Undicidieci - Ira facit versus - Amici della poesia

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Undicidieci - Ira facit versus - Amici della poesia
Emiliano Moncia
UNDICIDIECI
ira facit versus
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http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/
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questo libro è per Ricardo E.
Che proprio là, ovunque io nasca,
possa incontrare lo Ydam di questa vita,
potendo appena nato già parlare e capire,
possa io ricordare le precedenti nascite e non dimenticarle
possa io al solo udire, pensare, vedere,
comprendere le infinite conoscenze superiori, medie e inferiori.
Possa il paese in cui io nasco
essere benedetto, e tutti gli esseri dimorarvi felici (…)
Il Libro Tibetano dei Morti
La morte, sappilo, dura appena qualche secondo per i parenti e gli amici che assistono chi sta
morendo. Ma per quest’ultimo il viaggio dura vite intere, attraversate in tempo reale. In queste vite
egli potrà ritrovare ciò che ama sotto altre forme. Saprà riconoscerle. Morirà molte volte ancora e
salirà sempre, sino a quella Chiara Luce che alcuni chiamano Dio, e che è la sostanza vuota ed
eterna dell’universo.
Dugpa Rimpoce
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manuale d’uso
Questo non è un libro di poesie. E non è nemmeno un libro di racconti. Eppure se ne
hai voglia lui può trasformarsi in entrambe le cose: tecnicamente questo stratagemma
letterario viene definito prosimetro, che significa libro misto di poesie e prosa. Pare
abbia origini antichissime. Io però non le conosco e non ho ritenuto importante
calarmi in un’approfondita ricerca sull’argomento. Piuttosto mi interessava questo:
l’idea di lavorare su un prosimetro partendo dalla banale voglia di scriverti un
racconto in versi, ma senza i cliché propri del genere. Più precisamente, la cronaca di
una giornata della mia vita: l’11 ottobre 2006, anniversario del mio cristologico
trentatreesimo compleanno. Credo possa interessare anche te ciò che mi accadde quel
giorno. Tu ora puoi fare tre cose: puoi leggere solo le parti in prosa, puoi leggerti solo
le parti in versi, oppure (meglio ancora) puoi andare dietro al filo del libro intero,
accostandoti sia all’una che all’altro.
Sento però la necessità di spiegarti un paio di cose prima di lasciarti entrare nella
lettura. La prima riguarda la genesi di questo progetto: quel giorno lì s’era in un
meriggio pallido e assorto, dominato dai limoni piantati nel giardino davanti casa mia
da mio padre. All’improvviso, mentre meriggiavo – appunto - in testa mi guizzò una
vecchia frase di Eugenio Montale (se non ricordo male a proposito di una sua
recensione al Finnegan’s Wake di James Joyce) sulla correlazioni che intercorrono tra
prosa e versi in letteratura: ha scritto infatti l’Eusebio che “la prosa è il semenzaio
della poesia”. Significa che è all’interno della prosa che vanno coltivati e cercati tutti
quei semi che germoglieranno poi in versi. Chissà da quale sperduto meandro del mio
cervello quella frase scelse di arrivarmi proprio quella volta lì? Da una mia antica
lettura per un esame, sicuramente, quando ancora frequentavo l’Università di
Genova. Comunque per arrivare era arrivata, e mi piacque fin da subito ricordarla,
per via della miscela, del mixaggio tra i generi letterari intendo. Fino ad allora nel
piccolo mondo antico delle lettere che frequentavo l’incrocio tra i due generi era
inammissibile come una bestemmia in chiesa. Ricordo una volta che per mero spirito
provocatorio scrissi a una rivista letteraria on line (la maggior parte delle quali,
lasciatelo dire senza riserve, fa schifo), lamentandomi del fatto che molti narratori mi
restituissero i manoscritti poetici adducendo come scusa il fatto che loro non se ne
capivano molto di poesia, e viceversa. Una testa di cazzo più arguta degli altri mi
rispose: “perché non provi a mandare le poesie ai poeti e le prose ai narratori?”
Ma io dico: ma quando vai dal macellaio a fare la spesa compri solo la carne o trovi
anche salumi e formaggi? Perché a me risulta che persino tra i più sperduti macellai
della Valle Arroscia, o tra quelli imbelinati tra i carrugi dei borghi nel nostro
entroterra, o tra quelli di paese che hanno ancora il negozietto piccolo per servire
quasi esclusivamente le bigotte ottuagenarie… Ecco, in quei posti lì insieme alla
carne trovi anche i cerini, magari, o delle candele, o qualche prodotto per il bucato,
no? Vogliamo alzare un po’ il tiro? Ma nei supermercati non trovi di tutto? Dalle
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scatole di fagioli ai vasetti Plasmon? Mi pare evidente che solo in letteratura c’è chi si
occupa solo di sottofiletti e chi si specializza esclusivamente nei vitelloni.
Ma lasciamola perdere, per ora, questa inutile polemica, perché ho urgenza di dirti
ancora dell’altro riguardo al libro che hai tra le mani.
La seconda cosa che è bene che tu sappia ora è che questo progetto è stato partorito
dopo la lettura di Tarantula, libro semi sconosciuto – anche questo è un prosimetro scritto nel 1965 dal Bob Dylan (ma che ora puoi trovare ristampato bene in edizione
Feltrinelli) in cui il menestrello di Duluth seppe mescolare e riproporre, sotto una
fittissima trama di nonsense e ingorghi di parole, alterazioni di senso e giochi della
sintassi, la stessa materia di cui erano plasmate le sue canzoni d’allora, e gli stessi
temi: l’incomunicabilità tra i sessi, gli orrori della guerra, le metamorfosi della
società, il senso ineluttabile di sconfitta dell’uomo moderno di fronte al mondo e il
desiderio d’avventura. Tarantula è un collage a tema, insomma tante parole diverse
per raccontare la stessa storia; leggerlo ha fatto nascere in me il desiderio di fare la
stessa cosa, più o meno.
Di Dylan ho un’altra cosa da proporti, e dal momento che va a coincidere con la terza
cosa che avevo voglia tu sapessi prima di iniziare a leggermi lo faccio ora. Per le parti
in prosa di questo libro non hai problemi: è tutta farina del mio sacco. Per le parti in
versi, invece, mi sono basato su un altro stratagemma, questa volta prettamente
musicale: si tratta del concetto di “cover”. Sai cos’è una cover, vero? E’ la versione di
una canzone fatta da un altro artista. Michael Bublè che ricanta Moondance di Van
Morrison, ad esempio. I Green Day che interpretano Working Class Hero di John
Lennon, e via discorrendo. Ecco, per me la cover è anche qualcosina di più di una
semplice rivisitazione: in fondo io credo sia la “visione” che un artista possiede di un
pezzo non suo che va a toccare talune corde della sua sensibilità in un modo talmente
vibrante da costringerlo ad appropriarsene. Come sai esistono infinite migliaia di
cantanti e interpreti e registi (pensa solo a Psyco di Gus Van Sant…o a Ocean’s
Eleven di Steven Soderbergh, tanto per farti due esempi banali), che si permettono di
fornire al pubblico le loro varianti di opere altrui.
Non vedo perché questo non possa accadere anche in poesia. Ho la sensazione che
nello scrivere in versi si sia più timidi: la “cover” si preferisce chiamarla
“travestimento”, ci si nasconde un po’ troppo dietro stratagemmi troppo complicati, si
gioca spesso sulla parodia, sulla rievocazione, sul riadattamento ironico, ma quasi
mai sul senso di “impossessarsi di una poesia altrui al fine di farla propria”. Dylan in
questo genere di cose fu maestro, e lo è ancor oggi quando ripropone i suoi stessi
brani, magari quelli composti trenta o quaranta anni fa, riarrangiati, distorti, confusi a
volte, vestendoli d’altre melodie, persistendo nello stravolgerli suonandoli live nel
corso del suo Neverending Tour. E gli esempi sono innumerevoli, pur senza andare a
toccare le vette dilaniane: possiamo in questa sede ricordare anche Io canto l’ultimo
album di Laura Pausini, onesta interprete dotata di un’ottima vocalità che ha voluto
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rendere omaggio alle canzoni che amava cantare da piccolina sola davanti allo
specchio o in uno sperduto karaoke di provincia.
Una cosa che è bene tu tenga a mente è sapere che quando si fa una “cover” non
sempre la si ricalca perfettamente: a volte si prendono solo degli spunti, a volte si
mantiene il significato originale ma si stravolgono le parole, a volte addirittura si
ricopiano gli stessi schemi. Ma a volte no, può capitare di capovolgere i testi, di
allungarli, di trasformarli e di manipolarli. Ecco perché al termine del libro ho voluto
lasciarti una sezione che si intitola “Crediti e Fonti” così, se ne hai voglia, puoi
andare a divertirti per scoprire tutti gli altarini che sono andato a incensare.
Ci siamo: era questo che volevo tu sapessi: ho scelto di raccontarti quell’undici
ottobre della mia vita in prosa, cercando di farne emergere la poesia attraverso le
parole dei poeti che mi hanno toccato di più, che per me sono stati importanti, in
special modo nella prima giovinezza e nell’adolescenza. E’ anche il mio modo di
ringraziarli, di omaggiarli e di ricordarli. Gli autori che ho scelto di riscrivere non
rispondono ad alcun criterio preciso, spesso non hanno nulla in comune gli uni con
gli altri. Appartengono anche a epoche diverse. E pur se qualcuno ha vissuto nella
stessa epoca d’un altro, ha proposto stili e correnti di pensiero differenti, se non
addirittura opposti. Una sola cosa hanno in comune i miei poeti: la parola immersa
nella quotidianità. Niente massimi sistemi qui, niente scritti sul senso del vivere e del
morire, niente Salmi o invettive rivolte a Dei o a Santi. Qui troverai rubinetti che
perdono, carta igienica dimenticata al supermercato, polvere sul comodino e letti da
rifare.
Ora concludo davvero: immagina di avere sotto gli occhi il libro di un contadino (e io
sono figlio di contadini) che nel raccontarti i fatti suoi a volte cita qualche poeta, e
magari lo cita male (vuoi perché lo ha letto tanti anni fa, vuoi perché non si ricorda
esattamente le parole giuste, vuoi perché ha solo voglia di regalarti un suo rigo che ha
dato, una volta, un senso importante anche solo ad un istante della sua esistenza). Mi
pare pleonastico sottolinearti a questo punto che ogni episodio o fatto che qui si
racconta è vero, e che la verità spesso è impoetica, e si fa fatica a cantarla in versi.
A me è venuta voglia invece di cantarti proprio questi versi, affinché la poesia sia e
rimanga sempre un gesto quotidiano del vivere.
L’autore
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Emiliano Moncia
UNDICIDIECI
ira facit versus
A) La nostra letteratura possiede il diario di un modesto mercante del Toggenburg, vissuto nel
secolo scorso; a questo pover’uomo capitarono tra le mani, fra gli altri, anche le opere di
Shakespeare. Egli le lesse e gustò e commentò a modo suo, secondo il proprio giudizio. Anch’io
farò così, e desidero che le mie riflessioni siano considerate come l’espressione delle mie
impressioni personali.
Ermanno Grimm, Introduzione a Iliade
B) Così nel mio parlar voglio esser aspro
com’è ne li atti questa bella petra,
la quale ognora impetra
maggior durezza e più natura cruda (…)
Dante, Rime (46 CIII)
C) Sono del parere che ogni uomo è inerentemente poeta, come è matematico. Non è la scuola che
lo fa poeta, né che lo fa matematico. Depositate nella mente umana ci sono delle relazioni logiche
fondamentali, che, come ha dimostrato Bertrand Russell, sono alla base della matematica, dalla più
semplice alla più complessa. L’insegnamento della matematica sviluppa e organizza le intuizioni
preesistenti, non insegna propriamente nulla, nel senso in cui insegnano, per esempio, la storia e la
geografia. Il professore della Cantatrice calva di Ionesco cerca di insegnare alla sua allieva perché
1+1 fa 2 – ma ciò non porta a nulla di matematico, porta solo il professore a uccidere l’allieva.
Nello stesso modo non si insegna la poesia: la si può solo praticare, illustrare. Chi avrà mai
insegnato ai ragazzi che è proprio davanti al verso:
ma tutto questo Alice non lo sa
che ti deve cogliere il brivido poetico?
E quando il professore sarà riuscito ad ottenere i presupposti necessari per la lettura di Leopardi,
non gli sarà necessario nessun commento per il verso dell’Infinito, davanti al quale si può provare lo
stesso brivido poetico
e il naufragar m’è dolce in questo mare
Il poetico si trova in natura sempre mescolato a altri elementi.
Lorenzo Renzi, Come leggere la poesia
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1. immersione – h. 00:00
“do per scontato che abbiate tutti letto
e che conosciate freud, dostoevskij,
san michele, confucio, coco joe, einstein,
Melville, porgy shaker, john zulù, kafka
sartre, due di briscola e tolstoj. Ebbene, quindi,
il mio lavoro consiste, non fa che riprendere da dove
costoro si sono interrotti - niente di più”
Bob Dylan, Tarantula
: e invece don don don batterono i rintocchi delle campane dell’undici dieci zero sei,
e finalmente che sollievo… ci arrivò anche lui, grazie a Dio, nel bel mezzo della sua
vita ritrovandosi in una selva scura che la diritta via era smarrita; tutto sommato però
stava bene nella sua stanza quell’undici dieci lì, seduto alla scrivania e illuminato
dalla calda luce della lampada e dal chiarore dello schermo del computer acceso.
Filtrava attraverso la portafinestra spalancata una brezza scivolosa e tumida, che gli
faceva rilucere gli occhi attenti e vitrei. Una breve soffio alitava da dietro le sue
spalle, nella notte, e non aveva alcuna preoccupazione in corpo se non quella di
riannodare tutti i movimenti che aveva attraversato nella vita per arrivare a quel
giorno lì. Aveva voglia di scrivere versi. I vasi di gerani disposti in ordine accanto a
lui donavano una piacevole atmosfera d’allegrezza alla stanza, mentre il salice
piangente ombreggiava la luna dal giardino, ma a malapena. In lontananza i cani
avevano smesso di abbaiare, d’ottobre la canicola ligure ancora persisteva e
intorpidiva persino le loro fauci. Oltre, nel piccolo stagno, alla ricerca di un umido
refrigerio alcune papere boccheggiavano sonnecchiando. Davanti a sé la visuale piena
della vallata del Prino: il miglior modo di distrarsi quando invece sarebbe opportuno
rimanere concentrati sul verso, sulla parola scritta, sul racconto dei propri ricordi.
Stava bene nella sua stanza. La sua condizione di figlio assurdo e sghembo ritrovata
non lo infastidiva più a quell’ora: il distratto, il ragazzo strano che parla poco, il
piccolo sciocco discreto e sottile, bravo giovane formato dalla buona razza di
un’educazione forte. L’orgoglio di genitori e parenti e amici. Peccato solo per
l’Università. Tutti ce lo inchiodavano ancora, dopo anni, al suo fallimento
universitario. Chiodo scaccia chiodo, ma quattro chiodi fanno una croce. Quel
maledetto pezzo di carta a casa non l’aveva ancora portato, e il boato dei parenti
attorno a lui ingrassava giorno dopo giorno. Ma la cosa più oscura della vicenda è che
ciò che pensavano loro, in un modo o nell’altro a lui importava.
Don don don…Non volle pensare a quelle cose. Il suono delle campane. Concentrarsi
solo su se stesso. La sua pelle, cazzo. La guardò con attenzione. La sua pelle ormai
s’era seccata sotto una decina d’anni di recessione. Una diabolica recessione
squamosa, tale da farlo assomigliare giorno dopo giorno a un pesce. Si sentiva spesso
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così, un pesce chiuso in una bolla d’acqua stagna. Gli venne in mente la sequenza de
“Il Laureato” in cui il giovane Dustin Hoffmann viene obbligato dai parenti a vestirsi
con uno scafandro da palombaro al fine di essere buttato dal padre in piscina solo per
farli divertire. Il futuro è nella plastica. Ma se quello doveva essere il suo destino, se
quella notte la condizione che gli toccava era quella d’ essere un pesce chiuso in una
bolla d’acqua così perdio sarebbe stato. E dal fondo degli oceani ai chiarori del
mondo il pesce con la pelle secca avrebbe lasciato dare al massimo un’occhiata
veloce alle proprie branchie, avendo cura di nascondersi le altre pelli sotto i ferri della
paura e alla vergogna, abbracciato in un senso infinito di sfida con il mondo. Scarsi,
frustranti e comunque falliti sarebbero stati i tentativi di strapparsene qualche lembo
da solo, giusto per lasciare boccheggiare qualche istante le ossa, respirarsele un po’
anche lui, alla fine.
