolore che gli stava schiacciando il plesso solare pareva disperdergli il fiato. La pelle prese a staccarsi e a pendergli dal corpo come foglie avvizzite da un albero. Più s’immergeva, però, più si accorgeva che nonostante il dolore riusciva a respirare. Con un paio di movimenti goffi si liberò dello zaino e lo lasciò fluttuare nell’acqua. Più s’immergeva più riusciva a tenere aperti gli occhi, a vedere la sua stanza da sotto il pavimento, traslucido come una lastra di vetro, e poi il corridoio, il bagno piccolo, la camera da letto dove proprio in quelle ore stava riposando la sua compagna. Più nuotava verso di lei, più l’impoetico si rivelava a lampi, ma a lampi minori, e lentamente il fiume andò ad allargarsi e sboccò al fondo degli Oceani: 10 lampi e istanti : l’impoetico si rivela a lampi, si raggomitola sulle impercepite nuove cose da cui siamo sommersi, da sopra e da sotto il mondo: possa il verso mio divenire pop, acuto alla prosa, al gesto utile, al lavoro sul layout di stampa, possa il mio canto contenersi in un floppy; oggi i frammenti vengono serviti in istanti e devi stare attento tu, se puoi, come tanti e non come tutti, a durare poco più oltre quel vento: 11 2. tra la ragazza e l’acqua – h.00:30 “sì è vero, ero venuta qua per ucciderla. Ma proprio cinque minuti fa ho scoperto di essere incinta, e ora ho paura. Mi è venuta una paura fottuta per me e per il mio bambino” Uma Thurman in Kill Bill, di Quentin Tarantino : nuotò sotto la sua scrivania, sotto l’impoetico rilevato a lampi, ed entrò nella camera da letto. Riposava la sua compagna. Questa è un’altra stanza, pensò, con un’altra storia. Al centro, però, un grande specchio poteva rifletterli entrambi. Dalla portafinestra socchiusa la luna schiariva a tratti la nottata, come una nuvola che passando lascia soltanto il desiderio della pioggia e nient’altro. La prima cosa che notò durante l’emersione fu il sonno poetico della sua compagna. La notte era arrivata, illuminata dal gracidare delle rane, con i cani stranamente silenti, forse abbracciati ognuno al proprio osso da sgranocchiare, quieti. Il sonno della sua compagna era pieno di sogni: lui aveva la possibilità di entrarci dentro, ma non di modificarli né di parteciparvi. Fece un balzo dall’acqua e si tuffò dentro il sogno di Emanuela. Si ritrovò al centro di una città senza nome, una città di vetro, sopra l’ultimo grattacielo rimasto in piedi dopo le bombe. La sua compagna era stesa su un materasso, sognando un sogno ninja. Poi all’improvviso si desta, in questo sogno, e si scopre indosso la tuta gialla di Uma Thurman in Kill Bill, la katana Hattori Hanzo custodita nella sua fodera nera. E’ subito in piedi, gli occhi guizzano a destra e poi a sinistra, un silenzio premonitore di sventura e pericolo circola nell’aria. Come ci fosse una colonna sonora spaghetti western a celebrare il momento dell’attesa. Anche lui riesce a percepire questa musica che non c’è. Poi dal nulla spuntano sette samurai incappucciati e dodici mafiosi in giacca e cravatta. Lei senza pensarci un attimo fugge, e con un balzo si getta dal grattacielo, ma precipitando ha il tempo di osservare le finestre, simili a quelle di un ospedale ma stranamente tonde, come quelle degli hobbit. Un gesto soprappensiero ed è aggrappata al cornicione. Pochi metri di fatica poi si lascia scivolare cadendo in piedi sulla scala esterna dell’edificio. Inizia a piovere, è dentro la migliore inquadratura di Seven, quella in cui John Doe arriva a sfiorare il naso di Brad Pitt con la pistola mentre la tensione accelera e i muscoli dello spettatore si contraggono fino al momento in cui lo lascia andare. Ma con lei non c’è John Doe. Piroetta giù dalla rampa e si ritrova immersa nella fanghiglia, impantanata in una sorta di laghetto stagnante, immobile, con le onde piatte e addormentate. Un attimo di pace, poi sente il respiro e i rantoli e i grugniti dei samurai e dei mafiosi sopra di lei. Si volta, li vede arrivare, si getta in acqua e si finge morta, colpita alla schiena da un proiettile assassino. Ma i cattivi non desistono, non credono sia così semplice sbarazzarsi di lei, alcuni di loro iniziano a scendere la scarpata che porta al mare. I loro passi sono svelti e agili, come di piccoli ragni abituati alle insenature delle rocce. 12 Quando ormai sono a pochi passi la ragazza inizia ad annusarne il fetore, e rapidamente si rialza e si pone in posizione da battaglia. Ora stanno tutti immobili, pronti a combattere. Un samurai ride, lei si blocca e si guarda la mano destra: stringe solo un cacciavite e ai suoi piedi sta un tubo che ricordava appena di aver intravisto sul tetto. Queste le sue sole armi. Un passo avanti dei samurai. Un passo indietro della ragazza. Uno dei mafiosi sussurra qualcosa a un ragazzo più piccolo, che per un attimo la guarda. Alza la pistola e spara senza prendere la mira. La ragazza cade, un fiotto di sangue spruzza via dalla nuca. La ragazza riapre gli occhi, in questo sogno, ed è in via Mazzini. E’ pulita, lavata, indossa un abito estivo asciutto e leggero e porta i capelli annodati da una fascetta multicolore, più corti. Suo padre Cosimo la chiama, le dice di far presto, devono partire per le vacanze in Calabria: suo padre indossa una camicetta a maniche corte a quadri, bermuda e un paio di sandali grigi comodi. Sua sorella Maria è già in macchina che armeggia con il cellulare, vuole scattare alcune foto di prova prima di partire. Sua madre sta aiutando il fratello a sistemarsi, gli passa delle salviette perché sta sudando molto, poi anche lei si accomoda in auto. Cosimo la chiama ancora una volta. Lei chiede dove sono i nipotini e Angela, lui le risponde che andranno con un’altra macchina perché non ci stanno tutti in una. Stanno aspettando all’incrocio di Via Nizza. La ragazza immagina pane caldo e carezze del peperoncino. Bisogna sbrigarsi, dice il padre, c’è la festa del patrono e non possiamo mancare. Lui abbandonò il sogno e la stanza, rientrando in acqua e nuotando fino allo studio. Riemergendo andò a sedersi sulla poltrona attendendo la mattina. La sua compagna si svegliò, con un certo stupore non lo trovò nel letto ma sapeva già dove andarlo a cercare. Si infilò un paio di mutandine verdi e si diresse nello studio. Lo trovò addormentato con la testa reclinata sulla poltrona. Con un lento movimento del bacino gli si avvicinò: voleva pregustarsi un nuovo sonno e un nuovo sogno, così porse la bocca all’orecchio del suo uomo iniziando a miagolare: 13 tu dormi a Emanuela : non so chi t’abbia detto che basta miagolarmi all’orecchio per farmi smettere di russare: e tu sai del mio respiro pesante so che aveva ragione, tu miagoli soddisfatta e io ti sorrido; rifletto il respiro nel tuo, sincronizzo al tuo il mio battito così posso ascoltarti finalmente addormentare poi nel muovere le dita inavvertitamente ti sfioro e tu ridi ridi senza svegliarti, così ti stringi al cuscino il tuo viso approvi la vita anche nel sonno proprio come ieri, quando mi hai detto lasciami dormire, che voglio finire di sognarti: 14 3. lanzarote – h.07:30 “pesci gialli e blu mi nuotavano intorno. Ero in piedi sott’acqua, fluttuante sotto la superficie illuminata dal sole”. Michel Houellebecq, Piattaforma : lui le sussurrò dal fondo degli oceani: “lasciami dormire ancora un poco, ti prego, ho bisogno di finire questo sogno” ma le ultime parole le biascicò, lei non capì molto bene, gli chiese di ripeterle dalla punta sottile della lingua arrochita dal fumo delle sigarette fumate la sera prima alla preoccupante alitosi che sapeva di psicofarmaci. “Ti stavo sognando, amore, stavo facendo un sogno erotico su di te” le disse “Ah sì? Raccontamelo allora”. Faticosamente egli riaprì gli occhi e la osservò ruotargli attorno, ma era troppo veloce e incuriosita. Indossava un top di cotone verde che le poneva in risalto i seni e un paio di mutandine verdi bassissime in vita, che le lasciavano scoprire un ciuffo di peli proprio all’altezza del basso addome. Lui la esaminò, non riusciva a sentire l’erezione nonostante quell’immagine gli piacesse e gli erotizzasse ancora parecchie voglie sopite. Lei lo svegliò definitivamente con un bacio sulle labbra e poi con un succhiotto all’orecchio che gli procurò un piccolo brivido giù per il midollo spinale. Si rese conto di essersi addormentato, come spesso accadeva in quel periodo, nella poltrona dello studio. Non aveva avuto neanche la forza di spogliarsi e infilarsi a letto dopo il ritorno in piena notte da Lanzarote. Poi lei improvvisamente scomparve dal suo campo visivo, lui si riassestò e accese il computer per controllare la posta e aprire alcuni files sui quali stava lavorando. Il tempo di rileggere quanto scritto e lei riapparve con una tazza di caffè fumante. L’appoggiò sopra la scrivania. “Vado a finire di prepararmi” gli disse. Lui attese pazientemente che la porta del bagno si chiudesse e che iniziasse a scrosciare l’acqua per la doccia. Poi di scatto balzò in piedi, si infilò nel bagno piccolo e sganciò due compresse di Tavor da 2, 5 mg per scioglierle nel caffè. Prese altre due compresse di Xanax da 50 mg e 30 gtt di Minias. Con un gesto rapidissimo anche loro finirono a ribollire nel caffè. Come le pozioni delle streghe, pensò, come i loro sortilegi. Io sono Macbeth. Sorrise. Dopo il cocktail si ritenne pronto per affrontare il ricordo della sua esperienza appena trascorsa a Lanzarote, l’isoletta vulcanica delle Canarie in cui Stanley Kubrick filmò le sequenze iniziali del suo 2001 Odissea nello Spazio. Lui a Lanzarote c’era andato perché in agosto, insieme al gruppo dirigente dell’azienda e al Consiglio d’Amministrazione, avevano deciso di far partecipare tutti i dipendenti alla convention annuale dell’azienda in un posto esotico. Aveva chiesto un giorno di riposo per il suo compleanno, dopo. Lei lo accompagnò e fu davvero cortese nell’aiutarlo con le valige e pronta nello svolgere le piccole formalità legate alle presentazioni verso persone assolutamente sconosciute. Poco prima dell’imbarco lei 15 se ne andò schioccandogli un bacio sulle labbra estremamente rumoroso e caldo, lui ricevette alcuni complimenti sulla gentilezza non comune della sua donna e su quanto lui potesse ritenersi un uomo fortunato. Stava naturalmente partendo per il viaggio con in corpo una tale quantità di psicofarmaci da poter stendere un cavallo e a stentò ricordò i particolari di quelle situazioni. Appena salito sull’aereo iniziò a non sentire più nulla, a parte lo sprofondamento in acqua. Le benzodiazepine erano quasi al top: barcollò fino al suo posto a sedere, si fece aiutare dalla hostess per allacciare la cintura solo per sentire le sue tette comprimersi un po’ sul suo petto, e le mani lisciare il principio morto di un’erezione che palpitava fra le gambe. L’aereo decollò e lui non provò nulla, stava ormai retrocedendo allo stadio del pesce: più l’aereo andava verso l’alto, più lui si scopriva a immergersi vero il basso, divertendosi come un matto nel vedersi ricoperto di squame e pinne, le quali gli agevolarono la liberazione dalle cinture e gli consentirono di fluttuare il quel nuovo mare pieno di stupefacenti altri esseri come lui: la bionda collega Sigfrida, ad esempio, che veniva direttamente dalla Svezia ed era stata spedita a lavorare lì come “osservatrice”, perché la casa madre svedese non si fidava dell’organizzazione interna di una sua qualsiasi filiale italiana. Le voci di corridoio dicevano che Sigfrida amava molto entrare nel gotha di coloro che contano nella vita professionale (entrare sessualmente, ovvio), e uno che fosse stato del ramo giusto non ci avrebbe messo ne uno né due ad aprirle il culo a secco, senza neppure usare unguenti. La selezione del personale che operava Sigfrida escludeva, va da sé, il primo mezza sega che passava di lì. Con lui, comunque, niente. Sigfrida non lo riconosceva che come dipendente anziano, nulla di più. Lei il culo se lo faceva rompere solo dai quadri in su quindi lui, manco a dirlo, era spacciato: non ne avrebbe mai assaggiato il roseo miele. E con lui decine di altri onesti lavoratori friggevano nella stessa posizione. Seduto accanto a lei l’altro svedese, il vecchio Bjiorn (ecco uno che avrebbe potuto infilarglielo con spavalderia…). Non le toglieva gli occhi dalla scollatura appassionante neanche per un istante. Lui invece, immerso nelle acque come un pesce, ignaro di tutti e ignorato da tutti, in quella scollatura ci si era già immerso e stava scivolando, con sorrisi pieni, attraverso l’intimo della biondina, apprestandosi ad aggirare il filo spinato delle cerniere che le mortificavano la schiena per affondare sotto le mutandine. Piacere incommensurabile il fluttuare tra i peli della sua fica come fossero alghe, sentire la caverna di carne rosea come una profumata casa in cui potersi stabilire per un po’. Uscì bagnato fradicio da Sigfrida, la quale aveva stampata in faccia un’espressione strana di sottile disagio: aveva la sensazione che qualcosa avesse violato il suo corpo in modo strano e inspiegabile, certo, anche se non propriamente disdicevole. Il vero obiettivo, per lui come pesce, non era però quello di esplorare la svedese (quello era uno sfizio, un atto di sfida più che altro nei confronti dei suoi colleghi) bensì quello di nuotare zigzagando tra i colleghi meno fortunati stipati nella business class solo per arrivare a Sandra Lipari, la capo reparto dei tele account, cioè di quei poveri cristi che si occupavano di vender al telefono i prodotti dell’azienda. Ma lì avvenne il disastro, che trasformò la vittoria in un’ulteriore frustrazione, proprio a un passo dal traguardo: non fece in tempo a intrufolarsi nelle sue mutandine che la voce 16 del comandante gli urlò in faccia da un altoparlante di tornare al suo posto (uomo o pesce che fosse), allacciarsi la cintura di sicurezza ed essere pronto all’atterraggio. Tornò con una flessione del busto, in un baleno, in superficie: poi lanciò uno sguardo distratto al suo compagno di posto, l’onesto Pietro Pireo, che beatamente dormiva. Tutti erano pronti per l’atterraggio, il capitano informò che sarebbe stato meno morbido del previsto. Temporali in vista, altra acqua sulla sua storia, pensò. Dagli oblò spuntava questa terra nera, desertica, senza nessuna costruzione nel raggio di chilometri, il vulcano che spento ruggiva all’orizzonte. Più l’aereo si abbassava più nitidamente riusciva a scorgere lo sconsolato paesaggio bruno. Il cielo era nuvoloso, a Lanzarote però non pioveva quasi mai e l’acqua era un bene indispensabile. Scese dall’aereo e venne inghiottito da un’afa tumida. Alcuni pullman di linea ringhiavano dal fondo della strada. Uno di quelli avrebbe dovuto trasbordarli in albergo, dove era riuscito ad ottenere una stanza singola. Si prefigurava scopate e orge quotidiane mentre era placidamente seduto sul bus. Arrivarono presto in albergo, scese e notò che due corvi si erano posati sul terriccio rosso bruno a pochi metri da lui. In questo posto giungevano un tempo mercanti a scambiarsi racconti, era un punto d’approdo per navi e marinai, pieno di bordelli e di rum. Esattamente quello che era venuto a cercare con tanto ardore: 17 equinozio e solstizio : qui giungono i mercanti da sette nazioni ad ogni equinozio e solstizio e tra i banconi carichi di zenzero e bambagia scorgi sacchi e teli colmi di pistacchi e semi di papavero, e il carrettiere che rapido ha appena scaricato sacchi di noce moscata e di zibibbo già affastella i suoi basti con rotoli di mussola dorata, asciugandosi il sudore ma non solo a vendere o a comprare giungono fin qui i mercanti loro sanno che la notte accanto ai fuochi tutt’attorno al mercato possono sedersi sui sacchi o sdraiarsi sui mucchi ti tappeti perché a ogni parola che uno dice, come – “lupo”, “sorella”, “battaglia” o “amante” – gli altri racconteranno la loro storia ognuno la sua storia di lupi, di sorelle, di battaglie e di amanti e tu sai che nel lungo viaggio che li attende dovranno restare svegli al dondolio del cammello o della giunca e si ritroveranno i loro ricordi carichi di nuovi lupi, sorelle, battaglie, amanti questo è il luogo dove ci si scambia la sottile memoria nostra: 18 4. la posizione del corpo – h.07:45 “se ti presti a mettere in scena con le parole scritte i desideri e memorabilia degni solo dell’oblio dell’umanità che ti compra, è perché la tua vera vocazione è quella del venduto, non quella di Scrivere. Sarebbe stata la stessa cosa se avessi venduto fave congelate” Aldo Busi, Nudo di madre : e invece lui, dal fondo degli Oceani nella sua stanza, non riusciva scambiare la memoria nemmeno con sé stesso. Sempre nuotando, accorse che ormai quel ricordo stava diventando un posto freddo e buio: Lanzarote. Ciò che ancora aveva la forza d’immaginare è che dentro quella strana bolla d’acqua qualcuno o qualcosa ce lo avesse spinto, visto che non ricordava di esserci arrivato da solo. Aveva un buco nero nella memoria riguardo a quell’esperienza, che era iniziata nel momento stesso in cui aveva posato le valige all’interno della sua camera ed era terminata l’attimo stesso che aveva ingoiato quasi contemporaneamente cinque o sei compresse di Tavor da 2,5 mg. Sono molte le cose che uno non riesce a mettere a fuoco quando si fa un blister intero di calmanti, d’accordo, ma proprio non riusciva a tornare là con la mente, se non attraverso qualche sperduto flash che arrivava con frequenza abbastanza regolare al cervello. A Lanzarote nuotava tutto il giorno sott’acqua: questo era un esempio dei flash che gli arrivavano. Non si può nuotare così a lungo sott’acqua senza risalire a prendere fiato. Tutto frutto della sua immaginazione? Può darsi. Magari si stava facendo solo un bagno in camera e gli ansiolitici avevano iniziato a distorcere la percezione del tempo. Possibile. Si ricordava la posizione del corpo, quando stava seduto nella hall dell’albergo davanti al suo piatto zeppo di cibo, si ricordava i dolori intramuscolari che lo avevano colto al risveglio da un sonnellino pomeridiano sulla poltrona della terrazza nella sua stanza. Si ricordava che qualcuno gli disse che aveva un’aria strana e se si sentiva bene dopo che lui aveva preso i medicinali. Forse si era sentito male in pubblico? Aveva fatto figure di merda davanti al suo capo? Le ragazze se n’erano accorte? Qualcuno aveva avvertito i suoi genitori? Era stato mica trasportato in ospedale? Improbabile, quest’ultima ipotesi: nonostante fosse fatto come un cucco dal mattino a sera avvertiva sulla pelle un qualcosa di macabro ma non il dolore lancinante di una lavanda gastrica. E allora perché si ricordava così bene del nuoto subacqueo? E’ stato a Lanzarote che ha iniziato a sentirsi trasformare in un pesce o è accaduto prima? Era riuscito a nuotare nell’Oceano? Se per qualche attimo si concentrava riusciva a percepire una specie di piccolo dolore ovattato che gli dondolava nella testa e un tremore morbido che gli circolava nelle vene, come se al posto del sangue stesse scorrendo un anestetico. La sua compagna era ancora sotto la doccia. Lui sempre immobile sulla poltrona, impedendosi di compiere anche il più semplice dei movimenti. Non provava sensazioni precise. Gli sembrava di andare alla deriva pur restando fermo, spinto da 19 chissà quali correnti, senza avere la possibilità di capire o di dare una direzione precisa e stabile alla rotta. Un pesce morto. Dentro una bolla d’acqua. Sorrise. Non ricordava di essersi mai sentito in quelle condizioni, mai. Mai, neanche quando ebbe la rosolia a dodici anni e il medico di famiglia sbagliò sia la diagnosi sia la terapia, e lui ebbe le complicazioni di una febbre talmente angosciosa da costringere i suoi a farlo ricoverare. Quell'odore freddo e umido di una stanza d'ospedale gli riempiva ancora oggi le narici. Anche allora c'era l'ovatta a tamponargli il cervello, ma aveva il sollievo di sentire sua madre accanto a lui. Ricordava che il delirio non gli permetteva di tenere aperti gli occhi, eppure la presenza di suo padre e di sua madre la sentiva. Quel ricovero lo costrinse a letto per un'estate intera, e quando il calvario terminò si sentì spossato e apatico, come dopo una faticosa camminata in montagna. Ma aveva comunque sua madre con lui e il ritorno alla normalità avvenne tra infinite coccole, circondato da tazze di brodo caldo e pasticcini. Oggi invece il senso di solitudine che provava era totale, non sentiva nessuno con lui. Era questo a terrorizzarlo. Molte cose erano cambiate da quella febbre infantile. Non aveva più dodici anni, innanzitutto. Pensò che sarebbe stato bello riavere con sé la madre. Il ricordo di lei non era sporco. Pensò che gli sarebbe piaciuto avere accanto anche Serena, la sorellina morta prima di nascere di cui, purtroppo, non ricordava nulla. Ore 7:45 dell’ 11 ottobre 2006, lampeggiava l’orologio al muro. Era stato via da casa quattro giorni. Ciò che aveva in mente fare, si ripetè, era tentare di sciogliere i suoi ricordi per dare loro una consistenza precisa. Sbrogliare la matassa che raggrumava nella memoria e darle una forma lineare, trasformarla in una storia. Doveva unire i puntini con una matita e scoprire l'immagine che ne sarebbe venuta fuori, come se la sua vita fosse una di quelle stupide rubriche sulla Settimana Enigmistica. Sforzarsi innanzitutto di trovare il punto di partenza, l'origine. Niente accade per caso. Niente, pensò. Mettere in ordine le scatole dei suoi ricordi, quelle piene di facce di persone incontrate per caso, di amici, di vecchi amici mai più rivisti, di piccole compagne di scuola che gli mostravano la fica arrossita e senza un pelo, le giovani compagne di banco con un filo di seno in più che glielo facevano drizzare, i compagni con cui faceva a gara per vedere chi ce l’aveva più lungo, chi schizzava più lontano, chi riusciva a chiavare per primo e di più (e in questo Riccardo era sempre stato il maestro irraggiungibile). Ma anche i libri letti, quelli comprati solo perché bisognava leggerli e che ovviamente non sono mai stati neanche aperti, i vecchi vinili hard rock, il passaggio ai cantautori, la “grunge music” e il genio compianto Kurt Cobain, le nottate a parlare con Roberto su un assolo particolare di Mark Knopfler, i romanzi culto, L’Ulisse di Joyce, Sulla Strada di Kerouac, le serate negate agli amici perché su Canale 5 il sabato notte davano in rassegna tutte le Storie del signor G. Chissà quante scopate si era perso andando dietro a queste cose… Ora la sua posizione del corpo non gli permetteva di vedere dov’era. Nuotava dentro la sua stanza e sentiva solo un l’odore dell’acqua e della muffa. Si alzò camminando rasente i muri come Federigo Tozzi, avvertiva godendosela la superficie liscia, fredda 20 e dura delle pareti grattargli lievemente la schiena. Stava ancora nuotando e quindi aveva la sensazione di non riuscire a muovere un solo muscolo del corpo. Non avvertiva nessun dolore preciso. Non sentiva più il corpo nella sua interezza. Non sapeva se era sveglio, se stesse dormendo o sognando. Non riusciva a decifrare il tempo: avrebbe potuto essere lì da mesi, da anni, o solo da qualche minuto. Forse aveva aperto gli occhi da pochi istanti, forse li teneva ancora chiusi. Non aveva sete e non aveva fame. Non poteva fare nulla a parte nuotare e ricordare. Il calore dei ricordi gli mordeva la pancia. Conati di vomito. Sudori freddi. Febbre. Diarrea. Andò nel bagno piccolo e vomitò. Era tornato da Lanzarote, sì. Fin qui ci siamo, pensò. Ma i ricordi arrivavano, galoppavano, erano troppi, cavalli imbizzarriti, aveva dentro la testa talmente tanti ricordi più che se avesse avuto cent’anni: 21 blues : ho dentro più ricordi che se avessi cent’anni: una vecchia credenza ingombra di carte e versi, lettere non spedite, bilanci e scontrini e parole d’amore scritte a macchina una nera ciocca della treccia di mia madre diciottenne che non assorbe più i segreti che assorbiva il mio vecchio cervello è una cripta, una piramide immensa, seppelliti più morti che in una fossa comune ci passeggio come in un cimitero sotto la luna e dove lunghissimi vermi strisciano, come rimorsi, all’assalto delle morte cose che più ho care un salotto arrugginito, gremito e intasato di camicie fuori moda, rose appassite, vecchie custodie di vinili hard rock, pastelli che profumano, soli, come aperte boccette di fiele niente eguaglia in lunghezza queste giornate stese sotto i fiocchi di neve come nell’ottantacinque nemmeno la noia, la triste assenza di curiosità che mi muore dentro svenendo fra le palpebre prende i segni d’una colma misura d’immortalità anche io ormai non sono altro che una cosa della vita come un granito assediato da un piccolo terrore che sta immerso nella bruma del Sahara notturno una vecchia sfinge dimenticata dal mondo indifferente che le mappe ignorano o nascondono, e che soltanto ai raggi del tramonto, fra le dune, ferocemente canta: 22 5. la cosa – h.08:15 “la faccia di papà era bianca come un cencio, ma non saprei dire se fosse spaventato per me o semplicemente per la violenza del momento.” Sam Shepard, Il grande sogno : tirò la catena e il vomitò andò giù. La cosa salì invece verso di lui e scivolò direttamente dal fondo dell’acqua del cesso, nascosta dietro il vomito. La cosa lo avvolse, lo strinse con la sua superficie melmosa e squamosa, lo trascinò su, lo riportò dentro la sua stanza, salvandolo appena dalla deriva. Lo spinse davanti alla scrivania e lo mise a sedere. Lui per tutto il tempo della risalita rimase cosciente e non si sorprese affatto nel trovarsi accanto la cosa; certo, erano i postumi dei farmaci a far sì che non si accorgesse subito della sua presenza, visto che li appena aveva vomitati. Non era dunque ridotto così male da non sentire il fetore che emanava. La cosa gli alitò sul collo, lui si girò di scatto guardandola diritta nella vacuità dei suoi occhi. Non si scompose più di tanto, solo un accenno lieve di stupore nel trovarla lì in quel preciso momento. E in un certo qual senso anche la cosa non si aspettava la sua entrata in scena così preso, meno che mai che fosse addirittura lei a doverlo trascinare fuori dall’acqua di un cesso. La cosa si avvinghiò piano verso di lui, poi scivolò verso l’orecchio e gli sussurrò: “Com’è andata a Lanzarote?”. Seguirono alcuni attimi di silenzio, poi la cosa continuò: - No. Non pensarci troppo, tanto sai benissimo di cosa sto parlando. Allora, com’è andata? E perché in questo momento sei in questo stato? Le due cose hanno una connessione? - A Lanzarote è andata uno schifo. Non sono riuscito a scopare. Non ho seguito i corsi di aggiornamento e delle relazioni trimestrali sul break even non ci ho capito nulla, - E perché sei tornato per ridurti in questo stato? Non avevi deciso di fonderti con l’Oceano? - Ho deciso di tornare per fare una cosa. - Sarebbe? - Sono qui per vegliare affinché tutti quelli che amo dormano serenamente. - Cazzate. Ti importa davvero del loro sonno? Secondo me ti importa più dei loro sogni. La sua voce adesso era un sibilo, un sinistro strisciare attraverso la mente ovattata e intorpidita. - M’importa dei loro sogni, sì. I sogni rendono liberi e io mi sento libero adesso. Libero di sentirmi come mi pare, intendo. Capisci? E spero che anche loro lo siano. 23 - Sei libero, certo. Tu sai che possono esserci un sacco di letture differenti dietro questa tua affermazione così radicale, vero? Vuoi dire che tu sei libero solo nei sogni? E che anche loro sono liberi solo nei sogni? - Questo non lo so, bisognerebbe chiederlo direttamente a loro. Ma io credo di sì. - Tu glielo chiedi mai? - Io parlo poco con loro, figuriamoci se vado a parlarci di sogni…mi prenderebbero subito per matto. Già suona loro strano che io componga versi… - Eppure vuoi loro molto bene. - Si lo so. - Come mai sei ridotto in questo stato? - Lo sai perché. - Voglio che sia tu a dirmelo. - Perché voglio giocare a farmi male. E in questo momento il più possibile. - E perché vuoi giocare a farti male? - Perché voglio prendere su di me le loro colpe. - Cazzate. Dimmi perché. - Perché voglio andarmene in giro per casa sotto l’effetto di una qualsiasi droga. E siccome non ho le palle per uscire e andare a cercare qualcuno (inoltre dovrei troppe spiegazioni a riguardo, e tu sai che non è nella mia natura dare troppe spiegazioni su ciò che faccio), ho rubato le compresse a mia madre, e se aggiungiamo quelle che riesco a trovare in giro, a farmi prestare dagli amici, a farmi dare dal medico di famiglia…il gioco è fatto. - Ti piace vero? Prendere ansiolitici e calmanti e ipnotici fino a stordirti, intendo… - Molto. Ho voglia di provare con i neurolettici, in questo momento. - Cosa ti piace esattamente di questo aspetto del tuo modo di agire? Parlamene. - Mi piace immaginare di sentire come starò, sai quel senso di trasporto allucinato che ti fa biascicare le parole e strisciare per casa a piedi nudi, tentando di indovinare dove siano i muri e gli interruttori della luce mentre gli altri dormono. Mentre la tua mente è altrove. - E poi? Cos’altro ti piace? - Mi piace la sottile angoscia dentro lo stomaco mentre sto pensando che qualcuno possa beccarmi da un momento all’altro, o che lei possa svegliarsi e vedermi ridotto in quello stato. Ma è un’angoscia piacevole, è una cosa che voglio. Sbatto apposta sulle porte, accendo apposta le luci. Ma loro non si svegliano. Mi fa godere la sottile piacevolezza di stabilire un contatto, anche distante, tra me e chi si fa sul serio. - Intendi dire che vuoi essere un tossico e non hai le palle per dichiararlo? - Lascia perdere i tossici da strada, io parlo di Mick Jagger e gente simile. Parlo di Jamiroquay che in un’intervista ha dichiarato che il senso della vita è sniffare cocaina dalle tette di una bella fica mentre un’altra ti sta facendo un pompino. 24 - E questo cosa c’entra? - Ecco, sono queste le cose che mi illudo di trovare con gli ansiolitici che trovo in dispensa. So che è una cosa banale, una cosa stupida. E’ come desiderare una Ferrari e per placare un po’ il senso di frustrazione del non averla comprarsi un bell’orologio sveglia multi funzione. - Torniamo un attimo ai tuoi, dopo questa serie di banalità. Perché non si svegliano? - Perché dormono. - Non dirmi cazzate. Dimmi perché non si svegliano. - Perché non gliene fotte un cazzo di come sto. Perché hanno le loro cose, perché hanno i loro problemi e non possono stare dietro a uno che problemi non dovrebbe invece avercene, perché possiede già tutto. Perché credono che io stia a posto e che di notte dorma. Perché sanno che io sono un tipo regolare. - Tu sei un tipo regolare? - Nella maniera più assoluta no. Io sono un pesce. E voglio capire perché. - Perché non vieni con me, allora? Io saprei dove portarti. - No, non ho voglia di venire con te - Perché? Ha a che fare con ciò che mi dicevi prima? - Sì. - Perché, dunque? - Perché voglio scrivere ancora. - Di chi? Di cosa? - Di te. La cosa improvvisamente gli scivolò dalla schiena lasciando una scia di bava schiumosa sul pavimento ed emettendo un sibilo acuto, tanto che la pelle gli si accapponò. La sentì sibilare lungo il tappeto e scomparire dietro la porta del bagno piccolo, da dove era venuta. Allora si alzò dalla scrivania e si accese una sigaretta. Trovò suo padre già sveglio, ritto davanti a sé, con lo sguardo cupo e meravigliato, velato da quella graziosa tenerezza che sapeva usare nei momenti di crisi. “Ciao” gli disse “sono venuto a salutarti. Ieri notte sei rientrato troppo tardi, io e tua madre già dormivamo da un pezzo. Com’è andata?” “Bene, papà, tutto ok. E’ che oggi sono solo un po’ stanco per il viaggio”. Uscì in terrazza insieme a lui e si appoggiò alla balaustra. Suo padre aveva smesso da oltre dieci anni di fumare. “C’è qualcosa che non va?” chiese con la voce strozzata dalla preoccupazione, ma con una convessità propria dell’essere lì presente per aiutarmi, qualora avessi avuto il coraggio di chiedergli qualsiasi cosa. Forse quello era il momento per raccontargli tutto, ma il suo orgoglio ancora non gli permetteva simili aperture, e si limitò a sorridere e a dire: “No, pà, tutto a posto, non sono riuscito a dormire bene per via del viaggio e della stanchezza. Ma ora mi bevo un bel bicchiere d’acqua fredda, mi faccio un caffè e una doccia e poi scendo a salutare anche la mamma. Sono a posto, davvero”. Silenziosamente suo padre gli chiese: “Hai preso qualche pastiglia?” e lui silenziosamente rispose; “No, non lo faccio più da quando sono stato male l’ultima volta. Vai tranquillo papà.” Il padre si allontanò e 25 scese al piano di sotto mentre al figlio quasi venivano le lacrime agli occhi. Eppure lui di suo padre non sapeva quasi nulla. Non avevano questa grande relazione. Gli sarebbe piaciuto conoscere la sua infanzia, la sua storia, il suo punto di vista sul mondo. Ma evidentemente anche il padre provava le stesse difficoltà del figlio nell’aprirsi e nel confidarsi, e a parte le norme per una corretta educazione non sentiva di aver ricevuto in eredità la sua storia, la sua sofferenza e anche la sua gioia. Non resistette al disagio e alla cappa e decise di rituffarsi nelle acque torbide ma sicure dei suoi caldi mari del sud. Andò in cucina e fece scendere dentro a un’altra tazzina da caffè 25gtt di Minias e tre compresse di Xanax da 50 mg, poi deglutì. Dopo pochi minuti si sentì intorpidito, leggero, la testa già sott’acqua. Uscì barcollando sul terrazzo, ancora una volta. L’ultima sigaretta e poi il nuoto. Pensava non gli sarebbe dispiaciuto morire lì, in quella casa, sulla sponda occidentale del torrente Prino, pieno di villette e senza la confusione del paese vecchio che regnava al di là del torrente. La vallata era già sveglia da un pezzo sotto di lui. Prime luci nell’aria, l’ombra di una chiesa lontana che si illuminava. I rintocchi lenti. Le rane avevano smesso di gracidare, i cani di abbaiare. Il respiro di Dio, intanto, alitava su di lui: 26 sulla sponda occidentale : dall’alto della mia terrazza ho guardato anch’io il sole sorgere sull’altra riva del Prino dalla mia riva la folla dei fedeli dopo la messa chinarsi verso l’acqua scioglierne le gocce sui palmi accesi delle mani offrire ai primi raggi le cadenti scintillando sulla mia sponda lo strano spettacolo di genti ai piedi delle scalinate delle case dei sagrati ai canti e alle preghiere e al suono delle campane dall’altra sponda nessuno niente solo il velo di una misteriosa caligine soffiare Dio: il pieno e il vuoto solo chi muore sulla sponda occidentale affollata rumorosa assolata rischiarata dalle risa sulla sponda dove notte dopo notte e giorno dopo giorno brillano i bagliori delle pire si salva dal rinascere è così da quando l’uomo si ricorda l’uomo la morte non è la liberazione: 27 6. sul tempo di una fotografia – h.09:00 “Ma non vivere di lamento come un cardellino accecato” Giuseppe Ungaretti, Agonia : tornò dentro dopo aver pianto per suo padre e si distese sulla poltrona, addormentandosi quasi subito. Lo svegliò ancora la sua compagna, che ormai aveva finito di farsi la doccia ed era andata in cucina a preparargli una colazione coi fiocchi: caffè caldo, succo d’arancia, fette biscottate con burro e marmellata di ciliegie. Si alzò in piedi, si sentiva frastornato ma più lucido, si diresse in cucina. Si sedette al tavolo e alzò gli occhi alla parete di fronte a lui, proprio mentre sorseggiava il caffè e dava il primo morso alla fetta biscottata imburrata. Sulla parete di fronte c’era una fotografia. La guardò in silenzio fino a che il ricordo di quella foto riemerse con calma e nitidezza. A vent’anni gli capitò di visitare una mostra dedicata a Mario Novaro che capovolse il suo modo di intendere la poesia. Lo accompagnava il poeta imperiese Giovanni Giudice. Da sempre aveva un debole per tutto quel corredo che riguarda l’oggettistica degli scrittori: i loro fogli, le loro biblioteche, le loro fotografie, le loro penne o macchine da scrivere, anche. Per le loro cose, insomma. Ricordava spesso con piacere la meraviglia nel vedere i manoscritti di Eugenio Montale nel corso di una presentazione, quasi rapito nell’immaginarsi le sue dita che scivolavano su quei fogli. Oppure lo studio di Edoardo Sanguineti all’Università, i momenti trascorsi a sbirciarne la biblioteca privata, o le piccole pile di carta sparpagliate sul suo tavolo, mentre si domandava con tutta l’ingenuità del “fan” se proprio allora stesse scrivendo qualcosa. E ancora la casa che abitò Pier Vittorio Tondelli, con la scrivania sulla quale nacque Altri Libertini, e i suoi album fotografici quasi divorati cogli occhi. O il piccolo palmare su cui aveva visto un giorno Maurizio Maggiani scrivere un articolo, seduto in un pub di Oneglia. Non riusciva a spiegare bene il perché di queste sue attenzioni, poteva però proporre un’ipotesi che gli appariva convincente: forse aveva bisogno di convincersi che dietro ogni verso, dietro ogni parola, c’era un uomo reale, in carne ed ossa. Sapeva che ai più questa sarebbe potuta risultare come la timida osservazione stucchevole, anche piuttosto banale e pretestuosa, di un ingenuo studente, ma sempre più spesso aveva l’impressione di percepire la restituzione della scrittura negli ambienti universitari come un’entità incorporea, quasi nata da sé, oppure generata da persone la cui vita veniva in qualche modo posta al di la del mondo, in un luogo misterioso e inquietante. Persone scelte da chissà quali divinità per donare il sacro fuoco della poesia agli uomini, come Prometeo rinnovati. Sia che si trattasse di conversare con gli amanti delle anime belle, sia che si trattasse di confrontarsi con gli esegeti del vocabolario, i nipotini del Gruppo ’63, i mistici della parola incomprensibile. 