Comprese che più di quindici anni d’impegno nel trasformarsi in pesce, avendo cura
di mantenere come obiettivo lo scarto degli strumenti più ovvi d’osservazione, erano
serviti a qualcosa: finalmente aveva perduto la capacità di leggere qualsiasi segnale
arrivasse al suo corpo. Più di quindici anni impegnato nel diventare stupido. Ripensò,
dalla sua stanza, a tutte le ore spese nel mascherare il suo corpo, nel corrompere gli
amici con la sua simpatia, nel corazzarsi così tanto di lardo da assumere l’aspetto di
un odioso obeso, così da non avere paura né del dolore infetto dei vecchi urticanti
amori, né tanto meno da bruciature nuove e ustioni di femmine folli. Più di quindici
anni a braccetto con la recessione, compagna così sottile da non aver neppure avuto il
pudore di farsi generare da un qualsiasi canale esterno, bensì generata e non creata
dal caos, partorita figlia di una condizione speciale.
Ma nella sua stanza stava bene. Solo un paio di volte sentì pulsare il malessere sotto
la pelle più del solito, ma si avvolse nella nube tossica dell’inspiegabilità. Quando si
provano certe cose e non si ha sottomano nulla per schiacciarle, è sufficiente arretrare
dentro il fondo del doppiofondo del cervello, lasciarsi cullare dalle nenie di sirene
indistinte, quelle ornate da squame morbide e avvolgenti che a volte si incontrano nel
corso della vita. La sua pelle squamosa non gli apparteneva, di questo ne era
saldamente certo. Non era un pesce. Eppure in quanti modi, nel corso del tempo, era
riuscito nell’avventura di farsela sua, stratificandola anno dopo anno, mese dopo
mese, giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto, secondo dopo
secondo? L’idea di girare a vuoto dentro una bolla piena d’acqua iniziò a disturbarlo.
Era necessario fare qualcosa per spezzarla, far precipitare i cocci e l’acqua per terra e
imparare a respirare. Era giunto il momento di imparare.
Si mise alla scrivania per mettere un minimo d’ordine tra i files sparsi per la sua
mente, non importava come e quanto tempo ci avrebbe impiegato. Conosceva bene
soltanto una cosa. Da dove partire. Dall’impoetico.
Così iniziò stringendo in una mano un bicchiere d’acqua e nell’altra una scatola di
Tavor da 2, 5 mg, una boccetta di Minias, e una scatola di Xanax da 50 mg.
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D’improvviso un dubbio: era forse nella stessa situazione accaduta più di quindici
anni prima? Non ricordava più bene ma…no, no….allora voleva solo farsi fuori, ora
non più, ora questo argomento era chiuso, non gli importava più. Ora voleva nuotare
come un pesce, immergersi nudo nel Mississippi dei suoi ricordi, come il giovane Jeff
Buckley a cui non importava saperne riemergere.
Guardò il bicchiere e le compresse: non riuscì a far altro che respirare bene il suo
malessere tutto d’un fiato, lasciarsi infettare da un’ansia ogni momento più strisciante
e diffusa, rassegnarsi a legarsela ben bene ancora una volta sulle spalle come uno
zaino e alla fine tuffarsi nel fiume. Mentre scendeva in profondità in acqua, il peso
dello zaino si fece via via più insostenibile, tanto che un narratore esterno, non
coinvolto direttamente nella storia quanto il sottoscritto, avrebbe potuto definire
quell’immersione come una sorta di tracollo esistenziale.
Dalla scrivania si immerse, i gerani e la brezza un po’ lo sollevavano dal
boccheggiare ma ormai quasi non li notava più. Portava sulle spalle lo zaino con i
files ma più scendeva più le fibbie tiravano, così violentemente cercando di risalire
verso la superficie che il fondo della sua pelle iniziò a lacerarsi, con sempre maggiore
brutalità. A un certo punto un brandello si squarciò di netto, e la cappa di dolore che
gli stava schiacciando il plesso solare pareva disperdergli il fiato. La pelle prese a
staccarsi e a pendergli dal corpo come foglie avvizzite da un albero. Più
s’immergeva, però, più si accorgeva che nonostante il dolore riusciva a respirare. Con
un paio di movimenti goffi si liberò dello zaino e lo lasciò fluttuare nell’acqua. Più
s’immergeva più riusciva a tenere aperti gli occhi, a vedere la sua stanza da sotto il
pavimento, traslucido come una lastra di vetro, e poi il corridoio, il bagno piccolo, la
camera da letto dove proprio in quelle ore stava riposando la sua compagna. Più
nuotava verso di lei, più l’impoetico si rivelava a lampi, ma a lampi minori, e
lentamente il fiume andò ad allargarsi e sboccò al fondo degli Oceani:
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lampi e istanti
: l’impoetico si rivela a lampi,
si raggomitola sulle impercepite
nuove cose da cui siamo sommersi,
da sopra e da sotto il mondo:
possa il verso mio divenire pop,
acuto alla prosa, al gesto utile,
al lavoro sul layout di stampa,
possa il mio canto contenersi in un floppy;
oggi i frammenti vengono serviti
in istanti e devi stare attento tu,
se puoi, come tanti e non come tutti,
a durare poco più oltre quel vento:
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2. tra la ragazza e l’acqua – h.00:30
“sì è vero, ero venuta qua per ucciderla. Ma proprio cinque minuti fa ho scoperto di essere incinta,
e ora ho paura. Mi è venuta una paura fottuta per me e per il mio bambino”
Uma Thurman in Kill Bill, di Quentin Tarantino
: nuotò sotto la sua scrivania, sotto l’impoetico rilevato a lampi, ed entrò nella camera
da letto. Riposava la sua compagna. Questa è un’altra stanza, pensò, con un’altra
storia. Al centro, però, un grande specchio poteva rifletterli entrambi. Dalla
portafinestra socchiusa la luna schiariva a tratti la nottata, come una nuvola che
passando lascia soltanto il desiderio della pioggia e nient’altro. La prima cosa che
notò durante l’emersione fu il sonno poetico della sua compagna. La notte era
arrivata, illuminata dal gracidare delle rane, con i cani stranamente silenti, forse
abbracciati ognuno al proprio osso da sgranocchiare, quieti. Il sonno della sua
compagna era pieno di sogni: lui aveva la possibilità di entrarci dentro, ma non di
modificarli né di parteciparvi. Fece un balzo dall’acqua e si tuffò dentro il sogno di
Emanuela. Si ritrovò al centro di una città senza nome, una città di vetro, sopra
l’ultimo grattacielo rimasto in piedi dopo le bombe. La sua compagna era stesa su un
materasso, sognando un sogno ninja. Poi all’improvviso si desta, in questo sogno, e si
scopre indosso la tuta gialla di Uma Thurman in Kill Bill, la katana Hattori Hanzo
custodita nella sua fodera nera. E’ subito in piedi, gli occhi guizzano a destra e poi a
sinistra, un silenzio premonitore di sventura e pericolo circola nell’aria. Come ci
fosse una colonna sonora spaghetti western a celebrare il momento dell’attesa. Anche
lui riesce a percepire questa musica che non c’è. Poi dal nulla spuntano sette samurai
incappucciati e dodici mafiosi in giacca e cravatta. Lei senza pensarci un attimo
fugge, e con un balzo si getta dal grattacielo, ma precipitando ha il tempo di osservare
le finestre, simili a quelle di un ospedale ma stranamente tonde, come quelle degli
hobbit. Un gesto soprappensiero ed è aggrappata al cornicione. Pochi metri di fatica
poi si lascia scivolare cadendo in piedi sulla scala esterna dell’edificio. Inizia a
piovere, è dentro la migliore inquadratura di Seven, quella in cui John Doe arriva a
sfiorare il naso di Brad Pitt con la pistola mentre la tensione accelera e i muscoli dello
spettatore si contraggono fino al momento in cui lo lascia andare. Ma con lei non c’è
John Doe.
Piroetta giù dalla rampa e si ritrova immersa nella fanghiglia, impantanata in una
sorta di laghetto stagnante, immobile, con le onde piatte e addormentate. Un attimo di
pace, poi sente il respiro e i rantoli e i grugniti dei samurai e dei mafiosi sopra di lei.
Si volta, li vede arrivare, si getta in acqua e si finge morta, colpita alla schiena da un
proiettile assassino. Ma i cattivi non desistono, non credono sia così semplice
sbarazzarsi di lei, alcuni di loro iniziano a scendere la scarpata che porta al mare. I
loro passi sono svelti e agili, come di piccoli ragni abituati alle insenature delle rocce.
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Quando ormai sono a pochi passi la ragazza inizia ad annusarne il fetore, e
rapidamente si rialza e si pone in posizione da battaglia. Ora stanno tutti immobili,
pronti a combattere. Un samurai ride, lei si blocca e si guarda la mano destra: stringe
solo un cacciavite e ai suoi piedi sta un tubo che ricordava appena di aver intravisto
sul tetto. Queste le sue sole armi. Un passo avanti dei samurai. Un passo indietro
della ragazza. Uno dei mafiosi sussurra qualcosa a un ragazzo più piccolo, che per un
attimo la guarda. Alza la pistola e spara senza prendere la mira. La ragazza cade, un
fiotto di sangue spruzza via dalla nuca.
La ragazza riapre gli occhi, in questo sogno, ed è in via Mazzini. E’ pulita, lavata,
indossa un abito estivo asciutto e leggero e porta i capelli annodati da una fascetta
multicolore, più corti. Suo padre Cosimo la chiama, le dice di far presto, devono
partire per le vacanze in Calabria: suo padre indossa una camicetta a maniche corte a
quadri, bermuda e un paio di sandali grigi comodi. Sua sorella Maria è già in
macchina che armeggia con il cellulare, vuole scattare alcune foto di prova prima di
partire. Sua madre sta aiutando il fratello a sistemarsi, gli passa delle salviette perché
sta sudando molto, poi anche lei si accomoda in auto. Cosimo la chiama ancora una
volta. Lei chiede dove sono i nipotini e Angela, lui le risponde che andranno con
un’altra macchina perché non ci stanno tutti in una. Stanno aspettando all’incrocio di
Via Nizza. La ragazza immagina pane caldo e carezze del peperoncino. Bisogna
sbrigarsi, dice il padre, c’è la festa del patrono e non possiamo mancare.
Lui abbandonò il sogno e la stanza, rientrando in acqua e nuotando fino allo studio.
Riemergendo andò a sedersi sulla poltrona attendendo la mattina.
La sua compagna si svegliò, con un certo stupore non lo trovò nel letto ma sapeva già
dove andarlo a cercare. Si infilò un paio di mutandine verdi e si diresse nello studio.
Lo trovò addormentato con la testa reclinata sulla poltrona. Con un lento movimento
del bacino gli si avvicinò: voleva pregustarsi un nuovo sonno e un nuovo sogno, così
porse la bocca all’orecchio del suo uomo iniziando a miagolare:
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tu dormi
a Emanuela
: non so chi t’abbia detto che basta miagolarmi all’orecchio
per farmi smettere di russare: e tu sai del mio respiro pesante
so che aveva ragione, tu miagoli soddisfatta e io ti sorrido;
rifletto il respiro nel tuo, sincronizzo al tuo il mio battito
così posso ascoltarti finalmente addormentare
poi nel muovere le dita inavvertitamente ti sfioro e tu ridi
ridi senza svegliarti, così ti stringi al cuscino il tuo viso
approvi la vita anche nel sonno
proprio come ieri, quando mi hai detto
lasciami dormire, che voglio finire di sognarti:
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3. lanzarote – h.07:30
“pesci gialli e blu mi nuotavano intorno. Ero in piedi sott’acqua, fluttuante sotto la superficie
illuminata dal sole”.
Michel Houellebecq, Piattaforma
: lui le sussurrò dal fondo degli oceani: “lasciami dormire ancora un poco, ti prego,
ho bisogno di finire questo sogno” ma le ultime parole le biascicò, lei non capì molto
bene, gli chiese di ripeterle dalla punta sottile della lingua arrochita dal fumo delle
sigarette fumate la sera prima alla preoccupante alitosi che sapeva di psicofarmaci.
“Ti stavo sognando, amore, stavo facendo un sogno erotico su di te” le disse “Ah sì?
Raccontamelo allora”. Faticosamente egli riaprì gli occhi e la osservò ruotargli
attorno, ma era troppo veloce e incuriosita. Indossava un top di cotone verde che le
poneva in risalto i seni e un paio di mutandine verdi bassissime in vita, che le
lasciavano scoprire un ciuffo di peli proprio all’altezza del basso addome. Lui la
esaminò, non riusciva a sentire l’erezione nonostante quell’immagine gli piacesse e
gli erotizzasse ancora parecchie voglie sopite. Lei lo svegliò definitivamente con un
bacio sulle labbra e poi con un succhiotto all’orecchio che gli procurò un piccolo
brivido giù per il midollo spinale. Si rese conto di essersi addormentato, come spesso
accadeva in quel periodo, nella poltrona dello studio. Non aveva avuto neanche la
forza di spogliarsi e infilarsi a letto dopo il ritorno in piena notte da Lanzarote. Poi lei
improvvisamente scomparve dal suo campo visivo, lui si riassestò e accese il
computer per controllare la posta e aprire alcuni files sui quali stava lavorando. Il
tempo di rileggere quanto scritto e lei riapparve con una tazza di caffè fumante.
L’appoggiò sopra la scrivania. “Vado a finire di prepararmi” gli disse. Lui attese
pazientemente che la porta del bagno si chiudesse e che iniziasse a scrosciare l’acqua
per la doccia. Poi di scatto balzò in piedi, si infilò nel bagno piccolo e sganciò due
compresse di Tavor da 2, 5 mg per scioglierle nel caffè. Prese altre due compresse di
Xanax da 50 mg e 30 gtt di Minias. Con un gesto rapidissimo anche loro finirono a
ribollire nel caffè. Come le pozioni delle streghe, pensò, come i loro sortilegi. Io sono
Macbeth. Sorrise.
Dopo il cocktail si ritenne pronto per affrontare il ricordo della sua esperienza appena
trascorsa a Lanzarote, l’isoletta vulcanica delle Canarie in cui Stanley Kubrick filmò
le sequenze iniziali del suo 2001 Odissea nello Spazio. Lui a Lanzarote c’era andato
perché in agosto, insieme al gruppo dirigente dell’azienda e al Consiglio
d’Amministrazione, avevano deciso di far partecipare tutti i dipendenti alla
convention annuale dell’azienda in un posto esotico. Aveva chiesto un giorno di
riposo per il suo compleanno, dopo. Lei lo accompagnò e fu davvero cortese
nell’aiutarlo con le valige e pronta nello svolgere le piccole formalità legate alle
presentazioni verso persone assolutamente sconosciute. Poco prima dell’imbarco lei
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se ne andò schioccandogli un bacio sulle labbra estremamente rumoroso e caldo, lui
ricevette alcuni complimenti sulla gentilezza non comune della sua donna e su quanto
lui potesse ritenersi un uomo fortunato. Stava naturalmente partendo per il viaggio
con in corpo una tale quantità di psicofarmaci da poter stendere un cavallo e a stentò
ricordò i particolari di quelle situazioni.
Appena salito sull’aereo iniziò a non sentire più nulla, a parte lo sprofondamento in
acqua. Le benzodiazepine erano quasi al top: barcollò fino al suo posto a sedere, si
fece aiutare dalla hostess per allacciare la cintura solo per sentire le sue tette
comprimersi un po’ sul suo petto, e le mani lisciare il principio morto di un’erezione
che palpitava fra le gambe. L’aereo decollò e lui non provò nulla, stava ormai
retrocedendo allo stadio del pesce: più l’aereo andava verso l’alto, più lui si scopriva
a immergersi vero il basso, divertendosi come un matto nel vedersi ricoperto di
squame e pinne, le quali gli agevolarono la liberazione dalle cinture e gli
consentirono di fluttuare il quel nuovo mare pieno di stupefacenti altri esseri come
lui: la bionda collega Sigfrida, ad esempio, che veniva direttamente dalla Svezia ed
era stata spedita a lavorare lì come “osservatrice”, perché la casa madre svedese non
si fidava dell’organizzazione interna di una sua qualsiasi filiale italiana. Le voci di
corridoio dicevano che Sigfrida amava molto entrare nel gotha di coloro che contano
nella vita professionale (entrare sessualmente, ovvio), e uno che fosse stato del ramo
giusto non ci avrebbe messo ne uno né due ad aprirle il culo a secco, senza neppure
usare unguenti. La selezione del personale che operava Sigfrida escludeva, va da sé,
il primo mezza sega che passava di lì. Con lui, comunque, niente. Sigfrida non lo
riconosceva che come dipendente anziano, nulla di più. Lei il culo se lo faceva
rompere solo dai quadri in su quindi lui, manco a dirlo, era spacciato: non ne avrebbe
mai assaggiato il roseo miele. E con lui decine di altri onesti lavoratori friggevano
nella stessa posizione. Seduto accanto a lei l’altro svedese, il vecchio Bjiorn (ecco
uno che avrebbe potuto infilarglielo con spavalderia…). Non le toglieva gli occhi
dalla scollatura appassionante neanche per un istante. Lui invece, immerso nelle
acque come un pesce, ignaro di tutti e ignorato da tutti, in quella scollatura ci si era
già immerso e stava scivolando, con sorrisi pieni, attraverso l’intimo della biondina,
apprestandosi ad aggirare il filo spinato delle cerniere che le mortificavano la schiena
per affondare sotto le mutandine. Piacere incommensurabile il fluttuare tra i peli della
sua fica come fossero alghe, sentire la caverna di carne rosea come una profumata
casa in cui potersi stabilire per un po’. Uscì bagnato fradicio da Sigfrida, la quale
aveva stampata in faccia un’espressione strana di sottile disagio: aveva la sensazione
che qualcosa avesse violato il suo corpo in modo strano e inspiegabile, certo, anche
se non propriamente disdicevole.
Il vero obiettivo, per lui come pesce, non era però quello di esplorare la svedese
(quello era uno sfizio, un atto di sfida più che altro nei confronti dei suoi colleghi)
bensì quello di nuotare zigzagando tra i colleghi meno fortunati stipati nella business
class solo per arrivare a Sandra Lipari, la capo reparto dei tele account, cioè di quei
poveri cristi che si occupavano di vender al telefono i prodotti dell’azienda. Ma lì
avvenne il disastro, che trasformò la vittoria in un’ulteriore frustrazione, proprio a un
passo dal traguardo: non fece in tempo a intrufolarsi nelle sue mutandine che la voce
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del comandante gli urlò in faccia da un altoparlante di tornare al suo posto (uomo o
pesce che fosse), allacciarsi la cintura di sicurezza ed essere pronto all’atterraggio.
Tornò con una flessione del busto, in un baleno, in superficie: poi lanciò uno sguardo
distratto al suo compagno di posto, l’onesto Pietro Pireo, che beatamente dormiva.
Tutti erano pronti per l’atterraggio, il capitano informò che sarebbe stato meno
morbido del previsto. Temporali in vista, altra acqua sulla sua storia, pensò.
Dagli oblò spuntava questa terra nera, desertica, senza nessuna costruzione nel raggio
di chilometri, il vulcano che spento ruggiva all’orizzonte. Più l’aereo si abbassava più
nitidamente riusciva a scorgere lo sconsolato paesaggio bruno. Il cielo era nuvoloso,
a Lanzarote però non pioveva quasi mai e l’acqua era un bene indispensabile.
Scese dall’aereo e venne inghiottito da un’afa tumida. Alcuni pullman di linea
ringhiavano dal fondo della strada. Uno di quelli avrebbe dovuto trasbordarli in
albergo, dove era riuscito ad ottenere una stanza singola. Si prefigurava scopate e
orge quotidiane mentre era placidamente seduto sul bus. Arrivarono presto in albergo,
scese e notò che due corvi si erano posati sul terriccio rosso bruno a pochi metri da
lui. In questo posto giungevano un tempo mercanti a scambiarsi racconti, era un
punto d’approdo per navi e marinai, pieno di bordelli e di rum. Esattamente quello
che era venuto a cercare con tanto ardore:
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equinozio e solstizio
: qui giungono i mercanti da sette nazioni ad ogni equinozio e solstizio
e tra i banconi carichi di zenzero e bambagia scorgi sacchi e teli
colmi di pistacchi e semi di papavero, e il carrettiere che rapido ha
appena scaricato sacchi di noce moscata e di zibibbo già affastella
i suoi basti con rotoli di mussola dorata, asciugandosi il sudore
ma non solo a vendere o a comprare giungono fin qui i mercanti
loro sanno che la notte accanto ai fuochi tutt’attorno al mercato
possono sedersi sui sacchi o sdraiarsi sui mucchi ti tappeti
perché a ogni parola che uno dice, come – “lupo”, “sorella”,
“battaglia” o “amante” – gli altri racconteranno la loro storia
ognuno la sua storia di lupi, di sorelle, di battaglie e di amanti
e tu sai che nel lungo viaggio che li attende dovranno restare
svegli al dondolio del cammello o della giunca e si ritroveranno
i loro ricordi carichi di nuovi lupi, sorelle, battaglie, amanti
questo è il luogo dove ci si scambia la sottile memoria nostra:
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4. la posizione del corpo – h.07:45
“se ti presti a mettere in scena con le parole scritte i desideri e memorabilia degni solo dell’oblio
dell’umanità che ti compra, è perché la tua vera vocazione è quella del venduto, non quella di
Scrivere. Sarebbe stata la stessa cosa se avessi venduto fave congelate”
Aldo Busi, Nudo di madre
: e invece lui, dal fondo degli Oceani nella sua stanza, non riusciva scambiare la
memoria nemmeno con sé stesso. Sempre nuotando, accorse che ormai quel ricordo
stava diventando un posto freddo e buio: Lanzarote. Ciò che ancora aveva la forza
d’immaginare è che dentro quella strana bolla d’acqua qualcuno o qualcosa ce lo
avesse spinto, visto che non ricordava di esserci arrivato da solo. Aveva un buco nero
nella memoria riguardo a quell’esperienza, che era iniziata nel momento stesso in cui
aveva posato le valige all’interno della sua camera ed era terminata l’attimo stesso
che aveva ingoiato quasi contemporaneamente cinque o sei compresse di Tavor da
2,5 mg.
Sono molte le cose che uno non riesce a mettere a fuoco quando si fa un blister intero
di calmanti, d’accordo, ma proprio non riusciva a tornare là con la mente, se non
attraverso qualche sperduto flash che arrivava con frequenza abbastanza regolare al
cervello. A Lanzarote nuotava tutto il giorno sott’acqua: questo era un esempio dei
flash che gli arrivavano. Non si può nuotare così a lungo sott’acqua senza risalire a
prendere fiato. Tutto frutto della sua immaginazione? Può darsi. Magari si stava
facendo solo un bagno in camera e gli ansiolitici avevano iniziato a distorcere la
percezione del tempo. Possibile. Si ricordava la posizione del corpo, quando stava
seduto nella hall dell’albergo davanti al suo piatto zeppo di cibo, si ricordava i dolori
intramuscolari che lo avevano colto al risveglio da un sonnellino pomeridiano sulla
poltrona della terrazza nella sua stanza. Si ricordava che qualcuno gli disse che aveva
un’aria strana e se si sentiva bene dopo che lui aveva preso i medicinali. Forse si era
sentito male in pubblico? Aveva fatto figure di merda davanti al suo capo? Le
ragazze se n’erano accorte? Qualcuno aveva avvertito i suoi genitori? Era stato mica
trasportato in ospedale? Improbabile, quest’ultima ipotesi: nonostante fosse fatto
come un cucco dal mattino a sera avvertiva sulla pelle un qualcosa di macabro ma
non il dolore lancinante di una lavanda gastrica. E allora perché si ricordava così bene
del nuoto subacqueo? E’ stato a Lanzarote che ha iniziato a sentirsi trasformare in un
pesce o è accaduto prima? Era riuscito a nuotare nell’Oceano? Se per qualche attimo
si concentrava riusciva a percepire una specie di piccolo dolore ovattato che gli
dondolava nella testa e un tremore morbido che gli circolava nelle vene, come se al
posto del sangue stesse scorrendo un anestetico.
La sua compagna era ancora sotto la doccia. Lui sempre immobile sulla poltrona,
impedendosi di compiere anche il più semplice dei movimenti. Non provava
sensazioni precise. Gli sembrava di andare alla deriva pur restando fermo, spinto da
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chissà quali correnti, senza avere la possibilità di capire o di dare una direzione
precisa e stabile alla rotta. Un pesce morto. Dentro una bolla d’acqua. Sorrise.
Non ricordava di essersi mai sentito in quelle condizioni, mai. Mai, neanche quando
ebbe la rosolia a dodici anni e il medico di famiglia sbagliò sia la diagnosi sia la
terapia, e lui ebbe le complicazioni di una febbre talmente angosciosa da costringere i
suoi a farlo ricoverare. Quell'odore freddo e umido di una stanza d'ospedale gli
riempiva ancora oggi le narici. Anche allora c'era l'ovatta a tamponargli il cervello,
ma aveva il sollievo di sentire sua madre accanto a lui. Ricordava che il delirio non
gli permetteva di tenere aperti gli occhi, eppure la presenza di suo padre e di sua
madre la sentiva. Quel ricovero lo costrinse a letto per un'estate intera, e quando il
calvario terminò si sentì spossato e apatico, come dopo una faticosa camminata in
montagna. Ma aveva comunque sua madre con lui e il ritorno alla normalità avvenne
tra infinite coccole, circondato da tazze di brodo caldo e pasticcini.
Oggi invece il senso di solitudine che provava era totale, non sentiva nessuno con lui.
Era questo a terrorizzarlo. Molte cose erano cambiate da quella febbre infantile. Non
aveva più dodici anni, innanzitutto. Pensò che sarebbe stato bello riavere con sé la
madre. Il ricordo di lei non era sporco. Pensò che gli sarebbe piaciuto avere accanto
anche Serena, la sorellina morta prima di nascere di cui, purtroppo, non ricordava
nulla.
Ore 7:45 dell’ 11 ottobre 2006, lampeggiava l’orologio al muro. Era stato via da casa
quattro giorni. Ciò che aveva in mente fare, si ripetè, era tentare di sciogliere i suoi
ricordi per dare loro una consistenza precisa. Sbrogliare la matassa che raggrumava
nella memoria e darle una forma lineare, trasformarla in una storia. Doveva unire i
puntini con una matita e scoprire l'immagine che ne sarebbe venuta fuori, come se la
sua vita fosse una di quelle stupide rubriche sulla Settimana Enigmistica. Sforzarsi
innanzitutto di trovare il punto di partenza, l'origine.
Niente accade per caso. Niente, pensò. Mettere in ordine le scatole dei suoi ricordi,
quelle piene di facce di persone incontrate per caso, di amici, di vecchi amici mai più
rivisti, di piccole compagne di scuola che gli mostravano la fica arrossita e senza un
pelo, le giovani compagne di banco con un filo di seno in più che glielo facevano
drizzare, i compagni con cui faceva a gara per vedere chi ce l’aveva più lungo, chi
schizzava più lontano, chi riusciva a chiavare per primo e di più (e in questo Riccardo
era sempre stato il maestro irraggiungibile). Ma anche i libri letti, quelli comprati solo
perché bisognava leggerli e che ovviamente non sono mai stati neanche aperti, i
vecchi vinili hard rock, il passaggio ai cantautori, la “grunge music” e il genio
compianto Kurt Cobain, le nottate a parlare con Roberto su un assolo particolare di
Mark Knopfler, i romanzi culto, L’Ulisse di Joyce, Sulla Strada di Kerouac, le serate
negate agli amici perché su Canale 5 il sabato notte davano in rassegna tutte le Storie
del signor G. Chissà quante scopate si era perso andando dietro a queste cose…
Ora la sua posizione del corpo non gli permetteva di vedere dov’era. Nuotava dentro
la sua stanza e sentiva solo un l’odore dell’acqua e della muffa. Si alzò camminando
rasente i muri come Federigo Tozzi, avvertiva godendosela la superficie liscia, fredda
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e dura delle pareti grattargli lievemente la schiena. Stava ancora nuotando e quindi
aveva la sensazione di non riuscire a muovere un solo muscolo del corpo. Non
avvertiva nessun dolore preciso. Non sentiva più il corpo nella sua interezza. Non
sapeva se era sveglio, se stesse dormendo o sognando. Non riusciva a decifrare il
tempo: avrebbe potuto essere lì da mesi, da anni, o solo da qualche minuto. Forse
aveva aperto gli occhi da pochi istanti, forse li teneva ancora chiusi. Non aveva sete e
non aveva fame. Non poteva fare nulla a parte nuotare e ricordare.
Il calore dei ricordi gli mordeva la pancia. Conati di vomito. Sudori freddi. Febbre.
Diarrea. Andò nel bagno piccolo e vomitò. Era tornato da Lanzarote, sì. Fin qui ci
siamo, pensò. Ma i ricordi arrivavano, galoppavano, erano troppi, cavalli imbizzarriti,
aveva dentro la testa talmente tanti ricordi più che se avesse avuto cent’anni:
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blues
: ho dentro più ricordi che se avessi cent’anni:
una vecchia credenza ingombra di carte e versi,
lettere non spedite, bilanci e scontrini
e parole d’amore scritte a macchina
una nera ciocca della treccia di mia madre diciottenne
che non assorbe più i segreti che assorbiva
il mio vecchio cervello è una cripta, una piramide
immensa, seppelliti più morti che in una fossa comune
ci passeggio come in un cimitero sotto la luna
e dove lunghissimi vermi strisciano, come rimorsi,
all’assalto delle morte cose che più ho care
un salotto arrugginito, gremito e intasato
di camicie fuori moda, rose appassite,
vecchie custodie di vinili hard rock, pastelli
che profumano, soli, come aperte boccette di fiele
niente eguaglia in lunghezza queste giornate
stese sotto i fiocchi di neve come nell’ottantacinque
nemmeno la noia, la triste assenza di curiosità
che mi muore dentro svenendo fra le palpebre
prende i segni d’una colma misura d’immortalità
anche io ormai non sono altro che una cosa della vita
come un granito assediato da un piccolo terrore
che sta immerso nella bruma del Sahara notturno
una vecchia sfinge dimenticata dal mondo indifferente
che le mappe ignorano o nascondono, e che soltanto
ai raggi del tramonto, fra le dune, ferocemente canta:
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5. la cosa – h.08:15
“la faccia di papà era bianca come un cencio, ma non saprei dire se fosse spaventato per me o
semplicemente per la violenza del momento.”
Sam Shepard, Il grande sogno
: tirò la catena e il vomitò andò giù. La cosa salì invece verso di lui e scivolò
direttamente dal fondo dell’acqua del cesso, nascosta dietro il vomito. La cosa lo
avvolse, lo strinse con la sua superficie melmosa e squamosa, lo trascinò su, lo
riportò dentro la sua stanza, salvandolo appena dalla deriva. Lo spinse davanti alla
scrivania e lo mise a sedere. Lui per tutto il tempo della risalita rimase cosciente e
non si sorprese affatto nel trovarsi accanto la cosa; certo, erano i postumi dei farmaci
a far sì che non si accorgesse subito della sua presenza, visto che li appena aveva
vomitati. Non era dunque ridotto così male da non sentire il fetore che emanava. La
cosa gli alitò sul collo, lui si girò di scatto guardandola diritta nella vacuità dei suoi
occhi. Non si scompose più di tanto, solo un accenno lieve di stupore nel trovarla lì in
quel preciso momento. E in un certo qual senso anche la cosa non si aspettava la sua
entrata in scena così preso, meno che mai che fosse addirittura lei a doverlo trascinare
fuori dall’acqua di un cesso. La cosa si avvinghiò piano verso di lui, poi scivolò verso
l’orecchio e gli sussurrò: “Com’è andata a Lanzarote?”.
Seguirono alcuni attimi di silenzio, poi la cosa continuò:
- No. Non pensarci troppo, tanto sai benissimo di cosa sto parlando. Allora,
com’è andata? E perché in questo momento sei in questo stato? Le due cose
hanno una connessione?
- A Lanzarote è andata uno schifo. Non sono riuscito a scopare. Non ho seguito i
corsi di aggiornamento e delle relazioni trimestrali sul break even non ci ho
capito nulla,
- E perché sei tornato per ridurti in questo stato? Non avevi deciso di fonderti
con l’Oceano?
- Ho deciso di tornare per fare una cosa.
- Sarebbe?
- Sono qui per vegliare affinché tutti quelli che amo dormano serenamente.
- Cazzate. Ti importa davvero del loro sonno? Secondo me ti importa più dei
loro sogni.
La sua voce adesso era un sibilo, un sinistro strisciare attraverso la mente ovattata e
intorpidita.