28 Quella mostra lo scosse da questi dubbi. Mentre passeggiava nei corridoi del museo, restò attratto da una foto: ritraeva un soldato, un ragazzo molto giovane, seduto su di un masso. La sua divisa appariva logora, sporca, gli stivali inzuppati di fango, i lembi delle maniche strappate. Si poteva quasi vedere l’agonia delle pallottole evitate, sfiorate, mancate di un soffio… si riusciva quasi a respirare l’odore della polvere da sparo, a contare i segni di una fuga attraverso al fango, l’odore acre di una trincea. Sulle spalle teneva uno zaino enorme che sembrava schiacciarlo. A terra la baionetta di quel giovane soldato scintillava. Lui invece aveva il volto stanco, tirato, era chino e sembrava concentrato su qualcosa che pareva assorbirlo interamente. Si avvicinò ancora alla foto per osservarlo meglio, e si accorse che tra le mani stringeva un taccuino. Stava scrivendo. Lesse poi la didascalia sotto la cornice e lo sorprese un emozione immensa: si trattava di Giuseppe Ungaretti. Ed ecco improvviso fiorire un bagliore di chiarezza: quell’immagine rappresentava lo specchio limpido che la poesia appartiene al corpo solido dell’uomo, e ben poco alla sua anima. E’ dal corpo che nasce l’esperienza poetica, viene dal corpo il sudore di battere a macchina le proprie parole durante le afose giornate estive o nelle gelide mattinate invernali. Appartiene al corpo lo svegliarsi di notte con un’idea fissa da stampare assolutamente su un pezzettino di carta. E’ sul corpo che si appoggiano quaderni, matite, penne e gomme da cancellare, temperini e diari. E’ dal corpo di una donna che filtra la sua voce, è attraverso i suoi seni fasciati da una camicetta stretta che urlano quelle parole di fuoco e di ghiaccio. E’ dal profumo di un paio di mutandine che si riesce a scoprire l’odore di quella particolare donna, se sarà o non sarà per te una buona compagna, o anche solo un’amica di letto per un po’ di tempo e basta. Capì subito di cosa non doversi mai accontentare, nella vita, mentre ruotava lo sguardo sulle cose tutte che lo stavano abitando in quel momento. Non avrebbe mai dovuto accontentarsi di guardare un corpo, ma avventurarsi nell’esplorarlo, vivisezionarlo, passarci attraverso: che fosse attraverso la penetrazione fisica o la sublimazione di quella esperienza attraverso la sfera intellettuale poco importava. Voleva fare come fanno gli uccelli che impazziti d’amore si rincorrono, si fuggono, si concedono al cielo ad amplessi solari, sbarazzandosi delle nubi che hanno attorno: 29 le cose tutte che mi abitano : perché non mi accontento ecco perché anche le foglie d’olivo scintillano al sole mentre l’erba ingravida i fiori e le farfalle volano rivolano rivoltano il campo al canto impazzito degli uccelli perché non mi accontento alla collina e al mare rispondo a tutti senza l’attesa di cantare vivere amare andare camminare morire prima d’aver assaggiato le cose tutte sempre nuove nelle ore sempre nuove c’è questo in questo giorno di sole un’ansia dentro il buio d’un nero sopra e sotto le cose dentro le cose che brilla: 30 7. la camera degli equilibristi – h.9:30 “quando Mery si svegliò, si erano persi. Lo sapeva lei e lo sapeva anche Clark, anche se sulle prime non lo volle ammettere. Aveva stampata in faccia la sua espressione da “Ho le palle per traverso perciò sta’ attenta a non rompermele”, per cui la bocca gli diventava sempre più piccola finché cominciavi a pensare che stesse per scomparire del tutto”. Stephen King, e hanno una band dell’altro mondo : finì la colazione e rimase impressionato dalla nitidezza con cui ricordava la mostra e la foto di Ungaretti che teneva appesa in cucina. E anche ciò che pensava della poesia lo sorprese, perché ancora oggi era così. Assaporare con la mente il profumo del corpo di una donna lo accompagnò immediatamente verso il ricordo di Entiazel, in uno dei loro primi incontri. Per scoparsi la tipa senza che nessuno sospettasse dove si trovasse scelse un piccolo albergo di Imperia gestito da una vedova che si chiamava Maria. Era riuscita bene o male a cavarsela, tirando avanti nonostante la morte del marito Pino avvenuta dieci anni prima. Questo raccontò a loro due appena misero piede davanti al bancone della reception, ascoltandola educatamente mentre controllava i documenti e mentre già le dita di lui frugavano sotto la gonna della ragazza il sottile buco del culo, senza peli e roseo, da come poteva ricordarlo. L’albergo aveva tre stanze, tutte al piano inferiore di una piccola villetta. Al piano superiore stava l’appartamento di Maria, spiegò loro. Di qualsiasi cosa avessero bisogno bastava fare lo zero, il telefono lo avrebbero trovato in stanza. Alle camere si accedeva da un unico corridoio, subito dopo la piccola hall. Lei, la proprietaria, si occupava in prima persona della cucina e del cambio delle lenzuola. Era il 10 agosto dell’anno 2000. Sei anni fa. Il sole martellava, la temperatura esterna raggiungeva i 40 gradi all’ombra. Loro si accomodarono nella camera numero uno. Entiazel non fece in tempo a sfilarsi la maglietta che già si ritrovò faccia a terra, alla pecorina, le mutandine slacciate via, i colpi furibondi che la spingevano e la ritraevano. Lui fu talmente veloce che le venne sulla schiena in un attimo. Si buttarono poi dopo l’uno addosso all’altra, sul pavimento, con l’afa che li inchiodava. Con Entiazel si erano conosciuti attraverso una strana storia di e-mail sbagliate, ed erano al loro secondo o terzo incontro. Erano lì per scopare perché tutto l’amore e l’ardore poetico filtrava tra loro due attraverso e-mail e telefonate, e le rare volte in cui potevano incontrarsi scopavano. Lei era di Roma, lavorava in un’agenzia di pubbliche relazioni di prestigio, aveva un sacco di soldi e come se non bastasse conviveva con un altro uomo. Però quel giorno aveva fatto 600 chilometri per stare con lui solo per una notte. Gli pareva evidente che sapesse scoparla molto bene. Nella camera numero due, adiacente alla loro, stava una coppia sulla quarantina. Erano di Torino. Lei si chiamava Franca, faceva la casalinga, lui si chiamava Antonio 31 ed era commesso viaggiatore. Erano in vacanza senza i figli che, oramai adulti, avevano scelto mete più esotiche rispetto alla squallida Imperia. Franca aveva deciso di suicidarsi. Antonio era a un bivio: se al rientro dalle vacanze non avesse raggiunto il break even impostogli dalla sua società, sarebbe stato licenziato. Nessuno dei due era a conoscenza della condizione esistenziale dell’altro. Parlavano così poco… Nella camera numero tre stava una ragazza di 18 anni appena. Si chiamava Sorien, che in arabo vuol dire “sole d’oriente”. Era sola. Forse scappata di casa, non si sapeva. Non si riusciva a indovinare nulla del suo destino quando la si guardava in viso. Questa ragazza non ce la faceva ad avere relazioni affettive con i suoi coetanei. Eppure era sessualmente attiva. Le piaceva scopare i “vecchi”, come in maniera grezza apostrofavano quel vizio le sue amiche. In realtà a lei piaceva sedurre i quarantenni, che ancora ce l’avevano duro e avevano l’esperienza necessaria per trapanarla a dovere e farla urlare dal piacere. Le piaceva farsi schizzare sui seni, che aveva grandi e con i capezzoli bruni e notevoli. Una volta una guardia giurata che l’aveva scopata in servizio, appoggiandosi al cancello di una vecchia villa abbandonata le aveva dichiarato che il suo buco del culo era il più grazioso che avesse mai visto. La sodomizzò a secco, lei lasciò fare nonostante il dolore. La verità era che le sue amiche morivano d’invidia nel saperla a Imperia da sola in vacanza con la possibilità di succhiare il cazzo a un’infinità di “vecchi”, cosa che loro non avrebbero mai avuto il coraggio di fare, neanche con gli implumi con cui si accompagnavano. Intanto, mentre i cinque destini s’incrociavano in quell’albergo, nella camera numero uno lui stava facendo l’amore furiosamente con Entiazel: erano quasi arrivati all’estasi. Lei stava gridando, aveva le unghie conficcate nella sua schiena. Le gambe intrecciate, le bocche incollate, gli odori della pelle mescolati. Lui venne spingendosi dentro di lei, e in quel momento non si rese minimamente conto di urlare sottovoce. Si accasciò sul letto in un bagno di sudore. Era felice. Nello stesso istante dalla camera numero due e dalla camera numero tre uscirono contemporaneamente Sorien e Antonio diretti al bagno comune. Sorien lanciò un’occhiata porca ad Antonio e lasciò cadere il pareo che indossava (si stava preparando per andare al mare). Antonio imbarazzato dalla vista del suo costume inequivocabile distolse per un attimo lo sguardo, ma la voce dolce della ragazza lo ridestò: “Se devi andare in bagno fai pure prima tu, io sarò velocissima”. Antonio non sapeva che dire, farfugliò qualcosa che somigliava a un “grazie” e si avviò verso il bagno. Appena entrato Sorien si intromise alla velocità della luce: “Non ti dispiace vero? Mi do una semplice ritoccatina ed esco” “Fi-figurati” rispose nella più totale confusione Antonio, che già faticava a controllare un’erezione. Sorien si era già accorta del gonfiore nella patta, si inginocchiò fingendo di legare i sandali e si ritrovò con il naso vicinissimo alla sua patta: sapeva di borotalco, probabile che si fosse già fatto la doccia prima di entrare in acqua. Antonio rimase immobile quando Sorien 32 allentò la cerniera dei suoi pantaloni, abbassò le mutande e afferrò il cazzo di Antonio completamente eretto tra le dita. Diede un paio di colpi di lingua alla base della cappella poi lo prese in bocca e dolcemente iniziò a succhiare. Era la prima volta che Antonio si trovava, nel corso della sua vita, in una simile condizione, e non ebbe neppure la forza di resistere. Le venne quasi subito in bocca con uno schizzo talmente forte che Sorien fu costretta a deglutire un paio di volte prima di sentirselo pulito e potersi dichiarare soddisfatta. Senza dire una parola Sorien uscì dal bagno e si ritrovò il volto di Entiazel davanti, anche lei con la fretta di usare il bagno per togliersi di dosso i resti del seme che le erano rimasti appiccicati sulle tette, sulle spalle, agli angoli della bocca. Sorien le regalò un debole sorriso e uscì verso la spiaggia. Antonio, completamente sotto shock, uscì dal bagno con un'espressione ebete stampata sul volto, non si accorse neppure della presenza di Entiazel e percorse quasi barcollando il breve corridoio che accomunava tutte le stanze e rientrò in camera. Si buttò a corpo morto sul letto chiudendo gli occhi. Non gli era mai successa una cosa simile. Cazzo cazzo cazzo! Essere spompinato gratis da una strafiga minorenne nel cesso di un albergo! Qualcosa di buono il mondo riusciva ancora a regalarglielo dopotutto. Non si chiese nemmeno dove fosse andata Franca, era l’ultima cosa che gli passava per la testa. Ciò che provava in quel momento era pura gratificazione. Aveva una voglia fottuta di chiamare tutti i suoi amici per raccontare quell’avventura, come nei peggiori film pecorecci con Alvaro Vitali e Lino Banfi. Già si faceva se sue brave seghe mentali sulle loro maledette invidie… Poi aprì gli occhi e per un attimo non credette a ciò che vide. Li strizzò due volte, li sgranò, poi li tenne ben aperti e concentrati su quanto volteggiava sopra di lui. Era sdraiato supino sul letto e Franca, sua moglie, lo sguardo abbassato su di lui, gli occhi bianchi e vitrei girati all’indietro, si era impiccata al lampadario della stanza. Il suo corpo aveva smesso di muoversi, si avvertiva solo un leggero dondolio. Franca si era impiccata da poco, aveva ancora la bava alla bocca e il collo tirato in una posizione innaturale. Aveva aspettato che Antonio andasse in bagno e, prevedendo i tempi biblici che avrebbe impiegato per cagare e farsi una doccia come si deve, lei avrebbe potuto disporre di tutto il tempo necessario per fare del suo suicidio un rito. Aveva afferrato la corda della tenda dell’albergo senza strapparla, poi si era costruita un piccolo nodo scorsoio (non aveva affatto scordato le lezioni al liceo nautico), l’aveva collegato alla presa del lampadario e se l’era infilato al piccolo collo. Non aveva lasciato nulla che spiegasse al marito il gesto, non aveva preparato lasciti particolari, né scritto alcuna lettera d’addio. Si era slacciata la veste e appoggiato sul comodino ogni anello o braccialetto o collana che era solita indossare, si era pettinata i capelli tirandoseli sulla nuca e avvolgendoli con una fascetta elastica nera. Si era simbolicamente tolta l’anello nuziale. Tutti gli altri monili erano depositati in ordine sul suo comodino, la fede 33 nuziale lasciata su quello di suo marito. Perché lei sapeva delle sue continue scappatelle. Perché lei sapeva che era gelosa del fatto che lei non riusciva a combinarsi scappatelle invece, dal momento che si riteneva troppo poco attraente nei confronti degli uomini. Ne avevano parlato spesso, di questi argomenti. Avevano seguito per due anni terapia di coppia. Quello era il risultato: pendeva dal lampadario d’una stanza d’albergo, dondolando appena il vuoto del suo sguardo. Lui ed Entiazel uscirono dalla stanza turbati dalle sirene di ambulanze e polizia. Furono interrogati per una decina di minuti scarsi, decisero di lasciare l’albergo. Sorien non la trovarono, era andata al mare e la polizia avrebbe aspettato il suo ritorno in stanza. Antonio urlava in silenzio: da quel luogo e oltre, attraverso questa terra e chissà quante altre, lo spettro di quella donna stava vagando di porta in porta attraverso le stanze di ogni casa, in ogni porta del mondo. I suoi occhi bianchi rovesciati all’indietro come monito perenne al disgusto e al delirio impossibile di tutta una vita insieme scivolata sulla sabbia come un castello preda delle onde: 34 da questo luogo e oltre : attraverso questa e chissà quanta altra terra come uno spettro l’uomo vaga di porta in porta tra le mani una chitarra che sa accordare dall’interno con le sue piccole melodie si sogna come sotto i raggi di sole al mattino tu ci puoi ascoltare un senso alla verità dell’amore divino come fosse una voce che dal cuore di quell’uomo si tramuta in pietra e illumina la mente di chi è lì e ascolta uscendo così dall’aria gelata dell’oscurità ma non troveranno niente di armonioso in lui e alcune tra le genti (prima dell’emarginazione) gli verseranno un bicchiere imbottito di veleno e gli urleranno di bere – maledetto te! – questo è quanto gli spetterà per aver cantato nessuno vuole la sua verità qui attorno nessuno vuole neppure i suoi toni divini: 35 8. Jona e i granchi – h.10:30 “L’educazione moderna mira solo a sviluppare la memoria. Noi trasformiamo esseri umani in macchine di memoria. Produciamo esseri mediocri che sono capaci di memorizzare fatti e opinioni e di esporli quando necessario.” krishnamurti : emerse e tornò alla scrivania, con ancora sulle labbra il sapore di Entiazel e negli occhi lo sguardo di Antonio. Erano passati sei anni. Si stirò sulla sedia ed ebbre un brivido turbato. Nemmeno il tempo di gustarselo che la porta dello studio si spalancò all’improvviso e alcuni bambini si impossessarono della stanza. Lo salutarono e lo festeggiarono molto, e finì con l’elargire anche lui sguardi buffi e risate di malavoglia. “Questi sono i miei nipoti”, pensò, “Li riconosco tutti. E so che sono plasmati della stessa pasta dei loro genitori, i miei zii e i miei cugini. Queste piccole serpi di oggi saranno i miei figli di domani”. Lui non amava queste visite a sorpresa, specialmente quelle dei bambini, ma fatto sta che sua madre rivelò ai bimbi che era nel suo studio e i piccoli diavoli non si fecero pregare due volte per salire, invadere come un branco di Unni la sua irrequietezza. Lui falsamente li salutò uno ad uno, poi li coccolò un po’ immaginando di strozzarli, di tagliar loro l’intestino e farli rotolare giù dal terrazzo. Pur di essere il più freddo possibile offrì loro del gelato al cioccolato ma lo stratagemma non funzionò. I bambini volevano giocare, con lui e solo con lui, a palla avvelenata o a nascondino. Era da un po’ che non lo vedevano, settimane prima del suo viaggio a Lanzarote. Volevano ascoltare una fiaba. Una fiaba dai toni divini. Il disagio lo avvolse come la coperta di Linus. Disse ai bimbi di prepararsi e attenderli un minuto soltanto; uscì dallo studio e tornò alla dispensa nel bagno piccolo, dove ingoiò di botto 2 compresse di Tavor da 2,5 mg. con la certezza di non essere stato visto da nessuno. Poi aspettò altri dieci minuti chiudendosi in bagno e fingendo di dover cagare, con l’eco dei bambini sempre più urgente e tallonante. Alla fine uscì per affrontarli. Disse loro nel tono più suadente che trovò: “Sedetevi tutti qui davanti e ascoltate. Siete bambini intelligenti e voglio raccontarvi una favola che un giorno un uomo buono e saggio raccontò a me. Una favola che mi fece pensare tanto quando avevo la vostra età. Oggi voglio regalarvela. Mettetevi quindi comodi sui vostri cuscini, abbassiamo il volume della musica, accendiamo un incenso e una candela, e con un bel bicchiere di spremuta d’arancia fra le mani creeremo l’atmosfera perfetta per ascoltare una fiaba. Pronti? La nostra particolare fiaba inizia al mare, ma non un mare inventato, proprio quello che sta qui dietro l’angolo: la spiaggia di Borgo Prino. Immaginate che la fiaba inizi in un giorno d’estate, con queste onde grandi e belle e il mare stesso che sembra tutto 36 un bollire, scaldato dai raggi di un sole iridescente, appollaiato su nel cielo: questo sole rosso tutto gonfio come una palla che brucia e brucia. Con il mare che pare un enorme pentolone blu. E poi la sabbia e gli scogli, e tanta gente sdraiata con la pancia in su o con la pancia in giù che dorme, parla, gioca. E su quello scoglio laggiù, vicino al molo (lo vedete?) c’è anche il piccolo Jona, un bimbo come voi, da solo, tutto preso nell’osservare con gli occhi fissi qualcosa di strano. A vederlo da lontano, diciamo da dove siamo noi adesso, questo Jona pare un bambino come tanti altri, un tipetto secco tutt’ossa con i capelli ricci e rossi che sembra non se li pettini mai. O che per farlo usi una bomba a mano, come quello della canzone di Niccolò Fabi, ricordate? Però provate ad avvicinarvi insieme a me, facciamo piano per non distrarlo, mi raccomando. Vedete adesso? Ecco, ora ne distinguiamo meglio il viso… Io mi stupisco sempre nel trovarmi di fronte un faccino così tondo e fitto di lentiggini, una bocca tanto piccola e stretta. E due occhi vispi come una volpe! E scommetto che anche voi avete notato una cosa, visto che state tutti lì con la bocca spalancata: sì, Jona aveva un occhio nero e un occhio blu. Ora che lo abbiamo osservato cambiamo posto, venite con me e andiamo su quella duna laggiù, da dove potremo capire meglio cosa sta facendo: eccolo ancora lì vicino al bagnasciuga, inginocchiato su uno scoglio, con lo sciaq sciaq del mare che gli spruzza acqua sulle ginocchia. E scommetto che adesso vorrete proprio vedere la cosa che attira con così grande attenzione lo sguardo di Jona… Avvicinate lo sguardo e osservate sotto lo scoglio, laggiù, nella buca tra quegli altri due scogli, uno di fronte all’altro…li vedete? Quelli sono due piccoli eserciti di granchi. Alla destra di Jona una decina di piccoli granchi rossi, tutti pelosi, poco più grandi di una pesca, agita le lunghe chele contro una mezza dozzina di granchi neri, lisci e levigati come un sasso, i quali rispondono allo stesso modo. Nessuno dei due eserciti avanza, però. A Jona pare si stiano studiando, gli sembra una provocazione, come se si stessero prendendo in giro l’un l’altro: era in corso una sfida? Forse… i rossi sono di più e certo avrebbero potuto distruggere gli avversari quando avessero voluto, spazzandoli via in un baleno. Perché indugiavano tanto? Già sorride, il piccolo Jona, nel figurarsi la battaglia. Quel granchio laggiù – il più grande, certamente il capo – avrebbe aizzato gli altri e sarebbe cominciata la carica. Magari i neri si sarebbero spaventati al solo agitarsi di quel grande capo e sarebbero scappati. Forse addirittura non ci sarebbe stata neanche una battaglia, ma un fuggi fuggi generale. No questo no: i neri erano pochi ma chiaramente più compatti, tutti stretti stretti, affiatati come compagni. Chissà perché stava per scoppiare quella guerra? La fantasia di Jona, e un po’ anche la nostra, prende a galoppare come un cavallo imbizzarrito: i neri sicuramente, orgogliosi e arroganti, avevano visto da lontano quella buca in mezzo ai due scogli, così propizia per stabilirvisi ed ergervi la propria dimora. Non appena sbarcati lì, si erano accorti che lo scoglio era già abitato, e forse avevano già picchiato e magari ucciso qualche granchio rosso sperduto lì, caduto in 37 un agguato. A questo punto qualcuno (un granchio – vedetta?) aveva avvertito gli altri di questi mascalzoni e si era formato un esercito per liberare il proprio territorio dagli invasori. Ah! Ma guardate un momento Jona, mentre pensa a tutte queste cose: gli occhi si strizzano, sfrega le mani come se volesse arrotolare l’aria, e ride, sentite quanto ride! Come un matto, nell’attesa che avessero inizio i combattimenti. E anche voi, come lui, siete tutti qui pronti a godervi la battaglia. Ma i granchi, invece, non si muovono. Continuano tutti ad agitare le chele e a sfregarsi contro lo scoglio, nessun segno che stia ad indicare l’inizio per suonarsele di santa ragione. Jona si ricordò allora delle piccole guerre che faceva quando era un marmocchio piccolo piccolo: si ricordava le attese, quando lui e la sua banda di amici aspettavano gli avversari dietro l’angolo in cortile sotto casa per poi con un balzo arrivare alle loro spalle e gridare: “voltatevi, se siete uomini”, come aveva visto tante volte fare in televisione. Aveva bene impressi in mente quei momenti che precedono lo scontro, la tensione che si accumula nella pancia e grida per uscire. E d’un tratto a Jona gli s’intristiscono gli occhi: gli viene in mente la ragione del suo starsene da solo lì, in quel momento, aggrappato a quello scoglio, senza la compagnia di nessuno. Pochi momenti prima anche lui aveva fatto a botte con un ragazzino, proprio lì in spiaggia. Stava giocando a calcio con altri suoi compagni, gli amici delle vacanze, quando qualcuno lo aveva spinto da dietro, proprio nel momento in cui aveva la palla e si stava preparando a tirare in porta. Avrebbe segnato di sicuro. Jona invece aveva sentito solo un gran tonfo, male alle gambe e alle braccia, e si era ritrovato con la faccia nella sabbia. Allora si era alzato di scatto, aveva iniziato a prendersela con Alessandro, quello che gli aveva fatto lo sgambetto. Alessandro lo conosceva bene, erano anche vicini di casa, erano sempre andati d’accordo e non si sarebbe mai aspettato da lui un fallo così brutto, proprio mentre stava per tirare. Senza neanche ascoltarlo, senza neanche accorgersi che gli stava chiedendo scusa, senza guardare i suoi occhi bassi e tristi, Jona gli aveva mollato un cazzotto sulla pancia. Subito sua madre si era avvicinata strattonandoselo via, e gli aveva ordinato, per punizione, di andare a giocare da solo per tutto il resto del pomeriggio. E così adesso se ne stava lì, a guardare quei granchi, e se solo rialzava la testa verso la spiaggia, poteva vedere Alessandro anche lui solo, vicino a sua madre, anche lui punito. Ma intanto i granchi non ne vogliono sapere di combattere. Non si muovevano. Jona cominciava a spazientirsi, avrebbe voluto aizzarli lui. Ma poi, sempre all’improvviso, perché è sempre all’improvviso che accadono le cose importanti, appunto accadde qualcosa. I due eserciti si avvicinano a un piccolo sasso, proprio sul bordo della buca, sono talmente vicini che alcuni granchi rossi cominciano a mischiarsi ad alcuni granchi neri e in men che non si dica quel piccolo sasso comincia a ricoprirsi di granchi. Il sasso colmo di granchi inizia a muoversi, sempre più veloce, sempre più con forza e i granchi spingono, strattonano, agitano le chele, sembrano quasi impazziti, sembra che ballino fino a quando il sasso si rovescia facendo una capriola su se stesso. E con sua grande meraviglia, Jona scopre che sotto quel sasso stava schiacciato un 38 piccolissimo granchio, mezzo rosso e mezzo nero, tutto ammaccato e con le minuscole chele ancora impigliate allo scoglio e alle alghe. Era poco più grande di una noce e non faceva altro che agitarsi fino a quando tutti gli altri granchi, sia i rossi che i neri, se lo caricarono sopra e sparirono in un battibaleno sotto uno scoglio.. Tutti dentro una buca, velocemente e in fila. E Jona comincia a sorridere. Più per la meraviglia che per altro. Allora adesso bambini alzatevi in piedi perché dovete proprio vederlo, il piccolo Jona: con un sorriso più luminoso del sole, con gli occhi non più strizzati, ma aperti, con il cuore chiaro come quella giornata, con le mani morbide; dovete proprio vederlo come si alza e torna contento verso la spiaggia a passi svelti, salutando con un bacio la mamma un po’ incredula, mentre andava un po’ più in là; là da Alessandro. Avvicinatevi, bambini, perché adesso dovete proprio vedere come i suoi occhi neri e blu scintillano insieme mentre gli tende la mano e gli dice una parola soltanto: “Pace”. Al termine della fiaba alcuni bambini si erano addormentati, evidentemente si erano fracassati i coglioni ad ascoltare l’assurda avventura di Jona (personalmente lui li avrebbe lasciati affogare tutti, quegli stramaledetti granchi del cazzo), altri erano ancora svegli e attenti, altri ancora avevano scarabocchiato su un foglio di carta la loro personale versione della fiaba. Uno di quei disegni non era male: il bimbo che lo aveva fatto aveva un volto da barbie, biondo e leggermente paffuto, il classico “bimbo – plasmon”, e aveva rappresentato in maniera stilizzata un enorme granchio nero che mangiava Jona e lo riduceva a brandelli. Alcuni schizzi rossi e neri ornavano la cornice. “Che cosa sono questi colori?” chiese al piccolo “Le macchie rosse sono il sangue che esce dal bambino, i pezzi delle mani e dei piedi staccati a morsi dai granchi. I segni neri sono i pezzi dei granchi che il bambino, mentre combatteva, era riuscito a strappare”. Bene, pensò, qua andiamo alla grande. Il piccolo tra qualche anno diventerà uno dei più feroci serial killer del mondo. Notò anche una inquietante pioggia nera che incrostava tutto il paesaggio. Chiese: “Ma io ho parlato di una giornata di sole, come mai c’è la pioggia nera? Sta arrivando un temporale?” Il bimbo ci mise un attimo prima di rispondere, abbassò gli occhi a terra poi disse “No”, con un candore talmente puro da non poter neppure sospettare che in un futuro non troppo remoto sarebbe diventato una specie di cannibale. Ci avrebbe giurato. Stava avendo una conversazione con un futuro Ed Gain “E’ che tra poco dovrò tornare a casa, e mia mamma non ha la macchina così dobbiamo fare tutto il viaggio in treno. E a me le gallerie spaventano.” “Anche a me” rispose lui “specie da quando ho letto il racconto di Durrenmatt”. “E chi è?” chiese quel suo nipote angosciato “Lascia perdere” rispose lui. Era il momento di andare, la voce della madre, dalle scale, ripetutamente lo chiamava: 39 perché dal treno non ti spaventino le gallerie : la galleria nera ci viene addosso come fosse per giocare alla notte scura com’è corta dura solo pochi istanti e poi via come un piccolo pozzo buio senza luna visto? non hai fatto in tempo ad avere paura: 40 9. appunti sul block notes giallo - h.12:30 “non è possibile calmarsi, o trattenersi, e il sesso, l’enorme energia del sesso che è capace di non farvi addormentare mai, sfugge alle norme che ci si danno (norme invernali) per affrontare le paure e le miserie della solitudine” Enrico Palandri, Boccalone : una volta che i bambini se ne furono andati riprese a nuotare, finalmente, a essere un pesce che sbircia tutto. Mancava ormai poco al pranzo, sua madre e la sua compagna stavano preparando qualcosa di speciale per il suo compleanno, al piano di sotto. Si fece una doccia tanto per ingannare un po’ il tempo prima di scendere. Mentre sceglieva l’abito da indossare, in camera da letto, trovò un libro sul suo comodino, ne lesse il titolo, lo aprì per sbirciarne qualche passaggio. Non ricordava di avercelo posato. Scoprì che si trattava di uno dei tanti manuali di self-help americani. Adorava quel genere di letteratura senza conoscerne il motivo. Una delle mille contraddizioni di cui era plasmata la sua vita. In quel particolare libro si raccontava di come il piccolo Johnny, in un assolato giorno di primavera, si sedette sorridente al tavolo in cucina nella sua casetta piccolo borghese di Los Angeles per scrivere su una pagina di un bloc- notes giallo: elenco della mia vita. Sotto questo titolo andava appunto a elencare i centoventisette obiettivi che avrebbe voluto raggiungere nel corso della sua esistenza. Da allora, ci informa Anthony Robbins, il super manager che ha scritto il manuale, ne ha conseguiti centootto, insieme a più di trecento che non aveva in lista. Leggendo si incuriosì ancora di più, dal momento che non si trattava di obiettivi semplici o facili: fra questi vi erano ad esempio attività davvero impegnative come scalare le montagne più alte del mondo, navigare corsi d’acqua inesplorati, correre il miglio in cinque minuti, leggere tutte le opere di Shakespeare e l’intera Enciclopedia Britannica. “Cristo Santo!” pensò. Continuò e scoprì che quando a cinquant’anni un giornalista gli chiese cosa mai lo avesse spinto a scrivere un elenco così affascinante, rispose: “In primo luogo ero stufo di sentirmi dire dagli adulti cosa fare e cosa non fare della mia vita, e poi non volevo superare la soglia dei cinquant’anni e accorgermi di non aver realizzato nulla nella vita”. Terminò la lettura amareggiato, andò in bagno per pisciare, si calò la cerniera e parlò direttamente al suo cazzo: “Ma questo assurdo, ripugnante, fascistoide yankee della mia minchia non aveva nient’altro di meglio da fare a quindici anni se non mettere per iscritto le sbarre del carcere che poco alla volta si sarebbe costruito vivendo? Ma non ce l’aveva una vicina di casa porca come c’ho avuto io che lo costringesse ad annusarle la fica e a infilarle un dito su per il culo? Questo sucaminchie manco si è accorto a quell’età che sarebbe stato poi costretto a dover fare tutte quelle cose? Si scrollò il cazzo, gli chiese scusa per aver usato con lui un linguaggio così brutale, per scusarsi gli regalò una sega fantasticando su una ex compagna di scuola e schizzò sul pavimento. Tornò poi al libro molto più rilassato e lesse: “Se sai veramente quali 41 cose vuoi ottenere dalla vita è incredibile come le opportunità arriveranno per permetterti di averle”. Firmato John M. Goddard. Basta. L’americano sucaminchie aveva ragione. Bisogna fare le cose per ordine, metterle per iscritto. La cosa era decisa: andò alla libreria, spulciò tra i quaderni e i block-notes finche non ne trovò uno giallo. Si diresse verso la cucina, aprì le antine così da far filtrare un po’ di luce naturale, pensò non a centoventisette, ma a quattro obiettivi da raggiungere entro l’anno, concreti e tangibili. Pensò a come sarebbe modificata la sua percezione della vita se li avesse raggiunti e a che tipo di benessere sarebbe andato incontro. Riflettè un poco, mordicchiò il tappino della sua bic e scrisse: i miei quattro obiettivi primari per il 2007 1. inserire il mio stelo di carne nella cavità anale di una giovane slava minorenne sull’Aurelia spendendo non più di venti euro; 2. dare un passaggio in macchina alla mia vicina tredicenne e tentare di deflorarla 3. fare in modo che un fiotto del mio seme finisca sulla lingua di una prostituta minorenne di origine asiatica; 4. fare sesso orale con la moglie dello sbirro che abita nel palazzo vicino alla videoteca con la scusa di dare ripetizioni al figlio. come cambierebbe la mia percezione del mondo e che tipo di benessere vivrò 1. questo obiettivo mi permette di esaudire un sogno che avevo fin da quando ero adolescente; la mia autostima ne uscirebbe per forza di cose accresciuta, e il mio portafogli decisamente alleggerito di poco, la qual cosa mi permetterebbe, nel caso ne avessi voglia, un secondo giro più canonico, quella notte stessa, magari con una nigeriana. Mi permette di ritrovare una certa coerenza con quanto di fantasioso abita nella mia mente. Mi entusiasma l’idea di lasciare emozioni sulla plastica del mio preservativo, di condividere la fatica dell’inculata con una ragazza che, in tutti i sensi, ho fottuto e che manco rivedrò più. 2. questo obiettivo mi permette di rilassarmi completamente prima di addormentarmi, di divertirmi e di smettere di tormentarmi il cazzo con furibonde masturbazioni fino all’ultima goccia. Lei è solo una proiezione mentale delle mie fantasie fanciullesche, ne sono consapevole. Ma mi aiuterebbe a fare esercizio di concretezza, a restare con i piedi per terra accettando il fatto di essere ormai un adulto, e contemporaneamente di divertirmi, liberando la mia fantasia e la mia creatività. 42 3. questo obiettivo mi permette di ritrovare quell’energia e quella voglia di fare le cose che da un po’ di tempo ho la sensazione di aver perso. E’ in questo caso ancora il coronamento di un sogno, quello spezzare tutti i fantasmi che si sono impossessati del mio corpo fino ad oggi in modo che eiaculino all’interno di una boccuccia cinese. Per pochi soldi loro sono disposte a farlo. 4. questo obiettivo mi permette di guardare la vita con altri occhi, senza farmi ingannare da paure inutili e bloccanti. Mi permette di affinare strategie e organizzazioni diverse da quelle che di solito metto in atto. Mi è utile per non tralasciare nulla delle esperienze che possono capitarmi e di godere di ogni cosa che succede con la giusta consapevolezza. Rilesse: tutti gli obiettivi erano concreti, verificabili, con un significato a livello sensoriale ed emozionale e gli avrebbero permesso di vivere con maggior soddisfazione alcuni momenti. Erano anche obiettivi che gli avrebbero offerto l’occasione di poter aiutare anche altre persone a stare bene: dare soldi alle puttane, segnare emotivamente una tredicenne con la sua prima scopata, dare ripetizioni al figlio. Ripensò ai rari momenti di successo che aveva piantati nel suo vissuto, quelli che teneva stretti per aiutarsi ad affrontare con la giusta forza i momenti più difficili. Ne riassaporò il senso di benessere, di soddisfazione, di verità che avevano assunto le giornate, la rilassatezza dei muscoli del suo corpo e quella dei corpi delle altre, i loro volti, i suoni, le risate. L’energia che scorreva nelle sue vene, la certezza di aver usato tutte le risorse di cui era in possesso. La sicurezza nel sapere cosa fare, il coraggio di fare anche senza sapere esattamente cosa. Poi tornò con la mente alla moglie dello sbirro, che incontrava spesso in giro per Piani. Capello nero corvino a caschetto, grandi occhiali demodé, abiti aderenti che le fasciavano un corpo da ventenne, immagine da vera troia. Quando era piccolo, insieme a una banda di ragazzini, le inviarono una lettera anonima (allora lei abitava poco distante dal torrente Prino ed era adolescente) in cui le scrissero che se aveva voglia di fottere con due o tre ragazzi belli forti le sarebbe bastato stendere, il giorno dopo, anche solo uno straccetto rosso tra i panni dal balcone e loro si sarebbero presentati in gruppo pronti per una vera gang bang. La mattina dopo trovarono un lenzuolo rosso fuoco enorme appeso. Nessuno di loro ebbe però mai il coraggio di suonare al suo campanello. Bastò loro l’emozione di sapere che avevano possibilità. Rilesse una seconda volta: non trovò convincente niente, buttò il block-notes giallo nella spazzatura e accese il PC. Fece girare FIFA 07. Mentre partiva il gioco, tornò in cucina e si preparò una spremuta di arance. Sentì che i giochi che tranquillizzavano la mente avrebbero dovuto iniziare: 43 possiamo giocare un po’ ora : e che i giochi ora abbiano pure inizio: gare di struttura e grida ed arsura movimento terra ed effetto serra riprodurre ad hoc l’effetto notte arrampicata su roccia con pattini gare a gruppi di morsi e rimorsi fughe di pianti e rimpianti saluti e commiati a cognati saltare sulle punte degli ombrelli correre nei sacchi in cemento darsi dei baci e darsi al tuca – tuca dita negli occhi o dita nel naso corsi rapidi di tromba delle scale allontanamento dalle sofferenze splendidi omicidi su commissione: 44 10. scendo solo – h.13:40 “E’ la sua ora, senza che lei lo sappia è venuta per Laide la grande ora della vita e domani sarà forse tutto come prima e ricomincerà la cattiveria e la vergogna, ma intanto lei per un attimo sta al di sopra di tutti, è la cosa più bella, preziosa e importante della terra. Ma la città dormiva, le strade erano deserte, nessuno, neppure lui, alzerà gli occhi a guardarla”. Dino Buzzati, Un amore : il pranzo andò bene. Mangiò come un maiale, fece finta di festeggiare con i suoi e la sua compagna ingozzandosi di torta alla crema. Dopo il caffè, come consuetudine tornò nello studio per controllare la posta. Le aveva scritto la Carla dandogli notizie circa il suo lavoro. Lesse e archiviò la mail in una cartella con tutte le altre migliaia di mail che si erano scambiati per anni, quando stavano insieme. Approfittò per spulciarne qualcuna. : le scrisse : non è un gioco, né io sono un omicida su commissione, e poi scusa se inizio a scriverti un po’ in ritardo rispetto ai tempi che ti avevo dato al telefono, ma come più volte mi è capitato di dirti svolgo questo maledetto lavoro e c’è stato qualche piccolo indesiderato problema organizzativo in questi ultimi giorni. E’ una cosa un po’ complicata da spiegare, ma sappi comunque che ti penso, ed è da oggi pomeriggio che immaginavo di scriverti: : le scrisse : un’altra cosa di cui sono convintissimo è che occorra dare più spazio a libri che hanno segnato molto ma che non sono proprio “da classifica”. Specie in questi ultimi anni. La proposta che mi hai fatto mi piace perché non è di stampo accademico o “palloso”, se intendi cosa voglio dire. Vorrei impegnarmi nel leggere Il lamento di Portnoy di Philip Roth, oppure de La versione di Barney di Mordecai Richler, dal momento che di te mi fido molto, e dei tuoi gusti anche. Mi hai detto che sono libri scritti bene, che hanno qualcosa da dire, che sono facili e divertenti da leggere: : le scrisse : il Rocky Horror lo conosco, apprezzo lo stile sgangherato di questo musical, il coraggio nel presentare pezzi così sexy ancora per il pubblico di oggi, pensa un po’… tra tutte le sequenze quella che amo di più è il Time Warp, adoro quel pezzo, specie quando il criminologo si mette a ballare pure lui, ecco io lì proprio non resisto e inizio a ballare. Una delle parti più divertenti è quando si rifugiano tutti nelle camere da letto e Janet poi va da Brad, sai il pezzo che sembra oscurato come fossero ombre cinesi: : le scrisse : no mi spiace non sono gay anche se leggo molto e scrivo poesie, e poi adoro Bruce Springsteen e questo dovrebbe quantomeno rendermi immune da comunanze con il mondo perlato dell’omosessualità. Naturalmente ho in mente di 45 non avere niente contro di loro, anche se li chiamo “loro”; in fondo una parte tradizionalista affonda le sue radici dentro la mia anima da parecchio tempo. E non so dirti se questo mi piaccia oppure no, è qualcosa a cui non ho mai pensato seriamente. Comunque in generale gli scrittori gay mi piacciono tanto: : le scrisse : possiamo vederci, incontrarci, amarci, stare insieme tre anni, baciarci, fare l’amore, avere una storia, essere innamorati, passeggiare mano nella mano, guardare tanti film, parlare un po’ di tutto, bere la cioccolata, visitare Reggio Emilia, andare a Cremona con i tuoi amici in macchina con l’ombra nera della pianura che alita da dentro i finestrini, e poi cantare, fare gli scemi, magari qualche volta piangere un po’, annoiarci, vedere le streghe a Triora e farci le foto, andare anche a Venezia, stare parecchio tempo senza parlare, assorbire il silenzio, non accorgersi della consapevolezza reciproca che la storia sta per finire, credere nell’amore, parlare d’altro, leggere Tondelli, vedere dal vivo i Depeche Mode, accorgersi che Marilyn Manson ci piace e non restarne turbati, andare a un reading di Matteo B. Bianchi, discutere del futuro, guardare dentro le tazzine di caffè e non vederci niente, toccarci: : le scrisse : io lo so che ti lascio attraverso un sms perché mi piace essere un coniglio, io lo so che l’amore che ho provato è stato reale vivo e bello ed è stato proprio questo a non essermi piaciuto più, io lo so dove vado: giù nel fondo del fondo della città di Dite, e mi piace e mi piace e mi piace. Vado solo, però, ma non per ipocrisia. Perché mi piace andarci da solo: : le scrisse : sono generato non creato dal caos, e il mio caos passa solo attraverso un’e-mail e una cornetta del telefono. Dal vivo mi cucio dentro e implodo: gli antichi amori valgono meglio se ricordati, annusati, celebrati, non detti, non saputi, non raccolti, non visti, non generati, non poetizzati: Rilesse quelle e-mail, poi le stampò. Ebbe infine cura di infilarli in bottiglie di vetro adatte, sigillò le bottiglie con tappi di sughero. Uscì di casa con una scusa - disse che aveva assolutamente bisogno di stampare qualche documento presso una copisteria. Gli crederono. Invece si diresse alla Foce, in riva al mare, e noleggiò per pochi euro un piccolo gozzo da un pescatore del posto che conosceva. Si allontanò di qualche chilometro dalla riva e quando fu certo di non essere visto da nessuno si tuffò in acqua con le bottiglie. Le spinse una ad una al largo, nell’impoetico mare d’ottobre: 46 genealogia dell’incompletezza alla Carla : dio dei padri che stai a pag. 63 che dribbli gli inserti pubblicitari accogli tra le tue braccia Minker che generò Minudru che generò Minuto che generò Miotti che generò Mira che generò Mirabella che generò Miraglia che generò Mirarci che generò Mirò che generò Miroglio che generò Mirone che generò Mirotta che generò Miscioscia che generò Miskovic che generò Mistrali che generò Mistretta che generò Mitola che generò Mocata che generò Moccia che generò Mocellin che generò Modaffari che generò Modena che generò Modeo che generò Moioli che generò Mirano che generò Moisello che generò Moizo che generò Mojeeva che generò Molinari che generò Molino che generò Molle che generò Molon che generò Momenti che generò Monaco che generò Moncastro che generò Moncalvo che generò Moncia che generò me che generai discordia, nel non generare numeri di telefono in cui la mia voce abdicò da altri da più antichi amori: 47 11. iniziazioni – h.15:30 “Posai la mano sulla coscia di Charlie. Nessuna reazione. La tenni lì per alcuni minuti finché non cominciarono a sudarmi le punte delle dita. Continuava a tenere gli occhi chiusi, ma gli stava diventando grosso dentro i jeans”. Hanif Kureishi, Il Budda delle periferie : tornò dal mare, si fece un’altra doccia per togliersi l’odore della salsedine e il sale dalla schiena, e alla fine tornò a sedersi alla scrivania. La sua compagna stava facendo la pennichella pomeridiana, stesa sul divano. Il mantice del sesso lo divorò. All’improvviso si ricordò quanto accadde vicino la casa dei suoi nonni paterni quando era un cucciolo. Ospedaletti. Bisognava salire una scarpata ripida tra le ginestre. Loro abitavano in una piccola casa quasi smembrata, in affitto, che sembrava quella descritta in tante fiabe. Fiori intrecciati ai muri, ai mattoni. Portoncino in legno. Entravi e non c’erano che scale. Potevi salire solo di un piano. In due stanze c’era tutto. Una vecchia foto lo ritraeva in piedi sulla sedia a recitare la poesia di Natale. I suoi zii attorno. Il viso inespressivo di suo padre, quello meno armonioso e velato d’incertezza di sua madre. Ripensò ai pranzi pantagruelici. La possibilità di uscire un po’, dopo. Una piccola strada, c’era una stradina piccola che lo accompagnava in un boschetto di palme e roveti, proprio sul limitare delle ginestre. L’aroma strepitante dei fiori attorno. Le agavi che screziavano l’aria. Da quel posto non poteva osservarlo nessuno. Su in alto stava una casa, si sentivano delle voci. Voci di donne gridare. Lui era un cucciolo. Un pomeriggio si spogliò, fu Madre Natura stessa a ordinarglielo, si sfregò la pancia con le mani, si eccitò. Provava una sensazione indescrivibile di immenso piacere. Era in armonia con le voci di quelle donne, con le ginestre e le palme, con le more intrappolate tra i roveti. Il calore che saliva dai testicoli però non riusciva a fargli inturgidire il cazzo. Era un cucciolo troppo giovane. Lo sforzo e il piacere gli davano alla testa e gli schiacciavano lo stomaco. Non era mai più riuscito a provare quelle stesse emozioni da adulto, scopando. Solo nel venire, ma davvero raramente, era riemerso a quegli istanti: : vicino alla casa dei suoi nonni materni, invece. Latte. Il casermone prima della curva che ti porta a Grimaldi. La frontiera. Le estati trascorse a suonare il flauto dolce nel giardino dei nonni. Accompagnarli al lavoro. La nonna faceva la domestica. L’arrivo presso una casa, sul terrazzo una donna. La casa di una coppia quarantenne inglese. La signora stava con le tette al vento, prendeva il sole in terrazza. Lui la vide, il cazzo gli diventò subito duro. Era un cucciolo appena più grande. Fantasticava di infilarle il cazzo nell’ombelico, non sapeva che esisteva la fica. L’ombelico invece sì perché si vedeva: era così bello, un buchino perfetto, armonico, proprio al centro del pancia della signora. Così facile da immaginarlo inghiottire. A casa strusciava il cazzo contro le lenzuola, come un cane in calore. Non conosceva le parole per dirlo. 48 Adulto, ma davvero raramente, quando gli era capitato di venire tra le tette di una ragazza era riemerso a quegli istanti: : più grande, ospite della zia paterna a Sanremo. Le vacanze estive. Dormire nella stessa camera della cuginetta. L’odore della sua pelle così vicino. Fantasticare. La zia faceva la parrucchiera, aveva un’apprendista con lei in negozio, mora, bellissima. Una notte iniziò a visualizzarla nuda, il cazzo che entrava e usciva dall’ombelico. Non sapeva nient’altro, non provava nessun’altra felicità se non immaginare di infilare il suo attrezzo dentro quel buco lì strusciandosi sulle lenzuola. Quella volta venne per la prima volta in vita sua. La testa iniziò a girare, non sapeva cosa gli fosse capitato. Cosa era uscito da lì? Sarebbe morto? Era tutto bagnato, le lenzuola erano bagnate. Quel liquido cos’era? Pipì? No, troppo densa. Qualcosa di fluido. Sarebbe morto, vero? Era un liquido squamoso e sentiva che era importante per vivere e ora era scivolato fuori dal suo corpo. Era stato lui a farlo uscire fuori. E ora sarebbe morto. Una sorta di maledizione l’avrebbe preso per sempre e l’avrebbe reso malato. Irragionevole. L’avrebbe reso minorato rispetto agli altri. Chissà se gli altri sapevano cosa fosse quel liquido. A chi chiederlo? Ce n’era ancora nel suo corpo? Per quanto tempo ce ne sarebbe stato? Lo aveva sprecato tutto? : più grande ancora, badante della figlioletta di una coppia amica di famiglia. Lei aveva cinque anni. Lui ne aveva quattordici, era già coscienzioso per prendersi quel tipo di responsabilità. La bambina ogni volta che rimanevano soli non resisteva (era Madre Natura che la chiamava, lui lo sapeva) e partivano i giochi. Il rituale prevedeva sempre lo stesso copione: voleva che lui mettesse sul piatto del giradischi Bambini di Paola Turci, poi la bimba iniziava a strusciarsi contro la sua pancia e la schiena, si infilava le sue dita in bocca e alla fine voleva che con le sue dita inumidite dalla saliva le sfiorasse la pancia e la piccola fica. In quegli istanti, per quanto lei fosse piccola e incosciente, lui impazziva: il cazzo gli si gonfiava sotto i jeans deformandosi. Quel minimo di coscienza che possedeva, anche se a brandelli, gli impediva comunque di cacciarselo fuori per farsi una bella sega. Si limitava a sfilarle le mutandine e a spingere, il più delicatamente possibile, le dita su e giù per la vagina. La bimba voleva che gliele infilasse proprio e spingeva forte ma lui non se la sentiva, preferiva glissare sulle natiche e massaggiare il buchetto roseo del culo. Le stringeva le chiappe e lei emetteva urletti da vera troia. Era Madre Natura. Era impossibile che avesse visto quelle cose in tv o dai suoi. Erano ordini impartiti direttamente da Madre Natura. Ogni volta che suo turno di badante finiva tornava a casa spossato. Era un supplizio, dopo, perché sentiva assolutamente la necessità di ammazzarsi dalle seghe. Un pomeriggio se ne sparò dieci di fila. Le fantasie erano le stesse: lui che le chiedeva: “Vuoi vedere come si fa a fare il latte?” E lei “Si dai…ma tu sai fare il latte dal pisellino?” Allora c’era lui che le posava una mano delicatamente sulla nuca e le faceva avvicinare la boccuccia al cazzo. C’era poi sempre lui che iniziava a masturbarsi piano perché la piccola non si spaventasse. Poi c’era lei che chiudeva gli occhi perché lui gliel’aveva chiesto e infine c’era lo schizzo che partiva di getto e le inondava la bocca, le labbra, gli occhi, i capelli. E c’era lei che si leccava le dita e 49 diceva: “Buono latte, che buono, ancora”. Durò parecchi mesi questa cosa, ma non approdarono mai a nulla di traumatico, purtroppo. Una sera lui si piazzò carponi dietro di lei che intanto era in piedi a disegnare (in sottofondo era già partita Bambini). Le sfilò dolcemente le mutandine lasciandole però la gonna. Lei continuava a disegnare e non opponeva alcuna resistenza al gioco. Lui si slacciò la patta e iniziò a strusciarsi il cazzo proprio tra le natiche, stando ben attento a non sfondare nessun buco. Schizzò sul pavimento: : l’amore per il corpo femminile, per la sua penetrabilità, per la sua concavità. Come mai nella testa in questo periodo non aveva nient’altro se non questo? Era un pesce, i pesci scopano? Viveva da solo in una bolla piena d’acqua. Era forse per questo che gli mancava così tanto quel tipo di sesso? Eppure con la sua compagna lo praticava. Già, ma era diverso. Lì c’era di mezzo l’amore, non la scoperta delle vacuità femminili. E poi la novità dei buchi, degli odori eterosessuali, quelli che stordiscono, delle efelidi e dei riccioluti peli del pube: così somiglianti, per lui, alle alghe marine. E tutti quei noccioli di seni, quei teneri abbozzi di bombe carta che le bambine portavano e che lui desiderava disinnescare innocentemente giocando tra le lenzuola. Le convessità dei corpi femminili: i seni, le natiche, i fianchi sporgenti, i boccioli delle labbra, i nasi e le orecchie da leccare, i capelli lunghi e annodati da una coda di cavallo, i talloni, le unghie smaltate di rosso vino: Eppure era un pesce. Ma fu sirena un tempo, e se lo ricordò. Non in un passato remoto, ma prossimo. Fu sirena insieme alla sua compagna. Due pesci, la stessa bolla d’acqua: 50 inverno : come quella volta che ho visto la neve in inverno e tre cani che si lisciavano il pelo corto e bruno e la vicina che vestita solo di una camicia aperta usciva a stendere al sole le magliette del marito il vento del mattino mio complice si opponeva sollevandole la camicia e i seni rossi e pieni che come due occhi l’avvertivano di lasciar perdere scoppiando a ridere mentre si copriva e io di lei: 51 12. la sirena – h.16:00 “io critico il concetto di malattia mentale, non nego la follia, la follia è una situazione umana. Franco Basaglia, Conferenze Brasiliane : due pesci dentro la stessa bolla d’acqua. Andò in camera da letto, la sua compagna dormiva il sonnellino pomeridiano. Lui si immerse tra le lenzuola e nuotò attraverso il copriletto fino a raggiungere lo specchio grande davanti all’armadio. La incontrò dall’altra parte dello specchio, rideva. Le bocche si avvicinarono, lo specchio si squagliò, un lungo bacio e lei entrò in lui, lui in lei. Si trasformarono in una sirena. Iniziarono a navigare assieme attraverso gli Oceani della loro casa, andando avanti e indietro attraverso il ricordo di quando erano stati, la prima volta, una stessa sirena. Quando si risvegliarono, tempo prima, si ritrovarono davanti un medico che prospettò loro il termine della degenza. Non capirono nulla di quanto stesse dicendo ma si sentirono meglio. La fase acuta della loro fuga psicotica era passata da un pezzo, riferì il dottore, e da giorni ormai la loro lucidità non faceva capolino ogni tanto come nella fase intermedia del ricovero coatto, ma si manifestava a cadenze sempre più rapide. Erano una sirena in via di guarigione, per così dire. In effetti erano coscienti del fatto che riuscivano ormai ad ascoltare i loro battiti cardiaci senza più avere paura. Il dottore permise loro di telefonare alle rispettive madri, ma dopo pochissime parole misero entrambi giù la cornetta e si commossero. Il dottore disse che anche questi apparentemente insignificanti fatti erano il sintomo di segnali di ripresa, poi si interruppe e aggiunse: segnali di forte ripresa. Le allucinazioni che riferivano e i deliri erano del tutto scomparsi, così come i discorsi sul suicidio e, cosa decisamente rassicurante, i tentativi fisici di affogarsi. L’equipe medica non era però così ottimista da lasciarli soli ventiquattrore al giorno, spiegò il medico, e ci sarebbe stato ancora per qualche giorno accanto a loro un infermiere. Ma più per compagnia ormai, che per una reale necessità di controllo. “Ci rendiamo perfettamente conto - proseguì il dottore - che voi non possedete ancora la forza sufficiente per affrontare in assoluta solitudine il tran tran della clinica, le vuote giornate insomma. E poi, ve lo dico in tutta franchezza, riteniamo che siate troppo soli già di per sé per infliggervi ora un qualsivoglia distacco, anche il più banale. Non aiuta poi il fatto che voi siate per un terzo uomo, per un terzo donna, per un terzo pesce. La coda da parecchio disturbo, quando scodinzolate qui in reparto. Loro ascoltavano attenti, annuendo ogni tanto e fissando il dottore sempre negli occhi. Sapevano che aveva ragione, si trovavano d’accordo con quell’uomo. Anche sulla questione coda. Decisamente più tranquilli, consapevoli del fatto di aver ripreso a mangiare aumentando a vista d’occhio il peso e l’appetito, sapevano di aver raggiunto ormai la 52 capacità di gestire meglio i loro stati d’ansia senza ricorrere allo sclero, alle urla o ai pianti. Certe mattine di sole abbozzavano sorrisi agli infermieri e agli altri pazienti. Qualche problema sgusciava fuori in serata. Poco prima di addormentarsi, ancora, nonostante il Seroquel, il Risperdal e le 25 gocce di Minias, li attorcinava una spaventosa sensazione di pericolo: la possibilità di essere rapiti nel cuore della notte da bande di criminali senza scrupoli che avrebbero potuto segarli in due tronconi e poi essere trascinati in un vecchio casolare in campagna, dove li avrebbero attesi inauditi supplizi, fino al sopraggiungere di una morte lenta e dolorosa, senza una sola possibilità di redenzione. Paura di essere separati e di non rincontrarsi. Questo terrore era ancora una costante, i primi tremiti dentro le loro menti iniziavano poco prima del tramonto, verso le diciotto. A differenza dei primi tempi, però, c’era di positivo che bastavano poche parole rassicuranti da parte dell’infermiere per riportarli ad uno stato di temporanea calma. Tuttavia aveva ragione il dottore: non erano ancora sufficientemente forti. C’erano momenti in cui sgusciavano fuori, perdendosi in un labirinto di ragionamenti e non riuscendo più a ritrovare la strada di casa. La fiducia che possedevano nel prossimo, fosse esso un cameriere, la mamma, il papà, la sorella, l’infermiere, l’amico, lo stesso psichiatra, un’o.s.a. o un altro paziente, era aumentata molto rispetto a due mesi prima, quando diffidavano scalciando di qualsiasi essere umano si presentasse al loro cospetto, eppure sentivano di contenere in loro sempre un’aria di disillusione e ribrezzo. Emergeva nelle loro ribattute alle rassicurazioni di medici e famigliari. Parlavano e dialogavano di più, certo, ma lunghi erano ancora i silenzi. Quei silenzi, specie tra loro due, li annientavano. Allora perdevano ogni riferimento temporale (quelli spaziali invece li avevano ben chiari: sapevano di essere ricoverati nella clinica per malattie mentali “San Giuseppe” di Asti): erano convinti di dormire due giorni di seguito quando prendevano la terapia serale, quindi costringevano tutti con non piccole difficoltà a calendarizzare le giornate nel modo più lucido possibile. I loro sensi di colpa erano enormi, uscivano a valanga nei colloqui con gli psicologi della struttura. A volte lucidi – dicevano “non ci meritiamo questa coda da sirena, che cosa significa? Perché noi abbiamo questa coda e altri no? Capiamo che i nostri cari ci stiano vicino per questo, fate tutti grandi sforzi per starci vicino” o anche “stiamo facendo soffrire tante persone con il nostro assurdo comportamento di voler sapere perché abbiamo una coda da sirena” - a volte molto meno - “abbiamo fatto finta di essere dei sirenetti, è solo una protesi che si può staccare”, o “moriremo perché non abbiamo fatto quello che dovevamo fare”. Condividevano nelle giornate buone questi stati d’animo con tutti, non solo con i famigliari e i dottori. Anche con la psicologa che incontravano due volte a settimana. Un’O.S.A. una mattina raccontò loro che tutto sommato li vedeva bene, che il loro caso non era poi così tragico, che ne aveva visti di peggiori: qualche mese prima del loro internamento venne ricoverato proprio lì un irreprensibile bancario quarantenne caparbiamente convinto di aver assassinato un uomo. Uscì in due mesi. Per buona condotta. La battuta li fece ridere. Si sorpresero. 53 Le volte in cui venivano a trovarli le rispettive madri prorompevano in buoni propositi, ma era più per la paura di non marcire nel buio fetore di un vecchio casolare di campagna che per reale volontà. Erano convinti che i carcerieri li spiassero ancora attraverso microscopiche telecamere sparse un po’ ovunque nella stanza. Allora dicevano che sarebbero stati disposti a fare tabula rasa delle minchiate combinate nella loro gioventù per iniziare una nuova vita: dicevano alle madri che avrebbero voluto sposarsi al più presto, lavorare sodo di un lavoro che sporchi le mani, faccia sudare, spezzi la schiena, ti faccia voglia di tornare a casa la sera con la stramaledetta voglia solo di mangiare un pasto caldo, fare l’amore e dormire il sonno dei giusti. Sapevano di riempire il cuore di gioia delle madri quando li risentivano fare questi discorsi. E poi propositi di iscrizioni in palestra (data la coda sarebbe stata quella l’occupazione principale), giri in bicicletta, visite a nutrizionisti, qualche toccatina di yoga e shiatzu. Insomma, buoni propositi per costruirsi una vita loro. Su tutta questa fame di vita, però, aleggiava ancora l’oscura presenza della morte, di un qualcosa di terribile che li potesse spazzare via in un momento. La paura. Non avevano mai visto due esseri umani così spaventati come la sirena in cui si erano trasformati. Paura fottuta non solo che potessero morire loro due improvvisamente, ma anche le persone che amavano. Tanto che negli ultimi giorni spesso facevano un giro di telefonate per accertarsi della buona salute di parenti e amici. Stavano tutti bene, ma questo non riusciva a consolarli. Si era, e lo intuivano perfettamente anche loro, lontani ancora da un minimo di stabilità emozionale, ma ogni poro delle loro squame urlava che erano sulla buona strada. La superficie liscia della loro pelle era pronta a partire per il mondo, insieme. Tutta questa paura aveva bisogno di essere supportata: pigliavano una terapia da cavallo, una decina di pasticche magiche (contro i cattivi pensieri, disse lo psichiatra nei momenti più acuti della sua fuga). Pur non avendo idea del come, sapevano che stavano funzionando. Se dal punto di vista farmacologico si ritenevano coperti, lo stesso si poteva dire da quello affettivo. I famigliari non li avevano mollati un attimo. Di questo erano perfettamente consapevoli e grati. Dal punto di vista psicoterapeutico erano invece in alto mare. I colloqui con la psicologa di reparto li avevano lasciati comunque insoddisfatti, i test non li avevano scalfiti. La coda si agitava da sola senza comando troppo spesso. Troppo nervosismo nell’aria. Speravano fosse solo perché erano ancora troppo deboli per affrontare la cosa. Argomento alquanto delicato, la psicoterapia. Lì in clinica avevano instaurato un buon rapporto di fiducia solo con lo psichiatra. Il dottore era un tipo corpulento, sulla settantina, un uomo buono, molto paterno e protettivo nei loro confronti ma anche nei confronti degli altri pazienti. Li visitava e parlava tutti i giorni, anche quando li incontrava meditabondi nel corridoio li baciava, li salutava, si fermava a fare due chiacchiere. Lo consideravano un vero essere umano, insomma. Uno che sapeva ascoltare. Le loro perplessità, e in buona sostanza anche quelle dei famigliari, si concentravano sul fatto che il giorno che sarebbero stati dimessi avrebbe dovuto 54 iniziare una psicoterapia, questo per ordine dello psichiatra. Eppure loro sapevano che ci sarebbero andati (per l’ennesima volta nel corso della loro vita), più per donare un senso di rassicurazione alle persone che amavano che per loro stessi. Nei lunghi silenzi erano attraversati da questo dubbio. Che non condividevano con nessuno. Non si fidavano degli psicologi. Forse era davvero questa la soluzione, ma non riuscivano a fidarsi. Forse si sarebbero convinti ripensando ai quaranta giorni trascorsi nel girone dantesco dell’SPDC e ai successivi tre mesi in clinica. Forse tutto quel tempo li aveva traumatizzati talmente tanto che avevano voglia di liberarsi una volta per tutte dei fantasmi che li dilaniavano. Ma era una fioca speranza e basta. Questo lo sapevano perfettamente. Anni prima avevano fatto alcuni tentativi (non avevano ancora la coda), ma il tutto si era esaurito con una serie di palle raccontate allo psicoterapeuta di turno. Erano sicuri che se gli avessero messo davanti Sai Baba avrebbero raccontato le stesse palle. Già in passato, tra l’altro, il dottore della “San Giuseppe” li aveva visitati, in un paio di ricadute recessive e squamose. A loro aveva detto: “Quando sentite che state poco bene chiamatemi”. Mesi fa anche lo psicologo più famoso di Milano, autore tra l’altro di diversi best-sellers sul tema delle fughe psicotiche si era raccomandato, dopo averli liquidati in poche sedute: “Siete due persone che ogni tanto hanno bisogno di farsi curare, quando sentite che state poco bene chiamatemi”. Non lo fecero mai. A volte pensavano di non essere capaci di “sentire” quando stavano per precipitare verso la recessione; quindi se non erano capaci di “sentire” quando stavano male, come cazzo facevano a chiamare un dottore? Miliardi di miliardi di volte si erano detti che per loro questi momenti down non erano semplici “momenti” – appunto – ma conseguenze normali che appartenevano alla normalità del loro essere. Non è mai esistito un cazzo di essere umano in grado di dialogare con loro due su questo. Chi c’ha provato s’è bruciato. E francamente loro non avevano più voglia di bruciare le persone, famose o no. Spesso citavano la battuta di Hannibal Lecter ne Il Silenzio degli Innocenti: “Una volta un tizio ha provato a psicanalizzarmi. Mi sono mangiato il suo fegato con un piatto di fave e un buon Chianti”. Ridevano di questa similitudine con la loro condizione. Anche a loro sarebbe piaciuto ingozzarsi del pancreas di uno psicologo. Perché? - riflettevano Perché è così difficile per uno scienziato della mente collegarsi con noi? Forse faremmo un gran bene all’umanità se ce li mangiassimo tutti. Ciò apriva enormi scenari sul ruolo che rivestivano i loro cari a un livello terapeutico. Perché non riuscivano, loro che scienziati della mente non sono ma che li amavano, a convincerli a lavorare per il loro bene? Perché erano così sordi verso le persone che amavano? Arrivare forse alla fatale, pericolosissima conclusione che avrebbero dovuto, alla fine, essere i famigliari stessi a fare delle scelte al posto loro? Passi quando cercavano di affogarsi, ma ora? E dopo? Operando scelte in loro vece avrebbero negato la dignità di due persone di fare libere scelte. Li avrebbero confermati nel loro essere un non adattati nel mondo, con quella coda. Oltre naturalmente a diventare di fatto gli agenti patogeni delle loro psicosi. Chi li amava sarebbe involontariamente diventato 55 il loro assassino. Sarebbero stati loro a ucciderli costringendoli a fare una psicoterapia in cui non credevano. Sarebbe stato come annunciare: “Non ci rompete il cazzo, a noi basta che andiate da uno qualunque”. In passato spesso erano stati portati da stregoni, maghi, esorcisti, persino da Milingo, quando era all’apice delle simpatie ecclesiastiche. Chiaro che ci sarebbero andati solo per farli contenti. E per non farsi rompere il cazzo. Fin dove era giusto essere supportati, si chiedevano? E cosa intendeva la famiglia per “supporto”? Essere indirizzati verso una psicoterapia cialtrona? Chi avrebbe deciso il nome della prossima vittima sacrificale, del nuovo psicologo da dilaniare tra le loro fauci? Chi lo avrebbe detto? Come avrebbero fatto a lasciar mantenere loro il libero arbitrio senza costringerli a fare cose in cui non credevano? Come capire quando toccava a loro “decidere” per i due sirenetti e quando invece toccava a loro due soli? Qual è il confine? Chi decide quando sarebbero guariti? Cosa s’intende per guarigione? Quando avrebbero perso la coda? Quando si sarebbero separati e avrebbero avuto tutti e due una coda ciascuno? Oppure quando non sarebbe più esistita nessuna coda, ma due gambe come gli altri? Chi decideva cosa è giusto che loro pensassero e cosa no? Perché loro avrebbero potuto starci anche meravigliosamente con la coda. Quando dicono di volersi sposare sono sani? Non lo sono? Devono aspettare? Quanto? Chi decide quanto tempo devono aspettare? Su che basi? In virtù di quale ruolo? Queste le domande che avvolgevano i loro silenzi. Probabilmente avrebbero avuto bisogno di un supporto farmacologico tutta la vita. Probabilmente no. Ma nel caso ne avessero avuto davvero bisogno, non avevano il diritto a farsi una vita normale tutta loro? Avrebbero potuto avere o no il loro porco cazzo di diritto di fare il cazzo di lavoro che volevano? Di sposarsi chi avessero voluto? Di divorziarci, di tradirsi, di avere sogni, illusioni, speranze come tutti? Quando sarebbe arrivato il momento in cui i loro cari sarebbero riusciti a dire: “Ecco, sta facendo le cose che vuole e noi le accettiamo senza condizioni perché sta bene”? Chi decide quando questa soglia sarà varcata? Scese la sera sui loro silenzi. L’infermiere era davanti a loro con la boccetta delle terapie. Li fissò un attimo, poi prese le medicine e sorrise. “Tutto bene?” chiese l’infermiere. Loro guardarono un attimo la stanza, poi si voltarono verso la finestra e videro la sera arrivare sulle case attorno alla clinica, sul giardino, sul pioppo dove tanti pomeriggi si erano appisolati. Si guardarono poi la coda, si accesero una sigaretta, si sentirono soli nella loro stanza vuota e senza guardare l’infermiere risposero: “Tutto bene”: 56 un istante solo prima di ripartire : oh eccomi qui da solo, quasi le due, la brace rossa dell’ultima sigaretta che s’attorciglia nel buio alle mie dita oh eccomi solo nella stanza vuota lo specchio di tutte le mie ragioni contro il riflesso di tutti i miei torti eccomi solo nella mia stanza vuota eccomi di nuovo a parlare ai miei morti: 57 13. funerale bianco – h.16:35 “con la sua morte, l’unico sacrificio assolutamente vero offerto per noi, tutto ciò che c’era in noi di colpevole e che dava il diritto ai principati e alle potestà di costringerci a espiare con i supplizi, egli ha pulito, abolito, estinto”. Sant’Agostino, Il Maestro interiore : non aveva più la coda, molte cose erano cambiate da allora. La recessione lo aveva spinto a desiderare ardentemente di morire, ma oggi non era più così. Erano passate molte lune da quei giorni folli: gli prese la voglia di sdrammatizzarli, di esorcizzarli il più possibile. Venne visitato così dal ricordo del primo morto visto “live”. Avrà avuto un cinque anni al massimo, sei forse, quando questo incontro finalmente arrivò. Toccò al nonno del suo amichetto Nino. Nel tragitto da casa sua a quella del caro estinto ripensò alle volte in cui lo aveva visto passeggiare per i vicoli di Piani assorto e pensieroso. Portava grandi baffi color crema, arrugginiti dalle sigarette. Parlava poco. Non appena entrò nella stanza, con un balzò saltò le lamentatici e preso da un’emozione fortissima volse il viso dentro la bara: pareva dormisse. Era elegantissimo, con le mani in mezzo alla pancia e un rosario stretto tra le dita. Era morto il giorno del suo compleanno. La moglie, poche ore prima, per l’occasione del suo centenario gli preparò un piatto di gnocchi fatti a mano, racchiusi dentro un delirio di profumi e portati da un ragù di carne e una spolverata di parmigiano. Il tutto innaffiato da un buon bicchiere di vino rosso. A quell’età poteva oramai permettersi di tutto. Si mangiò gli gnocchi quasi piangendo dalla gioia, poi si voltò verso la moglie e le disse: “Oh, non ho mai mangiato così bene in vita mia”. E crepò. Resto con gli occhi aperti, fermo e immobile sulla sedia della tavola da pranzo. Stecchito nella gioia. La moglie raccontò poi che stampata sul viso aveva proprio l’espressione della beatitudine, come mai gli aveva visto in cinquant’anni di vita insieme. Lui comprese che morire nella soddisfazione del corpo, con addosso il piacere delle cose materiali, vale quanto un’estrema unzione. Il suo amico Riccardo gli raccontava spesso un’altra storia vera di morte che trovava sempre sublime ricordare: nel corso di un pranzo di raduno di vecchi alpini, in un ristorante del cuneese, a un certo punto un vecchio saltò su dalla sedia e ridendo chiese silenzio e attenzione, poi esclamò: “In questa meravigliosa valle di Borgo San Dalmazzo salutiamo tutti il nostro capitano Testa”. E crepò. Restò in piedi con gli occhi allucinati che si spegnevano piano e il suo bicchiere di barolo in mano, poi lentamente scivolò sull’erba; morì con l’omaggio al suo vecchio capitano tra le labbra. Aveva sempre amato le storie altrui di morti, funerali, seppellimenti. Perché non lo toccavano, perché non ancora ne era stato visitato. Sentiva e sapeva di muoversi alla cieca attraverso questi racconti con l’abilità danzante dell’immaturità, senza possedere nessuna parola che riuscisse a districarne il silenzio: 58 quello che non c’è : dal momento che ci muoviamo alla cieca e attraversiamo il giorno che esce con noi abbiamo solo intravisto il nostro fiato spalmarsi e appannare lo specchio d’aria l’aria si aprirà su di noi su nient’altro che le parole cui stiamo rinunciando il silenzio e l’inverno saranno stati per noi un lungo e vacuo luogo di maturità per noi due che ci tramutiamo in morte da una vita che non ci appartiene: 59 14. catalogo di fiche nella città di Imperia – h.16:45 “di tutte le belle passanti che non siamo riusciti a trattenere” Fabrizio De Andrè, Le passanti : la sua compagna dormiva ancora, lui nonostante gli psicofarmaci non riusciva. Terminato il suo catalogo di morti