- M’importa dei loro sogni, sì. I sogni rendono liberi e io mi sento libero adesso.
Libero di sentirmi come mi pare, intendo. Capisci? E spero che anche loro lo
siano.
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- Sei libero, certo. Tu sai che possono esserci un sacco di letture differenti dietro
questa tua affermazione così radicale, vero? Vuoi dire che tu sei libero solo nei
sogni? E che anche loro sono liberi solo nei sogni?
- Questo non lo so, bisognerebbe chiederlo direttamente a loro. Ma io credo di
sì.
- Tu glielo chiedi mai?
- Io parlo poco con loro, figuriamoci se vado a parlarci di sogni…mi
prenderebbero subito per matto. Già suona loro strano che io componga
versi…
- Eppure vuoi loro molto bene.
- Si lo so.
- Come mai sei ridotto in questo stato?
- Lo sai perché.
- Voglio che sia tu a dirmelo.
- Perché voglio giocare a farmi male. E in questo momento il più possibile.
- E perché vuoi giocare a farti male?
- Perché voglio prendere su di me le loro colpe.
- Cazzate. Dimmi perché.
- Perché voglio andarmene in giro per casa sotto l’effetto di una qualsiasi droga.
E siccome non ho le palle per uscire e andare a cercare qualcuno (inoltre dovrei
troppe spiegazioni a riguardo, e tu sai che non è nella mia natura dare troppe
spiegazioni su ciò che faccio), ho rubato le compresse a mia madre, e se
aggiungiamo quelle che riesco a trovare in giro, a farmi prestare dagli amici, a
farmi dare dal medico di famiglia…il gioco è fatto.
- Ti piace vero? Prendere ansiolitici e calmanti e ipnotici fino a stordirti,
intendo…
- Molto. Ho voglia di provare con i neurolettici, in questo momento.
- Cosa ti piace esattamente di questo aspetto del tuo modo di agire? Parlamene.
- Mi piace immaginare di sentire come starò, sai quel senso di trasporto
allucinato che ti fa biascicare le parole e strisciare per casa a piedi nudi,
tentando di indovinare dove siano i muri e gli interruttori della luce mentre gli
altri dormono. Mentre la tua mente è altrove.
- E poi? Cos’altro ti piace?
- Mi piace la sottile angoscia dentro lo stomaco mentre sto pensando che
qualcuno possa beccarmi da un momento all’altro, o che lei possa svegliarsi e
vedermi ridotto in quello stato. Ma è un’angoscia piacevole, è una cosa che
voglio. Sbatto apposta sulle porte, accendo apposta le luci. Ma loro non si
svegliano. Mi fa godere la sottile piacevolezza di stabilire un contatto, anche
distante, tra me e chi si fa sul serio.
- Intendi dire che vuoi essere un tossico e non hai le palle per dichiararlo?
- Lascia perdere i tossici da strada, io parlo di Mick Jagger e gente simile. Parlo
di Jamiroquay che in un’intervista ha dichiarato che il senso della vita è
sniffare cocaina dalle tette di una bella fica mentre un’altra ti sta facendo un
pompino.
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- E questo cosa c’entra?
- Ecco, sono queste le cose che mi illudo di trovare con gli ansiolitici che trovo
in dispensa. So che è una cosa banale, una cosa stupida. E’ come desiderare
una Ferrari e per placare un po’ il senso di frustrazione del non averla
comprarsi un bell’orologio sveglia multi funzione.
- Torniamo un attimo ai tuoi, dopo questa serie di banalità. Perché non si
svegliano?
- Perché dormono.
- Non dirmi cazzate. Dimmi perché non si svegliano.
- Perché non gliene fotte un cazzo di come sto. Perché hanno le loro cose, perché
hanno i loro problemi e non possono stare dietro a uno che problemi non
dovrebbe invece avercene, perché possiede già tutto. Perché credono che io stia
a posto e che di notte dorma. Perché sanno che io sono un tipo regolare.
- Tu sei un tipo regolare?
- Nella maniera più assoluta no. Io sono un pesce. E voglio capire perché.
- Perché non vieni con me, allora? Io saprei dove portarti.
- No, non ho voglia di venire con te
- Perché? Ha a che fare con ciò che mi dicevi prima?
- Sì.
- Perché, dunque?
- Perché voglio scrivere ancora.
- Di chi? Di cosa?
- Di te.
La cosa improvvisamente gli scivolò dalla schiena lasciando una scia di bava
schiumosa sul pavimento ed emettendo un sibilo acuto, tanto che la pelle gli si
accapponò. La sentì sibilare lungo il tappeto e scomparire dietro la porta del bagno
piccolo, da dove era venuta. Allora si alzò dalla scrivania e si accese una sigaretta.
Trovò suo padre già sveglio, ritto davanti a sé, con lo sguardo cupo e meravigliato,
velato da quella graziosa tenerezza che sapeva usare nei momenti di crisi. “Ciao” gli
disse “sono venuto a salutarti. Ieri notte sei rientrato troppo tardi, io e tua madre già
dormivamo da un pezzo. Com’è andata?”
“Bene, papà, tutto ok. E’ che oggi sono solo un po’ stanco per il viaggio”.
Uscì in terrazza insieme a lui e si appoggiò alla balaustra. Suo padre aveva smesso da
oltre dieci anni di fumare. “C’è qualcosa che non va?” chiese con la voce strozzata
dalla preoccupazione, ma con una convessità propria dell’essere lì presente per
aiutarmi, qualora avessi avuto il coraggio di chiedergli qualsiasi cosa. Forse quello
era il momento per raccontargli tutto, ma il suo orgoglio ancora non gli permetteva
simili aperture, e si limitò a sorridere e a dire: “No, pà, tutto a posto, non sono
riuscito a dormire bene per via del viaggio e della stanchezza. Ma ora mi bevo un bel
bicchiere d’acqua fredda, mi faccio un caffè e una doccia e poi scendo a salutare
anche la mamma. Sono a posto, davvero”. Silenziosamente suo padre gli chiese: “Hai
preso qualche pastiglia?” e lui silenziosamente rispose; “No, non lo faccio più da
quando sono stato male l’ultima volta. Vai tranquillo papà.” Il padre si allontanò e
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scese al piano di sotto mentre al figlio quasi venivano le lacrime agli occhi. Eppure
lui di suo padre non sapeva quasi nulla. Non avevano questa grande relazione. Gli
sarebbe piaciuto conoscere la sua infanzia, la sua storia, il suo punto di vista sul
mondo. Ma evidentemente anche il padre provava le stesse difficoltà del figlio
nell’aprirsi e nel confidarsi, e a parte le norme per una corretta educazione non
sentiva di aver ricevuto in eredità la sua storia, la sua sofferenza e anche la sua gioia.
Non resistette al disagio e alla cappa e decise di rituffarsi nelle acque torbide ma
sicure dei suoi caldi mari del sud. Andò in cucina e fece scendere dentro a un’altra
tazzina da caffè 25gtt di Minias e tre compresse di Xanax da 50 mg, poi deglutì.
Dopo pochi minuti si sentì intorpidito, leggero, la testa già sott’acqua. Uscì
barcollando sul terrazzo, ancora una volta. L’ultima sigaretta e poi il nuoto. Pensava
non gli sarebbe dispiaciuto morire lì, in quella casa, sulla sponda occidentale del
torrente Prino, pieno di villette e senza la confusione del paese vecchio che regnava al
di là del torrente. La vallata era già sveglia da un pezzo sotto di lui. Prime luci
nell’aria, l’ombra di una chiesa lontana che si illuminava. I rintocchi lenti. Le rane
avevano smesso di gracidare, i cani di abbaiare. Il respiro di Dio, intanto, alitava su di
lui:
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sulla sponda occidentale
: dall’alto della mia terrazza ho guardato anch’io
il sole sorgere sull’altra riva del Prino
dalla mia riva la folla dei fedeli dopo la messa
chinarsi verso l’acqua scioglierne le gocce
sui palmi accesi delle mani offrire ai primi raggi
le cadenti scintillando
sulla mia sponda lo strano spettacolo di genti
ai piedi delle scalinate delle case dei sagrati
ai canti e alle preghiere e al suono delle campane
dall’altra sponda nessuno niente solo il velo
di una misteriosa caligine soffiare
Dio: il pieno e il vuoto
solo chi muore sulla sponda occidentale
affollata rumorosa assolata rischiarata dalle risa
sulla sponda dove notte dopo notte e giorno dopo giorno
brillano i bagliori delle pire si salva dal rinascere
è così da quando l’uomo si ricorda l’uomo
la morte non è la liberazione:
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6. sul tempo di una fotografia – h.09:00
“Ma non vivere di lamento
come un cardellino accecato”
Giuseppe Ungaretti, Agonia
: tornò dentro dopo aver pianto per suo padre e si distese sulla poltrona,
addormentandosi quasi subito. Lo svegliò ancora la sua compagna, che ormai aveva
finito di farsi la doccia ed era andata in cucina a preparargli una colazione coi fiocchi:
caffè caldo, succo d’arancia, fette biscottate con burro e marmellata di ciliegie. Si
alzò in piedi, si sentiva frastornato ma più lucido, si diresse in cucina. Si sedette al
tavolo e alzò gli occhi alla parete di fronte a lui, proprio mentre sorseggiava il caffè e
dava il primo morso alla fetta biscottata imburrata. Sulla parete di fronte c’era una
fotografia. La guardò in silenzio fino a che il ricordo di quella foto riemerse con
calma e nitidezza.
A vent’anni gli capitò di visitare una mostra dedicata a Mario Novaro che capovolse
il suo modo di intendere la poesia. Lo accompagnava il poeta imperiese Giovanni
Giudice. Da sempre aveva un debole per tutto quel corredo che riguarda l’oggettistica
degli scrittori: i loro fogli, le loro biblioteche, le loro fotografie, le loro penne o
macchine da scrivere, anche. Per le loro cose, insomma. Ricordava spesso con
piacere la meraviglia nel vedere i manoscritti di Eugenio Montale nel corso di una
presentazione, quasi rapito nell’immaginarsi le sue dita che scivolavano su quei fogli.
Oppure lo studio di Edoardo Sanguineti all’Università, i momenti trascorsi a
sbirciarne la biblioteca privata, o le piccole pile di carta sparpagliate sul suo tavolo,
mentre si domandava con tutta l’ingenuità del “fan” se proprio allora stesse scrivendo
qualcosa. E ancora la casa che abitò Pier Vittorio Tondelli, con la scrivania sulla
quale nacque Altri Libertini, e i suoi album fotografici quasi divorati cogli occhi. O il
piccolo palmare su cui aveva visto un giorno Maurizio Maggiani scrivere un articolo,
seduto in un pub di Oneglia. Non riusciva a spiegare bene il perché di queste sue
attenzioni, poteva però proporre un’ipotesi che gli appariva convincente: forse aveva
bisogno di convincersi che dietro ogni verso, dietro ogni parola, c’era un uomo reale,
in carne ed ossa. Sapeva che ai più questa sarebbe potuta risultare come la timida
osservazione stucchevole, anche piuttosto banale e pretestuosa, di un ingenuo
studente, ma sempre più spesso aveva l’impressione di percepire la restituzione della
scrittura negli ambienti universitari come un’entità incorporea, quasi nata da sé,
oppure generata da persone la cui vita veniva in qualche modo posta al di la del
mondo, in un luogo misterioso e inquietante. Persone scelte da chissà quali divinità
per donare il sacro fuoco della poesia agli uomini, come Prometeo rinnovati. Sia che
si trattasse di conversare con gli amanti delle anime belle, sia che si trattasse di
confrontarsi con gli esegeti del vocabolario, i nipotini del Gruppo ’63, i mistici della
parola incomprensibile.
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Quella mostra lo scosse da questi dubbi. Mentre passeggiava nei corridoi del museo,
restò attratto da una foto: ritraeva un soldato, un ragazzo molto giovane, seduto su di
un masso. La sua divisa appariva logora, sporca, gli stivali inzuppati di fango, i lembi
delle maniche strappate. Si poteva quasi vedere l’agonia delle pallottole evitate,
sfiorate, mancate di un soffio… si riusciva quasi a respirare l’odore della polvere da
sparo, a contare i segni di una fuga attraverso al fango, l’odore acre di una trincea.
Sulle spalle teneva uno zaino enorme che sembrava schiacciarlo. A terra la baionetta
di quel giovane soldato scintillava. Lui invece aveva il volto stanco, tirato, era chino e
sembrava concentrato su qualcosa che pareva assorbirlo interamente. Si avvicinò
ancora alla foto per osservarlo meglio, e si accorse che tra le mani stringeva un
taccuino. Stava scrivendo. Lesse poi la didascalia sotto la cornice e lo sorprese un
emozione immensa: si trattava di Giuseppe Ungaretti.
Ed ecco improvviso fiorire un bagliore di chiarezza: quell’immagine rappresentava lo
specchio limpido che la poesia appartiene al corpo solido dell’uomo, e ben poco alla
sua anima. E’ dal corpo che nasce l’esperienza poetica, viene dal corpo il sudore di
battere a macchina le proprie parole durante le afose giornate estive o nelle gelide
mattinate invernali. Appartiene al corpo lo svegliarsi di notte con un’idea fissa da
stampare assolutamente su un pezzettino di carta. E’ sul corpo che si appoggiano
quaderni, matite, penne e gomme da cancellare, temperini e diari. E’ dal corpo di una
donna che filtra la sua voce, è attraverso i suoi seni fasciati da una camicetta stretta
che urlano quelle parole di fuoco e di ghiaccio. E’ dal profumo di un paio di
mutandine che si riesce a scoprire l’odore di quella particolare donna, se sarà o non
sarà per te una buona compagna, o anche solo un’amica di letto per un po’ di tempo e
basta.
Capì subito di cosa non doversi mai accontentare, nella vita, mentre ruotava lo
sguardo sulle cose tutte che lo stavano abitando in quel momento. Non avrebbe mai
dovuto accontentarsi di guardare un corpo, ma avventurarsi nell’esplorarlo,
vivisezionarlo, passarci attraverso: che fosse attraverso la penetrazione fisica o la
sublimazione di quella esperienza attraverso la sfera intellettuale poco importava.
Voleva fare come fanno gli uccelli che impazziti d’amore si rincorrono, si fuggono, si
concedono al cielo ad amplessi solari, sbarazzandosi delle nubi che hanno attorno:
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le cose tutte che mi abitano
: perché non mi accontento ecco perché
anche le foglie d’olivo scintillano al sole
mentre l’erba ingravida i fiori
e le farfalle volano rivolano rivoltano il campo
al canto impazzito degli uccelli
perché non mi accontento alla collina e al mare
rispondo a tutti senza l’attesa
di cantare vivere amare
andare camminare morire
prima d’aver assaggiato le cose tutte
sempre nuove nelle ore sempre nuove
c’è questo in questo giorno di sole
un’ansia dentro il buio d’un nero
sopra e sotto le cose dentro le cose che brilla:
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7. la camera degli equilibristi – h.9:30
“quando Mery si svegliò, si erano persi. Lo sapeva lei e lo sapeva anche Clark, anche se sulle
prime non lo volle ammettere. Aveva stampata in faccia la sua espressione da “Ho le palle per
traverso perciò sta’ attenta a non rompermele”, per cui la bocca gli diventava sempre più piccola
finché cominciavi a pensare che stesse per scomparire del tutto”.
Stephen King, e hanno una band dell’altro mondo
: finì la colazione e rimase impressionato dalla nitidezza con cui ricordava la mostra e
la foto di Ungaretti che teneva appesa in cucina. E anche ciò che pensava della poesia
lo sorprese, perché ancora oggi era così. Assaporare con la mente il profumo del
corpo di una donna lo accompagnò immediatamente verso il ricordo di Entiazel, in
uno dei loro primi incontri. Per scoparsi la tipa senza che nessuno sospettasse dove si
trovasse scelse un piccolo albergo di Imperia gestito da una vedova che si chiamava
Maria. Era riuscita bene o male a cavarsela, tirando avanti nonostante la morte del
marito Pino avvenuta dieci anni prima. Questo raccontò a loro due appena misero
piede davanti al bancone della reception, ascoltandola educatamente mentre
controllava i documenti e mentre già le dita di lui frugavano sotto la gonna della
ragazza il sottile buco del culo, senza peli e roseo, da come poteva ricordarlo.
L’albergo aveva tre stanze, tutte al piano inferiore di una piccola villetta. Al piano
superiore stava l’appartamento di Maria, spiegò loro. Di qualsiasi cosa avessero
bisogno bastava fare lo zero, il telefono lo avrebbero trovato in stanza. Alle camere si
accedeva da un unico corridoio, subito dopo la piccola hall. Lei, la proprietaria, si
occupava in prima persona della cucina e del cambio delle lenzuola.