toccò a quello delle fiche. Andò nel bagno piccolo e prese 4 compresse di Tavor da 2,5 mg. perché aveva voglia di andare a nuotare sotto i portici di Oneglia. La rossa del negozio d’abiti eleganti all’angolo, sedici anni e apprendista da quattro mesi, la scopò talmente forte che le spezzò l’osso pelvico, e la lasciò in stato confusionale: i medici dissero “shock da perforazione”. Era la prima volta lei che scopava, e non pensava di averle reso un gran bel servizio. La mora del negozio di telefonia, così grintosa nel suo vitino da vespa e nelle sue tette sode come bocce di marmo, quella che glielo faceva rizzare solo con gli occhi, si beccò una schizzata talmente forte, mentre gli stava facendo una spagnola, che il seme le centrò la pupilla dilatata dal piacere e per poco l’accecò. La troia del bar, invece, a cui piaceva farsi infilare bottiglie di Beck’s in culo mentre veniva scopata, ci rimase molto male quando il vetro si scheggiò per la troppa foga dell’agire, e le procurò un taglio alla mucosa anale che la costrinse a stare fuori dal giro per quattro mesi. La tipa che stava dietro al bancone della macelleria, con il piercing al naso e le natiche perfette, assumeva un’aria quasi comica quando si piazzava alla pecorina sul divano, voltava la testa irta di capelli verso di lui e lo implorava di incularla a secco, non facendosi alcuno scrupolo. Amava indossare un collare autentico, non uno di quei gingilli acquistati nei sexy shop, bensì proprio un vero collare da cane. Mentre la sodomizzava lui tirava il collare più forte che poteva, fino a farla vomitare, fino a che gli occhi non le schizzavano fuori dalle orbite. Nel momento in cui lui veniva, lei finiva invariabilmente con il cagarsi addosso. La scena successiva vedeva la ragazza a riassestarsi in camera e china a pulire con uno straccio le chiazze di vomito, lui nel bagno con spugna e sapone a scrollarsi dal pene le macchie di diarrea e sperma. La commessa della bigiotteria, che era stata anche con un suo amico, succhiava il cazzo in maniera sublime. Non gli riuscì mai, nel corso dei loro quindici incontri, di scoparsela. Veniva sempre nel corso dei preliminari. Naturalmente in bocca. Proprio non resisteva all’aroma caldo del suo fiato. Sospettò che il piano della commessa fosse proprio quello, ma gli stava bene così. Non si ricordava più chi lo aveva avvertito della sua passione per lo sperma. La titolare della maglieria, con suo collo aguzzo e i capelli nero corvini sciolti fino alla base della schiena, quando lo cavalcava faceva danzare le tette e ululava, il che lo costringeva ogni volta a ridere istericamente. Lui amava scopare nel silenzio, per assaporare come non mai i mugolii delle amanti. Lei urlava, si contorceva tanto da fargli perdere la sensibilità al cazzo, dopo. Doveva quasi sempre masturbarsi prima di incontrarla, e in fondo sperare che 60 non gli si rizzasse. L’infermiera amava essere presa a sberle sul culo. Si calmava solo al sopraggiungere di vistose ecchimosi. Una volta la fustigò con un battitappeto e non seppe controllarsi: lei urlava di smetterla ma lui credeva fosse il solito gioco e continuò fino a strapparle lembi di pelle e a far schizzar sangue sulle lenzuola. La tredicenne a cui dava ripetizioni di storia lo spompinava fino a berne lo sperma quando non aveva con sé i venti euro dovuti per la prestazione. Sempre più spesso finiva con il non averli, sempre più spesso utilizzava lo specchio nel bagno grande e i suoi fazzolettini per pulirsi le labbra vischiose. La barista che con i suoi tatuaggi sulla schiena e sulle braccia adorava scopare nella posizione del missionario mentre con le unghie gli raschiava la schiena, che amava fargli un pompino dopo la scopata, perché voleva assaggiare gli umori della sua fica mischiati al sapore del cazzo. La sorella del suo amico che lavorava come ragazza immagine presso uno stock dell’Emporio Armani amava essere scopata in piedi e mordicchiargli le orecchie mentre biascicava porcherie. Lui faceva una fatica del diavolo a tenerla su, perché nonostante la bellezza era anche piuttosto formosa, ma si rincuorava subito perché quella posizione gli permetteva di appoggiare le mani a coppa sotto il suo culo perfetto in modo da tenerla su. Anche lei amava l’ingoio dopo il pompino, ed erano sempre chiacchiere e discussioni e contratti, prima, in modo che l’amplesso non fosse lasciato al caso ma studiato movimento su movimento, e poi agito. Tutte loro e le altre, le passanti, che non riusciva a trattenere, amava. Dopo la nuotata si sentì fiacco, non era più come avere sedici anni e passeggiare attraverso i portici immaginando le ragazze che avrebbe voluto accompagnare al cinema o a mangiare un gelato. Tante volte aveva passeggiato con i suoi amici parlando di politica e filosofia, di vecchi cantanti dimenticati da tutti mentre con gli occhi saettava a destra e a sinistra alla ricerca della ragazza dal viso più carino, più tranquillizzante possibile. Ancora oggi incontra alcune di quelle ragazze d’allora, che hanno scelto di lavorare nelle scarperie del centro o nelle profumerie che invadono i portici. Le trova commoventi. I portici sono molto cambiati da allora. Sembra che non vengano quasi più utilizzati dai giovanissimi come trampolino di lancio per farsi notare (probabilmente perché sono così sballati di Vicodin che non riuscirebbero a distinguere una fica da un buco del culo). Perlopiù incontra coppie di anziani a passeggio, trentenni con i loro passeggini e i loro gelati sbavati sulle boccucce dei bimbi, così belli e innocenti da fargli, a volte, venire da piangere. Salì il ricordo delle passeggiate con gli amici sotto i portici, così: 61 sotto i portici di Oneglia : - Muoviamo il culo? - Andiamo pure. Al Bar Ariston, che fa angolo, mi sembra, in edicola è uscito Metal Shock di novembre, in saldo a centocinquantamila, Le Gemelle. Facciamo la fila. Sparatoria sul lungomare di S. Lorenzo, studio notarile Re, gabinetto fondato nell'anno 1843. La beltà del viso, crema idratante Nivea, il push-up Clizia hai visto che tette gli sono venute alla Cinzia? Soliti casini a Montecitorio. Il presidente si è dimesso tumulto a sinistra, tumulto a destra. La principessa Diana è morta. La pasticca del Re Sole c’è ancora? Si getta dalla finestra per amore. Lo conoscevo di vista. Facciamo un salto da Berio? E’ dall’altra parte, prima arriviamo in fondo Lotteria del mondo. Oggetti d'arte, quadri, antichità, 24. 24 rosso e Tuttocittà. Via dell’Ospedale. Centro Tim. Ragazzo pratico cercasi per lavoro stagionale. Fallimento! Grande liquidazione! Ribassi del 50 % vietato l’ingresso ai cani. Qui soggiornò Giuseppe Garibaldi. Galleria Isnardi. Caffè Piccardo. Fine della tratta. - Torniamo indietro? - Torniamo, dai: 62 15. sempre sulla stessa strada – h.17:00 “perché sta succedendo qualcosa qui ma tu non sai che cos’è. Non è così signor Jones?” Bob Dylan, Ballad of a Thin Man : ancora stordito dal tavor riuscì a fatica a raggiungere lo stereo e ad accenderlo. Partì il colpo secco della batteria come una porta sbattuta in faccia e da quel disco del 1965 di Dylan scelse di farsi cullare. Per lui Highway 61 Revisited era il miglior rappresentante, attraverso la musica, di quella naturale tensione che ha qualunque uomo verso il concetto, astratto eppure ben presente nell’anima, di “liberazione”. Una condizione umana, cioè, che sia svincolata - e nella sua forma massima scevra - da ogni tipo di costrizione intellettuale, sia essa di origine sociale, culturale, religiosa o ideologica. L’ariosità, la potenza e la semplicità bibliche di quelle sghembe melodie giocate sui pochi elementari accordi del blues saturati dalle elettriche e dall’hammond gli apparivano quasi come “flauti di Pan” nella celebrazione dell’impotenza e della fine di uno stile di vita rurale, bucolico e più vicino ai ritmi dell’uomo. Dylan prendeva le distanze sia da se stesso, sia dal folk, sia da quanto andavano predicando le comunità hippy statunitensi. Ancora non era stato sotterrato nulla, ancora erano da venire Woodstock e Altamont ma mai la musica popolare riuscì a dare una chance a chiunque avesse qualcosa di interessante da dire usando una semplice canzone. Ciò che vibrava nell’aria era l’eco di una stagione contraddittoria che stava per morire, eppure ancora ricca di forti e vivaci stimoli musicali e culturali; forse la sensazione che provava Dylan era quella di non avere il tempo di dire tutto, di farsi sentire ora, di esprimere tutto quello che pulsava sotto i cuori di quei ragazzi e di quelle ragazze. Highway 61 Revisited risente di questo clima da presagio della morte di un’utopia di pace e fratellanza e la speranza di una possibilità nuova di riscatto, più che sociale umano. Le musiche sono semplici, scarne, suonate da musicisti in stato di grazia. Non c’era più tempo per le chitarre acustiche, per i tappeti sonori dolci ed eleganti, per gli abbellimenti armonici fini a se stessi. Non è un caso che alcuni critici del tempo definirono il disco non compiuto. Eppure esso è denso di musica ancor oggi viva e suadente: scabra e rabbiosa, certo, ma anche ricca di melodie e armonie, popolare e sperimentale insieme, dolce e acida come certi assolo di chitarra, tipicamente contemporanea ma attentissima alle suggestioni musicali del passato. Ascoltare e riascoltare quel disco non significava per lui celebrare in maniera vaga gli anni ’60 che tanto lo affascinavano, quanto piuttosto quel senso di possibilità e di speranza che si alimenta sempre nel cuore della giovinezza, e che proprio in quegli anni si faceva, forse più che in altre epoche, più consapevole e diretta. I temi portanti che aveva individuato in quel primo disco rock erano avvolti dall’ipocrisia che frena la spontaneità degli uomini, dalle false ideologie (siano esse culturali, religiose o politiche) che non lo fanno esprimere al proprio meglio, dalla lotta che combatte ogni giorno per contrastare questo stato di cose e che quasi sempre 63 inevitabilmente fallisce miseramente. La società nuova che stava nascendo non piaceva ovviamente a Dylan. Da lì a breve avrebbe fatto la sua comparsa negli Stati Uniti la famiglia Manson, i vecchi cantautori folk erano oggetto di processi pubblici improvvisati, la politica e le ideologie prendevano il sopravvento sull’umanità delle persone. Naturale, o quasi, che un artista sensibile come Dylan rivolgesse, senza però troppe speranze, il suo sguardo ad un’epoca magari passata, ma più libera, più sperimentale, più vicina a un’idea di uomo felice. Una società marchiata dalle idee di liberazione. Le brutture dell’epoca si riversano addirittura, in alcuni passaggi del disco, in vere e proprie invettive. La confusione è totale sembra dirci Dylan: “c’è grande confusione sotto il sole quindi la situazione è eccellente”. Ma più che manifesto politico si profila quasi come condizione umana. La confusione, la lotta, l’ipocrisia che vanno a incidere in primis sui rapporti di coppia. Queen Jane Approximately: La storia di un ragazzo e una ragazza che da una stagione di amore libero e spontaneo si trovano invischiati in una realtà che non solo non è più la loro, ma anche li schiaccia, lasciandoli spaventati, soli e definitivamente divisi al termine della storia. Una morte simbolica, dunque, quella dell’innocenza e della giovinezza, ma anche l’apertura e la possibilità verso un altro tipo di vita e di mondo meno ingenuo e più adulto. Al termine di Desolation Row si sentì un ipocrita perché gli venne in mente, così all’improvviso, un suo amico poeta che non avrebbe mai accettato nemmeno lontanamente di lavorare su un “cantante”, un amico che forse in quel momento, mentre lui si stonava di Dylan e Tavor, era impegnato in uno studio matto e disperatissimo sulle riletture di Biamonti o di Tommaso Campanella o di sa il diavolo chi, nella bolgia maledetta di altri più illustri dottori in lettere: 64 molto meglio questo di altro : nessuno meglio di te conosce il linguaggio nessuno divide e moltiplica meglio di te declami mirabilmente Montale e Boine ma non riesci ad accordarti al suono di una casa le riconosci le risate dei tram a Milano? o guardi le teste dei brumisti nel mezzo sonno tentennare? i tuoi cuccioli implumi mettono mani a libri e quaderni e matite io ho imparato tutto dalle insegne del Conad sfogliando pagine di latta e di ferro nessuno odia i grassi quanto li odio io eppure alla fine sono diventato come loro sempre pronto a svendermi per un pranzo sempre pronto a scopare con qualche puttana sognando di parlare coi serbatoi d’acqua sparsi per le strade e diventati pozzanghere i tetti afferrano al volo ciò che ho da dire poi cigolano nella notte, l’uno con l’altro dimenano le loro piccole lingue rosse sussurrando appena tutto ciò che è indicibile: 65 16. new economy in poetry: una lettera – h.17:30 “non ho creduto in niente” Edoardo Sanguineti : cari e care, dimenate le vostre piccole lingue rosse sussurrando appena tutto ciò che è possibile dire e poetare. E’ davvero un piacere e un onore, oh bardi presenti e futuri alla lettura, ascoltarvi. E poi farvi notare come nonostante le vostre fragili bocche siano così acute, nemmeno più ce la fate a uscire fuori dal pianerottolo di casa per declamare qualche vostra storta sillaba. Che direbbe di voi Ferlinghetti? Nonostante i toni fermi e cortesi delle vostre poesie, così pregne di contenuti forti, aspri e poco rassicuranti, ho il dispiacere di comunicarvi che a mio modo di vedere l’unica cosa di buono che siete capaci di fare, oggi come oggi, è andarvene a vivere a Parigi, al massimo facendovi ringraziare da Aldo Nove nei suoi libri. Oppure siete capaci di invecchiare. Ho letto i vostri versi. Ho apprezzato la vostra urgenza, la vostra tempestività, la cura e il rigore che da sempre hanno fatto da corollario alla relazione che avete mantenuto con i libri che avete stampato. Degli altri poeti poco m’importa, e di voi come persone forse ancor meno. Ma è a voi poeti che volgo la mia attenzione: vorrei moriste tutti, così vi ristampano i libri introvabili e io posso godere nel leggervi meglio in tutte le vostre angolature. Non vi scompensi però quest’ultima mia osservazione: ci tengo a rassicurarvi sopra un innegabile fatto: io non sono un tipo violento. Se c’è qualcuno che vi ha riportato una cosa simile è incontrovertibilmente una enorme testa di cazzo. Procediamo comunque con ordine: io, al contrario di voialtri, non ho mai avuto una relazione sessuale con il vocabolario, sia dall’interno dell’apparato sia dall’esterno. A me l’apparato fa vomitare. A voi evidentemente no, perché l’apparato ce l’avete scritto nel sangue e vi dà da mangiare. I più talentuosi di voi oggi fanno i portaborse alla facoltà di Lettere nell’Università di Genova. Una bella fica che frequentava con me il corso del professor Coletti ogni tanto la vedo ancora in giro per le aule, quando mi capita di andarci, e la scorgo sempre impegnata alla ricerca di…libri rari o di… cazzi duri? Chissà… Più in là del “Pronto Intervento Poetico” non andate. Qualche lettura alla Madeleine di sera, ubriachi fradici, col sol fine di spupazzarvi qualche fica decerebrata che si commuove davanti agli scritti patetici di gente patetica che lascia sulla carta solo le lagnanze per non essere riuscito a leccare la passerina alla vicina di casa che tanto adorano. 66 Io no. Io vivo a Imperia e non sono come voi. Ad esempio non viaggio come voi. La strada più lunga che ho percorso è stata quella per affrontare un pellegrinaggio a Lourdes. Io non sono come voi, io amo Lourdes, secondo me è il posto dove c’è più poesia al mondo. Entrando un po’ di più nello specifico: non è mia intenzione macchiare l’immagine di nessuno ma non trovate quantomeno sospetto che le Farfalle da combattimento combattano solo sulla carta? E che nello stesso libro il vostro amico poeta si lagni con l’ultra settantenne Sanguineti che ormai non se ne può più del capitalismo marcio che corrompe gli animi, che non se ne può più dei gadget col Che? Scusate una cosa: ma che cazzo ce ne fotte a noi di condividere queste ciance con uno che ormai sta alle soglie dell’arteriosclerosi e non sa più che dire, tanto che alle ultime elezioni ha rispolverato la storia del bisogno di una vera “lotta di classe”? Per me, compagno professore, l’unica lotta di classe che ricordo era quella che facevo con i miei compagni alle medie a colpi di cerbottana prima che in aula entrasse il prof. Siamo seri: il vostro amico poeta è decisamente meglio quando scrive di profilattici. Ora voglio chiedervi una cosa, brutta manica di stronzi: ma secondo voi io ho il diritto a dirvi queste cose? A volte mi faccio qualche scrupolo di coscienza. Perché il fatto è che ho delle domande sopite nei vostri confronti. Dove cazzo eravate voi, nuovi direttori della poesia, quando hanno ammazzato a Genova Carlo Giuliani? Ma non eravate il “Pronto Intervento Poetico”, il “Gruppo ’93”. Oh illustrissime teste di cazzo, ci fate o ci siete? Fate gruppo solo per scopare, come i ragazzini che formano una band rock o anche per fare della poesia un’azione? Per scendere in strada? Avrete mica paura di scendere in strada? Avrete mica paura di incontrare lo spettro di Carlo Giuliani che punta il dito su di voi? Avrete mica paura che possa domandarvi dov’eravate voi, quel giorno? A me di Carlo Giuliani non frega un cazzo. Secondo me se l’è cercata la morte, e starò sempre dalla parte di quel carabiniere. Ma almeno voi, Cristo Onnipotente … Questo è il mondo, cari e care. E il mondo, si sa, è un covo di serpenti. Il mondo tenta di farci fuori perché il verso è per carattere schietto e franco. I poeti sono i primi ad assumersi ogni responsabilità delle loro azioni, e se sbagliano sono pronti a pagare. I poeti sono i legislatori non riconosciuti del mondo. Le parole che vi ho scritto spero vi siano arrivate, anche se non le ho scritte io. Meglio, le ho scritte io ma non è a voi che volevo scriverle. Meglio ancora, è vero che volevo mandarle a voi ma non ho ancora finito di scrivervele tutte. Le mie parole sono sempre fuori contesto. Sono sempre in ritardo. In ritardo sulla Storia, sulla Società, sul Costume, sulla Politica. 67 Oh bardi futuri che ancora oggi affollate la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Genova! Oh maschi che vi fate sfondare dai pompini delle studentesse! Oh femmine che vi fate leccare la fica fino a farla diventare spugnosa e arrossita, tanto che poi non vi basteranno chili di Vagisil per farvela tornare accettabile! Oh bardi futuri! Scendete in strada! Scendete in strada! Scendete in strada! Scopate pure, ma scendete in strada! Smettetela di fare i professionisti della parola! Ora, per concludere, voglio raccontarvi questa: quando frequentavo l’Università io (all’incirca nei primissimi anni ’90) c’era una segretaria al polo linguistico di piazza della Nunziata, che portava due occhi di zaffiro puro. La mia amica Michela, che allora mi accompagnava sempre, mi diceva che quella un tempo si rovinava di canne e orge fino a un certo punto della sua vita. Un giorno, infatti, incontrò una specie di veggente sudamericana che le cambiò l’esistenza, tanto che oggi conduce una vita morigerata e spirituale. La lesse dentro. Io avevo un debole per lei. Anch’io volevo leggerle dentro, ma passando attraverso la sua fica. Il suo nome era Modiana. A quel tempo però io ero uno che si faceva abbastanza i cazzi suoi, inoltre ero sempre lacerato dalla timidezza. E dalla recessione. Se quella succhiacazzi della Modiana si fosse decisa a prendermelo in bocca credo mi sarebbe passato tutto il livore che provavo allora per il mondo, e oggi per voi. Quella rabbia che malcelo attraverso una polemica con voi imbecilli. E invece sapete cosa accadde allora? Niente, ecco cosa accadde. Una volta Michela, provando pena per me, provò ad approcciarla chiedendole un parere sul sottoscritto. Modiana rispose che mi trovava eccessivamente femminile, che lei amava di più gli uomini che mostravano più rudezza e più decisione nel comporre versi. Uomini come voi, insomma. Merda, ero andato lì a studiare perché desideravo da lei quel tanto che mi bastava e poi stop: una semplice scopata, magari un pompino con ingoio e nient’altro. Giorni e giorni trascorsi nel tentativo di scoparmela e invece un cazzo: tempo sprecato a spolpare pezzi di letteratura per niente: 68 quel tanto che mi basta poi stop : ho spolpato quel tanto di letteratura che basta da poterti sputare le ossa in faccia e sul naso ho sciolto nell’acido nomi e cognomi dati e incominciato ad usare per intero i miei ho rifatto il letto al meglio e ho corretto le frasi parlando poco in casa per quel poco che parlo e vaffanculo a Filologia Italiana e a Glottologia sono Emiliano Moncia amico mio e non sono te per quello che me ne fotte puoi andare al diavolo dal giorno che fecero rimare Nietzsche con camice rima incantevole e per niente comica cocco mio mi ci gioco le palle che ora soffrirai nel chiamarmi: 69 17. scolpire le parole – h.18:35 Bambini che giocano nei campi Che ridono fanno capriole Pescano remano nel ruscello Lo spillo del vestito della mamma diventa l’amo Oh tempi felici quando il sole brillava tutto il giorno Ma cosa è successo a tutti quelli che si sono persi per strada? Murray Lachlan Young, da Casual Sex e altri versi : dopo la lettera scritta ai suoi odiatissimi poeti figli del vocabolario si sentiva più disteso, rilassato. E ripensò ad un altro lato della poesia. Per un paio d’anni infatti, grazie all’amicizia con il dottor Luca Necciai, infaticabile curatore del sito www.amicipoesia.altervista.org, ebbe modo di far parte della giuria in un concorso di poesia organizzato dal comune di Pamparato, uno strepitoso paese arroccato nella Val Casotto, poco distante da Garessio, rinomato anche per i suoi gustosi biscotti. Il giorno della premiazione, circondato da decine di uomini e donne che avevano regalato i loro versi al premio, fieri e timidi nel loro stesso essere presenti alla cerimonia, pensò a quante fossero, al mondo, le definizioni della parola “poesia”. A quante voci hanno cantato, spiegato, urlato il suo significato. A quante indeterminatezze vibrano nel suo senso oggi, agli albori del ventunesimo secolo. Pensò a Lawrence Ferlinghetti, a come nella sua assenza le donava significato: “un letto a mezzanotte senza amore, un cielo notturno senza stelle”. Pensò a quanto lui stesso amasse questa definizione, a quanto la sentisse particolarmente sua. Eppure anche lì, in quel posto perso dentro il centro del Piemonte, abitato dall’amore di poche anime viventi, trovò un paniere di voci intrecciate ai suoi pensieri. Tra le carte che sfogliava, ben piantata dentro un paio di versi di un giovane partecipante al premio, c’erano queste parole: “Sono il menestrello della parola / dissolvo pagine e pagine di pensieri.”. Lì per lì non seppe come definire le emozioni che stava provando: si sentiva commosso ma allo stesso tempo patetico e sentimentale. Eppure amò quest’immagine di poeta come “menestrello della parola”, un po’ come il “burattinaio di parole” che Francesco Guccini cantò qualche anno prima in una sua canzone. La poesia è un linguaggio che non esiste, ma che va costruendosi continuamente. Un linguaggio, forse, addirittura multimediale, con il suo sincretismo di segno, musica, gesto, teatro e parola. 70 E quindi, evidentemente, multimediali lo erano anche i nostri padri greci e latini, quando per cantare le imprese dei grandi imperatori e dei condottieri dovevano forgiare dal vocabolario comune parole nuove, eroiche, supreme, dal momento che nuovi, eroici, supremi erano i protagonisti dei loro versi. Occorreva inventarsi un linguaggio diverso e magnifico, insomma, perché letteralmente, “non c’erano parole per descrivere quelle imprese”. Era necessario scolpire dalla materia grezza della parola un senso nuovo del raccontare. Scolpire la parola come un sasso grezzo. Che sia la scultura l’arte più prossima alla poesia? Pensava: la fame di intagliare parole è ancora ben viva dentro le coscienze degli uomini, oggi più che mai. Il desiderio di inventarsi un linguaggio diverso e inaudito per le cose della vita è ancora ben saldo. Le cose che amiamo, le cose che vogliamo trattenere. Anche solo con un respiro, affinché non restino dimenticate: 71 una cosa dimenticata per Eraldo Odasso e Luca Necciai : lì, proprio lì in un canto, accanto la scopa, c’è una cosa di legno, lì, lasciata così col manico curvo: c’è una mazza, lì, adoprata a pestar le castagne da gente di qui: ricorda, lì, stando zitta, che c’è il tempo che passa e c’è il tempo che non passa, e che ne passa dal giorno che nell’aia larga quasi una piazza la mazza, lì, ha pestato l’ultima castagna, proprio qui: ora è una cosa dimenticata, lì, e c’è più nessuno che ricorda che è stata come una cosa viva, qui, e che è ancora lì, in un canto, che ascolta i canti e le risa delle vegliatrici che un giorno sentiva: 72 18. scene da una storia d’amore e incapacità – h.19:00 “Non faccio altro che lamentarmi, l’avversione è troppo profonda, sto cominciando a chiedermi se la misura non sia colma. Ascolto me stesso indulgere a quel genere di piagnisteo rituale che procura una così cattiva nomea presso il pubblico ai pazienti in analisi. E’ possibile che abbia veramente detestato la mia fanciullezza e provato tanto livore nei confronti dei miei poveri genitori quanto sembro provarne adesso, mentre mi guardo indietro avvantaggiato da ciò che sono e non sono? (…) Indipendentemente da ciò, la mia coscienza desidera scoprire, prima che ricominci con le menate, che allora la mia infanzia non era questa cosa che adesso mi sento così estranea e oggetto di risentimento” Philip Roth, Lamento di Portnoy : undici di ottobre lento, cullato dal dondolo e dalle sigarette fumate in silenzio, nel tentativo sempre meno riuscito di mettere ordine tra i files della sua memoria, per capire il momento esatto in cui si era trasformato in pesce, per carpirne il motivo. Girovagò per le stanze della sua infanzia sotto l’effetto di quattro Xanax da 50 mg. e emblematiche gli tornarono subito alla mente le botte prese da sua madre. Il padre non lo aveva mai picchiato invece. A parte una volta: gli diede un sonoro calcio in culo davanti a tutti, all’interno di una sala giochi, perché l’aveva beccato a marinare la scuola. Aveva 14 anni. Ma Dio Santo, la madre quante botte che gli aveva dato… ne possedeva un campionario immenso! Ricordava perfettamente una delle prime legnate prese da piccolo (gliene aveva date sicuramente anche prima, ma di quelle proprio non riemergeva più nulla, oramai). Comunque nella sua coscienza scolare era scolpita una giornata particolare, quando lui aveva circa sei anni. Si era andati, allora, a pranzo dalla zia G, insieme a tutta la mandria di parenti, cuginetti e cuginette compresi. Allora vivevano a Latte, una frazione di Ventimiglia a pochi minuti dal confine con la Francia. Il parentado amava molto fare grigliate di carne all’aperto e orge di bistecche e rostelle cuocevano tra chili di carbone e legna ammucchiata, quel giorno. L’usanza faceva sì che mentre gli uomini cuocessero le carni, le donne preparavano in casa la tavola e i tagliolini freschi da servire poi con il ragù, chiacchierando, il più delle volte, delle disgrazie avvenute a lontanissime cugine o zie rimaste in Abruzzo o emigrate in Canada. I bambini naturalmente erano abbastanza liberi di scorrazzare nel piccolo prato davanti casa e giocare all’aperto. Lui, quel giorno, era particolarmente orgoglioso di sé, perché dopo tanto tempo la mamma gli aveva comprato un paio di stivali da cow boy in pelle vera (povera donna, chissà quanto le erano costati, allora…). Sta di fatto che nel corso di una scorribanda si accorse di un piccolo tozzo di legno carbonizzato da cui veniva fuori un gran fumo. Lo trovò così, per caso, proprio al limite tra il prato e la campagna vicina, mentre stava giocando a nascondino con i cugini. Senza neanche pensarci un attimo si trasformò nel piccolo John Wayne della situazione e con una colpo di tacco girato a 73 terra e ben assestato spense il piccolo tizzone. Il problema fu che il fumo non uscì più dal legnetto carbonizzato, ma direttamente dalla suola del suo stivale nuovo di zecca. Raschiò per terra ben bene e quando tutto si spense un terribile odore di cuoio bruciato gli saliva fin dentro il cervello passando attraverso le narici, e una macchia giallastra faceva bella mostra di sé dalla suola dello stivale nuovo. Quando andò dalla madre a riferirglielo, si prese una tale scarica di legnate che trentacinque anni dopo ancora se la ricordava. Ad oggi, ancora non si permette di spegnere con i tacchi neppure le cicche di sigarette che lascia cadere in strada. Tempo dopo, ma più o meno sempre tra i cinque e i sei anni, a casa della nonna, mamma e zia P. parlavano della figlia di quest’ultima, allora giovane adolescente e di conseguenza alle prese con i primi turbamenti sentimentali e ormonali. Durante quasi tutto il viaggio da Imperia a Ventimiglia (perché nel frattempo lui e la sua famiglia si erano trasferiti a Imperia) madre e padre non parlarono d’altro che del fatto che qualcuno, chissà chi, aveva visto T. (la cugina quindicenne appunto), in compagnia di un tipo piuttosto avanti con l’età, seduta in un’auto strana a parlare. Questo episodio scandalizzò molto la madre e tutta la famiglia. A lui in effetti importava poco se T. era seduta con un tipo dentro una macchina, non ci trovava assolutamente niente di male. Evidentemente si sbagliava. Giunti in casa dei nonni, dopo il pranzo e i giochi, si recò in cucina perché, oltre ai discorsi tra i vecchi di casa, amava ascoltare anche le chiacchiere delle comari e delle donne. A un certo punto sentì pronunciare dalla madre il nome di T, la figlia della zia P., sempre lei, la quale era presente e stava ascoltando. Non aveva idea di cosa stessero dicendole, ma pensava fosse una cosa riguardante la storia dell’auto, così si mise in testa di esclamare: “Sai zia che la mamma e papà hanno parlato tutto il tempo di T. in macchina?” Non fece in tempo a dire “macchina” che sentì una sberla fargli girare la testa, e si ritrovò sul divano bianco steso come un cencio, incapace di capire la situazione e di interpretare la botta presa. Guardò per tutto il tempo il Gran Premio in televisione in compagnia del nonno e non osò più dire una parola. Quando aveva più o meno dodici anni, la madre e la zia G. andarono al mercato e tornarono dopo aver comprato due maglie perfettamente identiche, erano due polo, differenti solo dal colore: una era rosso acceso, l’altra bianca. Lui non era andato al mercato, era rimasto a casa della zia G. a giocare col cuginetto, sorvegliato dallo zio D. Quando tornarono e mostrarono le polo sua madre gli chiese di scegliere quella che gli piaceva di più. Erano identiche, una era destinata a lui, l’altra al cuginetto. Siccome lui era il più piccolo, aveva l’onore di scegliere per primo. In quel momento lo acciuffò una botta di panico: scegliere. Dannazione, non sapeva scegliere, per lui le polo erano uguali, guardava la madre implorandola di dirgli qualcosa, di fornirgli anche un semplice indizio, sapere da lei quale fosse meglio per lui, sapere quale a lei piaceva di più. Per lui una polo era una polo, assolutamente indifferente. A quel tempo pensava solo all’Inter. Non ricevendo alcun messaggio chiaro, a un certo punto, spinto anche dal nervosismo della madre, indicò la bianca e immediatamente dopo la zia G. disse: “Ok, allora è fatta! La rossa la darò a L., tanto 74 sono belle tutte e due”. Appena scesa dalla macchina rimasero soli lui e la madre, e lei le disse ciò, semplicemente: “Sei un idiota, ho sudato sette camicie per farmi dare dall’ambulante la maglietta rossa a un prezzo stracciato. Il rosso ti dona, possibile che alla tua età ancora non sai vestirti? Possibile che non ti rendi conto se una maglietta ti può donare o no? Quella polo rossa era la cosa più bella che ho visto al mercato e tu invece sei andato a scegliere come un babbeo quella più brutta, che tra l’altro costava anche meno. Non indossò mai quella maglietta e il senso di colpa più grande della sua vita era ancora oggi legato a quell’episodio. La consapevolezza che non valeva niente come persona, che non era capace di scegliere, che nella vita avrebbe fatto sempre le scelte sbagliate. Senza nessuna indicazione da seguire, solo giudizi da sopportare. Bene. Andò esattamente così. E per un sacco di cose molto più decisive di quella stupida polo rossa. Altro episodio: questa volta era molto piccolo e non ricordava neanche bene cosa avesse combinato. Nulla comunque di così grave dal momento che non era un bimbo terribile, “vivace” come si suol dire, quanto piuttosto legato a regole ben precise che se non osservate venivano punite rigorosamente con la scopa sulla schiena. D’altra parte questo modo di essere educato gli permetteva di restare per molto tempo, nel corso delle giornate, solo a fantasticare. I suoi lavoravano in campagna e gli affidavano solo responsabilità piccole, come ad esempio quella di bagnare i gerani sul davanzale della finestra, stare attento al gatto e non fare entrare nessuno in casa. Probabilmente contravvenne e una di queste responsabilità, forse non chiuse l’acqua della vasca per l’irrigazione dei campi e un po’ di terreno si allagò. Nulla di gravissimo, era già accaduto altre volte. Fatto sta che la sera, al ritorno a casa, la madre ebbe una vera e propria crisi isterica, si lanciò su di lui urlando e gli strappò i vestiti di dosso, poi lo pestò fin quasi a farlo sanguinare. Non aveva idea da dove scaturisse tutta quella rabbia e quel risentimento verso di lui, ma i colpi dati all’orecchio se li ricordava molto bene. Oltre al fatto di vedersi stracciare anche lembi dei pantaloni, a sentire i colpi sulle braccia come frustate e le botte sulla pancia con le mani nude e callose da lavoratrice. Nel corso di una giornata estiva del 1997 divampò improvvisamente un incendio terrificante, quasi di proporzioni epiche, che lambì la sua casa e i terreni del padre. Una intera collina stava prendendo fuoco. I pompieri facevano quello che riuscivano a fare, e tutti agivano molto in fretta. Lui era chiamato a dare una mano. L’adrenalina gli scoppiava in petto dalla paura, ma anche il senso di eccitazione di essere lì a tentare di salvare la sua casa insieme ai pompieri lo emozionava non poco. Era lì che tentava di avvitare con tutto l’impegno che possedeva in quel momento la pompa dell’acqua al rubinetto ma faceva abbastanza fatica, perché non era un’operazione che compiva così spesso. Sua madre lo vide armeggiare con la gomma e la pompa e il rubinetto, e con le fiamme alte fino a due metri che a momenti la lambivano, invece di pensare alla loro incolumità, pensò bene di urlare davanti ai pompieri che era una mezzasega e che non valeva niente lì, che il suo intervento serviva solo a peggiorare le cose e lo cacciò via. 75 Quando lavorava in campagna con lei, fin da bambino erano sempre urla, e perché lui non sapeva fare nulla, o perché faceva le cose troppo lentamente. Questa costanza nel considerare il figlio un incapace totale aveva ancora del commovente per lui. Ancora oggi glielo ripete quotidianamente. Dopo anni di analisi ancora non aveva cavato un ragno dal buco da questa faccenda. Ancora pochi giorni prima della sua partenza per Lanzarote la madre ha continuato a dirgli che lui come persona non vale niente, che non è capace di fare nulla in casa, che non sa risparmiarsi i soldi che guadagna facendo un mestiere che non è in grado di fare. Che lui non è e non sarà mai un uomo pratico, e che finché sarà viva lei andrà bene, ma dopo che sarà morta per lui saranno guai. Inizierà a “cagare con il suo culo”, come è solita dire ormai da trentacinque anni. Quando decise di sfidanzarsi (due volte) da due ragazze che si era accorto di non amare più scoppiarono due tragedie, nel senso che i pianti della madre fluirono a dirotto, le chiusure nei suoi confronti divennero atroci, i silenzi e le incazzature costanti, i paragoni con i figli dei parenti, loro sì ragionevoli e servizievoli e con la testa a posto, all’ordine del giorno. Suo figlio per lei era sempre stato una specie di mezzo matto, e il modo che aveva per amarlo e insegnargli la vita era quello di condannarlo all’etichetta dell’incapace, dello stupido, dell’incoerente, di quello che non aveva voglia di fare niente e che mai niente nella vita avrebbe combinato. Specie con le donne. Non sapeva come trattarle. Lui ricordava, ora, immerso nell’acqua, che in trentacinque anni di vita i suoi problemi non erano mai stati ascoltati in casa, che lui passava sempre in secondo piano rispetto alle sofferenze e ai sacrifici dei suoi genitori. Ogni volta che la madre tornava dal lavoro, la stanchezza le impediva di parlare al figlio, e ogni volta che il figlio tentava di imbastire un discorso, andava sempre a finire che lui non aveva abbastanza esperienza per esprimere concetti validi. Soltanto ora cominciava a rendersi conto della solitudine che aveva vissuto da bambino e da adolescente, dell’impossibilità di essere guidato nella vita da educatori troppo stanchi di lavorare, troppo rancorosi nei confronti delle proprie sofferenze per ascoltare e accettare anche quelle del figlio. Eppure amava i suoi genitori, avrebbe fatto qualsiasi cosa per loro, e non portava loro alcun rancore, se non quello, ormai quasi dissolto dalle nubi del tempo, di non aver avuto mai tempo di capire che in quella casa, a soffrire e a stare male, spesso non erano soltanto due persone, ma tre: 76 mia madre ha l’anima di pane a mia madre : ho nostalgia del pane mai assaggiato: il sapore del chapati, del phulka bollente o del tandoori nan mentre sorseggio tè cullato dalla nenia di un sufi su un tappeto ma ho sulle labbra il sapore del pane cotto a legna da mia madre la sua licenziosità la soffice morbidezza che avvolge il palato mentre scende la sera e i cani abbaiano la sensazione di molle cedevolezza sotto i denti l’emozione della crosta dura e del cuore tenero la sensualità del perfetto contrasto strutturale l’anima che per un attimo ridiventa terra: 77 19. le cose che ama di lei – h.19:30 “are you experienced?” Jimy Hendrix : mentre l’anima ridiventa terra la terra la germoglia. Lui e la sua compagna erano di nuovo a casa, sulla superficie. Lui le annunciò che sarebbe andato in bagno, e poco elegantemente le disse: “vado a cagare e poi a farmi una doccia, prima di cena, amore” e come sempre questo fu una specie di segnale, nel senso che lei sapeva che se il suo amore andava a lavarsi e a cagare come minimo per prima cosa si sarebbe fumato una sigaretta, poi si sarebbe letto almeno metà Rolling Stone, poi si sarebbe goduto la cagata e l’orgasmo da post parto, poi se andava bene avrebbe lanciato uno sguardo al water che sicuramente sarebbe stato schizzato di merda, quindi avrebbe fatto due cose: o lo avrebbe tenuto sporco sperando che nessuno se ne accorgesse (“ma chi, per Dio, se in questa casa ci viviamo solo io e te?”) oppure a malavoglia ci avrebbe passato lo spazzolone fino a rendere il bagno bianco; avrebbe immerso lo spazzolone nell’apposito cilindro pieno di candeggina, dato una spruzzata di profumo all’ambiente (reso irrespirabile) e pensato che questo tipo di operazioni occorrerebbe portarle a termine ogni volta che uno ha voglia di farsi una sonora cagata in santa pace. I piaceri hanno un prezzo. Regole della casa: se a lui capita di dover pulire il bagno nella sua interezza, compreso il bidè e la tazza della doccia, deve ricordarsi di versare in un contenitore d’acqua fredda e pulita un misurino di candeggina: è il miglior modo di pulire, sbiancare e igienizzare. Le pubblicità sull’argomento mentono tutte. La candeggina va anche versata nel buco della tazza del cesso, poi ci va immerso lo spazzolone, in modo che si disincrosti dai pezzettini di cacca che possono restarci appiccicati. E quei bastardi ci rimangono sempre appiccicati. Passando al reparto spazzatura/cucina: bisogna che lui si ricordi che lo straccio non va appeso dove stanno le presine, bensì attorcigliato al manico del forno, più pratico da usare in caso di bisogno. La distanza tra il forno e le presine è di 56cm circa, ma comunque ciò che dice in materia la sua compagna è legge. Lo straccio va nel manico del forno, non si discute. Le bottiglie di plastica vanno pressate e gettate nell’immondizia. Sempre. Comunque. Non esistono giustificazioni. Se non lo fai sei una merda. La spazzatura, inoltre, quando è piena bisogna buttarla. E fin qui lui ci arriva. Ma attenzione, non nella pattumiera che è nel vano scala, ma in quella giù in magazzino. Quindi l’operazione consiste nel caricarsi di spazzatura, scendere attraverso la scala a chiocciola (strettissima e sicuramente progettata da un maniaco e comprata da mio padre in un momento di perdita di lucidità dovuta a un ipotetico calo zuccherino, il che soffrendo di diabete è possibile), rischiare di gettarsela addosso e poi liberarsi di quel dannato sacchetto di plastica bestemmiando. 78 Capitolo indumenti/igiene personale: gli indumenti sporchi non vanno assolutamente lasciati in giro, pena la decapitazione, bensì presi (una volta fatta la doccia, ovviamente, questo è concesso) e portati di sotto al fine di infilarli nell’apposito cesto, quello appunto che raccoglie gli indumenti sporchi. Per quanto riguarda la doccia, è importante ricordarsi che la saponetta lava meglio, sgrassa di più la pelle e la rende più liscia; è più naturale, è in armonia coi campi in fiore e con grano dell’Arkansas e lascia una sensazione di pulizia maggiore. Anche se loro vivono a Piani e non nell’Arkansas. Ma questi sono dettagli. Per le varie fragranze e unguenti, nell’atto del lavarsi, c’è un discorsetto da fare: non è tanto importante per lei il profumo o l’aroma della saponetta: il fatto è che usare la saponetta le ricorda l’infanzia in Calabria, è naturale ed è pregna degli odori di una volta, di panni stesi al sole che sanno di sapone di Marsiglia, tanto per intenderci. Regole della sua compagna: il cruccio delle donne, ad esempio, ovverosia la depilazione. A lei piacerebbe avere la pelle più liscia, la farebbe sentire più femminile (lei ha un “maschile” – psicologicamente parlando – molto forte, dice). Per lei il femminile è il femminile, il maschile è il maschile. Ad esempio: per lei gli uomini che si depilano non esistono come maschi, ne pone in dubbio la loro stessa virilità. Capita l’antifona? Dopo la depilazione lei utilizza la crema sorbetto della kaloderma, che rinfresca e non unge. Lui comunque la trova estremamente femminile e sexy, ma contro i drammi della depilazione la battaglia è persa in partenza. La prima cosa che lei fa la mattina appena sveglia è bere acqua a temperatura ambiente (e questo è ottimo e lui lo apprezza), fumare la prima sigaretta all’aria aperta (e questo non è ottimo e lui non lo apprezza per un cazzo), poi la prima tazza di caffè, meglio se non caldissimo. Non riesce a far colazione e se proprio deve riesce solo con cibi salati, non sopporta il dolce perché le da la nausea. Dopodiché controlla nel frigo se ci sono tutte conservate le bottigliette piccole di plastica, quelle d’acqua, che continua a usare e riusare fino all’usura. C’è il frigo che straborda di bottigliette vuote. Lei è una tipa a cui piacciono le cose funzionali: una volta si è comperata una borsa double-face che ha usato fino alla disintegrazione. A lei piace fumare molto in macchina, guidando e ascoltando i suoi CD preferiti, però ogni tanto si lamenta del fumo e blatera di voler smettere. Ma siccome possiede una volontà da scoiattolo, difficilmente riuscirà in tempi brevi a raggiungere tale obiettivo. Ama girovagare per i mercatini dell’usato con il suo compagno appresso perché adora quegli ammennicoli, ma solo se tenuti in buono stato. Nell’ambito relax la cosa che la manda in orbita è l’odore delle lenzuola, o anche dormire con due cuscini; provare piacere nel fare la cacca senza avere dei veri e propri “riti” come il suo compagno (sigaretta, riviste, silenzio, concentrazione, abbandono). Vorrebbe una cagata naturale, spontanea, non indotta da nessuna erba o 79 tisana o lassativo. Una cosa in armonia col mondo - ricordate l’Arkansas? Ecco, hai capito con chi hai a che fare? Una volta ha confessato al suo uomo che un piccolo rito prima di andare in bagno ce l’aveva: si toglieva tutte le parti di vestiario sotto la cintura e si lasciava la maglietta. Poi, così come ha cominciato, ha smesso. Quando va a letto le piace lavarsi i denti molto bene, passarsi il dentifricio, preferendo uno di una marca non troppo forte (ad esempio il suo compagno usa il Marvis, dentifricio coi controcazzi), ecco diciamo che in questo periodo lei trova il Pepsodent abbastanza concreto. Camminare a piedi nudi sul prato nuovo appena innaffiato, sentire la piacevolezza dei fili d’erba che le accarezzano le palme dei piedi la sparano in un’altra dimensione. Le piace stare seduta e anche sdraiarsi sul cemento, a volte. Adora studiare, per poi riproporle al suo compagno, le posizioni in cui dormono i gatti, specie quelle che assumono quando vengono a dormire senza alcun permesso nel letto che hanno preparato per gli ospiti dentro lo studio. Ama le caramelle sfuse, comprate non nei supermercati bensì nei negozi specifici di dolciumi, in special modo va matta per le caramelle alla liquirizia Horvath. La sera, dopocena, per lei è inconcepibile non andare sul dondolo in terrazza, anche solo per dieci minuti, a succhiare le caramelle, gustare una goccia del caffè serale, parlare un po’ col suo compagno oppure anche schiacciare un pisolino, o magari pensare un po’ alla giornata appena trascorsa, al lavoro, a qualche problema che la assilla. Spesso però adora starsene lì a contemplare la natura e ad ascoltare le rane gracchiare. Non ama leggere libri ma li assaggia per vedere se la prendono, e se la prendono poi la costringono a una lettura tutta d’un fiato, altrimenti “le passa il sentimento”. Le piace avere le dediche sui libri, e rimprovera spesso il suo compagno quando dimentica di scriverle. Fa un poco di fatica nel mettere i suoi abiti e le sue cosine in ordine, forse li sente oppressi tra le ante dell’armadio, tanto che spesso dice che ama vedere i suoi capi d’abbigliamento stesi sul letto, in modo da sceglierli a colpo d’occhio, d’istinto. Ha dato un taglio ai perizoma, le piace poco il reggiseno, preferisce le mutandine classiche, quelle un po’ fanciullesche, con “Hello Kitty” stampato sopra. Ecco, al suo compagno questo eccita da morire. Neanche lui ha mai amato il perizoma come indumento intimo femminile. Stare sdraiati sul dondolo, nelle notti di luglio, e mettere su l’ultimo CD di Eric Clapton, Back Home, è un momento di dolcezza infinita. Il disco si apre con So Tired che significa “così stanco” (intro perfetto dopo una giornata di lavoro), poi i ritmi si fanno più lenti e ariosi, c’è qualche spruzzatina di reggae e sembra un po’ di entrare in una tipica atmosfera giamaicana. In seguito il suono si fa più intimo, casalingo, ti lascia pensare e ballare dolcemente sulla veranda con un bel sound chiaro e aperto: 80 back home a Emanuela, sempre e per sempre : è oggi un cielo chiaro mentre la strada si apre alla collina tra il mandorlo e il ciliegio già in fiore il traffico spegne le sue ruggini, non riesce a cambiare quest’aria ferma i fiori e le rose ancora spruzzate dalla brina del mattino occhieggiano come donne divertite a un appuntamento la scala a chiocciola, la terrazza, il dondolo le cicale e le rane canteranno anche questa sera si aprirà il cancello, abbaieranno i cani all’auto il mio cuore batterà in sincrono con i loro sussulti come un pesce rosso impazzito fuori dalla fontana sarà così che la mia voce salirà il tuo maggio e le finestre sapranno l’odore d’aria e di pietra scorrerà una porta, si smuoverà l’anima e ci sarai tu – ferma e chiara: 81 20. l’arcobaleno prima del traffico – h.20:30 “chi non ha ancora accettato il fatto compiuto deve rassegnarsi:la letteratura – narrativa scomparirà, sommersa dalla sua noia, e verrà sostituita da tante cose più fresche, eccitanti e interessanti.” Tommaso La Branca, AndyWarhol era un coatto : anche la cena andò a meraviglia. Si limitò a mangiare un po’ meno per far contenta la sua compagna e a tratti vi furono risate e racconti divertenti. Anche per il dopocena, il solito rito: salire al piano di sopra e controllare le e-mail. Mandò giù tre compresse di Tavor da 2,5 mg come digestivo e accese il computer. Ricominciò a immergersi lentamente nel fondo dei suoi oceani, rammentandosi di un racconto bucolico, una specie di fiaba scritta con la Carla anni fa. Non si ricordava però se la teneva ancora tra i files o no. Controllò. Niente. Mandò allora un breve sms a Carla chiedendole se lei lo possedeva ancora e infatti dopo dieci minuti circa l’e-mail con l’allegato arrivò sul suo desktop. Ringraziò la Carla con un altro sms e si mise a leggerlo, per capire se fosse ancora buono o meno. Stava cercando di mettere giù qualcosa che contrastasse in maniera forte con il testo in versi su John Fante di cui aveva preparato la cover per il progetto Undicidieci, e che sostanzialmente era una caustica rappresentazione del traffico che tiranneggiava Imperia. Traffico per cui diversi amministratori e architetti, dell’attuale e di passate giunte, avrebbero dovuti essere almeno impiccati, secondo lui, come si faceva con gli ubriaconi nel west, anche perché era sicuro che il livello di scolarizzazione di tal signori fosse lo stesso. Questa dunque era la fiaba che lesse e che decise di inserire nel libro che stava scrivendo: “Un giorno lontanissimo, praticamente il doppio di milioni e milioni e milioni di anni fa, il nostro bellissimo pianeta Terra si trovò sbigottito di fronte al più grande litigio mai visto: si azzuffarono, pensate un po', addirittura le stagioni. Tutte insieme. Prima di allora la primavera, l'estate, l'inverno e l'autunno danzavano tranquillamente e si susseguivano senza problemi: il Sole veniva dopo la Pioggia e la Pioggia veniva dopo il Sole. Era naturale. Ma quel giorno lontanissimo - accidenti a quando avvenne proprio il Sole, nel momento esatto in cui lasciava spazio alla Pioggia, cominciò a lamentarsi circa il fatto che lui doveva lavorare di più, e che gli toccava sempre mettere una pezza ai guai che combinava la pioggia, come ad esempio le alluvioni e le inondazioni. E poi i bambini, quando piove, sono sempre tristi. Vai a sapere perché mai gli venne in mente di dire una cosa del genere...chissà, forse era stanco. Sta di fatto che la Pioggia, vanitosa come una faina, rispose stizzita che invece era lei che era costretta a lavorare di più, dal momento che il Sole non faceva altro che far seccare i campi e inondare - disse proprio così - di caldo gli uomini. E poi i bambini, quando c'è il sole, hanno troppo caldo e sono sempre tristi. Litigarono talmente forte che alla fine decisero di dividersi in due parti uguali la Terra, per dimostrare che l'uno 82 poteva vivere meglio senza l'altra. E così la nostra povera Terra si ritrovò divisa in due: dal Polo Nord all'Equatore la Pioggia prese il comando e dall'Equatore al Polo Sud il suolo era ricoperto dal Sole. Come riuscite facilmente a immaginare la situazione per gli abitanti del pianeta non era per niente facile. Nella parte del Sole la siccità e il caldo erano insopportabili e da quella della Pioggia le alluvioni e l'acqua battente in eterno non erano certo benvolute. Gli uomini erano arrabbiati, tristi e spaventati, nessuno sapeva cosa fare. Discutevano e ridiscutevano, si accapigliavano e si maledicevano l'un l'altro. E allora furono i bambini a prendere in mano la situazione. Si riunirono tutti insieme e decisero di intervenire. Dopo una grandiosa riunione e una bella discussione chiamarono il Sole e la Pioggia e chiesero loro di fare la pace. Non era possibile continuare così. Se la storia del litigio fosse andata avanti ancora per molto tutti loro avrebbero odiato sia l'uno che l'altra. I due litiganti ascoltarono attenti, poi si guardarono in faccia e scoppiando in una sonora risata si resero improvvisamente conto dell'importanza reciproca e si strinsero la mano. Dissero che la pace era fatta. I bambini però chiesero un segno chiaro della avvenuta riconciliazione, una prova che non si sarebbero mai più spartiti il pianeta. I due allora si fecero l'occhiolino e regalarono ai bambini un ponte colorato che dalla Terra salisse su fino al cielo ogni volta che la Pioggia lasciava posto al Sole. Un grande arcobaleno comparve sulla Terra per una settimana intera: dalle auto la gente scese, intasando tutte le strada, solo per guardare lo spettacolo”. Lo trovò ancora piuttosto buono, nonostante fossero passati un paio d’anni da quando l’avevano scritto, gradevole alla lettura e piuttosto sciolto. Pensò che l’adattamento col testo di Fante potesse riuscire abbastanza bene. Oltretutto proprio la sera prima, tornando dall’aeroporto di Genova in auto, si sentì per tutta la durata del viaggio come circondato da un’orgia malefica di clacson, tubi di scappamento, camion, moto che zigzagavano ovunque rischiando di fargli a fettine la sua recentissima Matiz. Se poi aggiungiamo che il suo sguardo era perennemente distratto dai pensieri sulle scollature delle ragazzine e delle colleghe che aveva visto a Lanzarote e che erano miscelati a dosi discrete di psicofarmaci…praticamente ogni cinque minuti rischiava di sbandare e finire la sua vita come il protagonista de L’Isola di cemento di Ballard. Comunque tutto il traffico che aveva assorbito la sera prima gli aveva fatto venir voglia di andare a cercare qualcosa di Fante che rispondesse bene alle sue idee, e inoltre di andare a ripescare qualcosa di naturale, di docile e armonioso. Magari qualcosa di già scritto, dal momento che in quel momento non si sentiva proprio né docile né armonioso. Non ce la faceva proprio a scrivere nulla di originale: le emozioni che provava veleggiavano da tutt’altra parte. L’aiuto di Carla fu quindi, per lui, quella sera, determinante. Pensò che aggrapparsi a qualcosa di bello pur di restare a galla quando stai scivolando verso il fondo degli oceani potesse avere almeno due letture razionali: una negativa (usi le persone sane per salvarti il culo), una positiva (chiedi aiuto quando sei nella merda). Anche se strafatto era consapevole che comunque fossero andate le cose i suoi sforzi di dare alla sua vita una svolta andavano verso la seconda opzione. Ma era ogni giorno più difficile, ogni giorno più 83 forte la narcotizzazione dei suoi sentimenti e delle sue emozioni. Ecco, anche in quel momento, fuggì. Volontariamente diresse la sua mente verso altri argomenti. Tornò a lavorare al testo di Fante, cercò di immaginarselo e di trovare la maniera migliore di interpretarlo. Fante gli ricordava il padre. Bene, questo poteva essere un inizio. Aveva voglia di descrivere il traffico cittadino. Ok. Provò a incastrare tutte queste cose. Imperia negli ultimi anni era divenuta una vera e propria giungla incustodita, senza alcuna regola, e che anche la persona più buona al mondo (ad esempio suo padre) rischiava costantemente di perdere le staffe. Alla fine venne a galla un episodio, lo scrisse, lo maneggiò, lo confrontò con il testo di Fante, gli piacque, lo inserì nel testo. Già che c’era, diede uno sguardo anche alle altre mail: 84 la città invasa dal traffico : sembra non ci siano leggi guidi attraverso Imperia fai un’inversione a U sul Lungomare Vespucci quando pare a te guidi a destra poi a sinistra al senso unico in Viale Matteotti puoi saltare sul marciapiede buttare giù ciclisti e pedoni suonare il clacson come un folle provare sempre a superare qualsiasi cosa urlare e mandare all’inferno chiunque anche in Corso Garibaldi le cose non vanno meglio, ma gli incidenti sono pochi quando c’è molto traffico mio padre si butta a sinistra piazza le mani sul clacson nel tentativo di far saltare i nervi gli altri automobilisti i pedoni terrorizzati e qualche vigile gli urlano dietro agitano i pugni i rumeni sputano per terra in Via Nizza per via degli studenti che traversano la strada gesticola in modo convulso ride e mette gli occhiali da sole ieri sera poco prima dell’incrocio di Via Cascione ha visto una Cadillac Coupè de Ville nuova e bianca targata Monaco immediatamente ci si è messo alle costole dando di clacson senza mai mollarlo l’automobilista francese è impazzito ha tentato di accelerare per seminarlo ma non ci riusciva bene il francese si sarebbe buttato giù da una scarpata pur di farlo passare e dopo un altro lunghissimo assedio col clacson che gli strideva nelle orecchie ha trovato un angolo passandogli accanto mio padre gli ha scaricato insulti e grida una curva più avanti e sì è imbattuto in due pulmann enormi hanno incagliato la Cadillac e all’improvviso si è verificata una empasse inenarrabile coi passeggeri a litigare col francese mio padre ha iniziato a dare pugni al cruscotto dal ridere: 85 21. bestie – h.21:30 “eravamo quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo” Gino Paoli, Quattro amici : trangugiò altri due Tavor da 2,5 mg prima di aprire l’e-mail di un amico. La lesse e si divertì molto. Aveva voglia di iniziare una corrispondenza con gli amici che teneva sparsi per l’Italia. Le corrispondenze, d’altra parte, non le tengono semplicemente le aspiranti melisse p tempestate dagli ormoni che, come ama sottolineare con sarcasmo e senso acuto della provocazione il suo amico Paolo, sublimano l’assenza di sesso orale succhiando la punta della loro bic, magari sdraiate sul letto pronte ad allagare i fogli con l’inchiostro simpatico delle loro timide emozioni. Un ottimo diario per esempio lo teneva l’Ungaretti uomo di pena in guerra, sotto forma di poesia. Iniziò creando la mailing list e annunciando a tutti che: a parte la pratica del sesso anale, l’osservazione da antropologi degli invertebrati che abusano di droghe sintetiche e il decadimento delle norme sociali, tenere una corrispondenza tra amici attraverso le e-mail era per lui tra le avventure più graziose per cui valeva la pena fermarsi un attimo dal lavoro e lasciare boccheggiare la materia grigia. Continuò con un paio di domande provocatorie, giusto per scaldare l’atmosfera: chiese loro a quanti e quali ieratici idoli avevano incensato templi così immensi da permetter loro di soggiogarli a tal punto da illuderli che lasciarli fasciare da completi griffati e padroneggiare un vocabolario che comprende le parole e/o espressioni break even, non si preoccupi, fattura e bonifico li affrancasse davvero dall’essere loro stessi. “Perché fate ciò che fate?” – chiedeva (erano quasi tutti avvocati o piccoli imprenditori) – “Volete il possesso di un’auto più potente? E fin dove avete intenzione di arrivarci? A Busalla, in provincia di Genova, forse? Volete davvero che la vostra dichiarazione dei redditi passeggi accanto a voi quando, nelle domeniche di giugno, vi gustate un gelato nocciola & pistacchio sul lungomare di Oneglia?” Nonostante il Tavor si rendeva conto dell’inutilità e della pretenziosità di tali domande, ma non aveva nient’altro di meglio da chiedere e il farlo lo divertiva comunque. “Perché accumulate denaro? Per contribuire alla crescita della democrazia nel Paese? Per conquistarvi beni di consumo che dopo tre secondi getterete nell’immondizia convinti che l’inesistenza di Dio è comprovata proprio dal fatto che, ci fosse veramente un Dio, non vi avrebbe mai permesso di spendere soldi per acquistare tali idiozie?” Anche i suoi amati amici avevano passato il giro di boa dei trent’anni, lavoravano diciotto ore al giorno e stentavano, alcuni, a credere che fino a pochi anni prima il 86 problema principale della loro esistenza consistesse principalmente nell’aver studiato abbastanza per affrontare l’agonia dell’interrogazione di matematica della professoressa Monti, o quella più sottile ma non meno diabolica del professore di latino, Anfosso; o anche quella rigorosa e implacabile di Ribò, professore di scienze, ma anche solo quella più ragionevole e a tratti sopportabile, come quella del professore di italiano Alassio, se vogliamo. Anche i suoi amati amici avevano poco più di trent’anni, alcuni trentatre come lui, e anche ovviamente come Cristo quando si lasciò crocifiggere portandosi addosso le colpe dell’umanità, tornandosene al Padre con nello stomaco l’impossibilità di vivere dentro il mondo. Poco più di trent’anni come il Buddha quando si mise a sedere sotto un albero a meditare così da dare a tutti gli uomini almeno uno strumento che li liberasse dalla loro sofferenza. Oggi compiva trentatre anni: era stato un giorno carico di nuvole, scrisse agli amici. Era solo, la sua compagna era ancora al piano inferiore a chiacchierare con i suoi, e lui non aveva voglia di stare in casa. Uscì sulla terrazza, gli venne improvvisamente voglia che fossero le sei di pomeriggio, così da poter andare a passeggiare sotto i portici, con lo sguardo che si avviluppava come una serpe attorno ai corpi stupefacenti delle ragazzine che incrociava. Sedicenni e diciassettenni che portavano a spasso la loro gioia di vivere. Gli piaceva immaginarsele disinnescate tra le sue lenzuola, quelle due bombe che si elevavano allo sguardo come trofei. Lo avvinghiò una voglia matta di mordere la luce della luna, di masticare le nuvole, di inghiottire il vento e digerirlo in tempesta. Lo prese una smania di scoparsi la figlia tredicenne di un suo vicino di casa. Una cosa eretica magari, alla presenza del vescovo, all’interno di una delle sale principali della diocesi. Ebbe voglia di urlare che era interessato solo a sollevare gonne e a inserire parti del suo corpo, poco gli importava quali, all’interno di qualsiasi umido scranno di un corpo femminile giovane, puro e immacolato. Si rendeva conto dell’inutilità di quei pensieri ossessionati dal sesso, ma non aveva voglia di mettere la testa a posto. Non voleva correre il rischio di non ritrovarsela più: 87 quattro amici agli amici : per la tristezza occorrono amanti che rasserenino ti sussurrano cose così primaverili e assolate che ti fanno scordare tutto come fossero d’oppio ma oggi la mia amante si chiama solitudine nelle giornate buone tutto è buono e uscire nel mondo è come uscire da scuola con ogni cosa faccio baldoria io ho quattro amici che sono come quattro quieti luoghi in cime a queste colline morte quattro soste all’ombra dopo una passeggiata li vedo quando capita e ci sto come si sta accanto alla fontana a sentire l’acqua tremare: 88 22. entiazel – h.22:00 liberamente ispirato alla canzone “Amore Assurdo” di Morgan, contenuta nell’album “Da A ad A” (Sony, 2007) mi ha telefonato dopo più di un anno di silenzio, e mi ha chiesto: “Are you in love?”. Potevo risponderle che sono continuamente innamorato, che adoro sempre, che sono fedele alla dea di Pafos, ad Eros. Ma lei, che cosa voleva sapere? Perché mi aveva chiesto così? Ho esitato, ho esitato. Giuseppe Conte, “May be” da Dialogo del Poeta e del Messaggero : chiuso, affondato in un’orgia di Tavor e Xanax, con i ricordi confusi, ripensò a quanto fosse assurdo ritrovarsi seduto ancora una volta davanti al pc a scrivere di lei. Perché il pensiero del sesso lo ricollegava immediatamente a Entiazel. La prima volta che si incontrarono fu sette anni fa, alla stazione di Bologna. Lei gli disse che lo trovava più basso di come se lo immaginava, e rise, ma con una cortesia attenta a quella piccola gaffe. Lui ci scherzò sopra, non diede apparente peso a quelle parole, ma si rese conto subito che qualcosa nella serata sarebbe andata storta. E così in effetti fu, almeno fin quando si limitarono a gironzolare per la città (lo colpì il fatto che fosse molto sporca), ad andare per pub giusto per gustare l’atmosfera di una città godereccia come Bologna (lui continuava a trovarla sporca, vandalica e un po’ troppo selvatica per i suoi gusti) e alla fine cenare in un piccolo ristorante a base di tomini e piadina. Trovò vomitevoli entrambi, ma la bellezza della ragazza che aveva di fronte cancellava ogni cosa. La storia iniziò a prendere il verso giusto quando rimasero soli e un taxi li accompagnò a casa di un suo amico, momentaneamente assente per lavoro. Si sistemarono in camera, poi lui andò in bagno a farsi una doccia. Quando uscì lei aveva un corpetto bianco e delle mutandine di pizzo che le fasciavano il culo in una maniera straordinaria e impensabile. Fino a quel momento lui trascinava con sé un cuore ma entrando nella stanza e guardandola stesa sulle lenzuola capì che non lo avrebbe mai più posseduto allo stesso modo. Erano passati sette anni da allora, da quel temporale notturno che la fece sobbalzare come una bambina mentre già il corpetto era scomparso e i suoi seni erano pieni nelle sue mani che strizzavano i suoi capezzoli argentati. Prima della pioggia stavano leggendo Il racconto dell’isola sconosciuta di Saramago (glielo aveva portato lei in dono, in cambio lui le aveva regalato Mister Vertigo di Paul Auster). La voce di lei era un rimedio per le sue corde vocali, se ne accorse e lo baciò con un tono morbido, dal gusto di farfalla. Una farfalla aveva tatuata sulla spalla: “è il mio simbolo di libertà” gli disse, ma lui non si stancava mai di leccargliela, perché alla fine non avesse ragione. Avrebbe dovuto 89 prenderla in parola allora, ma era solito non seguire mai la stessa strada: cambiare improvvisamente direzione, mascherarsi, farsi e fare aspettare, nascondersi e giocare. Ancora oggi, dopo sette anni la stessa e-mail e lo stesso numero di cellulare sui quali farsi cercare, ardere, desiderare, assistere allo spettacolo d’arte varia del ragazzo che s’innamorò di lei, che commise mille peripezie, viaggi a Roma e desideri di viaggi a Putignano, messo roba nelle stive per ricordare, accumulare nastri, carte, fotografie. Oggi aveva ancora voglia di contatto, di scriverle e parlarle. Volgersi a lei e ritornare nella sua vita anche solo per una notte, per restituirle quello che lei gli aveva dato. Nonostante sette anni di cuore infranto, da lontano, aveva voglia d’esser grato. Salì in soffitta, dove l’aveva accompagnata una volta e dove stava un grande specchio davanti al quale lui le alzò un giorno la maglietta, le sollevò i seni e iniziò a leccarla sulla nuca e sulle orecchie. Ritrovò lo specchio intatto, e il disco di Ry Cooder che ascoltarono nel momento dell’abbandono, in quel gelido mattino di giugno bolognese. Fu fatale per lui accompagnarla alla stazione, leggerle l’etichetta a spirale sulla maglietta che indossava, che se continuava a guardarla girare lo poteva ipnotizzare, diventare un cono che saliva, tridimensionale. Nello specchio in soffitta non rivide solo quegli attimi, ma anche quella notte golosa di Bologna, la sua musa con una candela all’oppio aspirata dalle splendide narici; rivide anche l’illusione di rimaterializzare il loro disordine speciale, il suo abbigliamento sbagliato e casuale che tanto la faceva sorridere. Una notte a Genova, il loro secondo incontro: gli odori eterosessuali scambiati tutta la notte, una vasca da bagno e loro due immersi nel vino rosso, brindare al sesso. “Vuoi scoparmi tutta la notte” le chiese mentre lui affondava e spingeva dentro di lei, con la rabbia di sapere che non l’avrebbe mai più rivista. “Scopami tutta la notte” le sussurrava, ed era proprio quella voce a riempirgli l’erezione, a sfiorare con talmente tanta grazia il suo sesso da farlo indurire e scoppiare, venendole sui seni dopo ore e ore di disperato amore. La contrazione dei muscoli della sua fica, l’abilità con cui riapriva e chiudeva la muscolatura interna, la capacità straordinaria di tenerlo dentro quanto lei desiderava e lasciarlo andare solo quando lei ne aveva voglia erano un sortilegio, una magia che trasformò il ragazzo in uomo. Un autentico rapimento. Non ci fu mai il pompino tra loro due: era una cosa su cui scherzavano sempre, ma era talmente bello per lui penetrarla che per la prima volta nella sua vita non sentiva l’esigenza del fiato e della lingua di una donna accarezzargli il cazzo. Il suo fiato era di biancofiore e gelsomino, emanava purezza attraverso il respiro e le parole, il suo corpo grondava desiderio e sudore, stanchezza e armonia, godimento e assuefazione. La sua fica stillava miele. Inspiegabile cosa accadde una volta uscito da quelle due stanze, a Bologna e a Genova. Forse trasformazione radicale di tutto il suo universo, forse il cuore in pezzi separati definitivamente e tenuti incollati nel petto solo dalla disperazione, conservati come i frammenti dello specchio su cui ora stava riflettendo il viso della sua Entiazel. Un viso che poteva scegliere, idolatrare, venerare. Ma che dopo un tale amore non poteva più riamare: 90 ogni cosa per Entiazel che ha anche altri nomi ma non qui : ma se è un odore sessuale ciò che cerchi farò ogni cosa tu mi chiederai di fare se vuoi un differente modello d’amore ti indosserò in una maschera nuova se quello che aspetti invece è un partner stringi forte il palmo della mia mano se invece vuoi mettermi al tappeto quando sei arrabbiata sappi che io resterò a terra sarò il boxeur che salterà su un ring per te sarò il dottore che esaminerà ogni tuo centimetro sarò il pilota esperto che ti farà montare in auto sarò buono anche solo per farti fare un giro stanotte però lasciami strisciare ai tuoi piedi soltanto per ululare alla luna la tua bellezza per graffiarti il cuore come un cane in calore per lacerare il tuo sesso e poi implorarti pietà dirti che se vorrai camminare insieme a me qualche istante sulla sabbia io sarò qui: 91 23. breve commiato – h.22:10 “anche per tutti loro è giunto il momento di dirsi addio” Pier Vittorio Tondelli, Camere Separate : si alzò e si diresse verso la biblioteca. La copia delle Opere di Pier Vittorio Tondelli gliel’aveva donata proprio la piccola Entiazel. Venne colto dalla disperazione. Volle scrivere direttamente a PVT, ma non su un formato word…aveva voglia di sentire le mani muoversi impugnando una penna, vedere tracce su un pezzo di carta. Tornò alla scrivania e iniziò di getto a scrivere: “te non ti ho mai conosciuto, se non altro perché quando te ne sei andato io ero troppo piccolo per capire le cose, tanto che quel giorno lì io mica me lo ricordo. Mi ricordo che avevo forse sì e no 18 anni, quel giorno lì. Sì sì sì lo so cosa stai pensando: non ti credere che non t’immagini strabuzzare gli occhi e sorridere bellissimo come sicuramente eri (di te ho avuto sempre e solo le foto dentro nei libri e sopra i giornali, ovvio), con la fantasia di vederti e dirmi: “come sarebbe a dire che eri troppo piccolo? a 18 anni?” Sì caro Pier, a 18 anni ero un’altra persona così come molte volte nella mia vita sono stato tante persone diverse, procurandomi un’infinità di metamorfosi, morti e rinascite continue, come un piccolo Lama ligure. Chissà quante altre me ne ricapiteranno? Lo dico a te perché queste cose tu sì che le sai bene, e non ho per niente voglia adesso di starti a ripetere cose che già conosci. Te non ti ho mai conosciuto, dicevo, ma ti avevo dentro nello stomaco e sei venuto fuori nella luce nella mia essenza quando ho letto i tuoi Altri Libertini e le tue Camere Separate. Sì sì sì ma ora a me che cosa resta di te? Tu mi hai visto con Enos, con la Carla e con la tua mamma davanti alla tua tomba, ero lì con quel rosso mazzo delle mie rose che ti ho portato solo per te e che ti avrebbero tenuto compagnia con quel profumo di rosa che solo le rose hanno. Sì sì sì ma adesso che mi hai insegnato a leggere, a parlare, a scrivere? adesso che mi hai preso la mano e mi hai invitato a iniziare il viaggio? Dove devo andare? Quando penso a te ho un vuoto dentro la bocca e dentro l’anima, che intanto diventando piccola piccola si fonde con lo stomaco. Ti devo l’amore, Pier, quasi la vita. Fatti un buon viaggio, che ci stai tu che hai il tuo odore da seguire e ci sto anch’io che ho il mio odore da seguire: ti lascio nella sera insieme al ricordo delle mie rose e a quello del mio primo bacio a scuola dato alla ragazza Sara, che mi abbandonò perché anche lei, come noi, aveva il suo odore da seguire”: 92 è che ho il mio odore da seguire ancora alla Carla, per quella volta che mi ha insegnato Tondelli : ma che bella bambina magra e bionda che è avrà si e no quattordici anni ma gesù è bella si vede come mi guarda dal fondo del corridoio nell’intervallo prendo la sua mano nella mia e dico bè lei mette la sua manina nella mia e dice bè anche lei e dopo espletata questa rapida conoscenza rotoliamo giù per le scale in palestra dicendo bè come due pecorelle innamorate le do un bacio? daglielo daglielo che la vocina mi dice così allora glielo do ma con