Era il 10 agosto dell’anno 2000. Sei anni fa. Il sole martellava, la temperatura esterna
raggiungeva i 40 gradi all’ombra. Loro si accomodarono nella camera numero uno.
Entiazel non fece in tempo a sfilarsi la maglietta che già si ritrovò faccia a terra, alla
pecorina, le mutandine slacciate via, i colpi furibondi che la spingevano e la
ritraevano. Lui fu talmente veloce che le venne sulla schiena in un attimo. Si
buttarono poi dopo l’uno addosso all’altra, sul pavimento, con l’afa che li inchiodava.
Con Entiazel si erano conosciuti attraverso una strana storia di e-mail sbagliate, ed
erano al loro secondo o terzo incontro. Erano lì per scopare perché tutto l’amore e
l’ardore poetico filtrava tra loro due attraverso e-mail e telefonate, e le rare volte in
cui potevano incontrarsi scopavano. Lei era di Roma, lavorava in un’agenzia di
pubbliche relazioni di prestigio, aveva un sacco di soldi e come se non bastasse
conviveva con un altro uomo. Però quel giorno aveva fatto 600 chilometri per stare
con lui solo per una notte. Gli pareva evidente che sapesse scoparla molto bene.
Nella camera numero due, adiacente alla loro, stava una coppia sulla quarantina.
Erano di Torino. Lei si chiamava Franca, faceva la casalinga, lui si chiamava Antonio
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ed era commesso viaggiatore. Erano in vacanza senza i figli che, oramai adulti,
avevano scelto mete più esotiche rispetto alla squallida Imperia.
Franca aveva deciso di suicidarsi. Antonio era a un bivio: se al rientro dalle vacanze
non avesse raggiunto il break even impostogli dalla sua società, sarebbe stato
licenziato. Nessuno dei due era a conoscenza della condizione esistenziale dell’altro.
Parlavano così poco…
Nella camera numero tre stava una ragazza di 18 anni appena. Si chiamava Sorien,
che in arabo vuol dire “sole d’oriente”. Era sola. Forse scappata di casa, non si
sapeva. Non si riusciva a indovinare nulla del suo destino quando la si guardava in
viso. Questa ragazza non ce la faceva ad avere relazioni affettive con i suoi coetanei.
Eppure era sessualmente attiva. Le piaceva scopare i “vecchi”, come in maniera
grezza apostrofavano quel vizio le sue amiche. In realtà a lei piaceva sedurre i
quarantenni, che ancora ce l’avevano duro e avevano l’esperienza necessaria per
trapanarla a dovere e farla urlare dal piacere. Le piaceva farsi schizzare sui seni, che
aveva grandi e con i capezzoli bruni e notevoli. Una volta una guardia giurata che
l’aveva scopata in servizio, appoggiandosi al cancello di una vecchia villa
abbandonata le aveva dichiarato che il suo buco del culo era il più grazioso che
avesse mai visto. La sodomizzò a secco, lei lasciò fare nonostante il dolore. La verità
era che le sue amiche morivano d’invidia nel saperla a Imperia da sola in vacanza con
la possibilità di succhiare il cazzo a un’infinità di “vecchi”, cosa che loro non
avrebbero mai avuto il coraggio di fare, neanche con gli implumi con cui si
accompagnavano.
Intanto, mentre i cinque destini s’incrociavano in quell’albergo, nella camera numero
uno lui stava facendo l’amore furiosamente con Entiazel: erano quasi arrivati
all’estasi. Lei stava gridando, aveva le unghie conficcate nella sua schiena. Le gambe
intrecciate, le bocche incollate, gli odori della pelle mescolati. Lui venne spingendosi
dentro di lei, e in quel momento non si rese minimamente conto di urlare sottovoce.
Si accasciò sul letto in un bagno di sudore. Era felice.
Nello stesso istante dalla camera numero due e dalla camera numero tre uscirono
contemporaneamente Sorien e Antonio diretti al bagno comune. Sorien lanciò
un’occhiata porca ad Antonio e lasciò cadere il pareo che indossava (si stava
preparando per andare al mare). Antonio imbarazzato dalla vista del suo costume
inequivocabile distolse per un attimo lo sguardo, ma la voce dolce della ragazza lo
ridestò: “Se devi andare in bagno fai pure prima tu, io sarò velocissima”. Antonio non
sapeva che dire, farfugliò qualcosa che somigliava a un “grazie” e si avviò verso il
bagno. Appena entrato Sorien si intromise alla velocità della luce: “Non ti dispiace
vero? Mi do una semplice ritoccatina ed esco” “Fi-figurati” rispose nella più totale
confusione Antonio, che già faticava a controllare un’erezione. Sorien si era già
accorta del gonfiore nella patta, si inginocchiò fingendo di legare i sandali e si ritrovò
con il naso vicinissimo alla sua patta: sapeva di borotalco, probabile che si fosse già
fatto la doccia prima di entrare in acqua. Antonio rimase immobile quando Sorien
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allentò la cerniera dei suoi pantaloni, abbassò le mutande e afferrò il cazzo di Antonio
completamente eretto tra le dita. Diede un paio di colpi di lingua alla base della
cappella poi lo prese in bocca e dolcemente iniziò a succhiare.
Era la prima volta che Antonio si trovava, nel corso della sua vita, in una simile
condizione, e non ebbe neppure la forza di resistere. Le venne quasi subito in bocca
con uno schizzo talmente forte che Sorien fu costretta a deglutire un paio di volte
prima di sentirselo pulito e potersi dichiarare soddisfatta. Senza dire una parola
Sorien uscì dal bagno e si ritrovò il volto di Entiazel davanti, anche lei con la fretta di
usare il bagno per togliersi di dosso i resti del seme che le erano rimasti appiccicati
sulle tette, sulle spalle, agli angoli della bocca. Sorien le regalò un debole sorriso e
uscì verso la spiaggia.
Antonio, completamente sotto shock, uscì dal bagno con un'espressione ebete
stampata sul volto, non si accorse neppure della presenza di Entiazel e percorse quasi
barcollando il breve corridoio che accomunava tutte le stanze e rientrò in camera. Si
buttò a corpo morto sul letto chiudendo gli occhi. Non gli era mai successa una cosa
simile. Cazzo cazzo cazzo! Essere spompinato gratis da una strafiga minorenne nel
cesso di un albergo! Qualcosa di buono il mondo riusciva ancora a regalarglielo
dopotutto. Non si chiese nemmeno dove fosse andata Franca, era l’ultima cosa che gli
passava per la testa. Ciò che provava in quel momento era pura gratificazione. Aveva
una voglia fottuta di chiamare tutti i suoi amici per raccontare quell’avventura, come
nei peggiori film pecorecci con Alvaro Vitali e Lino Banfi. Già si faceva se sue brave
seghe mentali sulle loro maledette invidie…
Poi aprì gli occhi e per un attimo non credette a ciò che vide. Li strizzò due volte, li
sgranò, poi li tenne ben aperti e concentrati su quanto volteggiava sopra di lui. Era
sdraiato supino sul letto e Franca, sua moglie, lo sguardo abbassato su di lui, gli occhi
bianchi e vitrei girati all’indietro, si era impiccata al lampadario della stanza. Il suo
corpo aveva smesso di muoversi, si avvertiva solo un leggero dondolio.
Franca si era impiccata da poco, aveva ancora la bava alla bocca e il collo tirato in
una posizione innaturale. Aveva aspettato che Antonio andasse in bagno e,
prevedendo i tempi biblici che avrebbe impiegato per cagare e farsi una doccia come
si deve, lei avrebbe potuto disporre di tutto il tempo necessario per fare del suo
suicidio un rito. Aveva afferrato la corda della tenda dell’albergo senza strapparla,
poi si era costruita un piccolo nodo scorsoio (non aveva affatto scordato le lezioni al
liceo nautico), l’aveva collegato alla presa del lampadario e se l’era infilato al piccolo
collo. Non aveva lasciato nulla che spiegasse al marito il gesto, non aveva preparato
lasciti particolari, né scritto alcuna lettera d’addio.
Si era slacciata la veste e appoggiato sul comodino ogni anello o braccialetto o
collana che era solita indossare, si era pettinata i capelli tirandoseli sulla nuca e
avvolgendoli con una fascetta elastica nera. Si era simbolicamente tolta l’anello
nuziale. Tutti gli altri monili erano depositati in ordine sul suo comodino, la fede
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nuziale lasciata su quello di suo marito. Perché lei sapeva delle sue continue
scappatelle. Perché lei sapeva che era gelosa del fatto che lei non riusciva a
combinarsi scappatelle invece, dal momento che si riteneva troppo poco attraente nei
confronti degli uomini. Ne avevano parlato spesso, di questi argomenti. Avevano
seguito per due anni terapia di coppia. Quello era il risultato: pendeva dal lampadario
d’una stanza d’albergo, dondolando appena il vuoto del suo sguardo.
Lui ed Entiazel uscirono dalla stanza turbati dalle sirene di ambulanze e polizia.
Furono interrogati per una decina di minuti scarsi, decisero di lasciare l’albergo.
Sorien non la trovarono, era andata al mare e la polizia avrebbe aspettato il suo
ritorno in stanza.
Antonio urlava in silenzio: da quel luogo e oltre, attraverso questa terra e chissà
quante altre, lo spettro di quella donna stava vagando di porta in porta attraverso le
stanze di ogni casa, in ogni porta del mondo. I suoi occhi bianchi rovesciati
all’indietro come monito perenne al disgusto e al delirio impossibile di tutta una vita
insieme scivolata sulla sabbia come un castello preda delle onde:
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da questo luogo e oltre
: attraverso questa e chissà quanta altra terra
come uno spettro l’uomo vaga di porta in porta
tra le mani una chitarra che sa accordare
dall’interno con le sue piccole melodie
si sogna come sotto i raggi di sole al mattino
tu ci puoi ascoltare un senso alla verità
dell’amore divino come fosse una voce che
dal cuore di quell’uomo si tramuta in pietra
e illumina la mente di chi è lì e ascolta
uscendo così dall’aria gelata dell’oscurità
ma non troveranno niente di armonioso in lui
e alcune tra le genti (prima dell’emarginazione)
gli verseranno un bicchiere imbottito di veleno
e gli urleranno di bere – maledetto te! –
questo è quanto gli spetterà per aver cantato
nessuno vuole la sua verità qui attorno
nessuno vuole neppure i suoi toni divini:
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8. Jona e i granchi – h.10:30
“L’educazione moderna mira solo a sviluppare la memoria. Noi trasformiamo esseri umani in
macchine di memoria. Produciamo esseri mediocri che sono capaci di memorizzare fatti e opinioni
e di esporli quando necessario.”
krishnamurti
: emerse e tornò alla scrivania, con ancora sulle labbra il sapore di Entiazel e negli
occhi lo sguardo di Antonio. Erano passati sei anni. Si stirò sulla sedia ed ebbre un
brivido turbato. Nemmeno il tempo di gustarselo che la porta dello studio si spalancò
all’improvviso e alcuni bambini si impossessarono della stanza. Lo salutarono e lo
festeggiarono molto, e finì con l’elargire anche lui sguardi buffi e risate di
malavoglia. “Questi sono i miei nipoti”, pensò, “Li riconosco tutti. E so che sono
plasmati della stessa pasta dei loro genitori, i miei zii e i miei cugini. Queste piccole
serpi di oggi saranno i miei figli di domani”.
Lui non amava queste visite a sorpresa, specialmente quelle dei bambini, ma fatto sta
che sua madre rivelò ai bimbi che era nel suo studio e i piccoli diavoli non si fecero
pregare due volte per salire, invadere come un branco di Unni la sua irrequietezza.
Lui falsamente li salutò uno ad uno, poi li coccolò un po’ immaginando di strozzarli,
di tagliar loro l’intestino e farli rotolare giù dal terrazzo. Pur di essere il più freddo
possibile offrì loro del gelato al cioccolato ma lo stratagemma non funzionò. I
bambini volevano giocare, con lui e solo con lui, a palla avvelenata o a nascondino.
Era da un po’ che non lo vedevano, settimane prima del suo viaggio a Lanzarote.
Volevano ascoltare una fiaba. Una fiaba dai toni divini. Il disagio lo avvolse come la
coperta di Linus. Disse ai bimbi di prepararsi e attenderli un minuto soltanto; uscì
dallo studio e tornò alla dispensa nel bagno piccolo, dove ingoiò di botto 2 compresse
di Tavor da 2,5 mg. con la certezza di non essere stato visto da nessuno. Poi aspettò
altri dieci minuti chiudendosi in bagno e fingendo di dover cagare, con l’eco dei
bambini sempre più urgente e tallonante. Alla fine uscì per affrontarli. Disse loro nel
tono più suadente che trovò: “Sedetevi tutti qui davanti e ascoltate. Siete bambini
intelligenti e voglio raccontarvi una favola che un giorno un uomo buono e saggio
raccontò a me. Una favola che mi fece pensare tanto quando avevo la vostra età. Oggi
voglio regalarvela. Mettetevi quindi comodi sui vostri cuscini, abbassiamo il volume
della musica, accendiamo un incenso e una candela, e con un bel bicchiere di
spremuta d’arancia fra le mani creeremo l’atmosfera perfetta per ascoltare una fiaba.
Pronti?
La nostra particolare fiaba inizia al mare, ma non un mare inventato, proprio quello
che sta qui dietro l’angolo: la spiaggia di Borgo Prino. Immaginate che la fiaba inizi
in un giorno d’estate, con queste onde grandi e belle e il mare stesso che sembra tutto
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un bollire, scaldato dai raggi di un sole iridescente, appollaiato su nel cielo: questo
sole rosso tutto gonfio come una palla che brucia e brucia. Con il mare che pare un
enorme pentolone blu. E poi la sabbia e gli scogli, e tanta gente sdraiata con la pancia
in su o con la pancia in giù che dorme, parla, gioca.
E su quello scoglio laggiù, vicino al molo (lo vedete?) c’è anche il piccolo Jona, un
bimbo come voi, da solo, tutto preso nell’osservare con gli occhi fissi qualcosa di
strano. A vederlo da lontano, diciamo da dove siamo noi adesso, questo Jona pare un
bambino come tanti altri, un tipetto secco tutt’ossa con i capelli ricci e rossi che
sembra non se li pettini mai. O che per farlo usi una bomba a mano, come quello
della canzone di Niccolò Fabi, ricordate? Però provate ad avvicinarvi insieme a me,
facciamo piano per non distrarlo, mi raccomando. Vedete adesso? Ecco, ora ne
distinguiamo meglio il viso… Io mi stupisco sempre nel trovarmi di fronte un faccino
così tondo e fitto di lentiggini, una bocca tanto piccola e stretta. E due occhi vispi
come una volpe! E scommetto che anche voi avete notato una cosa, visto che state
tutti lì con la bocca spalancata: sì, Jona aveva un occhio nero e un occhio blu.
Ora che lo abbiamo osservato cambiamo posto, venite con me e andiamo su quella
duna laggiù, da dove potremo capire meglio cosa sta facendo: eccolo ancora lì vicino
al bagnasciuga, inginocchiato su uno scoglio, con lo sciaq sciaq del mare che gli
spruzza acqua sulle ginocchia. E scommetto che adesso vorrete proprio vedere la cosa
che attira con così grande attenzione lo sguardo di Jona… Avvicinate lo sguardo e
osservate sotto lo scoglio, laggiù, nella buca tra quegli altri due scogli, uno di fronte
all’altro…li vedete? Quelli sono due piccoli eserciti di granchi.
Alla destra di Jona una decina di piccoli granchi rossi, tutti pelosi, poco più grandi di
una pesca, agita le lunghe chele contro una mezza dozzina di granchi neri, lisci e
levigati come un sasso, i quali rispondono allo stesso modo. Nessuno dei due eserciti
avanza, però. A Jona pare si stiano studiando, gli sembra una provocazione, come se
si stessero prendendo in giro l’un l’altro: era in corso una sfida? Forse… i rossi sono
di più e certo avrebbero potuto distruggere gli avversari quando avessero voluto,
spazzandoli via in un baleno. Perché indugiavano tanto? Già sorride, il piccolo Jona,
nel figurarsi la battaglia. Quel granchio laggiù – il più grande, certamente il capo –
avrebbe aizzato gli altri e sarebbe cominciata la carica. Magari i neri si sarebbero
spaventati al solo agitarsi di quel grande capo e sarebbero scappati. Forse addirittura
non ci sarebbe stata neanche una battaglia, ma un fuggi fuggi generale. No questo no:
i neri erano pochi ma chiaramente più compatti, tutti stretti stretti, affiatati come
compagni.