che coraggio poi anche lei mi bacia e si macella con le dita la focaccina farcita che tiene stretta stretta a se: 93 24. la bambina – h.22:30 “respirando ho guardato la bambina che sorrideva e questo era un sorriso e era il mio batticuore che nessuno ha mai scritto su un giornalino, su un libro è difficile mentre Filippo è lì vicino a te c’è un’agitazione così forte, non riesco a spiegare ma tutto era così davvero sera che diventava sera, e si trasforma in notte e estate e voglia di piangere e ridere nello stesso batticuore” Aldo Nove, Amore mio infinito : era una questione di meccanica. Non fece in tempo a commuoversi per Entiazel e Tondelli che tornò con la memoria ad affondare dentro il nero degli Oceani. Si stava di nuovo trasformando in un pesce. Una questione di meccanica: ti fai di psicofarmaci e inizia la trasformazione squamosa. E i ricordi arrivano subito. La prima bambina la conobbe alle Magistrali, nel corso di un’assemblea per protestare contro la riforma del governo che tagliava fondi alle scuole pubbliche. Non ricordava i particolari dell’incontro, le fasi successive di consolidamento della conoscenza e la trasformazione in amicizia vera e propria. Si ricordava però la serata in pizzeria, alla fine dell’anno scolastico. A un certo punto una sua amica decise di andar via, a casa, e lei si offrì di riaccompagnarla a piedi. Andò anche lui. Al ritorno erano soli, passeggiavano più lentamente. Si sfioravano, ridacchiavano, lui faceva battute divertenti, lei sorrideva. Non appena svoltarono l’angolo di piazza San Giovanni e si ritrovarono nei pressi del mercato coperto lui si trattenne un istante, giusto il tempo di farla avanzare di qualche passo. Non c’era nessuno con loro, la strada era per metà oscura. Lei si voltò, lo fissò piegando all’ingiù un angolo della bocca e sollevando le sopracciglia in un’espressione di finta sorpresa e di curiosità. Erano faccia a faccia, e lui desiderava proprio questo. Le sferrò un pugno e la colpì al naso. Il sangue schizzò altissimo, lei non ebbe neppure il tempo di respirare né di dire niente. Con un paio di movimenti rapidi e precisi, nel più assoluto silenzio, la trascinò all’interno del mercato coperto. Ora lei iniziava a mugolare. L’afferrò per capelli e la portò nella zona più scura. Le montò a cavalcioni e le strappò la t-shirt sbrindellandogliela. Poi le infilò i lembi della maglietta in bocca, in modo che non urlasse. Nello stesso momento le serrò due ganci alle mandibole e per poco non si spezzarono. Dopodiché tastò a terra e trovò una corda (sapeva che era lì, pensò) e legò i polsi al bancone. La luna filtrava attraverso la finestra, la luce era appena percettibile ora. Si alzò in piedi e la guardò. Singhiozzava, aveva gli occhi otturati dalle tumefazioni e il suo volto era indistinguibile. Viola, si accorse. Gonfio, storpiato dai colpi. Rivoli di sangue. Lei tremava, piangeva, tossiva? Non gli importava. Si chinò su di lei e le sfilò gonna e mutandine. Le mise una mano sulla minuscola fica. I peli biondicci quasi rilucevano. La fica pulsava. Terrore, presumeva. Le infilò un dito dentro, tenendole ferma la testa con l’altra mano, poi un altro dito, poi un altro. Non c’era traccia di umidità dentro la vagina. Lui sentiva le pareti vischiose, era come sfiorare la muscolatura dei quarti di bue. Le infilò la mano dentro, lei tentò di urlare. Si dimenava sempre di più. Allora 94 lui con la mano libera lasciò i capelli e le serrò la gola, stringendogliela. Ogni volta che lei si dimenava, lui aumentava la pressione di pollice e indice. La ragazza imparò subito come evitare di dimenarsi. Intanto esplorava l’interno della fica, sempre più velocemente, sempre più veementemente, fino a che non si trasformò in una furia. Sbatteva e spingeva e fendeva veri e propri pugni dentro la fica della ragazza. Lei smise di dimenarsi a un certo punto, ma lui ormai non riusciva a fermarsi. Artigliò la mano e la estrasse brutalmente dalla fica strappandole brandelli di carne schiumosa. Fuoriuscì un fiotto di sangue più violento delle altre volte, e si stava formando una vera e propria pozza. Con un bastone trovato lì accanto la penetrò, due o tre colpi secchi, prima affondandola dentro poi storcendo il bastone a destra e a sinistra, in modo da squarciala in due. Una piccola crepa di sangue e ossa si formò sul bacino. Allora a mani nude tentò di aprirla, fece leva sulle gambe e strappò con quanta forza aveva in corpo. C’era una puzza tremenda ma a lui non faceva alcun effetto. La ragazza al terzo tentativo si aprì, fu come aprire un pollo arrosto. Schizzarono sangue, ossa e brandelli di carne da ogni parte, la pozza era talmente larga che ormai lui non riusciva più a evitarla e ci scivolava sopra ogni volta che si rialzava. Il suo volto rimase intatto, solo gonfio e violaceo. Lo squarcio partiva dalla fica e arrivava al collo. Assomigliava ai quarti di bue che lo zio macellaio ogni tanto gli mostrava nelle celle frigorifere. Si concentrò sul viso però. Non ce la faceva a vederlo così implorante, stupefatto nonostante la morte, si alzò in piedi e la guardò meglio. Sembrava una bestia scannata e lasciata alle mosche. Adorava guardarla così ma il viso proprio non andava, l’opera non era completa. Si guardò attorno, scivolò un paio di volte sulle pozze di sangue e bestemmiò, poi su un bancone trovò qualcosa che faceva al caso suo. Chissà come mai qualcuno aveva dimenticato una mannaia proprio lì. Era un vecchio ferro del mestiere, probabilmente non serviva più molto per filettare la carne con precisione ma per quello che si accingeva a fare lui andava benissimo. Si piazzò davanti alla testa della ragazza e menò due fendenti alla gola talmente violenti che nonostante la leggera resistenza che fecero le ossa del collo, la testa si spezzò e rotolò di fianco al corpo. Lui le andò dietro, e menò altri colpi al viso fino a farle saltar via gli occhi, la bocca, frantumi d’ossa e finché la scatola cranica non si aprì del tutto. La materia grigia iniziava a colare e il cervello uscì come una lumaca dal proprio guscio, lentamente. Appena fu fuori dalla scatola cranica, lo pestò e lo ridusse a una poltiglia rossastra e grigia. Adesso poteva ritenersi soddisfatto. Si sedette davanti a lei finché non si risvegliò, poi la prese per mano, l’aiutò ad alzarsi, le diede un bacio. Lei sorrideva. Insieme tornarono alla pizzeria. Riemerse a galla velocemente, respirando a fatica. La sua compagna gli era accanto con un bacio, tornata per passare le ultime ore di quella giornata speciale insieme a lui. Ma lui aveva ben altro ancora da dire: 95 una breve ma intensa dissertazione : se non mi sento a posto con me stesso significa che è per questo che sto così male e la tua fica mi gira al largo se invece mi sento a posto con me stesso significa che è per questo che sto così bene è quindi possibile che la tua fica torni da me io mi sento a posto con me stesso ma tu di me non vuoi neanche sentir parlare è per questo che non ti senti a posto che vuoi quindi da me? io non mi sento a posto con me stesso ma a te pulsano cuore e fica pur di stare con me è per questo che ti senti a posto e io ti voglio io non mi sento a posto con me stesso tu ardi per me tu non ti senti a posto con te stessa: 96 25. da qualche parte al di là della stanchezza – h.22:55 questo brano è dedicato a due amici molto speciali: Roberto Corradi e Fabio Freri, con i quali ho vissuto momenti di passionale condivisione nel corso del lavoro che ho svolto insieme a loro. Oggi posso dire che l’amore che ogni giorno regalano, nonostante mille difficoltà, ha per me un significato che va ben al di là dell’ammirazione e del rispetto che nutro per loro: aleggia dalle parti dell’insegnamento per imparare a vivere meglio. Emiliano Elargendo raramente una lode e dando invece libero corso alle critiche, i leader autoritari erodono il morale dei dipendenti, come pure l’orgoglio e la soddisfazione che essi traggono dal proprio lavoro, andando così a pregiudicare proprio i fattori che motivano i lavoratori più produttivi. Di conseguenza, questo stile sottrae al leader uno strumento di cruciale importanza: la capacità di suscitare nei suoi collaboratori il senso di appartenenza a un grande progetto collettivo. Al contrario, il leader autoritario lascia che i dipendenti provino uno scarso coinvolgimento, se non addirittura di alienazione, nei confronti del proprio lavoro, finché non arrivano a chiedersi: “Ma che senso ha tutto questo?”. Daniel Goleman, Essere Leader : non era a posto con se stesso, immerso nella confusione dei files e degli psicofarmaci, e quindi non riusciva a stare tranquillo insieme alla sua compagna, così le disse che si sentiva ancora molto stanco dal viaggio di ritorno da Lanzarote. Si scusò per averla trascurata proprio in quel giorno speciale ma le promise che la giornata successiva sarebbe stato tutto per lei. Non ci fu bisogno di dire altro perché lei capì e andò a letto regalandogli un bacio che sapeva di amido di riso e gioia di vivere. Non appena si spensero le luci in camera da letto andò furtivo nel bagno piccolo e si imbottì di Xanax e Minias . Decise da sballato di lasciare il lavoro. Si rammentò chiaramente, mentre stava tornando a inabissarsi negli Oceani, di quel giorno d’estate in cui telefonò a Federico chiedendogli la carità di sostituirlo sul posto di lavoro. La motivazione che intendeva fornire al suo capo, quando sarebbe stato messo a confronto, era quella di aver semplicemente avuto voglia di andare a teatro a vedere l’Amleto proposto da una compagnia di Imperia dal nome affascinante: “I cattivi di cuore”. Non aveva mai visto lo spettacolo a teatro, si era sempre basato sulle opere cinematografiche, specie su quella di Kenneth Branagh, che trovava un 97 po’ troppo stucchevole ma tutto sommato ammirevole dal punto di vista scenico e anche da quello interpretativo. Naturalmente non era vero ma sapeva che il capo aveva un debole per gli aspetti culturali della vita, e tanto valeva approfittarsene un po’. A Federico intendeva dire invece la solita palla che si sentiva male. La motivazione reale, invece, scopriva la propria essenza nell’incontestabile fatto che si era rotto il cazzo di stare lì dentro a grattarsi con la sensazione di non star combinando niente di buono. Oltre alla voglia di stordirsi con gli ansiolitici e i neurolettici. La cosa buffa era che non si sentiva assolutamente in colpa per aver fatto la telefonata. Tutt’altro, pensava che avrebbe potuto fare la stessa cosa anche il martedì successivo, che era giorno di ferragosto e lui invece era segnato nei turni di lavoro. Quando arrivò Federico si accomiatò prestissimo, quasi fuggì via. Si portò dietro le pastiglie, ne prese ancora quattro (questa volta si trattava del Tavor da 2,5 mg), e si diresse a piedi, già barcollando, verso la spiaggia del Prino. Aveva voglia di sedersi davanti al mare a pensare alla stanchezza che in quel momento, forse, gli stava giocando un brutto tiro. Una forma abissale di stanchezza, quella che già allora lo trasformava ogni tanto in pesce, che lo costringeva a nuotare invece che a vivere. Si rendeva conto che aveva regalato alla stanchezza un alibi per potersi dire e manifestare un bel po’ di cose che gli rodevano da troppo tempo. Cose che riteneva giuste. Il capo avrebbe per forza di cose dovuto comprenderlo, e aveva una gran voglia che fosse lì presente, quella sera. Aveva voglia di essere compatito perché si rifugiava nel sentirsi così stranamente stanco. Era circondato dalla stanchezza, e si arrogava il diritto di classificare le sue posizioni sul mondo non badando più a gentilezze diplomatiche, ma lasciandosi andare a un briciolo di sano cinismo, d’arroganza e di tutto il campionario che il suo attuale status gli permetteva. Anche nell’azienda per cui lavorava era un pesce. Per molto tempo aveva nuotato al largo dagli intrecci politici e dalle ipocrisie che regnavano sovrane tra gli amministratori. Lui era uno dei dipendenti più anziani, ma non gliene importava più nulla. Aveva solo voglia di pensare al lavoro. Il lavoro è una parte determinante della nostra vista, non è vero? Spesso trascorriamo più tempo fuori di casa che tra i nostri cari, no? A volta abbiamo anche l’impressione di conoscere meglio i nostri collaboratori piuttosto che i nostri figli o i nostri compagni/e di vita. L’ultima volta che si era trasformato in pesce era entrato a gamba tesa causando una serie di conseguenze disastrose: pianti a dirotto, crisi istituzionali e convocazioni clandestine per cene informali al ristorante “Gocce di Mare”, alla Marina di Porto Maurizio, per tentare di sgomitolare le varie matasse che aveva contribuito a creare. Era consapevole del fatto che gli interventi politici in azienda lui proprio non sapeva farli bene. Anche perché quella sera al ristorante “Gocce di Mare” ebbe la netta sensazione che se solo avesse accettato di prendere in mano in toto la questione senza giocare al rivoluzionario, ci si poteva mettere d’accordo e di fatto, considerando l’inesperienza di chi gli stava subdolamente offrendo quell’affare, l’azienda sarebbe 98 andata nelle sue mani e in quelle del suo amico / collega alla velocità della luce. Anche se questo avrebbe voluto voler dire spedire qualcuno in galera o se non altro metterlo seriamente nei guai. Qualcuno a cui lui voleva comunque bene, nonostante lo considerasse un incapace. Anche gli incapaci, gli disse una volta il direttore di una banca, hanno diritto a lavorare. Quella notte, zuppo di sedativi, guardava il mare. Un attimo dopo ci si tuffò. L’acqua era calda e avvolgente, e lui iniziò a nuotare sott’acqua: giunse alla conclusione scontata che la situazione in azienda era infognata nella più totale merda da qualsiasi punto di vista uno la potesse inquadrare, e cominciò col fare mente locale su di una sera di qualche tempo prima. Erano a casa sua: il capo, il supervisore, un collega anziano e il presidente della società. Una specie di riunione del Consiglio di Amministrazione allargato a lui (per meriti acquisiti sul campo). Quella sera gli restò impressa perché su una cosa si trovarono d’accordo tutti, alla fine di una lunghissima discussione: non erano stati bravi a creare un sistema, una “cultura del lavoro” per usare i termini esatti, in grado di reggere nel tempo. Avevano creato solo parole (questa particolare espressione, ricordava benissimo, l’aveva usata il capo in persona). Si erano ripromessi di cambiare in maniera radicale ognuno le proprie prassi lavorative, si erano lasciati dandosi appuntamenti per risistemare il tutto per la trecentesima volta. Non accadde niente, manco a dirlo, come per le trecento volte precedenti. La vita lavorativa scorreva come era sempre scorsa. Decisero di organizzare in ottobre un viaggio a Lanzarote, nelle Canarie, per proporre ai dipendenti un modo entusiasmante di affrontare una convention. E così, mentre nuotava, decise di lasciare il lavoro. Il fatto principale era che sostanzialmente al gruppetto dirigente parlare piaceva tanto. Gli era sempre piaciuto. Avevano, negli anni, impegnato tanto di quel tempo a parlare, a incontrarsi, a chiarirsi, a confrontarsi, a stimolarsi, a giudicarsi, a umiliarsi che se avessero messo su un circolo filosofico sarebbero arrivati alla stregua, almeno, della Scuola di Francoforte. Lo psicologo Edward De Bono, che è ricco e felice e vive su un’isola che si è comprato nella laguna veneta coi soldi ricavati dai suoi ridicoli manuali sul pensiero laterale, direbbe che avevano sprecato tempo. Decise di lasciare il lavoro mentre era sott’acqua perché i pesci hanno molte doti, e questo è risaputo, ma sono anche un po’ lenti nel capire le cose, e prima o poi finiscono tutti all’amo. In quattro anni di lavoro era sempre lì a fare turni per 850 euro al mese scarsi. Era lo start-up, si diceva, bisognava stringere i denti. Accidenti, pensava, quattro anni di start-up non sono un po’ troppi? E inoltre molta gente era stata assunta da quattro mesi appena e guadagnava più di lui, pur avendo le stesse sue mansioni. A causa di una gestione miope e tremolante di paura, questa gente era in possesso di vero contratto a tempo indeterminato. Anche lui ne aveva avuto uno simile quando entrò in azienda. Poi, sotto la minaccia della chiusura per debiti, accettò di svolgere le sue mansioni per un paio d’anni come co.co.pro, con la solenne 99 promessa che sarebbe stato riassunto a tempo indeterminato passata la crisi. Nei due anni successivi si ventilò l’ipotesi che da un paio d’anni si passasse a un paio di secoli di precariato. Cazzo, si sentiva proprio un grande: stava lavorando sodo e si stava costruendo un solido futuro di precariato. Qui due erano le cose, anzi tre: o era un coglione lui, o erano più furbi gli altri, o vigeva un sistema di meritocrazia, all’interno della loro cultura aziendale, che faceva cagare. Quella notte accettò le tre ipotesi in maniera tutto sommato paritaria, con un lieve cedimento verso l’ultima opzione. Sott’acqua incontrò una piccola sardella, si avvicinò alla sua bocca dimenando elegantemente appena la coda, avvolta nel fascino rilucente dalla luna fin sulle sue squame, e dolcemente gli disse: “Non ti sembra di esagerare come al solito? Non è che sei un povero stronzetto buono solo a lagnarsi e basta, come tua madre? Il mondo è pieno di persone come te. E siete tutti bravi. Vi interessa solo di voi stessi, vi rompe le palle stare sempre lì a fare quello che vi ordinano di fare e vorreste che le cose fossero sempre semplici. Ecco, appartieni alla razza di quelli che sputano nel piatto dove mangiano”. “Può darsi” rispose lui emettendo bolle dalle narici e dalla bocca “Anzi, magari è proprio solo questo il problema, magari questo è unicamente lo sfogo di un frustrato che non ha voglia di lavorare e che, appunto, sputa nel piatto dove mangia.” Prese fiato, poi continuò: “Anzi, facciamo ancora un passo più azzardato: ti dico io che questo è lo sfogo di uno che non ha voglia di lavorare e sputa, e non è una maniera di lottare per migliorare le proprie condizioni lavorative. Non c’è niente di idealistico in queste lamentele. Sono false, come sono falso io, come siete falsi voi”. Rabbia, rabbia? No. Più esattamente “ammosciamento”, o meglio “disincanto”, o anche “delusione”. Ecco, meglio. Sì. Perché se fosse stato veramente arrabbiato avrebbe urlato che si era stufato, ad esempio, di sentire che la solita collega lavorava poco, si lamentava sempre, non era in grado di fare questo, non era in grado di fare quello. Se fosse stato veramente arrabbiato avrebbe telefonato al capo per raccontargli meglio di quella volta in cui il presidente lo chiamò dicendogli che bisognava andare a ripulire la vecchia sede dell’azienda dalle ultime cose rimaste e lui rispose seccamente che ci sarebbe andato volentieri, a patto che con lui ci fosse anche “la solita collega”. In quell’occasione, dopo avergli riattaccato il telefono e poi richiamato, il presidente gli disse che probabilmente lui aveva ancora dei problemi, delle riserve con “la solita collega”, ma che l’azienda con “la solita collega” aveva risolto tutto, che stava lavorando alla perfezione. Inutile dire come poi si risolse la cosa. Inutile dire che quella non fu l’ultima volta in cui gli vennero riferite difficoltà e assenze dal lavoro della “solita collega” per inutili motivi. Tutto questo non perché lui avesse particolari risentimenti nei suoi confronti (era consapevole che non era colpa sua se anni fa a causa della sua inettitudine lui era stato costretto a fare anche fino a quattro o cinque turni di 24 ore di seguito… e poi a dirla tutta le stava pure 100 simpatica come persona), quanto perché quella vicenda era un po’ il simbolo, e insieme il “marchio”, di ciò che lui leggeva come problematica principale dell’azienda: l’incapacità di affrontare e superare i problemi in maniera creativa e alternativa a quei tre o quattro standard che conoscevano e applicavano fino alla nausea. Fatalmente poi, sarebbe in seguito risultato chiaro come i problemi fossero sempre circolari e tornassero sempre. Come direbbe il sempre caro vecchio Carlo Marx, due volte: la prima sotto forma di tragedia, la seconda di farsa. Si era alla farsa, ora. Prese fiato un attimo e riepilogò la situazione attuale alla luce di quanto pensato finora: quattro anni di lavoro ed era un precario del cazzo, ci metteva la sua macchina, i suoi soldi, il suo telefono; faceva lo stesso numero di ore di quello che lavorava lì da tre mesi; doveva stare attento a non lasciare un attimo la sua posizione e stop. Si doveva limitare a dire qualche no e a farsi rompere i coglioni il meno possibile; nel caso l’utenza avesse esagerato doveva ricordare che lui lì, in quel settore, era il capo e comandava lui e tutte quelle enormi, ridicole, stupefacenti cazzate che alimentavano un vero e proprio stato di autoritarismo nazista, dimenticando il concetto di autorevolezza; ovviamente prendeva meno soldi dell’ultimo arrivato, e i soldi li prendeva quando c’erano se c’erano non si sa come erano. Era lo start-up. La formazione non sapeva nemmeno dove stava di casa, il formatore si occupava dei cazzi suoi quando veniva se veniva, visto che lui lavorava sì per il benessere di tutti, ma lo faceva gratis e da 500 km di distanza e quindi faceva quello che poteva, una volta ogni 15 gg per massimo un’ora. Ma dovevano essere i dipendenti a cercarlo perché se no lui non li incontrava. E i programmi formativi dovevano essere sempre loro a farli, nel senso che dovevano essere loro a prendere da soli coscienza delle loro difficoltà così da poter suggerire quali rimedi offrire e proporli al formatore. Era lo start-up. Le cose più calde: era nelle mani di responsabili che dicevano di essere interscambiabili per qualsiasi cosa a ogni piè sospinto. Poi però se non trovava uno e chiamava l’altro per qualsiasi bazzecola, era sempre l’altro quello da chiamare. L’arte di scaricarsi dalle responsabilità, questo lo aveva assimilato molto bene, tra maestri simili. Aveva a che fare con una manicata di responsabili irresponsabili, che continuavano candidamente a dirgli di vigilare gratis sull’operato dei suoi colleghi per salvaguardare il suo posto di lavoro. Cioè di incularseli a sangue se facevano delle porcate e di decidere di fatto lui del loro futuro in azienda perché loro non avevano le palle per farlo. Era sempre sott’acqua, decise di riemergere e asciugarsi sul bagnasciuga prima di tornare a casa e scrivere la sua lettera di dimissioni. Sapeva che non avrebbe mai avuto un futuro in quel posto, in mezzo a quella gente, e voleva vivere altri momenti, voleva entrare in un circuito di professionalità certificata e stare insieme a gente 101 umana, vera, viva, sofferente e gaudente come lui. Non voleva più essere un pesce sul lavoro. Un traguardo l’aveva raggiunto, e questo gli strappò un sorriso. Ora aveva sputato nel piatto dove aveva mangiato. Ora aveva messo in discussione un po’ di belle cose nella sua vita professionale, almeno. Ora gli si mostrava chiaro il fallimento nel costruire una buona “cultura del lavoro” accompagnandosi a persone irresponsabili. Ora aveva detto che questo fallimento, questo e solo questo costituiva il nodo centrale da cui si dipanavano molti altri dei suoi problemi. Ora aveva detto di non aver più voglia di giocare a lavorare, ma di lavorare sodo, e non vedeva l’ora di andare in ferie. E poi, alla fine dell’estate, magari in ottobre, cambiare lavoro. Lo decise quel giorno d’agosto, sulla riva del mare, ripensando alla sua vicenda in termini shakespiriani, con la convinzione di essere un eroe tragico, uno che morendo, sotto lo squarcio della lama ancora bruciante nel petto, riesce a voltarsi verso la platea a sussurrare: “Tutto il resto è silenzio”: 102 climax : il nostro povero Amleto, grand sèrieux, tale e quale un Romeo qualsiasi importuna con la sua chitarra scordata la pallida Ofelia armato soltanto di un cappello nella mano sinistra siamo oggi in una delle sale più adorne del palazzo reale su loro due incenerisce l’aria una luna cortese ma annoiata Giulietta lei saprebbe cosa fare: si rintanerebbe dal balconcino fin dentro la sua stanza e fra le lenzuola s’infilerebbe due dita sotto le mutandine ma Ofelia no le strade di questo melò non portano a nulla d’interessante la conversazione langue e alla fine tutto quello che posso fare è spedire due miei scagnozzi dal proscenio a pugnalare quaranta volte e una il petto e la schiena della dolce Ofelia il sangue sembra vero sulle assi illuminate dalla luce però Amleto rotea gli occhi verso la lama e riflette il suo sguardo folle e sorridente si fonde al mio è evidente che non avrà bisogno d’amore domattina ogni spettatrice annega invece tra le lacrime è il climax perfetto che ogni vero amante va cercando: 103 26. vincere è una gran bella cosa – h.23:00 “lo scoraggiamento non è la condotta giusta di un essere umano: non siamo uccelli o animali, cui basta semplicemente lamentarsi e lagnarsi, ma dobbiamo usare la nostra intelligenza e lavorare sodo.” Dalai Lama : e poi a lui interessava scrivere. Fino a quel momento il punto più alto della sua carriera letteraria, ciò che lo aveva gratificato di più, si manifestò nel corso di una mattina del 1997 attraverso la cassetta delle lettere. Trovò una busta bianca. Il mittente era Giulio Einaudi Editore. Aprì la busta, c’era una lettera. La lettera diceva: “abbiamo valutato con attenzione il manoscritto che ci ha inviato, le comunichiamo però che esso non risponde alla nostra linea editoriale e che quindi ci è impossibile pubblicarlo. Cordiali saluti”. Quasi svenne dalla gioia. Perché, s’intende, essere rifiutati da Einaudi significa una cosa sola: che era stato letto. E se era stato letto voleva dire che in qualche modo era stato preso in considerazione. Perché sapeva bene che, in caso contrario, le grandi case editrici non si degnano neanche di spendere gli spiccioli per una lettera di rifiuto. Ricevere una lettera di rifiuto è l’aspirazione di chiunque voglia scrivere. Ricordò un aneddoto su Stephen King che lo divertiva sempre molto: a suo tempo il giovane Steve piantò un chiodo in camera sua e disse a se stesso: “pianterò qui le lettere di rifiuto che ricevo. Quando non staranno più nel chiodo smetterò di scrivere”. Alla fine i chiodi divennero innumerevoli, zeppi di lettere di rifiuto, tanto che una intera parete della sua stanza ne era tappezzata. Il giorno in cui lo rifiutò Einaudi, quindi, restò memorabile. Fino a quel momento. Fino ad allora aveva pubblicato due sillogi poetiche e qualche articolo sparso, oltre ai racconti e ai testi per le canzoni di Jeff Aliprandi. Si considerava fortunato ad aver fatto tutte quelle cose. E non si scordava certo che arrivò un paio di volte finalista in due prestigiosi concorsi letterari. Alle ore 12.00 del 6 ottobre 2006 il suo cellulare iniziò col suo trillo un evento speciale. Lo cercò nella tasca destra del giubbotto che indossava e guardò il display. Non aveva il numero in rubrica. Piccolo senso di panico, ma buono, come sempre quando rispondeva a un numero sconosciuto. Pensò: “Saranno quelli dell’azienda che vogliono rompermi i coglioni per qualche cazzata che hanno fatto loro e che hanno voglia di scaricare su di me? Improbabile. Sono seppelliti in una bara di cambiali. Sarà qualche giovane donna col cuore infranto che vuole supplicarmi di tornare con lei perché la notte si sogna ancora la mia indiscutibile capacità sessuale? Improbabile anche questo: il mio pene non ha mai avuto tanta personalità. Sarà qualche vecchio utente dell’ex azienda che vuole minacciarmi di morte perché un anno e mezzo fa gli 104 ho causato un piccolo disguido? Possibile, ma improbabile. Gli utenti sono bestie, ma non arrivano a tanto”. Con la voce un po’ screziata da quella piccola forma d’ansia rispose: “Pronto?”. Dall’altra parte una voce maschile, abbastanza profonda, lievissimamente cadenzata, baritonale ma non troppo, con uno stranissimo accento famigliare ha detto: “Pronto. Il signor M.?” rispose: “Sì?” con nella testa una cosa sola: “io questa voce l’ho già sentita. Da qualche parte”. Sai quando ti telefona un vecchio amico e non riconosci immediatamente la voce? Hai quel momento di pausa e indecisione in cui tenti di mettere a fuoco quel tono di voce, quella inflessione. Dopo un secondo di silenzio la voce disse: “buongiorno, sono L. G. Volevo dirle che lei è il vincitore della tredicesima edizione del “Premio Nazionale di Poesia”. A quel punto il 75 per cento delle sue capacità cognitive andò a farsi fottere. La restante parte si scisse in due tronconi: un pezzo di materia grigia tentava a fatica di seguire quello che gli diceva la voce del poeta al telefono, l’altro pezzo turbinava su se stesso dicendosi: “sì, coglione, ha detto che hai vinto tu.” ripetendo all’infinito, come un mantra ipnotico, sempre la stessa frase: “sì, coglione, ha detto che hai vinto tu, sì, coglione, ha detto che hai….” Quello che ricordò in seguito della telefonata è irriferibile, anche perché sono rimasti soltanto brandelli. Pensò che vincere un premio di poesia così importante era una bella cosa, che gli faceva fare pum pum al cuore come da tempo non succedeva, e appena riuscì a riprendere fiato, si guardò attorno finchè non trovò un fiore piantato ai bordi della strada, quasi sull’asfalto. Si chinò su di lui e gli disse: “Ciao Allen Ginsberg, è un piacere incontrarti qui”: 105 come ti penso stasera, Allen Ginsberg : come ti penso stasera Allen Ginsberg, che attraverso i carruggi coi sacchetti della spesa tra le mani e con l’occhio alla luna, che affamato di fatica mi sono infilato all’Ipercoop a comprare frutta al neon, pesche e ombre! famiglie a far provviste per la sera, scaffali ricolmi di mariti! mogli inscatolate e bimbi incellophanati: ti ho visto, Allen Ginsberg, senza figli, vecchio frocio puttaniere, che t’appigli alle carni del frigo per slumare i garzoni del droghiere ti ho udito, te, chiedere in giro: chi ha stecchito le cotolette di maiale? quanto vanno al chilo le banane? e il mio angelo custode, quanto vale? dove andiamo stasera, Allen Ginsberg? dove punta stasera la tua barba? così cammino coi sacchetti della spesa tra le mani, e mentre canto le luci nelle case spente aggiungono ombre alla mia ombra, io e te ci sentiamo soli torneremo mai laggiù a puntare alla perduta America dalla prua di una barca, anche ora che silenziosa è la tua elica? ah caro padre, lunga barba nera, vecchio solitario maestro di coraggio quante New York ho bagnato nel lete in questo giorno di maggio: 106 27. lettera a Ricardo - h. 23:12 : “amico mio, io mi sono ubriacato la prima volta a sedici anni, nel corso del primo capodanno passato insieme ai miei amici. Una vera e propria festa. Prova a pensarmi lì, adolescente obeso e brufoloso, nel bel mezzo di un posto zeppo di fiche. Non appena ci misi piede pensai che forse una scarica leggera di adrenalina mi avrebbe messo in circolo. Mi scolai una quindicina di birre in meno di mezz’ora. La botta arrivò all'incirca cinquanta secondi dopo l’ultima ingollata. Ero in piedi, appoggiato al portone d’ingresso della maxi cantina affittata per l’occasione insieme ai miei amici. Stavo fissando una tipa esile e bionda, fisico atletico, grandi tette. Visino delicato, sono sicuro che a te sarebbe piaciuta molto. Vestito lungo con spacco. Subito una scarica accecante di adrenalina mi si arrampicò velocissima sulla schiena come un esercito di formiche rosse impazzite, facendomi incuneare come un arco. Poi di botto non sentii più le gambe e crollai in ginocchio. Mi tappai le orecchie, allora, perché avevo come l'impressione che mi stessero prendendo fuoco. Non sentii più nulla per qualche secondo. Dopo arrivò un ronzio da lontano. Tentava di penetrarmi il cervello. Un ronzio che si avvicinava sempre di più: dapprima lo avvertii debole, distante, poi via via più forte fino alla deflagrazione finale. Lì impazzii quasi dal dolore, anche se i miei amici presenti allora giurano che non urlai né feci scene patetiche. Spesso, crescendo, mi sono accorto di quanto le nostre versioni di fatti accaduti si differenzino terribilmente da punti di vista differenti. Comunque in quei momenti non sentivo più niente eccetto quel cazzo di ronzio: era come se una mosca gigante mi stesse volteggiando sull'anima: ZZZZZZZZZZZZZ. "Ho chiuso, qui ho veramente chiuso" pensai. "Questa fottuta mosca mi sbranerà!" Panico. Mi giravo continuamente come un animale impazzito da tutte le parti ma non riuscivo a localizzare il dannato insetto, mi si contorceva la pancia dagli spasmi, tentavo di rotolarmi per terra tappandomi bene le orecchie ma non serviva a niente. E poi, quando fui sul punto di strapparmi le orecchie dalla testa per il dolore, all'improvviso la mosca scomparve e così come era arrivato anche il dolore svanì. La pace durò solo un attimo però, perché immediatamente dopo mi acciuffò la nausea. Restai steso a terra ancora un paio di minuti, poi cominciai ad avvertire un forte prurito alle gambe: me le tastai alla svelta e i polpastrelli riconobbero immediatamente la carne. Mi sentivo di nuovo le gambe. Mi rialzai in piedi e sembrò andare meglio, anche se mi girava tutto. La testa era sul punto di esplodere in mille schegge. Strizzai diverse volte gli occhi dal dolore. Quando li riaprii sussultai. Stava accadendo qualcosa di spaventosamente bizzarro: la bionda che stavo tampinando era davanti a me, a pochi centimetri dal mio viso, completamente nuda. I seni puntati sul mio petto. All'improvviso la bionda si arrestò. Digrignai i denti dal terrore, impalato a terra. In un intreccio di capelli sentii che le mani della ragazza stavano sbottonandomi i pantaloni. Alzai gli occhi al cielo mentre i suoi capelli scendevano sui miei coglioni. Me lo prese in bocca e iniziò a succhiarmelo. Io vedevo mattoni e cemento e ferro e lamiere tutti ingarbugliati, la cantina stava assumendo sotto i miei occhi mostruose 107 forme simili a quelle umane. Potevo distinguere le finestre storcersi come occhi, il portone come un’enorme bocca demoniaca gridare e sferragliare, e più in basso un’enorme fica in cemento armato e mattoni dilatarsi. La ragazza muoveva le labbra e la lingua con un ritmo circolare, lisciava e leccava, copriva il pene con l’alito caldo mentre con la lingua partiva dalla base per leccarlo fino alla punta. Sempre lo stesso movimento, circolare, ritmato, prima lento poi veloce, prima lento poi veloce. Cominciai a mugolare e non appena mi accorsi che stavo per venire presi la ragazza tra i capelli per allontanarla, puntando il mio uccello sulla sua faccia. Aprii gli occhi e la vidi inginocchiata davanti a me, con la bocca aperta. Lasciai partire lo schizzo e glielo lasciai inghiottire. Poi, a causa probabilmente dell’estasi, caddi nuovamente col culo a terra coprendomi il viso con le mani, poi guardai di nuovo: una folla di ragazzi mi parve intenta a fissarmi. Da ognuna delle bocche di quelle persone lacrimava una schiuma olivastra. Attorno a me c'era solo sabbia. Sabbia. Sabbia. Sudavo come un maiale. Di colpo avvertii uno spasmo e uno stimolo violento m'invase gli intestini: dovevo assolutamente cagare. Non so se ti è mai successo ma non è facile calarsi le braghe davanti a un sacco di gente e alla ragazza che ti ha appena fatto un pompino, e che ha ancora in bocca i resti del tuo sperma. Comunque la sensazione che provi è una specie di disgusto misto a vergogna, con il martellamento continuo degli attacchi di nausea e il giramento costante di testa. I conati di vomito divennero una vera e propria tempesta nel mio stomaco. Cacciai un urlo strozzato e nel tentativo di accucciarmi avvertii un dolore atroce proprio su per il buco del culo, come se qualcuno mi ci stesse infilando un ramo di ulivo con tutte le foglie e le olive, cercando di farmelo uscire dalla bocca. Voltai la testa e sobbalzai ancora una volta. La bionda mi stava infilando un vibratore su per il culo. Il grosso attrezzo roseo si faceva largo nuotando tra le mie tenere chiappe e gli aculei gommosi che lo ricoprivano mi stavano mordendo. Piccoli fiotti di sangue sgorgavano dai peli strappati. Preso dal panico, caddi ancora a terra, e per qualche secondo probabilmente svenni perché non ricordo più nulla. Mi risvegliai tra atroci dolori. La prima cosa di cui mi accorsi era che stavo marcendo coi vestiti addosso nel bagnato. Ero steso lungo per terra ed ero zuppo. Poi arrivò la puzza, mi resi conto non solo di avere i pantaloni completamente fradici di diarrea, ma di avere anche la t-shirt verde dal vomito e uno schifo di sapore acido in gola. Dovunque mi toccassi ero lercio: ero quasi certo di essermi continuato a cagare addosso anche nell'incoscienza perché non riuscivo proprio a ricordare da dove fosse uscito tutto quel liquame giallastro. Non avevo sentito la sensazione della cacata. Comunque mi tirai su in qualche modo ed ebbi conferma di quello che mi era successo: mi ero contemporaneamente cagato, pisciato e vomitato addosso. Puzzavo in maniera indescrivibile. La testa mi scoppiava dal dolore. Mi voltai da tutte le parti in maniera istintiva, come per cercare qualcuno a cui chiedere aiuto. La prima cosa di cui mi accorsi fu ancora la bionda. Era semplicemente lì, nuda, bellissima, ed era rimasta solo lei. Io ero paralizzato. Lei si riavvicinò lentamente senza dire una parola. 108 Di nuovo sentii le sue mani arrabattarsi con il lercio dei pantaloni, di nuovo la vidi chinarsi, di nuovo la sentii mentre iniziava a succhiarmi il cazzo. In quello stato. Il puzzo di marcio e il piacere della seconda schizzata in bocca si fusero all’improvviso. Lì piansi.” (rilesse, poi continuò a scrivere) “Ci hai creduto vero? Oppure no? Qual è il punto esatto in cui hai iniziato a dubitare che la storia fosse autentica? Già dall’inizio? E se la storia che ti ho raccontato fosse realmente accaduta, tu cosa penseresti? Ho mille domande da farti, ancora. Dove cazzo sei andato a cacciarti, Ricardo? Tu che mi sorridevi sempre, tu che mi raccontavi storie false e vere e le mescolavi con un’abilità tale da lasciarmi sbigottito, tu che mi ascoltavi chiederti se eri veramente una persona falsa o vera? Tu che mi chiedevi cose false, io che ti proponevo cose vere. Tu che pretendevi cose vere, io che ti lasciavo cose false. Dove hai portato la tua assurda, magnifica cialtroneria? Le tue provocazioni al mondo che invidiavo così tanto? La tua gioia. Dove hai nascosto i tuoi errori di grammatica, la tua teoria buddista, il tuo canto dentro la mia auto nel corso di una normale conversazione, tu che eri un oceano di saggezza sghemba? Dove sono andate le tue finte informazioni sul mondo? Quelle che masticavi e sputavi così dolcemente?” : sto leggendo adesso questo cazzo di fottuto quotidiano di merda, e nelle pagine della cronaca locale c’è il tuo nome. Dice che sei morto, amico mio. Che sei morto in Brasile. Non ti sentivo da mesi, e trovo il tuo nome su un giornale, tra i necrologi. : Ricardo muore. Merda. Il grottesco della vita ti ha fottuto. Proprio la parte che meglio riuscivi a controbilanciare con la tua intelligenza, proprio quelle zone d’ombra che quasi nessuno riesce a vedere nel mondo e che tu avevi così chiaramente tatuate dentro le pupille dei tuoi magnifici occhi. : Ricardo muore. Morire così a diciannove anni, amico mio, è una vendetta angelica, che non ha stillato una sola lacrima dal mio volto. Solo una grande, incontenibile rabbia. Perché adesso è come se io fossi ancora lì, davanti a un drugstore ad aspettarti. E tu, come sempre, sei in un maledettissimo ritardo: 109 sto aspettando di fronte a un drugstore : sto aspettando di fronte a un drugstore che deve aprire alle nove un Mugwump levantino è seduto nudo su uno sgabello del bar coperto di seta rosa orpelli e velluti rossi il cameriere lascia cadere una goccia di Martini Dry acuta esalazione di metallo malato la malattia ha il dono di insediarsi nei punti più strategici / timida carne sperimentale sto aspettando di fronte a un drugstore ad ascoltare i grugniti e gli strilli e i borbottii interi alberi passano galleggiando serpenti dai colori brillanti tra i rami lemuri pensosi guardano la riva con gli occhi tristi vacui come specchi di ossidiana rimangono solo le ossa a ridere vibrano con un movimento silenzioso: 110 28. sì – h.23:35 “con le labbra rivolte a un cielo di foglie rimasero a darsi voce. Fermarono il tempo. Senza toccare il presente sospesero realtà raccontandosi favole”. Isabella Santacroce, Lovers : non reggeva, non reggeva. Si fece 25 gtt di Minias, accese il computer ed entrò in chat. Sentì il bisogno di navigare virtualmente, sentì la voglia di concludere qualcosa almeno oggi con una donna vestita soltanto dei suoi chips. Qualcosa di veloce. Ciao gli parve una maniera bella, semplice, pulita e sincera di salutare una ragazza in chat, ed era proprio a questo che stava puntando: aveva voglia di utilizzare uno stratagemma di aggancio il più tranquillizzante possibile. Non trovò altro che un semplice ciao lanciato a un nickname casuale, Annalou79. Funzionò, la ragazza virtuale rispose. Si rammaricò subito di non avere una sua foto da inserire nell’apposito spazio che il sito metteva a disposizione dei suoi utenti. Le scrisse che avrebbe rimediato il prima possibile. Lei gli disse che non le importava, voleva fare solo due chiacchiere e poi neanche lei aveva inserito la sua foto, gli chiese perché aveva scelto come nick hidalgo, lo trovava intrigante. Per questo aveva risposto al suo saluto. Lui non le rispose subito, riflettè sulla parola intrigante che leggeva sullo schermo luminoso e d’istinto le scrisse “voglio portarti a letto. Ti va l’idea?” Annalou79 non scrisse niente ma non abbandonò la stanza. Lui continuò a battere le dita sulla tastiera del PC senza più guardare lo schermo: “Voglio fare l’amore con te anche se non ti conosco e non so nulla di te. Proprio perché non ti conosco e non so nulla di te. So solo che sei una donna e che non mi importa nulla che tu sia bella o brutta. Sei una donna e ti immagino con labbra gustose e occhi limpidi, e solo per questo voglio prenderti, solo per una notte”. C’era silenzio. Lui pensava, mentre scriveva, altre cose: pensava che avrebbe amato incontrarla la prima volta solo per sentire quali e quante emozioni fosse riuscita a suscitare in lui. Capire se le aspettative che si stava creando avrebbero trovato un riscontro dentro il suo cuore. Immaginava un invito, un assenso, una cena formale in un ristorante sul mare, ascoltare la sua voce vera e chiacchierare di ogni cosa, sorseggiando vino e ascoltando in sottofondo del jazz o del chill out. Passeggiare sul lungomare, starle dietro, abbracciarla con le labbra e respirare il profumo dei capelli sulla sua nuca, scendere a baciarle il collo, stringerle da dietro i seni, sentirla vibrare mentre la accarezzava. Dava per scontato che sarebbe stata una donna bellissima. Ma non solo questo. Aveva voglia di immaginare di raccontarle le cose che sapeva del mondo e ascoltare le cose che lei sapeva del mondo. Ciò che aveva imparato e ciò che aveva insegnato, e nel farlo adorava fantasticare sui toni bassi della sua voce, lievemente arrochita dal fumo di una Marlboro Light. Assaggiare ogni sillaba stillata dalle sue labbra, scendendo con gli occhi verso la scollatura, con già una mano dentro le sue mutandine. Cucirle il sesso con la lingua. Immaginarsela in ginocchio davanti a lui, ora, con in bocca il suo sapore, baci dolci fino a farlo venire. Farle vibrare ogni corda. 111 Annalou79 non scrisse niente ma non abbandonò la stanza. Lui non le scrisse niente di questo, le chiese invece se per caso le piacesse essere dominata, se aveva fatto esperienze bdsm e se avesse intenzione di sperimentare ogni sua fantasia di dominio, magari anche discostandosi un po’ dalle regole di quella pratica, mietendo posizioni attraverso le fascinazioni delle loro menti. Le scrisse: “Il nostro incontro avverrà in una stanza d’albergo, e all’improvviso ti tapperò la bocca infilandoci un uovo. Non voglio che parli né che mugoli durante tutto il corso del nostro incontro. Ti benderò e poi ti spaccherò l’uovo in bocca. Tu non potrai sputarlo. Ti lascerei solo il tempo di riprendere fiato poi ti sigillerei le labbra con del nastro adesivo. Questo almeno in un primo momento, perché in seguito il nastro verrà tolto, in modo da lasciare che ai resti dell’uovo si mesci il mio seme. Dovrai essere abilissima a raccogliere ogni liquido che uscirà dal mio sesso. Ma questo solo dopo. Prima dovrai meritartelo”.Visualizzando la scena sentiva che il cazzo iniziava a premergli sotto i pantaloni. Si slacciò la patta. Era durissimo. Abitava la sua fantasia questa sconosciuta con la bocca sporca di uova e tappata dal nastro. Immediatamente dopo se la raffigurava spogliata, con indosso solo le mutandine e un babydoll. La costringeva a sedere su una sedia legandole mani e piedi. A questo punto aveva a sua disposizione in una stanza anonima una donna legata in totale balia dei suoi desideri. Iniziò una lenta carezza con una mano, con l’altra continuava a sbattere sui tasti del Pc. Un paio di schiaffi in faccia ben dati gli schiarirono la mente sul desiderio successivo: la cera. Accendere una candela e far colare della cera sul collo e sul seno e sulle spalle della sconosciuta per lui riusciva ad essere una situazione ancora affascinante, nonostante la banalità del luogo comune erotico. Immaginava il supplizio di quella troia. Le carezze che si dava iniziarono ad essere più elastiche e ritmiche. Un momento dopo lei era già in ginocchio a succhiargli l’uccello, ma non tanto da farlo venire: sempre inginocchiata la stava girando ora e, strappandole i capelli con furia, la inculava senza l’aiuto né di oli né di unguenti. A secco, fino a non accorgersi dei rivoli di sangue che già colavano sulle cosce. Trascinarla poi per i capelli nel bagno premendole la testa nel water, pisciarle in testa e in faccia e in bocca per poi tirare lo sciacquone. Lasciarla come un cencio steso a terra, montarle sopra e scoparla come un animale. Rialzarsi un attimo prima di venire e schizzarle in bocca. Annalou79 non scrisse niente ma non abbandonò la stanza. Le urla soffocate. I gemiti. Qualcosa che nella sua mente si avvicinava al piacere più bello. Le sue mani che artigliavano la mente della ragazza. Le bende e il buio che la tenevano prigioniera. Affondare la carne del suo cazzo nel culo. Sentire le ossa della sconosciuta spezzarsi sotto i suoi colpi. Le carezze erano a un ritmo vertiginoso. Intorno a lui altre urla soffocate. Il mondo chiuso completamente fuori. Immaginava la ragazza supplicarlo un attimo dopo averla svestita delle bende e un attimo prima di farla tacere per sempre. Venne sull’immagine di dolore e sangue, sui suoi pantaloni con uno schizzo talmente violento da farlo quasi svenire. Tremò tutto il suo corpo, gli ci vollero diversi minuti di respiro affannato prima di riprendersi. Alzò lo sguardo sul monitor, c’era una parola non sua: “Sì”: 112 che senso ha : ho camminato tutto il pomeriggio il mio contatto con la natura nonostante questo l’angoscia mi ha invaso ancora sono tornato in Hotel a preparare le mie cose non posso impedirmi niente è semplicemente la presenza della vita ad avvelenarmi la serata l’assenza dell’anima o la sua presenza che accerchia la mia serenità a nulla è servito allenarmi i muscoli oggi con l’approssimarsi della sera qualcosa ha iniziato a impregnarmi il cuore in una Termini stranamente semideserta poco prima che il treno per Genova mi trascinasse via mi sono infilato in un bagno alla turca ho tirato fuori dalla mia sacca una rivista per scambi di coppia ho lasciato la mia e-mail scarabocchiata sulla porta: 113 29. ciò che è e ciò che dovrebbe essere – h.23:55 “quando per esempio si ritrovano dopo un lungo tempo senza vedersi, e anche se sono pieni di echi di brutte frasi e si lasciano travolgere dal bisogno di comunicazione e parlano e parlano in un flusso di idee e sensazioni senza smettere per un attimo di registrare le variazioni sottili dentro e fuori le parole che vibrano con la stessa identità inarrestabile di un diapason” Andrea De Carlo, Pura Vita : si segnò sull’agenda l’e-mail di Annalou79 e il numero di cellulare che gli aveva lasciato. Prima di chiudere in chat Annalou79 gli comunicò che quella sera stessa gli avrebbe scritto un’e-mail, così lui la attese fumando, e per poco non la scordò, già che era tornato a navigare nelle profondità dell’Oceano. Alla fine aprì la posta elettronica e trovò l’e-mail. Cominciò col descrivere il suo ritorno a casa, avvenuto alle prime luci dell’alba di una afosa giornata di luglio di un anno fa, dopo una fuga, con uno stile simile a quello di un verbale. Se ne sarebbe ricordato molto tempo dopo, lui, di quanto importante fosse stato l’imprinting di quelle parole sulla sua pelle. Raccontava: la ragazza si ripresentò ai suoi con i soli indumenti che indossava e una piccola borsa contenente alcuni ricambi di biancheria intima. Preferì proporre fin da subito un’immagine di sé che non gli apparteneva ma che trovava appropriata in quella circostanza: le guance e gli occhi scavati, dimagrita e sciatta, allampanata e incredula come una reduce chiusa al dialogo, anche in virtù del fatto che in passato con i suoi non parlava spesso. Questa modalità gli permetteva di ridurre ai minimi termini i contatti verbali con i suoi. Glielo aveva sempre permesso e pensò fosse un bene ritornare con almeno una solida certezza legata al suo passato. Appena rivide la madre, la comunicazione con lei si svolse, e si sarebbe poi svolta per tutto il primo periodo del suo ritorno, esclusivamente attraverso i più comuni canali della gestualità. Non una parola riverberava nell’aria. Nel rivederla sua madre non pianse nemmeno. Lei decise in quel momento che da lì in avanti l’assenza di parole sarebbe stato l’unico appiglio a cui si sarebbe agganciata mani e piedi per riordinare le idee. Per il resto era convinta, davvero, di volersi sbattere con un certo zelo nel tentare di adeguarsi alla condizione perduta di figlia, riprendendo in mano le prime, basilari regole che avevano sempre sollevato quella casa dal caos: il rispetto degli orari di colazione, pranzo e cena, ad esempio, ma anche la pulizia della propria camera (che ritrovò intatta, pulita, trasparente e spolverata come se tredici anni non fossero trascorsi). Già dall’inizio si rese conto però che una certa tendenza al disordine faceva fatica a scrollarsela di dosso. Lo sguardo accigliato del padre quando entrò nella sua stanza per salutarla, al rientro dal lavoro, fu più eloquente di qualsiasi altra cosa a questo proposito. Anche il padre non pianse, ma questo lei se lo aspettava. Appena richiuse la porta la ragazza si rivolse allo specchio, si chiese come fare per difendere la propria riservatezza dalla ritrovata invadenza dei genitori, come evitare ciò che accadde tredici anni prima. Arrivò a maturare al quinto giorno la ferma 114 volontà di persistere con l’interruzione di ogni tipo di comunicazione verbale con i suoi. La laconicità. La ragazza si mostrò rispettosa nel suo nuovo rapporto con i genitori, ce la mise tutta (si ripeteva allo specchio), ma al decimo giorno, improvvisamente, si ripresentarono i segnali di quel tentativo di “allargarsi” sulle regole che tredici anni prima fecero deflagrare il rapporto con i suoi. Riprese a fumare in camera, ad avere piccoli ritardi nel sedersi a tavola con loro, a svegliarsi tardi al mattino. I suoi tacquero con lei ma i loro sguardi erano atroci di paura e risentimento. L’iniziale disordine si trasformò rapidamente in totale trasandatezza. La sua stanza si aggrovigliò di abiti gettati in terra, di polvere sulle mensole, di residui di carte lasciati a marcire sulla vecchia e mai usata scrivania nel giro di istanti. E poi di capelli nel lavabo del bagno e macchie di umore sulle lenzuola. Non portò più nulla a lavare, sua madre e suo padre non entrarono più nella sua stanza né le chiedevano nulla. Si chiuse a chiave. Il silenzio la accerchiava, come desiderava. La sporcizia non faceva altro che aumentare il senso di felicità che la stava abbracciando. Lui lesse le parole di questa ragazza-chip che aveva di fronte sullo schermo di un monitor. Gli aveva spedito anche una sua foto e non era niente male, forse solo un po’ di fianchi larghi. Non si stupì che non fosse una strafica. Comprese la felicità della ragazza per aver ottenuto da lui un contatto, evidentemente anche lei quella notte aveva voglia di navigare negli assolati mari del sud. Si alzò dalla scrivania e si allontanò senza pensare a nient’altro che a una conversazione avuta qualche anno prima con Michela, seduti in un pub di Genova: 115 certe volte no a Michela : io ordino un caffè e lei un frappè voglio farmene uno anch’io le dico uno di che? chiede prendendo su una cucchiaiata golosa di caramello caldo un frappè rosa proprio come il tuo sbatto forte il mio cucchiaio sul tavolo non puoi sei troppo maschio per questo non è vero dico cosa non è vero? chiede mi fissa dal mascara liquido sul viso non è vero che sei un maschio? certe volte no le dico rabbuiandomi lei allunga una mano sotto il tavolo e mi tasta velocissima tra le gambe io salto via il cucchiaio rotola a terra cazzo! urlo poi mi mordo il labbro per aver detto la parolaccia in quel pub si che sei un maschio anche se ho avuto i miei dubbi devo ammetterlo e ride cazzo! ripeto e riprendo a respirare: 116 30. fogli – h.23:59:59 “un giorno in più che passa ormai con quest’amore che non è grande come vorrei… storie come amici perduti che cambiano strada se li saluti” Riccardo Fogli, Storie di tutti i giorni : l’undici ottobre stava per terminare. Lui era ancora sveglio alla scrivania ma non pensava più a nulla, ora. Stava facendo spazio dentro la mente, voleva sbarazzarsi, anche solo per un istante, delle sovrastrutture. Poi arrivò. Come dal fondo di un tunnel nero. Accadde nel febbraio o nel marzo del 1982. Ora non ricordava bene. Chiudendo gli occhi rivedeva però nitidamente, come se il tutto fosse accaduto l’altro ieri, sua madre intenta a sfoderare il divano. Rivedeva il salotto della loro vecchia casa ai Piani, in via Principale 32. La disposizione dei mobili, i vasi troppo carichi di fiori, le suppellettili sghembe, quasi tutte bomboniere donate in occasione di matrimoni o comunioni o battesimi di parenti. Più di ogni altra cosa l’attenzione della sua memoria si concentrava sulla madre, i suoi gesti mentre allungava con presa ferma le antine del divano e lo trasformava in letto. Lo faceva ogni anno, nel periodo del Festival di Sanremo. Ricordava i suoi che gli permettevano di stendersi insieme a loro, a guardare lo spettacolo fino a quando non si addormentavano tutti. Nessuno riusciva mai a vedere la fine, la tele restava accesa tutta la notte come un oracolo a vegliare tre destini addormentati. Era un momento emozionante per lui, piacevole anche nel respiro della memoria, l’unico nell’anno in cui poteva accoccolarsi, nonostante i suoi nove anni, nella serenità di un letto insieme al padre e alla madre. Vibrava quasi un’atmosfera da innocente rito pagano, come se tutto ne avesse il sentore: si spegnevano le luci un istante dopo aver acceso Rai 1, si aspettava la sigla dell’eurovisione e subito dopo la sigla del Festival, con le immagini di Sanremo. Era contento perché immaginava che tutti potessero vedere i luoghi in cui era nato. Specie i parenti rimasti in Abruzzo. E questa sensazione di ritrovata famigliarità lo scuoteva un po’ da dentro il cuore, lo faceva sentir bene, condividere con i parenti lontani e con altri milioni di persone un pezzettino della sua terra. Sentiva che anche per i suoi era la stessa cosa, e in fondo ne era orgoglioso. Nell’edizione del 1982 si impose Riccardo Fogli con Storie di tutti i giorni. Non si addormentò subito, resistette e lo vide esibirsi a tarda serata. Mamma e papà erano già addormentati. Ai suoi occhi Fogli apparve elegantissimo, indossava uno smoking nero ed era accompagnato sul palco solo da un chitarrista, vestito interamente di bianco. Ne rimase affascinato. Ma ciò che più lo rapì furono le parole del testo: 117 faceva fatica a capirle tutte, ma nonostante avesse nove anni, gli pareva di coglierne il senso. Era un pezzo ritmato ma le parole dicevano che era dura vivere, che uno sogna di cambiare in meglio la sua vita ma non sempre ci riesce. Diceva che lavorare costava sudore e spesso non si riusciva a raccogliere granché da quanto si era seminato. Gli sembravano parole importanti, come quelle che spesso ascoltava dai grandi che lo circondavano. Però con loro ascoltava i lamenti e basta, e invece con Riccardo Fogli per chissà quale strana alchimia riusciva a sintonizzarsi, sentiva che lui diceva le stesse cose ma in modo diverso, riusciva quasi a capire che c’erano tante maniere di dire le cose. E non tutte portavano con sé il peso del lamento. Passò la notte sveglio, ma al mattino non si sentì affatto stanco, e ci mise poco a prepararsi per andare a scuola. Nei giorni successivi il pezzo passò moltissimo in radio. Iniziò a canticchiarlo, ogni momento era lì a farne il verso, ad ancheggiare davanti a uno specchio. Prese e mandò a memoria. Poi un pomeriggio, dopo i compiti, lo scrisse tutto sul suo quaderno e lo lesse: adorava lo scalpitare della lingua nella cavità orale mentre le parole scorrevano, come se non sapesse dove andare, come se corresse impazzita avanti e indietro, su e giù sfiorando denti, palato, brandelli di labbra. Aveva scoperto la poesia. Sorrise: 118 elegia sanremese Ciò che è veramente inspiegabile non ha altro santuario che i mezzi di comunicazione di massa. Cèsar Aira, Come diventai monaca : ora è finita questa giornata e sono pulito. Ora sento le valvole che regolano il mio corpo andarsene via via irrigidendosi; sento che il sangue non pompa come dovrebbe, che la ragnatela delle mie vene e delle mie arterie è compromessa in un reticolo di vicoli ciechi, che la mia solidità mentale potrebbe da un momento all’altro collassare, lasciandomi steso a terra come un cencio di carne. Mi detergo il sudore dalla fronte chiuso nel controsenso della mia esistenza, persisto a vivere e non rassicuro certo così la quieta tachicardia che regola le mie notti e i miei giorni. Ho un buon macinato di caffè sottomano e sono strafatto di psicofarmaci. Sono rimasto immoto qui, in questa macabra giornata di ottobre, a schiacciare tasti sul mio pc, a ricordare, a scrivere lettere, a mettere disordine tra i files. Questa esperienza è stata una cosa che mi ha terrorizzato. Non ne conosco il motivo, non riesco a definirne ombre e contorni. Non sono mai stato un cacasotto, nemmeno da bambino. Mai stato uno di quei patetici poppanti alienati dalla paura del buio, dell’uomo nero o del gatto. Al massimo mi terrorizzavano le galline, con i loro becchi affilati come lame di Toledo. Sono cresciuto in campagna, di conseguenza ho fatto molto presto conoscenza con quelle orribili creature bipedi. La mia povera mamma ci ha sempre provato, anche sotto minaccia, a insegnarmi come spargere a terra le semenze di granone per farle ingrassare. Non c’è mai stato niente da fare purtroppo: non appena aprivo la piccola porticina in legno della gallinaia venivo investito da quel tanfo micidiale di merda e piume, e i miei occhi andavano dritti in quelli dei polli, specie dei più cattivi. Potevo sentire vibrarmi la pupilla mentre si dilatava nella perforazione dell’ostilità del diabolico pollame. Tale e quale a un esercito di disperati guidati solo dall’istinto di mangiare e uccidere, gli animalacci iniziavano a gracchiare mefistofelici e a sollevare nubi di polvere fitta, sbattendo vorticosamente le ali. Venivano verso di me. Gettavo il granone a terra in un lampo col sudore che mi copriva di sale le palpebre, non riuscendo quasi a ritrovare la via d’uscita da quella che è stata sempre, è tuttora e sarà nei secoli dei secoli una sporca, maledetta Città di Dite. A quel tempo pativo anche un po’ il restare solo a casa davanti alla tele quando i miei uscivano per andare a trovare una qualsiasi zia. Io trasalivo in un rassegnato senso di disperazione arrotolandomi nel mio corpicino gassoso e rifiutandomi di andare. Mi sentivo già grande per stare in casa da solo. Io e Hurricane Polimar su Rai 2. Due secondi dopo che i miei erano usciti il rimorso per non essere con loro mi attanagliava. Avrei dovuto saperlo che prima o poi i cartoni finiscono e si resta soli. 119 Soli e in attesa che la casa si riempia di nuovo. Tutto quello che facevo, mentre il buio inghiottiva la mia stanza, era affacciarmi alla finestra stando ben attento a non precipitare giù, a non finire con la testa dentro i vasi di gerani che mia madre, la mia caritatevole, orribile madre, aveva piazzato davanti al portone, per abbellire l’androne. Restavo da solo con la paura che mi marchiava le viscere. Odiavo i miei genitori già a nove anni perché mi permettevano di restare solo in casa. Mi permettevano di provare sulla pelle la sensazione della paura viva. Una volta m’ero lasciato convincere dalla mia vicina di casa, un’allora sedicenne tettona affatto sgradevole, che giocare al dottore dentro casa mia sarebbe stato più divertente che farlo io dal balcone lei dall’androne. Così l’ho lasciata entrare, e mentre si spogliava per mostrarmi le sue inequivocabili virtù indispettite dalle malattie di cui io avrei dovuto prendermi cura, mi sentivo avviluppare da una gioia serpentina immensa, assai prossima all’illuminazione di stampo tibetano. Il fatto è che le malattie e gli acciacchi, mi assicurava lei con un sorriso vigliacco, erano situate proprio lì. Era proprio lì che i sintomi si rendevano evidenti. “Dottore mi dica…Metta una mano qua e senta ben che cos’ho…Sarà mica male?” Io, per carità di Dio, la mano la mettevo anche se non avevo mai fatto il giuramento di Ippocrate, ma da medico…voglio dire, in fondo era una qualifica guadagnata sul campo, con il riscontro sociale di una sedicenne in calore. La mano sentiva, e qualcosa là sotto di me si muoveva, ma a nove anni cosa vuoi saperne tu? Mi pareva che le cellule del mio abominevole ammasso di ciccia si scagliassero tutte contro la parete della mia epidermide in maniera suicida, a testa bassa, furiose. Come volessero uscire. Sentivo chiaro come il sole che mi urlavano in faccia: “cazzo, fa’ qualcosa! Fa’ qualcosa!” Io mi limitavo a toccare quella ferita piccola che la mia amica possedeva tra le cosce. Una sensazione gradevole. Umida. Ho pagato per quei momenti di abuso della professione medica: non ho mai saputo come diavolo avessero fatto i miei a scoprire che l’avevo fatta salire in casa nonostante il divieto. Ricordo perfettamente però la distorsione del viso di mia madre, le smorfie mentre mi urlava contro, i sottili sputi che arrivavano alla mia faccina grondante lacrime di pietà. Nonostante questo episodio, continuavo a restare solo in casa. Nei pomeriggi particolarmente inutili mi sfogavo sul mio organo Bontempi sperando che quella cacofonia vagamente stordita servisse in qualche modo a esorcizzare la mia solitudine, e non solo a esasperare l’anziana vicina. La musica non mi ha mai esorcizzato, sono io che ho esorcizzato lei. Non sono mai diventato un buon tastierista. A quattordici anni mi sono messo in una band che si chiamava N.V.D.N. (acronimo burlesco e risibile per “Non Vuol Dire Niente”, o anche “Noi Vogliamo Debora Nuda”), messa su da un mio vecchio amico punk (anni dopo sono venuto a sapere che aveva fatto una specie di patto col diavolo in un crocicchio, vicino a Torre Paponi, una cazzutissima frazione di Arma di Taggia). A 10 minuti dall’ingaggio, manco il tempo di inebriarmi dell’odore di una vera sala prove, il punk si girò verso di me e bofonchiando mi ordinò: “Tu qua mi devi fare 120 questa sequenza: re settima diminuita, la diesis, do settima”. Mortificato dal fatto che io non sapessi leggere la musica e lui non sapesse farsi una cresta come si deve, lo piantai lì. So che ora vende elettrodomestici da Trony. Qualcosa nel patto col diavolo deve essere andato storto. Ora, trentatre anni dopo, sono solo in casa. Ho una compagna, due cani, due gatti, un appartamento tutto mio. Mia mamma e mio papà vivono in un appartamento sotto di me. Eppure sono solo in casa. E i miei me lo permettono ancora, cazzo. E io non voglio, cazzo. E oggi è stato il mio compleanno, cazzo. E io sono strafatto, cazzo. Il sole ha svettato sulle colline ma io non l’ho visto. Solo un cardellino si è posato nella prima mattina, proprio poco dopo l’uscita di scena di mio padre e della cosa, sulla ringhiera della mia terrazza. Aveva fame o sete o che so io, il piccolo figlio di puttana. L’ho guardato dritto negli occhi senza rivolgergli nemmeno la parola. E’ trascorso troppo tempo da quando leggevo la Tamaro (si fosse posato allora, avrei sicuramente acconsentito a una pur breve conversazione con il bipede alato). Il sole lo illuminava di sbieco, dipingendogli curiose macchioline marrone, con minuscole screziature argentee e rossicce. Stava bene, a giudicare dal modo in cui sfringuellava, ma sembrava come oppresso da un sottile male di vivere. Per mandarlo via ho acceso lo stereo e con uno scatto fulmineo ho alzato a palla Folsom Prison Blues di Johnny Cash. Si è fuso con l’orizzonte. Adoro la bucolica vita di campagna perché si armonizza bene con il rock n’roll; da qui l’osservatorio sulle cose del mondo appare appena sfocato, come una vecchia Polaroid asciugata dal tempo. Vile, se vogliamo dircela tutta, ma dannatamente reale: e a me sembra di essere diventato, cogli anni, un fottuto Palomar strafatto. Ogni volta vedo le cose tutte come fossero nuove: un filo d’erba, un grillo, un cane vagabondo, una ranocchia gracidante, un anemone, un sasso, Across the Great Divide di The Band… Penso a come sarebbe vivere a Sanremo tra qualche mese, nel periodo del Festival. Mi viene voglia di farmi di crack. A circa una ventina di chilometri da casa mia c’è Sanremo. Lo so perché ci sono nato. Da che mondo è mondo Sanremo è Sanremo, e tu non hai la più pallida idea di cosa sia Sanremo. No tu proprio non hai la più micragnosa idea di cosa sia il Festival di Sanremo. Non sto scherzando, so quel che dico. Tu proprio non ne hai idea. Ci vuole fegato per affrontare questo evento senza la protezione del tubo catodico. Io ho visto. E non solo le migliori menti della mia generazione: quelle si sono già fottute da immemorabile tempo. Ho visto a Sanremo, sigillati dentro la pancia delle loro crucche camerette arredate da Ikea, vecchi ventenni consumatori di droghe pesanti e leggere, di creme contro brufoli e celluliti, che tenevano nascoste riviste porno nei fondi dei doppifondi dei cassetti dei comodini, sotto brandelli di carta straccia, assieme con accendini sgasati e depliant di agenzie viaggi. In quei giorni di follia collettiva ho sentito i loro lamenti muti da qui, come avessi l’orecchio incollato alle loro porte con l’odore di crema che quasi mi si strofinava sulle guance correndo 121 poi impazzita dentro le mie narici per arrivare al cervello e fotterlo. Nei momenti di irreale silenzio notturno ho visto il loro pianto rigare le lenzuola, e mi sono alzato sui tacchi fino a raggiungere lo spioncino per guatare la maniera sublime in cui torturavano le lenzuola con le dita, come le masticavano, le rosicchiavano, tentati quasi di spolparle vive. E ho pianto con loro. Da dietro le loro porte ho sussurrato: “Come pensate di dirlo in giro dopo?” - era per non rincuorarli - “Come direte che odiate a morte il Festival di Sanremo ma ci state incollati lo stesso? Come farete ad affrontare i vostri procreatori, voi che siete soltanto i reduci dei figli di una X? Volete sbattervene dei loro steccati bianchi? Dei loro prati all’inglese? Li hanno messi su per voi, cocchi miei. Non ce la farete mai. E io vi capisco, e piango insieme a voi, solco con voi la lanugine del vostro copriletto. Ho visto i miei amori provinciali, trentenni, confusi, abbagliati dalle cose che non sono riusciti a fare, consapevoli che la loro esistenza su questo pianeta è soltanto il maledetto frutto della loro fantasia. Niente di più. Ho visto questi fortunati fallimenti a due gambe fare la coda per vedere il Festival. Gente che miete lavori che detesta, che non è stata in grado di combinare niente nella vita, che non riesce neppure a decifrare il proprio fallimento, che si sente addosso lo sguardo sprezzante di Allah. In tutti loro ho visto me stesso, riflesso in un patetico provinciale tra i provinciali, con gli abiti usati, o comprati all’Oviesse, strisciare attraverso Via Matteotti alla ricerca de Le Vibrazioni. Mi sono visto entrare al Dì per Dì come in una chiesa, con l’entusiastica missione di riuscire a non spendere tutto il mio assurdo denaro in bottigliette d’acqua e integratori alimentari. I miei soldi guadagnati col sudore dell’incapacità. Ho visto specchiarsi dentro cucchiaini da caffè poeti che insistevano a misurare la loro vita, dimenticandosi di quanto il mondo sia il posto crudelmente più spiacevole che abbiano mai visitato. Ho visto i miei poeti con gli occhi asciutti ai funerali dei loro padri. Eppure c’è stato un tempo in cui sapevo anche vergognarmi, sapevo entrare in un pub come un appestato senza speranza, parcheggiare la mia Uno ammaccata senza stupirmi nemmeno un attimo di quello che non sarei diventato. Di quello che non diventerò mai. Guardavo la mia Sanremo stesa con le gambe aperte, succhiandone tutto il miele che riuscivo a cavarne, senza avvertirne l’acre sentore di morte che aleggiava come una invisibile fuliggine attraverso i comignoli della città vecchia. Ciò che oggi, qui, mi spaventa è la raziocinante convinzione che Tenco abbia fatto la cosa giusta. Tenco aveva lo sguardo di un uomo che ha capito e visto prima di tutti questa gente muoversi lenta, sotto sembianze mostruose. Aveva lo sguardo di un uomo che ha bisogno di strizzare più volte le palpebre per non svenire quando scorge la gente attraversare le strade. Aveva visto quello che anch’io ho visto: : l’audace scommessa, qui, è vivere. 