Chissà perché stava per scoppiare quella guerra?
La fantasia di Jona, e un po’ anche la nostra, prende a galoppare come un cavallo
imbizzarrito: i neri sicuramente, orgogliosi e arroganti, avevano visto da lontano
quella buca in mezzo ai due scogli, così propizia per stabilirvisi ed ergervi la propria
dimora. Non appena sbarcati lì, si erano accorti che lo scoglio era già abitato, e forse
avevano già picchiato e magari ucciso qualche granchio rosso sperduto lì, caduto in
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un agguato. A questo punto qualcuno (un granchio – vedetta?) aveva avvertito gli
altri di questi mascalzoni e si era formato un esercito per liberare il proprio territorio
dagli invasori. Ah! Ma guardate un momento Jona, mentre pensa a tutte queste cose:
gli occhi si strizzano, sfrega le mani come se volesse arrotolare l’aria, e ride, sentite
quanto ride! Come un matto, nell’attesa che avessero inizio i combattimenti. E anche
voi, come lui, siete tutti qui pronti a godervi la battaglia.
Ma i granchi, invece, non si muovono. Continuano tutti ad agitare le chele e a
sfregarsi contro lo scoglio, nessun segno che stia ad indicare l’inizio per suonarsele di
santa ragione. Jona si ricordò allora delle piccole guerre che faceva quando era un
marmocchio piccolo piccolo: si ricordava le attese, quando lui e la sua banda di amici
aspettavano gli avversari dietro l’angolo in cortile sotto casa per poi con un balzo
arrivare alle loro spalle e gridare: “voltatevi, se siete uomini”, come aveva visto tante
volte fare in televisione. Aveva bene impressi in mente quei momenti che precedono
lo scontro, la tensione che si accumula nella pancia e grida per uscire.
E d’un tratto a Jona gli s’intristiscono gli occhi: gli viene in mente la ragione del suo
starsene da solo lì, in quel momento, aggrappato a quello scoglio, senza la compagnia
di nessuno.
Pochi momenti prima anche lui aveva fatto a botte con un ragazzino, proprio lì in
spiaggia. Stava giocando a calcio con altri suoi compagni, gli amici delle vacanze,
quando qualcuno lo aveva spinto da dietro, proprio nel momento in cui aveva la palla
e si stava preparando a tirare in porta. Avrebbe segnato di sicuro.
Jona invece aveva sentito solo un gran tonfo, male alle gambe e alle braccia, e si era
ritrovato con la faccia nella sabbia. Allora si era alzato di scatto, aveva iniziato a
prendersela con Alessandro, quello che gli aveva fatto lo sgambetto. Alessandro lo
conosceva bene, erano anche vicini di casa, erano sempre andati d’accordo e non si
sarebbe mai aspettato da lui un fallo così brutto, proprio mentre stava per tirare.
Senza neanche ascoltarlo, senza neanche accorgersi che gli stava chiedendo scusa,
senza guardare i suoi occhi bassi e tristi, Jona gli aveva mollato un cazzotto sulla
pancia. Subito sua madre si era avvicinata strattonandoselo via, e gli aveva ordinato,
per punizione, di andare a giocare da solo per tutto il resto del pomeriggio. E così
adesso se ne stava lì, a guardare quei granchi, e se solo rialzava la testa verso la
spiaggia, poteva vedere Alessandro anche lui solo, vicino a sua madre, anche lui
punito. Ma intanto i granchi non ne vogliono sapere di combattere. Non si
muovevano. Jona cominciava a spazientirsi, avrebbe voluto aizzarli lui. Ma poi,
sempre all’improvviso, perché è sempre all’improvviso che accadono le cose
importanti, appunto accadde qualcosa. I due eserciti si avvicinano a un piccolo sasso,
proprio sul bordo della buca, sono talmente vicini che alcuni granchi rossi
cominciano a mischiarsi ad alcuni granchi neri e in men che non si dica quel piccolo
sasso comincia a ricoprirsi di granchi.
Il sasso colmo di granchi inizia a muoversi, sempre più veloce, sempre più con forza
e i granchi spingono, strattonano, agitano le chele, sembrano quasi impazziti, sembra
che ballino fino a quando il sasso si rovescia facendo una capriola su se stesso. E con
sua grande meraviglia, Jona scopre che sotto quel sasso stava schiacciato un
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piccolissimo granchio, mezzo rosso e mezzo nero, tutto ammaccato e con le
minuscole chele ancora impigliate allo scoglio e alle alghe. Era poco più grande di
una noce e non faceva altro che agitarsi fino a quando tutti gli altri granchi, sia i rossi
che i neri, se lo caricarono sopra e sparirono in un battibaleno sotto uno scoglio..
Tutti dentro una buca, velocemente e in fila.
E Jona comincia a sorridere. Più per la meraviglia che per altro. Allora adesso
bambini alzatevi in piedi perché dovete proprio vederlo, il piccolo Jona: con un
sorriso più luminoso del sole, con gli occhi non più strizzati, ma aperti, con il cuore
chiaro come quella giornata, con le mani morbide; dovete proprio vederlo come si
alza e torna contento verso la spiaggia a passi svelti, salutando con un bacio la
mamma un po’ incredula, mentre andava un po’ più in là; là da Alessandro.
Avvicinatevi, bambini, perché adesso dovete proprio vedere come i suoi occhi neri e
blu scintillano insieme mentre gli tende la mano e gli dice una parola soltanto:
“Pace”.
Al termine della fiaba alcuni bambini si erano addormentati, evidentemente si erano
fracassati i coglioni ad ascoltare l’assurda avventura di Jona (personalmente lui li
avrebbe lasciati affogare tutti, quegli stramaledetti granchi del cazzo), altri erano
ancora svegli e attenti, altri ancora avevano scarabocchiato su un foglio di carta la
loro personale versione della fiaba.
Uno di quei disegni non era male: il bimbo che lo aveva fatto aveva un volto da
barbie, biondo e leggermente paffuto, il classico “bimbo – plasmon”, e aveva
rappresentato in maniera stilizzata un enorme granchio nero che mangiava Jona e lo
riduceva a brandelli. Alcuni schizzi rossi e neri ornavano la cornice. “Che cosa sono
questi colori?” chiese al piccolo “Le macchie rosse sono il sangue che esce dal
bambino, i pezzi delle mani e dei piedi staccati a morsi dai granchi. I segni neri sono i
pezzi dei granchi che il bambino, mentre combatteva, era riuscito a strappare”. Bene,
pensò, qua andiamo alla grande. Il piccolo tra qualche anno diventerà uno dei più
feroci serial killer del mondo. Notò anche una inquietante pioggia nera che incrostava
tutto il paesaggio. Chiese: “Ma io ho parlato di una giornata di sole, come mai c’è la
pioggia nera? Sta arrivando un temporale?” Il bimbo ci mise un attimo prima di
rispondere, abbassò gli occhi a terra poi disse “No”, con un candore talmente puro da
non poter neppure sospettare che in un futuro non troppo remoto sarebbe diventato
una specie di cannibale. Ci avrebbe giurato. Stava avendo una conversazione con un
futuro Ed Gain “E’ che tra poco dovrò tornare a casa, e mia mamma non ha la
macchina così dobbiamo fare tutto il viaggio in treno. E a me le gallerie spaventano.”
“Anche a me” rispose lui “specie da quando ho letto il racconto di Durrenmatt”.
“E chi è?” chiese quel suo nipote angosciato “Lascia perdere” rispose lui.
Era il momento di andare, la voce della madre, dalle scale, ripetutamente lo
chiamava:
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perché dal treno non ti spaventino le gallerie
: la galleria nera ci viene addosso come fosse
per giocare alla notte scura
com’è corta dura solo pochi istanti e poi via
come un piccolo pozzo buio senza luna
visto? non hai fatto in tempo ad avere paura:
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9. appunti sul block notes giallo - h.12:30
“non è possibile calmarsi, o trattenersi, e il sesso, l’enorme energia del sesso che è capace di non
farvi addormentare mai, sfugge alle norme che ci si danno (norme invernali) per affrontare le
paure e le miserie della solitudine”
Enrico Palandri, Boccalone
: una volta che i bambini se ne furono andati riprese a nuotare, finalmente, a essere un
pesce che sbircia tutto. Mancava ormai poco al pranzo, sua madre e la sua compagna
stavano preparando qualcosa di speciale per il suo compleanno, al piano di sotto. Si
fece una doccia tanto per ingannare un po’ il tempo prima di scendere. Mentre
sceglieva l’abito da indossare, in camera da letto, trovò un libro sul suo comodino, ne
lesse il titolo, lo aprì per sbirciarne qualche passaggio. Non ricordava di avercelo
posato. Scoprì che si trattava di uno dei tanti manuali di self-help americani. Adorava
quel genere di letteratura senza conoscerne il motivo. Una delle mille contraddizioni
di cui era plasmata la sua vita.
In quel particolare libro si raccontava di come il piccolo Johnny, in un assolato giorno
di primavera, si sedette sorridente al tavolo in cucina nella sua casetta piccolo
borghese di Los Angeles per scrivere su una pagina di un bloc- notes giallo: elenco
della mia vita. Sotto questo titolo andava appunto a elencare i centoventisette
obiettivi che avrebbe voluto raggiungere nel corso della sua esistenza. Da allora, ci
informa Anthony Robbins, il super manager che ha scritto il manuale, ne ha
conseguiti centootto, insieme a più di trecento che non aveva in lista. Leggendo si
incuriosì ancora di più, dal momento che non si trattava di obiettivi semplici o facili:
fra questi vi erano ad esempio attività davvero impegnative come scalare le montagne
più alte del mondo, navigare corsi d’acqua inesplorati, correre il miglio in cinque
minuti, leggere tutte le opere di Shakespeare e l’intera Enciclopedia Britannica.
“Cristo Santo!” pensò. Continuò e scoprì che quando a cinquant’anni un giornalista
gli chiese cosa mai lo avesse spinto a scrivere un elenco così affascinante, rispose:
“In primo luogo ero stufo di sentirmi dire dagli adulti cosa fare e cosa non fare della
mia vita, e poi non volevo superare la soglia dei cinquant’anni e accorgermi di non
aver realizzato nulla nella vita”.
Terminò la lettura amareggiato, andò in bagno per pisciare, si calò la cerniera e parlò
direttamente al suo cazzo: “Ma questo assurdo, ripugnante, fascistoide yankee della
mia minchia non aveva nient’altro di meglio da fare a quindici anni se non mettere
per iscritto le sbarre del carcere che poco alla volta si sarebbe costruito vivendo? Ma
non ce l’aveva una vicina di casa porca come c’ho avuto io che lo costringesse ad
annusarle la fica e a infilarle un dito su per il culo? Questo sucaminchie manco si è
accorto a quell’età che sarebbe stato poi costretto a dover fare tutte quelle cose?
Si scrollò il cazzo, gli chiese scusa per aver usato con lui un linguaggio così brutale,
per scusarsi gli regalò una sega fantasticando su una ex compagna di scuola e schizzò
sul pavimento. Tornò poi al libro molto più rilassato e lesse: “Se sai veramente quali
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cose vuoi ottenere dalla vita è incredibile come le opportunità arriveranno per
permetterti di averle”. Firmato John M. Goddard.
Basta. L’americano sucaminchie aveva ragione. Bisogna fare le cose per ordine,
metterle per iscritto. La cosa era decisa: andò alla libreria, spulciò tra i quaderni e i
block-notes finche non ne trovò uno giallo. Si diresse verso la cucina, aprì le antine
così da far filtrare un po’ di luce naturale, pensò non a centoventisette, ma a quattro
obiettivi da raggiungere entro l’anno, concreti e tangibili. Pensò a come sarebbe
modificata la sua percezione della vita se li avesse raggiunti e a che tipo di benessere
sarebbe andato incontro. Riflettè un poco, mordicchiò il tappino della sua bic e
scrisse:
i miei quattro obiettivi primari per il 2007
1. inserire il mio stelo di carne nella cavità anale di una giovane slava minorenne
sull’Aurelia spendendo non più di venti euro;
2. dare un passaggio in macchina alla mia vicina tredicenne e tentare di deflorarla
3. fare in modo che un fiotto del mio seme finisca sulla lingua di una prostituta
minorenne di origine asiatica;
4. fare sesso orale con la moglie dello sbirro che abita nel palazzo vicino alla
videoteca con la scusa di dare ripetizioni al figlio.
come cambierebbe la mia percezione del mondo e che tipo di benessere vivrò
1. questo obiettivo mi permette di esaudire un sogno che avevo fin da quando ero
adolescente; la mia autostima ne uscirebbe per forza di cose accresciuta, e il
mio portafogli decisamente alleggerito di poco, la qual cosa mi permetterebbe,
nel caso ne avessi voglia, un secondo giro più canonico, quella notte stessa,
magari con una nigeriana. Mi permette di ritrovare una certa coerenza con
quanto di fantasioso abita nella mia mente. Mi entusiasma l’idea di lasciare
emozioni sulla plastica del mio preservativo, di condividere la fatica
dell’inculata con una ragazza che, in tutti i sensi, ho fottuto e che manco
rivedrò più.
2. questo obiettivo mi permette di rilassarmi completamente prima di
addormentarmi, di divertirmi e di smettere di tormentarmi il cazzo con
furibonde masturbazioni fino all’ultima goccia. Lei è solo una proiezione
mentale delle mie fantasie fanciullesche, ne sono consapevole. Ma mi
aiuterebbe a fare esercizio di concretezza, a restare con i piedi per terra
accettando il fatto di essere ormai un adulto, e contemporaneamente di
divertirmi, liberando la mia fantasia e la mia creatività.
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3. questo obiettivo mi permette di ritrovare quell’energia e quella voglia di fare le
cose che da un po’ di tempo ho la sensazione di aver perso. E’ in questo caso
ancora il coronamento di un sogno, quello spezzare tutti i fantasmi che si sono
impossessati del mio corpo fino ad oggi in modo che eiaculino all’interno di
una boccuccia cinese. Per pochi soldi loro sono disposte a farlo.
4. questo obiettivo mi permette di guardare la vita con altri occhi, senza farmi
ingannare da paure inutili e bloccanti. Mi permette di affinare strategie e
organizzazioni diverse da quelle che di solito metto in atto. Mi è utile per non
tralasciare nulla delle esperienze che possono capitarmi e di godere di ogni
cosa che succede con la giusta consapevolezza.
Rilesse: tutti gli obiettivi erano concreti, verificabili, con un significato a livello
sensoriale ed emozionale e gli avrebbero permesso di vivere con maggior
soddisfazione alcuni momenti. Erano anche obiettivi che gli avrebbero offerto
l’occasione di poter aiutare anche altre persone a stare bene: dare soldi alle puttane,
segnare emotivamente una tredicenne con la sua prima scopata, dare ripetizioni al
figlio.
Ripensò ai rari momenti di successo che aveva piantati nel suo vissuto, quelli che
teneva stretti per aiutarsi ad affrontare con la giusta forza i momenti più difficili. Ne
riassaporò il senso di benessere, di soddisfazione, di verità che avevano assunto le
giornate, la rilassatezza dei muscoli del suo corpo e quella dei corpi delle altre, i loro
volti, i suoni, le risate. L’energia che scorreva nelle sue vene, la certezza di aver usato
tutte le risorse di cui era in possesso. La sicurezza nel sapere cosa fare, il coraggio di
fare anche senza sapere esattamente cosa.
Poi tornò con la mente alla moglie dello sbirro, che incontrava spesso in giro per
Piani. Capello nero corvino a caschetto, grandi occhiali demodé, abiti aderenti che le
fasciavano un corpo da ventenne, immagine da vera troia. Quando era piccolo,
insieme a una banda di ragazzini, le inviarono una lettera anonima (allora lei abitava
poco distante dal torrente Prino ed era adolescente) in cui le scrissero che se aveva
voglia di fottere con due o tre ragazzi belli forti le sarebbe bastato stendere, il giorno
dopo, anche solo uno straccetto rosso tra i panni dal balcone e loro si sarebbero
presentati in gruppo pronti per una vera gang bang. La mattina dopo trovarono un
lenzuolo rosso fuoco enorme appeso. Nessuno di loro ebbe però mai il coraggio di
suonare al suo campanello. Bastò loro l’emozione di sapere che avevano possibilità.