122 crediti e fonti tutto mi appartiene niente è mio lampi e istanti è la cover di Altre istruzioni di Gianni D’Elia, poesia che puoi trovare nella raccolta edita da Einaudi Congedo della vecchia Olivetti del 1996. Di D’Elia mi piacque subito una foto che scovai dentro una rivista: portava i capelli lunghi e aveva un’aria un po’ annoiata. Sembrava un cantante. Il fatto poi che avesse scritto un testo, sempre in quella raccolta, titolandolo con una celebre canzone dei Led Zeppelin...Non so, non è che proprio mi piacciano le sue cose però…in foto aveva quell’aria molto…poetica, cazzo. Era figo capisci? E io avrò avuto ventidue anni quando lo scoprii. Frequentavo l’Università con la patetica illusione che bastasse “fare il poeta” per portarsi a letto quante più ragazze possibili. Inutile dirti che fallii miseramente. D’altro canto, nel ripensarci ancora oggi, l’auto sabotaggio direi che rientra perfettamente nel mio copione. tu dormi arriva da un testo di Antonio Porta tratto da Come può un poeta essere amato? del 1983. Oggi puoi leggerla a pagina 125 del volume Poesie 1956 – 1988, edizioni Oscar Mondadori. Antonio Porta lo lessi tardi, verso i venticinque anni, quando ormai ero saturo degli altari sanguinetiani. Per me fu il più bello dei “Novissimi”, perché aveva una scrittura mite e un’ombra di tristezza in più, e anche di umanità, nei vicoli dei suoi versi. Era, in fondo, “quello tranquillo”, un po’ come il George Harrison dei Beatles. A vent’anni Lennon per me era una sorta di Messia canterino e laico – non so se ti rendo l’idea - oggi lo scettro lo passerei al compianto Harrison, il Signore lo abbia in gloria. Ho scritto questo testo di getto, con la mia compagna nell’altra stanza che dormiva. Quando gliel’ho fatto leggere si è commossa, ma io di più nel vederla con le lacrime agli occhi. Nota: tu dormi ha vinto la 13ma edizione del Premio Nazionale di Poesia “Ossi di Seppia”, nel dicembre 2007, con giuria presieduta da Giuseppe Conte, Plinio Perilli e Lamberto Garzia. equinozio e solstizio hanno la loro mappa nella città di Eufemia, e per trovare affinità e divergenze con l’originale devi visitarla. Le indicazioni per trovarla sono semplici: a pagina 36 de Le città invisibili di Italo Calvino ne saprai di più. Non posso prestarti la mia copia nelle edizioni Oscar Mondadori perché è talmente consunta dalle innumerevoli riletture da dover anch’essa essere rinnovata. Il buon vecchio compaesano Italo: come si fa a non scrivere di lui? A non dedicargli qualcosa? Ai tempi era una lettura quasi obbligata, perché andava a chiudere tutto 123 un cerchio di scrittori in cerca di paternità che amavo: Daniele Del Giudice, Andrea De Carlo, Francesco Biamonti. Ma anche Bret Easton Ellis, tanto per dire. Sempre mi ha attratto l’eleganza della forma di cui Calvino fu maestro, specie allora, quando il mio motto era il sanguinetiano “il mio stile è non avere stile”. Mentivo, naturalmente. Ero solo invidioso. blues viene dal testo LXXVI della sezione “Speen e Ideale”, da I fiori del male di Charles Baudelarie. Nelle edizioni Einaudi con traduzione di Giovanni Raboni la trovi a pagina 119. Il primo libro di poesie che ho letto, a diciannove anni, per intero. E come vedi sono ancora qua, quindi direi che ha significato qualcosa per me. Mi ricordo che Anna – si era allora al quinto anno dell’Istituto Magistrale – restò affascinata dal fatto che mi piacesse Baudelaire, lo trovava…cool. Intrigante. Naturalmente volevo farmela, e la tacchinai per tutta la durata dell’anno scolastico, senza cavarne niente se non un tristissimo addio davanti al Palazzo del Parco di Bordighera, dove ero andato a sentirla suonare il piano per un saggio della sua scuola di musica. Non la rividi mai più, partiva per Milano e credo oggi faccia l’avvocato. Le scrissi qualche lettera d’amore appassionato e stupido. Giustamente non mi rispose mai. Avrei fatto la stessa cosa anch’io. Comunque, Anna, mi scuso se nel corso degli anni successivi qualcosa di me è arrivata alle tue orecchie. So che alcune persone hanno straparlato, e hanno detto cose false su di te e me, su una presunta storia. Bè, voglio che tu sappia che sono stato io a mettere in giro quelle voci, mi sono inventato tutto. Ha senso scusarsi adesso? No, anche perché mi devi ancora due cassette di Elvis Presley che ti prestai nel 1991, e mai regalate. sulla sponda occidentale è tratta da un brano in prosa che trovi alle pagine 200 – 201 ne Un altro giro di giostra di Tiziano Terzani, edizioni Longanesi. Posseggo e ti consiglio un bellissimo DVD con la sua ultima intervista a Mario Zanot: io la guardo e riguardo in continuazione. Sai cosa mi affascina? Il fatto che sia rimasto profondamente fiorentino, italiano e occidentale pur nutrendo uno sconfinato amore per l’Asia ed esserci vissuto così a lungo. La sua prosa semplice e precisa mi ha preso fin da subito, e i suoi libri sono stati sciroppati a una tale velocità che ancor oggi mi meraviglia. E’ raro questo, di solito leggo e assorbo molto lentamente. Omaggiarlo mi sembrava il minimo. le cose tutte che mi abitano è tratta dalla poesia Pazzi gli uccelli di Mario Novaro, contenuta a pagina 93 della raccolta Murmuri ed echi, a cura di Giuseppe Cassinelli per le edizioni “All’insegna del pesce d’oro” di Vanni Scheiwiller. Un’ edizione rara. Il poeta Giovanni Giudice, con cui ho condiviso buona parte delle mie passioni letterarie (avevamo entrambi diciotto anni), mi introdusse a Novaro. Ricordo le passeggiate alle logge di Santa Chiara a parlar d’innamoramenti e poeti. Molto, molto esistenzialista come cosa…allora amavo veramente essere un dannatissimo esistenzialista, anche se non avevo la benché minima idea di cosa significasse. Le conversazioni con Giovanni quindi di fatto si riducevano a suoi 124 monologhi sulla bellezza del verso e ai miei adoranti ascolti passivi, cercando in lui il maestro che ogni scrittore in versi fisicamente cerca. da questo luogo e oltre è la cover di una poesia di Josef Stalin, nientemeno. Il testo originale si intitola Il veleno della rivoluzione e non ho idea se sia pubblicato in qualche antologia o libro. Fino all’8 maggio 2007, giorno in cui comprai “La Stampa” e tra le pagine “cultura e spettacoli”, a pagina 39, scovai un bell’articolo di Marcello Sorgi sulla giovinezza innamorata di Stalin, non mi risultava che il dittatore di tutte le Russie avesse mai coltivato velleità letterarie. Ma probabilmente mi sbaglio. Sai tu qualcosa di più al riguardo? perché dal treno non ti spaventino le gallerie è tratta da La galleria di Gianni Rodari, che si trova dentro Filastrocche in cielo e in terra. Puoi scioglierti dietro queste e tutte le altre fiabe di Rodari leggendo I cinque libri, edizioni Einaudi. La poesia che ho manipolato io è a pagina 119. Rodari morì di polmonite per essere uscito di casa, nel corso di una gelida nottata d’inverno, per salvare un gattino perduto e riportarlo al figlioletto. E questo, almeno per me, può bastare per consacrarlo come eroe. Naturalmente il valore delle sue liriche e delle sue fiabe lo scoprii molto presto, ancora prima del mio adorato Pinocchio, e quindi saremo all’incirca nei pressi della prima elementare. Su questo: io non ci ho mai creduto all’innocenza dell’infanzia, e credo che alcuni passaggi di Undicidieci possano rivelartelo assai chiaramente. Ricordo una bimba che in prima elementare mi chiese di accompagnarla nei bagni e mi mostrò la piccolissima fica, chiedendomi di toccargliela. Non lo feci, e questo credo sia sufficiente a spiegare molte cose. Non è che ci sia molto da aggiungere. possiamo giocare un po’ ora è la trascrizione di alcuni tra gli inossidabili e ancor più improponibili giochi e bisticci linguistici proposti da Alessandro Bergonzoni nel suo Le balene restino sedute, edizioni Mondatori 1989. Leggi il racconto Violino e Violenza e lasciati travolgere, e riavvolgere, e avere le traveggole. A pagina 21. Questo libro fu il primo che comprai per posta. Lo presi assieme a Le età di Lulù di Almudena Grandes. Comicità ed erotismo: a quattordici anni le mie idee erano già chiare sul che fare da grande. Bergonzoni mi risucchiò in un vortice di risate irresistibile, oramai trascorse e impresse solo nella mia memoria. Nel rileggerlo oggi non c’è più un solo rigo che mi diverta, ma credo sia meglio così. genealogia dell’incompletezza è un mix di cose, non ha un vero e proprio testo di riferimento. Diciamo che in esso si incastrano parti dell’elenco del telefono della Telecom con il Libro delle Cronache dalla Bibbia e una strizzatina d’occhio a La mostra delle atrocità di James G. Ballard. Anzi, a pensarci meglio forse c’è qualcosa di più che una semplice strizzata d’occhio alle fantasie ballardiane. Il tutto è per la Carla, che sempre mi incoraggia e mi vuole bene. 125 inverno è la cover di Primavera di Charles Simic. La trovi a pagina 103 del libro Hotel Insonnia, edizioni Adelphi. Il titolo della raccolta di Simic fu la vera origine del mio interesse verso di lui. Lo scovai su un numero di “Poesia” e rimasi affascinato dai suoi versi brevi, rapidi e sciolti come piccoli acquerelli. Non è il caso di rendere noto il perché dalla primavera si sia passati all’inverno, mi pare, no? Nota: inverno ha vinto la 13ma edizione del Premio Nazionale di Poesia “Ossi di Seppia”, nel dicembre 2007, con giuria presieduta da Giuseppe Conte, Plinio Perilli e Lamberto Garzia. un istante solo prima di ripartire viene da Condizione, testo di Giorgio Caproni tratto dal libro Il muro della terra. Lo puoi trovare oggi a pagina 303 della raccolta edita da Garzanti Poesie 1932 – 1986. Caproni invece sì. Di lui amo tutto, senza alcuna riserva, tanto che l’ambizione massima mia sarebbe quella di puntare la penna sul foglio e vedere trasformate le mie parole in schizzi d’inchiostro fini e popolari allo stesso tempo, come i suoi. Ambizione eccessiva, lo riconosco. E sicuramente non arriverò mai alle vette del poeta livornese. I geni arrivano raramente attraverso i secoli. Con questo non voglio creare false aspettative al mio ego narcisista, solo coccolarlo un po’... quello che non c’è arriva da Frammento dal freddo, una poesia dell’immenso Paul Auster che puoi trovare a pagina 207 di Affrontare la musica, la raccolta dei suoi versi tradotti in italiano per la prima volta presso le edizioni Einaudi. A Genova lessi per la prima volta Auster. Poi andai a vedere Smoke e da allora la relazione è sempre la stessa. Lo sconvolgimento dei sensi quando lo leggo non si è appannato, né accenna ad acquietarsi. L’unica cosa: pensavo che le sue poesie fossero più belle. Non si può chiedere tutto, però. Lo so, dannazione, lo so… sotto i portici d’Oneglia ovviamente viene dritta dritta dalla celeberrima La passeggiata di Aldo Palazzeschi, testo che vai a trovare in ogni antologia scolastica, suppongo, anche se io ti consiglio di leggerlo annotato nella Antologia della poesia italiana a cura Edoardo Sanguineti, nelle edizioni Einaudi. Cazzo cazzo cazzo quanto mi piace quella poesia lì e tutto quel “futurismo”. Altro che nipotini del Gruppo ’63, gente, qui siamo dalle parti della magia pura! molto meglio questo di altro è “La mia università”, sezione del poemetto Amo di Vladimir Majakovskij. Negli Oscar Mondadori è contenuta in A piena voce. Poesie e Poemi, a cura di Giovanna Spendel, alle pagine 187/188. Ne vale certamente la pena. Del poeta russo non mi importa più nulla ormai, ma a vent’anni mi incuriosivano di lui due cose: il fatto che fosse russo e quello che scrivesse in maniera così “figurativa”. Tutte e due le cose si sono perse nel tempo e la passione è svanita, non per questo mi rifiuto di omaggiarlo, ci mancherebbe altro. 126 quel tanto che mi basta poi stop è tratta dalla seconda poesia della sezione “La scuola di eloquenza” del poeta inglese Tony Harrison, contenuta a pagina 75 di V. e altre poesie. Tutto quel libro è una meraviglia, leggiti il poemetto V. e goditi come la poesia contemporanea possa ancora parlare agli uomini e alla terra in maniera tanto commovente. Non ho nient’altro da dire su questa cosa. una cosa dimenticata è la traduzione in italiano di una poesia del poeta dialettale piemontese Leo Prato. Non so se ci sono testi pubblicati di questo autore, ma la poesia e tutte le notizie che vorrai le puoi andare a cercare sul sito ufficiale del comune di Pamparato. Scrissi il pezzo perché mi beccai un raffreddore memorabile nell’agosto 2006 (questa è la poesia più vecchia, infatti) e non potei partecipare fisicamente all’evento in qualità di giurato. Così pensai di rendere un piccolo omaggio al paese e in particolare a quello splendido concorso di poesia. mia madre ha l’anima di pane è la riscrittura in versi di un articolo del novembre 1999 di Salman Rushdie, “Pane lievitato”, che oggi puoi assaporare nella raccolta di saggi Superate questa linea, a pagina 123. Edizioni Oscar Mondadori. Ce ne sarebbero di cose da dire su mia madre…ma non è questo il luogo né il tempo. A te basti sapere che l’autore si compiace quando mette in atto modalità auto distruttive, e quando quelle stesse modalità le riconosce negli altri ne resta affascinato. Ma al contrario di molti egli non possiede la virtù del coraggio di mettere in atto le proprie emozioni, di giocare le carte del suo piacere. Ne consegue ciò che ne consegue, informati presso un qualunque strizzacervelli. Ad ogni modo ciò che non è possibile qui tacere è la bontà del pane cotto al forno di mia madre. Mi è tornato in mente all’improvviso, come un gioco di associazioni junghiane, mentre leggevo l’articolo di Rushdie. Lasciando perdere per un attimo mia madre e questi aneddoti che ti regalo proprio perché siamo quasi alla fine del libro… Su Rushdie ho una cosa da raccontarti: anni fa comprai i Versi Satanici e iniziai a leggerli. Mi persi dopo un centinaio di pagine. Nel corso di un viaggio in treno verso Milano particolarmente recessivo, presi la penna, aprii sconfortato il libro e scrissi sulla pagina del copyright che non lo avevo proprio capito, così come la mia vita, e che non me la sentivo più di leggerlo, e che lo avrei abbandonato sul treno alla mercé di un qualsiasi passeggero curioso. Chissà chi se lo è preso… back home è tratta da Passerò per Piazza di Spagna, di Cesare Pavese. Fa parte della sezione “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, a pagina 80 delle Poesie del disamore, edizioni Einaudi. Il titolo l’ho ripreso da un disco particolare di Eric Clapton. E’ un disco soul, e quando uscì non piacque a nessuno tranne che a me e alla mia compagna. Da allora suonare quella musica è un ottimo pretesto per rilassarci e insieme godere del fatto che siamo tra i pochi ad amare quel tipo particolare di sound, come se Eric l’avesse composto apposta per noi. Sarà una banale coccola tra innamorati, e allora? Hai qualcosa in contrario a questo genere di cose? 127 la città invasa dal traffico arriva da una lettera di John Fante al figlio Nick del 9 agosto 1957. Fante allora si trovava a Napoli, dove stava lavorando alla sceneggiatura di un film per De Laurentiis tratto da uno dei suoi libri. La lettera in questione l’ho scovata in Tesoro, qui è tutto una follia. Lettere dall’Europa 1957 – 1960, pubblicata da Fazi. Leggere Fante e rivedere la mia famiglia (con l’eccezione dei miei genitori, sia chiaro, di cui non sparlerei mai!) è un tutt’uno. Stesse facce, stessi atteggiamenti odiosi, stesso menefreghismo, stessa superiorità. Stessi fallimenti insomma, ma senza il senso dell’ironia dello scrittore californiano. quattro amici viene dai Frantumi del mio concittadino Giovanni Boine. Il poeta, anch’egli di Imperia, Giovanni Giudice mi regalò anni fa la meravigliosa opera completa di Boine nelle edizioni Garzanti, a cura di Davide Puccini. Non ho mai letto per intero Boine, ma la scuola della mia città a lui è intitolata e poi il Peccato parla di un tizio che si innamora di una monaca di clausura, e la cosa ovviamente non mi è rimasta indifferente. Peccato per le poche scene di sesso, mi verrebbe da dire. Con un sorriso, caro Giovanni, con un sorriso. ogni cosa è l’unica poesia presente in Undicidieci ad essere tratta dal testo di una canzone, pur essendo la musica - in particolare rock e pop – dichiaratamente la fonte d’ispirazione principale di questo progetto, come ti ho scritto all’inizio del libro. E’ come quando si dice “l’eccezione che conferma la regola”. L’autore originale è Leonard Cohen, il brano I’m your man è tratto dall’omonimo disco della Columbia del 1984. Cohen, lo sai, è una voce, una presenza costante da quando avevo sedici anni. Lo ascoltai per la prima volta dopo aver comperato una compilation in edicola. Poi quando uscì Grace di Jeff Buckley con quella splendente versione di Hallelujah, ne approfondii ancora di più la conoscenza. Quel timbro così pieno di fuoco mi ha sempre lasciato immaginare le più sconce cose che potessi immaginare. Sai che molti critici hanno parlato del perfetto mix di spiritualismo e sensualità presente nella sua voce. Il tocco mistico mi ha pervaso, sì certo…ma quel timbro così caldo ha sempre fatto emergere, almeno dalle corde della mia anima, la parte più erotica. Che arriva a Entiazel. è che ho il mio odore da seguire è, come si può facilmente prevedere dal titolo, la cover di un brano di Altri Libertini, primo romanzo di Pier Vittorio Tondelli. Se prendi Opere dei classici Bompiani trovi tutto a pagina 137. Oltre naturalmente a ogni altro scritto di PVT. A parte Camere Separate e Altri Libertini non ho mai letto nulla per intero dell’autore di Correggio. Vado a smozzichi e bocconi, con lui. Ovviamente adoro il Weekend Postmoderno proprio perché è costruito così, e la leggerezza dei testi, incollata insieme dalla grana degli stili in esso contenuti, mi riempiono sempre il cuore di gioia. Enos Rota mi fece tenere una piccola conferenza su PVT, a Bordighera. Erano presenti solo nove persone, e una di esse era mia madre. Era la prima volta che mia madre assisteva a una mia 128 “performance” nel mondo della poesia. Non so quanto ne sia rimasta colpita, ma contenta direi di sì. Al ritorno in macchina mi stupì dicendomi che a lei piacevano i gay. Aveva visto Aldo Busi in tv la sera prima da Costanzo dire cose intelligenti. una breve ma intensa dissertazione fa il verso (è il caso di dirlo) a un testo contenuto a pagina 14 di Nodi, il volumetto di poesie che lo psichiatra inglese Ronald D. Laing pubblicò nel 1974 e che io posseggo nella quarta edizione Einaudi della collana “Nuovo Politecnico”. Ho voglia di raccontarti ancora qualche aneddoto, già che ci siamo. Credo di non averlo sufficientemente sottolineato nel libro ma è con la masturbazione solitaria e fantasticata che godo di più. Non per questo mi fa schifo scopare, tutt’altro. E’ solo che lì non hai da preoccuparti di nulla, l’ansia sbollisce, gli stimoli si riducono a una serie meccanica di relazioni tra la tua fantasia e la tua mano e basta, e capisci anche tu che questo semplifica notevolmente le cose. Tuttavia alcune volte ho goduto insieme a un’altra persona. Mi spiace essere così patetico, ma ogni volta che questa strana situazione mi è capitata è stata dettata dall’amore e basta. Ogni maledetta volta che mi innamoro godo quando vengo, altrimenti ciccia, nulla, nada, adios. Proprio niente. Se sono innamorato posso anche fare l’amore, non venire (magari perché ho mangiato un chilo di gnocchi venti minuti prima e sono leggermente appesantito) e godere lo stesso. Ma se non provo niente, se il mio battito cardiaco non si insinua tra le pieghe di quello della mia compagna, posso eiaculare ettolitri di seme senza nemmeno sentirlo uscire. Come il getto di una pompa che pesca acqua da uno stagno. climax viene da Notturno, una delle poesie giovanili di Thomas S. Eliot. Nelle edizioni Bompiani delle Poesie la migliore traduzione di Roberto Senesi la trovi a pagina 143. Si sa ormai qual è il più crudele dei mesi. Eliot mi ha accompagnato per tutta l’adolescenza e parte della mia vita da adulto. Non ho mai capito bene le sue liriche. Mi piacciono giusto alcuni frammenti e pochi passaggi. Ma quelli che mi piacciono mi piacciono veramente tanto. Mi ha sempre dato l’idea di essere un vecchio gentiluomo con una vita “difficile” alle spalle ma riluttante al racconto. E questa cosa ovviamente mi ha affascinato fin dalle prime letture. Leggere poesie e non capirle è stata la mia chiave di volta nella scoperta del verso. Spesso non capisco nemmeno quello che scrivo io ma a differenza di anni fa, questa volta inizio a preoccuparmi un po’. come ti penso stasera, Allen Ginsberg è la cover di Un supermarket in California, contenuta in Jukebox all’Idrogeno, ovviamente di Ginsberg. Io però ho letto per la prima volta questo testo in una vecchia edizione Rizzoli di Foglie d’erba di Walt Whitman a pagina 35 - 36, giacché il testo di Ginsberg era proprio un omaggio al grande vecchio americano. Per questo ho deciso di prendere due piccioni con una fava. Dato il respiro dei poeti in questione, oltre a Whitman ti consiglio di assaggiare anche Papà respiro addio. Poesie scelte 1947 – 1995 di Allen Ginsberg, nelle edizioni NET. Un gran bel modo di respirare. Nota: come ti 129 penso stasera, Allen Ginsberg ha vinto la 13ma edizione del Premio Nazionale di Poesia “Ossi di Seppia”, nel dicembre 2007, con giuria presieduta da Giuseppe Conte, Plinio Perilli e Lamberto Garzia. sto aspettando davanti a un drugstore è un cut-up. Nessuna parola o segno del testo è mio, ma tutto viene dal Pasto Nudo di William Burroughs. Io ne posseggo una copia del 1992, SugarCo edizioni, che trovai al “Libraccio” di Genova in Corso Italia secoli fa, quando ancora mi baloccavo come studente di lettere fancazzista. E’ una bella edizione, con in copertina un’inquietante immagine tratta dal film di Cronenberg. Ricordo che quando uscì in video corsi ad affittarlo, per tentare di decodificare le asperità del testo con l’aiuto delle immagini. Feci male i conti. che senso ha è la cover di una poesia di Michel Houellebecq contenuta alle pagine 85 – 87 de Il senso della lotta, raccolta di poesie edite sempre nella collana Bompiani “InVersi” a cura di Aldo Nove. Ecco un altro libro che mi ha stuprato: Piattaforma. Ogni singola parola sta dove ha necessità di stare, ogni colpo al cuore che prendo mentre lo leggo e rileggo fa sempre lo stesso effetto, come di una decompressione del plesso toracico. Sulla stessa falsariga ti consiglio anche Lanzarote. Ho soggiornato anch’io a Lanzarote e poco ricordo, come hai avuto già modo di leggere. Qui posso ancora dirti che a parte i cammelli e l’odore pungente dell’Oceano, poco altro mi ha colpito. Un pezzo di terra tetro, nero. Troppo caldo. Vale la pena parlarne perché quella fu la prima volta che presi l’aereo per andare a una convention in un’isola così “esotica” (considera che il posto più esotico in cui sono stato io fino ad allora è stato Lourdes). Mi immaginavo le convention aziendali come un’interessante prospettiva di commettere orge e scopate a tempo illimitato. Indovina un po’ una cosa? Non mi successe nulla di tutto questo. Me ne stavo rintanato tutto il tempo nella mia camera 5 stelle con vista sull’Oceano da solo a pensare al mio perduto amore. Che ignobile testa di cazzo! Una volta sola vinsi la mia inettitudine alla socialità e accettai un invito in discoteca da parte dei miei colleghi. Non ricordo nient’altro se non la visione fugace di una ragazzina inglese che ballava con in testa un fermacapelli a forma di cazzo. certe volte no è un brano di pagina 93 da Ingannevole è il cuore più di ogni cosa di J. T. Leroy, per le edizioni Fazi. Senti una cosa: a me personalmente importa poco se il ragazzo in questione esista veramente o meno. Se lo abbia scritto lui, la sorella o lo sa il diavolo chi. Se sia tutta una gigantesca truffa o un ottima strategia di marketing. Io penso che chiunque sia stato a farla, questa truffa, attraverso queste parole, è un maledetto genio. elegia sanremese ha dietro di sé un movimento contrario rispetto agli altri testi del libro, nel senso che deriva dall’omonimo volume di Tommaso Ottonieri, edito nella collana “InVersi” a cura di Aldo Nove, edizioni Bompiani del 1998. Quel libro è però scritto in versi, mentre il mio pezzo è la cover in prosa 130 dell’essenzialità di un po’ tutte le sue poesie. Ho conosciuto Tommaso Ottonieri la sera del 2 febbraio 2000 presso il Circolo Arci “Antica Compagnia Portuale” di Imperia. Era lì in compagnia dei poeti genovesi Paolo Gentiluomo e Donald Datti per delle letture dai suoi testi. Fu una serata molto divertente, ricordo che mi fermai con lui a chiacchierare per un po’, era attento e spiritoso come un poeta. ancora una cosa prima di chiudere Il rock e il pop hanno giocato un ruolo essenziale nel corso del processo creativo di Undicidieci. Tutti gli scritti originali in prosa, ad esempio, hanno dietro un’ispirazione musicale forte. Se ti va l’idea, ti propongo di leggere ogni capitolo del libro gustandoti i brani che ascoltavo io mentre battevo le dita sulla tastiera. Proprio sul tempo di queste canzoni: 1. Immersione: Angel dei Massive Attack 2. Tra la ragazza e l’acqua: Tiny Dancer di Elton John 3. Lanzarote: The Crystal Ship dei The Doors 4. La posizione del corpo: Bleeding me dei Metallica 5. La cosa: Three Wishes di Roger Waters 6. Sul tempo di una fotografia: Imitation of life dei REM 7. La camera degli equilibristi: Where the wild roses grow di Nick Cave 8. Jona e i granchi: We’re going to be friends dei The White Stripes 9. Appunti sul block notes giallo: Wharehouse Blues dei Motorhead 10.Scendo solo: Walking in my shoes dei Depeche Mode 11.Iniziazioni: 14 years dei Guns and Roses 12.La sirena: I’ll never get out of this world alive di Hank Williams 13.Funerale bianco: Down to the river to pray di Alison Krauss 14.Catalogo di fiche nella città di Imperia: The Nobodies di Marilyn Manson 15.Sempre sulla stessa strada: Ballad of a Thin Man di Bob Dylan 16.New Economy in poetry: una lettera: This Bird’s Gonna Fly dei Los Lobos 17.Scolpire le parole: Rivers of Babylon di Steve Earle 18.Scene da una storia d’amore e incapacità: Beautiful boy di John Lennon 19.Le cose che ama di lei: Take my hand di Ben Harper 20.L’arcobaleno prima del traffico: Mellow Yellow di Donovan 21.Bestie: Get the money di Iggy Pop & Goran Bregovic 22.Entiazel: The Great Gig in the Sky dei Pink Floyd 23.Breve commiato: Ordinary World dei Duran Duran 24.La bambina: Helter Skelter dei The Beatles 25.Da qualche parte al di là della stanchezza: Jailbird dei Primal Scream 26.Vincere è una gran bella cosa: Rome Wasn’t Built in a Day dei Morcheeba 27.Lettera a Ricardo: Hurt di Johnny Cash 28.Sì: Sexual Healing di Marvin Gaye 29.Ciò che è e ciò che dovrebbe essere: Father and son di Cat Stevens 30.Fogli: Hound Dog di Elvis Presley 131 ghost tracks (cose vecchie e nuove) “i miei capelli stanno diventando grigi e i miei amici sono tutti andati io soffro nel posto dove di solito canto e sono pazzo d’amore ma non riesco ad andare avanti spendo tutto il tempo che mi rimane qui nella torre della poesie. Ho chiesto ad Hank Williams quanto ci si possa sentire soli: Hank Williams non ha ancora risposto ma lo sento tossire tutta la notte, cento piani sopra di me nella torre della poesia” Leonard Cohen, Tower of song 132 breve nota introduttiva I primi cinque testi di questa sezione sono riletture di poesie apparse in una mia plaquette del 1997 dal titolo L’acqua per terra, edita dalle Edizioni della Rosa. Hanno compiuto dieci anni, e mi piaceva l’idea di riproporle oggi vestendole con un abito diverso, non so se migliore o peggiore di quello che già indossavano. Ma si tratta pur sempre di giocare, no? E di fare “cover”… E quindi eccole qua con indosso colori differenti, stoffe più adatte a questo speciale compleanno, un po’ cipria e rossetto in più, qualche goccia di profumo. Direi che è come se avessi deciso di farmi un regalo per il mio decennale dalla prima pubblicazione. Non è la cinquina migliore di quella plaquette, ma li ho scelti perché tutti i testi hanno una particolarità che li affratella: sono cinque ritratti di ragazze che allora rinfrescavano con la loro presenza (ma anche con la loro assenza) le mie giornate. Oggi non ho idea di dove siano, di che vita facciano, di come siano diventate. Non ne ricordo nemmeno con precisione i nomi (beh, della prostituta di cui parlo proprio davvero non so più nulla…); solo Cristina, che incrociavo spesso nei corridoi della mia scuola e con cui mi fermavo spesso a chiacchierare, mi sovviene in questo momento. E la dolce Rosanna, che trattai così male da vergognarmene ancora oggi. Anche di lei, non so più nulla. So solo che io sono molto diverso dalla persona che dieci anni fa abitava il mio corpo, e anche in questo caso non so dire con esattezza se il bilancio sia positivo o negativo. E non so dire, cara Rosanna, se questo possa servire a giustificare un po’ quel mio accanimento adolescenziale, senza molto garbo, nei tuoi confronti. Chissà che mi prese, accidenti. Eppure amavo tanto trascorrere i pomeriggi al telefono con te. Ha senso dedicarti oggi questi cinque cambi d’abito? Le successive lodi ad Allah, invece, sono nuove di zecca, maturate tutte nella primavera e nell’estate del 2007 e sono dedicate a mio padre, che ha sempre cercato di farmi uscire dalla mia stanza e dalla mia solitudine. Non ho molto altro da dirti, le poesie parlano da sole. Credo che dopo tanto guardarsi dentro abbia ragione mio padre: un’occhiata a quanto sta accadendo nel mondo può essere considerata una buona occasione per prendersi una boccata d’aria. 133 1. cinque cambi d’abito a Rosanna “Ch’io non ti vegga ancor qual’eri il giorno Che né vezzosi appartamenti accolta, Tutti odorati de’ novelli fiori Di primavera, del color vestita Della bruna viola, a me si offerse L’angelica tua forma, inchino il fianco Sovra nitide pelli, e circonfusa D’arcana voluttà;” Giacomo Leopardi, Aspasia 134 1. giorno d’estate : se ti tuffi fai bene a tuffarti a stufarti di tutti e per niente anche di me che ti ho toccata una volta soltanto e mi basta oggi l’estate s’innaffia su Oneglia sto come un granchio annoiato dal mare disfo e ricucio e abbandono nell’aria tutti gli amori che ho baciato ai muretti la sera mi copre distratto e si sveste si passa una mano sui fianchi poi smette: 135 2. l’incontro a una festa : dubitavi delle labbra in serata delle bocche dei capelli delle altre versavi sorsi di vino fusi al rossetto la tua lingua densa come uno sciroppo la cipria sbocciava dalle tue guance nell’incontro notturno che scordammo il tuo fiato era impregnato d’arancia un frammento della mezza stagione uno scacco uno trabocchetto al mio cuore: 136 3. corridoi : esca mia liscia ahi quanto lascio che tu mi scomponga a una lisca non ti chiedo di consolidarmi quanto piuttosto di scordarmi se non ti volti più alle logge di Santa Chiara per quanto sei rara non ti spremi né respiri non esprimi non imprimi né comprimi non mi succhi i cocci con la tua bocca da chioccia sotto la doccia mi lasci me che ti spero me che ti scoppio me che ti spoglio ahi quanto mi scontenti mio imperfetto sonetto mio relitto motivetto di cui non parlo mai giochetto di cui non canto mai mi pianti t’osservo m’incanti ancora come i serpenti e ti cerco ma non ti sporco e mi cedo e mi spreco me che non ti assaggio: 137 4. tu sai : tu sai che non ballo: ritocco quest’ultimo verso ti spiega qualcosa di me che non sai più ti esce uno strano sbadiglio di bocca che mi stronca ti affacci sugli occhi verso giochi di luce lontani: 138 5. ode a una puttana sull’Aurelia : daccapo: una sbronza di trecce e fermacapelli nodi alla gola e reggicalze, mini e pantacollant tacchi alti sul rintocco delle campane a mezzanotte ogni suono per metà saputo per metà assente penso sia doveroso raccapezzarsi un poco appena tra la bianco vestita slavata dell’est e l’autoctona filiforme come un’agreste ninfa, scesa sul litorale e così somigliante a una matrona romana di carta le dico: ho conquistato un frasario di passaggi tra andirivieni d’istanti, luci al crocevia ma tu eri sommersa dai veli come setacci che pativano sul tuo volto lontano nella sera: 139 2. lodi ad Allah A mio padre “Contro l’indifferenza della vita vedo inutile anch’essa la virtù e provo forte come non ho mai il senso della nostra solitudine. Io voglio confessarmi a tutti, padre, che ridi se mi vedi e tremi quando d’una qualche premura ti fo segno, di quanto fui codardo verso di te Benché il rimorso mi si alleggerisca, che più giusto sarebbe mi pesasse sul cuore, inconfessato…” Camillo Sbarbaro, poesia IV da “Pianissimo” 140 1. skyline : s’alza il canto dalla gola del muezzin gola rossa dalle guglie dei minareti d’Istanbul verso il porto di Genova verso la baia di San Francisco taglia il canto la notte che s’alza su Liverpool che attraversa la luce di Dehli e si posa al tramonto sulle chiese di Parigi e sui campi orati di Tangeri: 141 2. i vigneti di Allah : ahi Jamila, per una mescita di vino novello ingoierei te in una sorsata e la tua Persia tutta ma per dio fremeranno le labbra di Allah quando saranno unte d’uva e mosto, quando rivedrà i buddha ricostruiti in Afghanistan e tra i tuoi capelli i resti impigliati delle mie dita; ti aspetterò per assaggiare il sapore liquoroso della luna scivolare dai tuoi fianchi, e da quelli della piccola Aisha fino al fondo della mia gola rossa tra i vigneti di Allah: 142 3. canto di Maryam : la prima tazza di caffè caldo la mattina e il Washington Post posato ancora sul tavolino, la terrazza aperta sulla quinta sura del Corano e la pace dei tuoi seni disinnescati tra le lenzuola sotto di noi va l’autostrada per Teheran: osservo le insegne al neon del negozio di Ismaiel; poco lontano quattro ragazze fumano in una Paykan gialla, da sotto i veli spuntano i loro occhi scuri: 143 4. memoria di Sayed : il mullah Sayed ricordò Alessandro il Grande entrare in Persepoli le bambine stuprate nell’orgia del grande rogo e poi cotte e le fiamme e i soldati copulare con il cielo notturno stellato ancora ricordò nel settimo secolo il massacro degli Zoroastriani che mangiavano erba dalla terra e fumavano l’oppio sui tappeti guardando i seni delle bambine sollevarsi notte dopo notte e la stirpe mongola che annientò la dinastia dei Selgiuchidi e l’afgano che in sella a un gigantesco branco di elefanti rase al suolo Isfahan nel 1721; la sua voce era carica di vento: 144 5. quindici anni : Ardit viene da Tirana e ha capelli crespi e scuri e denti aguzzi, porta dieci centesimi e dal suo pacchetto stracciato di Marlboro tortura di sguardi una piccola bionda slovena che passa veloce: ricorda bene il corpo nudo del fratello inghiottito dall’Adriatico. Said lavora all’emporio, vende arance e verdure e i datteri neri. Ama la zuppa chiamata harira e il kebap speziato e gustoso: non sa più chi sia suo padre ma la madre tesse veli a Marrakesh e di hennè le mani e le braccia della sorellina appena sbocciata. Amish ha preso la sua sposa bambina sul letto in ferro battuto nella casa del padre, sotto gli occhi degli amici e delle vecchie. Ha frequentato i bordelli di Istanbul e guardato il Galatassaray in curva, pestando forte i piedi e innalzando lodi ad Allah. Ha smesso di piovere e stanno seduti sul muretto di piazza Mameli. Fumano l’erba indovinando le mani delle ragazze che passano: ora non hanno voglia di parlare né di camminare a piedi nudi. Soltanto la luce della mezzaluna li riflette dall’asfalto bagnato: 145 Emiliano Moncia Undicidieci – Ira Facit Versus Indice Generale titolo 146 pagina manuale d’uso……………………………………………..………. 4 Undici Ottobre………………………………..……………..…….7 1. immersione………………………………………..………………8 lampi e istanti……………………………………….………………11 2. tra la ragazza e l’acqua……………………….…………..……..12 tu dormi………………………………………….………………….14 3. lanzarote…………………………………………………………15 equinozio e solstizio……………………………….………………..18 4. la posizione del corpo…………………………………………...19 blues……………………………………………….………………..22 5. la cosa…………………………………………………………... 23 sulla sponda occidentale………………………………………….. 27 6. sul tempo di una fotografia………………….………….……... 28 le cose tutte che mi abitano……………………………………….. 30 7. la camera degli equilibristi………………………………………31 da questo luogo e oltre……………………………………………. 35 8. Jona e i granchi…………………………………………………. 36 perché dal treno non ti spaventino le gallerie…………………….. 40 9. appunti sul block notes giallo………………..………...…….…41 possiamo giocare un po’ ora……………………...………………. 44 10. scendo solo…………………………………...……………….. 45 genealogia dell’incompletezza………………………………….…. 47 11. iniziazioni…………………………………………………….…48 inverno………………………………………………………..…….51 12. la sirena…………………………………….….……………….52 un istante solo prima di ripartire………………………………..….57 13. funerale bianco…………………………………………………58 quello che non c’è…………………………………………………. 59 14. catalogo di fiche nella città di Imperia………..……………….60 sotto i portici di Oneglia……………………………………………62 15. sempre sulla stessa strada…………………….……………….63 molto meglio questo di altro……………………..………………...65 16. new economy in poetry: una lettera…………………………..66 quel tanto che mi basta poi stop…………………..……………….69 17. scolpire le parole…………………………….………………...70 - una cosa dimenticata………………………………….……….….72 18. scene da una storia d’amore e incapacità…………………….73 mia madre ha l’anima di pane……………………….…….……...77 19. le cose che ama di lei…………………………..……………...78 back home……………………………………………..…………..81 20. l’arcobaleno prima del traffico……………….………………82 la città invasa dal traffico…………………………..……………..85 21. bestie…………………………………………..………………86 quattro amici…………………………………..…………………..88 22. entiazel……………………………………..……………….…89 ogni cosa……………………………………..……………………91 23. breve commiato……………………….………………………92 è che ho il mio odore da seguire………….……………………....93 24. la bambina………………………….…………………………94 una breve ma intensa dissertazione…….………….……………...96 25. da qualche parte al di là della stanchezza……………………97 climax………………………………………….….………………103 26. vincere è una gran bella cosa………………………………...104 come ti penso stasera, Allen Ginsberg…………..………………..106 27. lettera a Ricardo……….……………………………………..107 sto aspettando di fronte a un drugstore…………………….…….110 28. sì…………………………………………….………………...111 che senso ha…………………………………….………..….……113 29. ciò che è e ciò che dovrebbe essere…………………….……..114 certe volte no…………………………………….…..……..……...116 30. fogli……………………………………………………………117 elegia sanremese……………………………………..…..………..119 crediti e fonti……………………………………..….….………123 ghost tracks (cose vecchie e nuove)………………….…………132 breve nota introduttiva………………………………...………….133 cinque cambi d’abito……………………………………………..134 1. giorno d’estate…………………………………………………..135 2. l’incontro a una festa……………………………………………136 3. corridoi……………………………………………….………….137 4. tu sai………………………………………………….………….138 5. ode a una puttana sull’Aurelia………………………………….139 lodi ad Allah…………………………………………….…………140 1. skyline………………………………………………….………...141 2. i vigneti di Allah…………………………………………………142 3. canto di Maryam………………………………………...………143 4. memoria di Sayed………………………………………...……...144 5. quindici anni………………………………………………..…...145 indice generale…………………………………………………..…146 147