Rilesse una seconda volta: non trovò convincente niente, buttò il block-notes giallo
nella spazzatura e accese il PC. Fece girare FIFA 07. Mentre partiva il gioco, tornò in
cucina e si preparò una spremuta di arance. Sentì che i giochi che tranquillizzavano la
mente avrebbero dovuto iniziare:
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possiamo giocare un po’ ora
: e che i giochi ora abbiano pure inizio:
gare di struttura e grida ed arsura
movimento terra ed effetto serra
riprodurre ad hoc l’effetto notte
arrampicata su roccia con pattini
gare a gruppi di morsi e rimorsi
fughe di pianti e rimpianti
saluti e commiati a cognati
saltare sulle punte degli ombrelli
correre nei sacchi in cemento
darsi dei baci e darsi al tuca – tuca
dita negli occhi o dita nel naso
corsi rapidi di tromba delle scale
allontanamento dalle sofferenze
splendidi omicidi su commissione:
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10. scendo solo – h.13:40
“E’ la sua ora, senza che lei lo sappia è venuta per Laide la grande ora della vita e domani sarà
forse tutto come prima e ricomincerà la cattiveria e la vergogna, ma intanto lei per un attimo sta al
di sopra di tutti, è la cosa più bella, preziosa e importante della terra. Ma la città dormiva, le
strade erano deserte, nessuno, neppure lui, alzerà gli occhi a guardarla”.
Dino Buzzati, Un amore
: il pranzo andò bene. Mangiò come un maiale, fece finta di festeggiare con i suoi e la
sua compagna ingozzandosi di torta alla crema. Dopo il caffè, come consuetudine
tornò nello studio per controllare la posta. Le aveva scritto la Carla dandogli notizie
circa il suo lavoro. Lesse e archiviò la mail in una cartella con tutte le altre migliaia di
mail che si erano scambiati per anni, quando stavano insieme. Approfittò per
spulciarne qualcuna.
: le scrisse : non è un gioco, né io sono un omicida su commissione, e poi scusa se
inizio a scriverti un po’ in ritardo rispetto ai tempi che ti avevo dato al telefono, ma
come più volte mi è capitato di dirti svolgo questo maledetto lavoro e c’è stato
qualche piccolo indesiderato problema organizzativo in questi ultimi giorni. E’ una
cosa un po’ complicata da spiegare, ma sappi comunque che ti penso, ed è da oggi
pomeriggio che immaginavo di scriverti:
: le scrisse : un’altra cosa di cui sono convintissimo è che occorra dare più spazio a
libri che hanno segnato molto ma che non sono proprio “da classifica”. Specie in
questi ultimi anni. La proposta che mi hai fatto mi piace perché non è di stampo
accademico o “palloso”, se intendi cosa voglio dire. Vorrei impegnarmi nel leggere
Il lamento di Portnoy di Philip Roth, oppure de La versione di Barney di Mordecai
Richler, dal momento che di te mi fido molto, e dei tuoi gusti anche. Mi hai detto che
sono libri scritti bene, che hanno qualcosa da dire, che sono facili e divertenti da
leggere:
: le scrisse : il Rocky Horror lo conosco, apprezzo lo stile sgangherato di questo
musical, il coraggio nel presentare pezzi così sexy ancora per il pubblico di oggi,
pensa un po’… tra tutte le sequenze quella che amo di più è il Time Warp, adoro quel
pezzo, specie quando il criminologo si mette a ballare pure lui, ecco io lì proprio non
resisto e inizio a ballare. Una delle parti più divertenti è quando si rifugiano tutti nelle
camere da letto e Janet poi va da Brad, sai il pezzo che sembra oscurato come fossero
ombre cinesi:
: le scrisse : no mi spiace non sono gay anche se leggo molto e scrivo poesie, e poi
adoro Bruce Springsteen e questo dovrebbe quantomeno rendermi immune da
comunanze con il mondo perlato dell’omosessualità. Naturalmente ho in mente di
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non avere niente contro di loro, anche se li chiamo “loro”; in fondo una parte
tradizionalista affonda le sue radici dentro la mia anima da parecchio tempo. E non so
dirti se questo mi piaccia oppure no, è qualcosa a cui non ho mai pensato seriamente.
Comunque in generale gli scrittori gay mi piacciono tanto:
: le scrisse : possiamo vederci, incontrarci, amarci, stare insieme tre anni, baciarci,
fare l’amore, avere una storia, essere innamorati, passeggiare mano nella mano,
guardare tanti film, parlare un po’ di tutto, bere la cioccolata, visitare Reggio Emilia,
andare a Cremona con i tuoi amici in macchina con l’ombra nera della pianura che
alita da dentro i finestrini, e poi cantare, fare gli scemi, magari qualche volta piangere
un po’, annoiarci, vedere le streghe a Triora e farci le foto, andare anche a Venezia,
stare parecchio tempo senza parlare, assorbire il silenzio, non accorgersi della
consapevolezza reciproca che la storia sta per finire, credere nell’amore, parlare
d’altro, leggere Tondelli, vedere dal vivo i Depeche Mode, accorgersi che Marilyn
Manson ci piace e non restarne turbati, andare a un reading di Matteo B. Bianchi,
discutere del futuro, guardare dentro le tazzine di caffè e non vederci niente, toccarci:
: le scrisse : io lo so che ti lascio attraverso un sms perché mi piace essere un
coniglio, io lo so che l’amore che ho provato è stato reale vivo e bello ed è stato
proprio questo a non essermi piaciuto più, io lo so dove vado: giù nel fondo del fondo
della città di Dite, e mi piace e mi piace e mi piace. Vado solo, però, ma non per
ipocrisia. Perché mi piace andarci da solo:
: le scrisse : sono generato non creato dal caos, e il mio caos passa solo attraverso
un’e-mail e una cornetta del telefono. Dal vivo mi cucio dentro e implodo: gli antichi
amori valgono meglio se ricordati, annusati, celebrati, non detti, non saputi, non
raccolti, non visti, non generati, non poetizzati:
Rilesse quelle e-mail, poi le stampò. Ebbe infine cura di infilarli in bottiglie di vetro
adatte, sigillò le bottiglie con tappi di sughero. Uscì di casa con una scusa - disse che
aveva assolutamente bisogno di stampare qualche documento presso una copisteria.
Gli crederono. Invece si diresse alla Foce, in riva al mare, e noleggiò per pochi euro
un piccolo gozzo da un pescatore del posto che conosceva. Si allontanò di qualche
chilometro dalla riva e quando fu certo di non essere visto da nessuno si tuffò in
acqua con le bottiglie. Le spinse una ad una al largo, nell’impoetico mare d’ottobre:
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genealogia dell’incompletezza
alla Carla
: dio dei padri che stai a pag. 63
che dribbli gli inserti pubblicitari
accogli tra le tue braccia
Minker che generò Minudru che generò Minuto che generò Miotti che generò Mira
che generò Mirabella che generò Miraglia che generò Mirarci che generò Mirò che
generò Miroglio che generò Mirone che generò Mirotta che generò Miscioscia che
generò Miskovic che generò Mistrali che generò Mistretta che generò Mitola che
generò Mocata che generò Moccia che generò Mocellin che generò Modaffari che
generò Modena che generò Modeo che generò Moioli che generò Mirano che generò
Moisello che generò Moizo che generò Mojeeva che generò Molinari che generò
Molino che generò Molle che generò Molon che generò Momenti che generò Monaco
che generò Moncastro che generò Moncalvo che generò Moncia
che generò me che generai discordia,
nel non generare numeri di telefono in cui
la mia voce abdicò da altri
da più antichi amori:
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11. iniziazioni – h.15:30
“Posai la mano sulla coscia di Charlie. Nessuna reazione. La tenni lì per alcuni minuti finché non
cominciarono a sudarmi le punte delle dita. Continuava a tenere gli occhi chiusi, ma gli stava
diventando grosso dentro i jeans”.
Hanif Kureishi, Il Budda delle periferie
: tornò dal mare, si fece un’altra doccia per togliersi l’odore della salsedine e il sale
dalla schiena, e alla fine tornò a sedersi alla scrivania. La sua compagna stava
facendo la pennichella pomeridiana, stesa sul divano. Il mantice del sesso lo divorò.
All’improvviso si ricordò quanto accadde vicino la casa dei suoi nonni paterni
quando era un cucciolo. Ospedaletti. Bisognava salire una scarpata ripida tra le
ginestre. Loro abitavano in una piccola casa quasi smembrata, in affitto, che
sembrava quella descritta in tante fiabe. Fiori intrecciati ai muri, ai mattoni.
Portoncino in legno. Entravi e non c’erano che scale. Potevi salire solo di un piano. In
due stanze c’era tutto. Una vecchia foto lo ritraeva in piedi sulla sedia a recitare la
poesia di Natale. I suoi zii attorno. Il viso inespressivo di suo padre, quello meno
armonioso e velato d’incertezza di sua madre. Ripensò ai pranzi pantagruelici. La
possibilità di uscire un po’, dopo. Una piccola strada, c’era una stradina piccola che
lo accompagnava in un boschetto di palme e roveti, proprio sul limitare delle ginestre.
L’aroma strepitante dei fiori attorno. Le agavi che screziavano l’aria. Da quel posto
non poteva osservarlo nessuno. Su in alto stava una casa, si sentivano delle voci. Voci
di donne gridare. Lui era un cucciolo. Un pomeriggio si spogliò, fu Madre Natura
stessa a ordinarglielo, si sfregò la pancia con le mani, si eccitò. Provava una
sensazione indescrivibile di immenso piacere. Era in armonia con le voci di quelle
donne, con le ginestre e le palme, con le more intrappolate tra i roveti. Il calore che
saliva dai testicoli però non riusciva a fargli inturgidire il cazzo. Era un cucciolo
troppo giovane. Lo sforzo e il piacere gli davano alla testa e gli schiacciavano lo
stomaco. Non era mai più riuscito a provare quelle stesse emozioni da adulto,
scopando. Solo nel venire, ma davvero raramente, era riemerso a quegli istanti:
: vicino alla casa dei suoi nonni materni, invece. Latte. Il casermone prima della
curva che ti porta a Grimaldi. La frontiera. Le estati trascorse a suonare il flauto dolce
nel giardino dei nonni. Accompagnarli al lavoro. La nonna faceva la domestica.
L’arrivo presso una casa, sul terrazzo una donna. La casa di una coppia quarantenne
inglese. La signora stava con le tette al vento, prendeva il sole in terrazza. Lui la vide,
il cazzo gli diventò subito duro. Era un cucciolo appena più grande. Fantasticava di
infilarle il cazzo nell’ombelico, non sapeva che esisteva la fica. L’ombelico invece sì
perché si vedeva: era così bello, un buchino perfetto, armonico, proprio al centro del
pancia della signora. Così facile da immaginarlo inghiottire. A casa strusciava il
cazzo contro le lenzuola, come un cane in calore. Non conosceva le parole per dirlo.
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Adulto, ma davvero raramente, quando gli era capitato di venire tra le tette di una
ragazza era riemerso a quegli istanti:
: più grande, ospite della zia paterna a Sanremo. Le vacanze estive. Dormire nella
stessa camera della cuginetta. L’odore della sua pelle così vicino. Fantasticare. La zia
faceva la parrucchiera, aveva un’apprendista con lei in negozio, mora, bellissima.
Una notte iniziò a visualizzarla nuda, il cazzo che entrava e usciva dall’ombelico.
Non sapeva nient’altro, non provava nessun’altra felicità se non immaginare di
infilare il suo attrezzo dentro quel buco lì strusciandosi sulle lenzuola. Quella volta
venne per la prima volta in vita sua. La testa iniziò a girare, non sapeva cosa gli fosse
capitato. Cosa era uscito da lì? Sarebbe morto? Era tutto bagnato, le lenzuola erano
bagnate. Quel liquido cos’era? Pipì? No, troppo densa. Qualcosa di fluido. Sarebbe
morto, vero? Era un liquido squamoso e sentiva che era importante per vivere e ora
era scivolato fuori dal suo corpo. Era stato lui a farlo uscire fuori. E ora sarebbe
morto. Una sorta di maledizione l’avrebbe preso per sempre e l’avrebbe reso malato.
Irragionevole. L’avrebbe reso minorato rispetto agli altri. Chissà se gli altri sapevano
cosa fosse quel liquido. A chi chiederlo? Ce n’era ancora nel suo corpo? Per quanto
tempo ce ne sarebbe stato? Lo aveva sprecato tutto?
: più grande ancora, badante della figlioletta di una coppia amica di famiglia. Lei
aveva cinque anni. Lui ne aveva quattordici, era già coscienzioso per prendersi quel
tipo di responsabilità. La bambina ogni volta che rimanevano soli non resisteva (era
Madre Natura che la chiamava, lui lo sapeva) e partivano i giochi. Il rituale
prevedeva sempre lo stesso copione: voleva che lui mettesse sul piatto del giradischi
Bambini di Paola Turci, poi la bimba iniziava a strusciarsi contro la sua pancia e la
schiena, si infilava le sue dita in bocca e alla fine voleva che con le sue dita inumidite
dalla saliva le sfiorasse la pancia e la piccola fica. In quegli istanti, per quanto lei
fosse piccola e incosciente, lui impazziva: il cazzo gli si gonfiava sotto i jeans
deformandosi. Quel minimo di coscienza che possedeva, anche se a brandelli, gli
impediva comunque di cacciarselo fuori per farsi una bella sega. Si limitava a sfilarle
le mutandine e a spingere, il più delicatamente possibile, le dita su e giù per la vagina.
La bimba voleva che gliele infilasse proprio e spingeva forte ma lui non se la sentiva,
preferiva glissare sulle natiche e massaggiare il buchetto roseo del culo. Le stringeva
le chiappe e lei emetteva urletti da vera troia. Era Madre Natura. Era impossibile che
avesse visto quelle cose in tv o dai suoi. Erano ordini impartiti direttamente da Madre
Natura. Ogni volta che suo turno di badante finiva tornava a casa spossato. Era un
supplizio, dopo, perché sentiva assolutamente la necessità di ammazzarsi dalle seghe.
Un pomeriggio se ne sparò dieci di fila. Le fantasie erano le stesse: lui che le
chiedeva: “Vuoi vedere come si fa a fare il latte?” E lei “Si dai…ma tu sai fare il latte
dal pisellino?” Allora c’era lui che le posava una mano delicatamente sulla nuca e le
faceva avvicinare la boccuccia al cazzo. C’era poi sempre lui che iniziava a
masturbarsi piano perché la piccola non si spaventasse. Poi c’era lei che chiudeva gli
occhi perché lui gliel’aveva chiesto e infine c’era lo schizzo che partiva di getto e le
inondava la bocca, le labbra, gli occhi, i capelli. E c’era lei che si leccava le dita e
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diceva: “Buono latte, che buono, ancora”. Durò parecchi mesi questa cosa, ma non
approdarono mai a nulla di traumatico, purtroppo. Una sera lui si piazzò carponi
dietro di lei che intanto era in piedi a disegnare (in sottofondo era già partita
Bambini). Le sfilò dolcemente le mutandine lasciandole però la gonna. Lei
continuava a disegnare e non opponeva alcuna resistenza al gioco. Lui si slacciò la
patta e iniziò a strusciarsi il cazzo proprio tra le natiche, stando ben attento a non
sfondare nessun buco. Schizzò sul pavimento:
: l’amore per il corpo femminile, per la sua penetrabilità, per la sua concavità. Come
mai nella testa in questo periodo non aveva nient’altro se non questo?
Era un pesce, i pesci scopano? Viveva da solo in una bolla piena d’acqua. Era forse
per questo che gli mancava così tanto quel tipo di sesso? Eppure con la sua compagna
lo praticava. Già, ma era diverso. Lì c’era di mezzo l’amore, non la scoperta delle
vacuità femminili. E poi la novità dei buchi, degli odori eterosessuali, quelli che
stordiscono, delle efelidi e dei riccioluti peli del pube: così somiglianti, per lui, alle
alghe marine. E tutti quei noccioli di seni, quei teneri abbozzi di bombe carta che le
bambine portavano e che lui desiderava disinnescare innocentemente giocando tra le
lenzuola. Le convessità dei corpi femminili: i seni, le natiche, i fianchi sporgenti, i
boccioli delle labbra, i nasi e le orecchie da leccare, i capelli lunghi e annodati da una
coda di cavallo, i talloni, le unghie smaltate di rosso vino:
Eppure era un pesce.
Ma fu sirena un tempo, e se lo ricordò. Non in un passato remoto, ma prossimo. Fu
sirena insieme alla sua compagna. Due pesci, la stessa bolla d’acqua:
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inverno
: come quella volta che ho visto la neve in inverno
e tre cani che si lisciavano il pelo corto e bruno
e la vicina che vestita solo di una camicia aperta
usciva a stendere al sole le magliette del marito
il vento del mattino mio complice si opponeva
sollevandole la camicia e i seni rossi e pieni che
come due occhi l’avvertivano di lasciar perdere
scoppiando a ridere mentre si copriva e io di lei:
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12. la sirena – h.16:00
“io critico il concetto di malattia mentale, non nego la follia, la follia è una situazione umana.
Franco Basaglia, Conferenze Brasiliane
: due pesci dentro la stessa bolla d’acqua. Andò in camera da letto, la sua compagna
dormiva il sonnellino pomeridiano. Lui si immerse tra le lenzuola e nuotò attraverso
il copriletto fino a raggiungere lo specchio grande davanti all’armadio. La incontrò
dall’altra parte dello specchio, rideva. Le bocche si avvicinarono, lo specchio si
squagliò, un lungo bacio e lei entrò in lui, lui in lei. Si trasformarono in una sirena.
Iniziarono a navigare assieme attraverso gli Oceani della loro casa, andando avanti e
indietro attraverso il ricordo di quando erano stati, la prima volta, una stessa sirena.
Quando si risvegliarono, tempo prima, si ritrovarono davanti un medico che prospettò
loro il termine della degenza. Non capirono nulla di quanto stesse dicendo ma si
sentirono meglio. La fase acuta della loro fuga psicotica era passata da un pezzo,
riferì il dottore, e da giorni ormai la loro lucidità non faceva capolino ogni tanto come
nella fase intermedia del ricovero coatto, ma si manifestava a cadenze sempre più
rapide. Erano una sirena in via di guarigione, per così dire. In effetti erano coscienti
del fatto che riuscivano ormai ad ascoltare i loro battiti cardiaci senza più avere
paura. Il dottore permise loro di telefonare alle rispettive madri, ma dopo pochissime
parole misero entrambi giù la cornetta e si commossero. Il dottore disse che anche
questi apparentemente insignificanti fatti erano il sintomo di segnali di ripresa, poi si
interruppe e aggiunse: segnali di forte ripresa. Le allucinazioni che riferivano e i
deliri erano del tutto scomparsi, così come i discorsi sul suicidio e, cosa decisamente
rassicurante, i tentativi fisici di affogarsi. L’equipe medica non era però così ottimista
da lasciarli soli ventiquattrore al giorno, spiegò il medico, e ci sarebbe stato ancora
per qualche giorno accanto a loro un infermiere. Ma più per compagnia ormai, che
per una reale necessità di controllo. “Ci rendiamo perfettamente conto - proseguì il
dottore - che voi non possedete ancora la forza sufficiente per affrontare in assoluta
solitudine il tran tran della clinica, le vuote giornate insomma. E poi, ve lo dico in
tutta franchezza, riteniamo che siate troppo soli già di per sé per infliggervi ora un
qualsivoglia distacco, anche il più banale. Non aiuta poi il fatto che voi siate per un
terzo uomo, per un terzo donna, per un terzo pesce. La coda da parecchio disturbo,
quando scodinzolate qui in reparto.
Loro ascoltavano attenti, annuendo ogni tanto e fissando il dottore sempre negli
occhi. Sapevano che aveva ragione, si trovavano d’accordo con quell’uomo. Anche
sulla questione coda.
Decisamente più tranquilli, consapevoli del fatto di aver ripreso a mangiare
aumentando a vista d’occhio il peso e l’appetito, sapevano di aver raggiunto ormai la
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capacità di gestire meglio i loro stati d’ansia senza ricorrere allo sclero, alle urla o ai
pianti. Certe mattine di sole abbozzavano sorrisi agli infermieri e agli altri pazienti.
Qualche problema sgusciava fuori in serata. Poco prima di addormentarsi, ancora,
nonostante il Seroquel, il Risperdal e le 25 gocce di Minias, li attorcinava una
spaventosa sensazione di pericolo: la possibilità di essere rapiti nel cuore della notte
da bande di criminali senza scrupoli che avrebbero potuto segarli in due tronconi e
poi essere trascinati in un vecchio casolare in campagna, dove li avrebbero attesi
inauditi supplizi, fino al sopraggiungere di una morte lenta e dolorosa, senza una sola
possibilità di redenzione. Paura di essere separati e di non rincontrarsi. Questo terrore
era ancora una costante, i primi tremiti dentro le loro menti iniziavano poco prima del
tramonto, verso le diciotto. A differenza dei primi tempi, però, c’era di positivo che
bastavano poche parole rassicuranti da parte dell’infermiere per riportarli ad uno stato
di temporanea calma.
Tuttavia aveva ragione il dottore: non erano ancora sufficientemente forti. C’erano
momenti in cui sgusciavano fuori, perdendosi in un labirinto di ragionamenti e non
riuscendo più a ritrovare la strada di casa. La fiducia che possedevano nel prossimo,
fosse esso un cameriere, la mamma, il papà, la sorella, l’infermiere, l’amico, lo stesso
psichiatra, un’o.s.a. o un altro paziente, era aumentata molto rispetto a due mesi
prima, quando diffidavano scalciando di qualsiasi essere umano si presentasse al loro
cospetto, eppure sentivano di contenere in loro sempre un’aria di disillusione e
ribrezzo. Emergeva nelle loro ribattute alle rassicurazioni di medici e famigliari.
Parlavano e dialogavano di più, certo, ma lunghi erano ancora i silenzi. Quei silenzi,
specie tra loro due, li annientavano.
Allora perdevano ogni riferimento temporale (quelli spaziali invece li avevano ben
chiari: sapevano di essere ricoverati nella clinica per malattie mentali “San Giuseppe”
di Asti): erano convinti di dormire due giorni di seguito quando prendevano la terapia
serale, quindi costringevano tutti con non piccole difficoltà a calendarizzare le
giornate nel modo più lucido possibile.
I loro sensi di colpa erano enormi, uscivano a valanga nei colloqui con gli psicologi
della struttura. A volte lucidi – dicevano “non ci meritiamo questa coda da sirena, che
cosa significa? Perché noi abbiamo questa coda e altri no? Capiamo che i nostri cari
ci stiano vicino per questo, fate tutti grandi sforzi per starci vicino” o anche “stiamo
facendo soffrire tante persone con il nostro assurdo comportamento di voler sapere
perché abbiamo una coda da sirena” - a volte molto meno - “abbiamo fatto finta di
essere dei sirenetti, è solo una protesi che si può staccare”, o “moriremo perché non
abbiamo fatto quello che dovevamo fare”.
Condividevano nelle giornate buone questi stati d’animo con tutti, non solo con i
famigliari e i dottori. Anche con la psicologa che incontravano due volte a settimana.
Un’O.S.A. una mattina raccontò loro che tutto sommato li vedeva bene, che il loro
caso non era poi così tragico, che ne aveva visti di peggiori: qualche mese prima del
loro internamento venne ricoverato proprio lì un irreprensibile bancario quarantenne
caparbiamente convinto di aver assassinato un uomo. Uscì in due mesi. Per buona
condotta. La battuta li fece ridere. Si sorpresero.
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Le volte in cui venivano a trovarli le rispettive madri prorompevano in buoni
propositi, ma era più per la paura di non marcire nel buio fetore di un vecchio
casolare di campagna che per reale volontà. Erano convinti che i carcerieri li
spiassero ancora attraverso microscopiche telecamere sparse un po’ ovunque nella
stanza. Allora dicevano che sarebbero stati disposti a fare tabula rasa delle minchiate
combinate nella loro gioventù per iniziare una nuova vita: dicevano alle madri che
avrebbero voluto sposarsi al più presto, lavorare sodo di un lavoro che sporchi le
mani, faccia sudare, spezzi la schiena, ti faccia voglia di tornare a casa la sera con la
stramaledetta voglia solo di mangiare un pasto caldo, fare l’amore e dormire il sonno
dei giusti. Sapevano di riempire il cuore di gioia delle madri quando li risentivano
fare questi discorsi.
E poi propositi di iscrizioni in palestra (data la coda sarebbe stata quella
l’occupazione principale), giri in bicicletta, visite a nutrizionisti, qualche toccatina di
yoga e shiatzu. Insomma, buoni propositi per costruirsi una vita loro.
Su tutta questa fame di vita, però, aleggiava ancora l’oscura presenza della morte, di
un qualcosa di terribile che li potesse spazzare via in un momento.
La paura. Non avevano mai visto due esseri umani così spaventati come la sirena in
cui si erano trasformati. Paura fottuta non solo che potessero morire loro due
improvvisamente, ma anche le persone che amavano. Tanto che negli ultimi giorni
spesso facevano un giro di telefonate per accertarsi della buona salute di parenti e
amici. Stavano tutti bene, ma questo non riusciva a consolarli.
Si era, e lo intuivano perfettamente anche loro, lontani ancora da un minimo di
stabilità emozionale, ma ogni poro delle loro squame urlava che erano sulla buona
strada. La superficie liscia della loro pelle era pronta a partire per il mondo, insieme.
Tutta questa paura aveva bisogno di essere supportata: pigliavano una terapia da
cavallo, una decina di pasticche magiche (contro i cattivi pensieri, disse lo psichiatra
nei momenti più acuti della sua fuga). Pur non avendo idea del come, sapevano che
stavano funzionando.
Se dal punto di vista farmacologico si ritenevano coperti, lo stesso si poteva dire da
quello affettivo. I famigliari non li avevano mollati un attimo. Di questo erano
perfettamente consapevoli e grati.
Dal punto di vista psicoterapeutico erano invece in alto mare. I colloqui con la
psicologa di reparto li avevano lasciati comunque insoddisfatti, i test non li avevano
scalfiti. La coda si agitava da sola senza comando troppo spesso. Troppo nervosismo
nell’aria. Speravano fosse solo perché erano ancora troppo deboli per affrontare la
cosa.
Argomento alquanto delicato, la psicoterapia. Lì in clinica avevano instaurato un
buon rapporto di fiducia solo con lo psichiatra. Il dottore era un tipo corpulento, sulla
settantina, un uomo buono, molto paterno e protettivo nei loro confronti ma anche nei
confronti degli altri pazienti. Li visitava e parlava tutti i giorni, anche quando li
incontrava meditabondi nel corridoio li baciava, li salutava, si fermava a fare due
chiacchiere. Lo consideravano un vero essere umano, insomma. Uno che sapeva
ascoltare. Le loro perplessità, e in buona sostanza anche quelle dei famigliari, si
concentravano sul fatto che il giorno che sarebbero stati dimessi avrebbe dovuto
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iniziare una psicoterapia, questo per ordine dello psichiatra. Eppure loro sapevano
che ci sarebbero andati (per l’ennesima volta nel corso della loro vita), più per donare
un senso di rassicurazione alle persone che amavano che per loro stessi.
Nei lunghi silenzi erano attraversati da questo dubbio. Che non condividevano con
nessuno.
Non si fidavano degli psicologi. Forse era davvero questa la soluzione, ma non
riuscivano a fidarsi. Forse si sarebbero convinti ripensando ai quaranta giorni
trascorsi nel girone dantesco dell’SPDC e ai successivi tre mesi in clinica. Forse tutto
quel tempo li aveva traumatizzati talmente tanto che avevano voglia di liberarsi una
volta per tutte dei fantasmi che li dilaniavano. Ma era una fioca speranza e basta.
Questo lo sapevano perfettamente.
Anni prima avevano fatto alcuni tentativi (non avevano ancora la coda), ma il tutto si
era esaurito con una serie di palle raccontate allo psicoterapeuta di turno. Erano sicuri
che se gli avessero messo davanti Sai Baba avrebbero raccontato le stesse palle.
Già in passato, tra l’altro, il dottore della “San Giuseppe” li aveva visitati, in un paio
di ricadute recessive e squamose. A loro aveva detto: “Quando sentite che state poco
bene chiamatemi”. Mesi fa anche lo psicologo più famoso di Milano, autore tra l’altro
di diversi best-sellers sul tema delle fughe psicotiche si era raccomandato, dopo averli
liquidati in poche sedute: “Siete due persone che ogni tanto hanno bisogno di farsi
curare, quando sentite che state poco bene chiamatemi”.
Non lo fecero mai. A volte pensavano di non essere capaci di “sentire” quando
stavano per precipitare verso la recessione; quindi se non erano capaci di “sentire”
quando stavano male, come cazzo facevano a chiamare un dottore? Miliardi di
miliardi di volte si erano detti che per loro questi momenti down non erano semplici
“momenti” – appunto – ma conseguenze normali che appartenevano alla normalità
del loro essere. Non è mai esistito un cazzo di essere umano in grado di dialogare con
loro due su questo. Chi c’ha provato s’è bruciato. E francamente loro non avevano
più voglia di bruciare le persone, famose o no. Spesso citavano la battuta di Hannibal
Lecter ne Il Silenzio degli Innocenti: “Una volta un tizio ha provato a
psicanalizzarmi. Mi sono mangiato il suo fegato con un piatto di fave e un buon
Chianti”. Ridevano di questa similitudine con la loro condizione. Anche a loro
sarebbe piaciuto ingozzarsi del pancreas di uno psicologo. Perché? - riflettevano Perché è così difficile per uno scienziato della mente collegarsi con noi? Forse
faremmo un gran bene all’umanità se ce li mangiassimo tutti.
Ciò apriva enormi scenari sul ruolo che rivestivano i loro cari a un livello terapeutico.
Perché non riuscivano, loro che scienziati della mente non sono ma che li amavano, a
convincerli a lavorare per il loro bene? Perché erano così sordi verso le persone che
amavano?
Arrivare forse alla fatale, pericolosissima conclusione che avrebbero dovuto, alla
fine, essere i famigliari stessi a fare delle scelte al posto loro? Passi quando cercavano
di affogarsi, ma ora? E dopo? Operando scelte in loro vece avrebbero negato la
dignità di due persone di fare libere scelte. Li avrebbero confermati nel loro essere un
non adattati nel mondo, con quella coda. Oltre naturalmente a diventare di fatto gli
agenti patogeni delle loro psicosi. Chi li amava sarebbe involontariamente diventato
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il loro assassino. Sarebbero stati loro a ucciderli costringendoli a fare una psicoterapia
in cui non credevano. Sarebbe stato come annunciare: “Non ci rompete il cazzo, a noi
basta che andiate da uno qualunque”. In passato spesso erano stati portati da stregoni,
maghi, esorcisti, persino da Milingo, quando era all’apice delle simpatie
ecclesiastiche. Chiaro che ci sarebbero andati solo per farli contenti. E per non farsi
rompere il cazzo.
Fin dove era giusto essere supportati, si chiedevano? E cosa intendeva la famiglia per
“supporto”? Essere indirizzati verso una psicoterapia cialtrona? Chi avrebbe deciso il
nome della prossima vittima sacrificale, del nuovo psicologo da dilaniare tra le loro
fauci? Chi lo avrebbe detto? Come avrebbero fatto a lasciar mantenere loro il libero
arbitrio senza costringerli a fare cose in cui non credevano? Come capire quando
toccava a loro “decidere” per i due sirenetti e quando invece toccava a loro due soli?
Qual è il confine? Chi decide quando sarebbero guariti? Cosa s’intende per
guarigione? Quando avrebbero perso la coda? Quando si sarebbero separati e
avrebbero avuto tutti e due una coda ciascuno? Oppure quando non sarebbe più
esistita nessuna coda, ma due gambe come gli altri? Chi decideva cosa è giusto che
loro pensassero e cosa no? Perché loro avrebbero potuto starci anche
meravigliosamente con la coda. Quando dicono di volersi sposare sono sani? Non lo
sono? Devono aspettare? Quanto? Chi decide quanto tempo devono aspettare? Su che
basi? In virtù di quale ruolo?
Queste le domande che avvolgevano i loro silenzi.
Probabilmente avrebbero avuto bisogno di un supporto farmacologico tutta la vita.
Probabilmente no. Ma nel caso ne avessero avuto davvero bisogno, non avevano il
diritto a farsi una vita normale tutta loro? Avrebbero potuto avere o no il loro porco
cazzo di diritto di fare il cazzo di lavoro che volevano? Di sposarsi chi avessero
voluto? Di divorziarci, di tradirsi, di avere sogni, illusioni, speranze come tutti?
Quando sarebbe arrivato il momento in cui i loro cari sarebbero riusciti a dire: “Ecco,
sta facendo le cose che vuole e noi le accettiamo senza condizioni perché sta bene”?
Chi decide quando questa soglia sarà varcata?
Scese la sera sui loro silenzi. L’infermiere era davanti a loro con la boccetta delle
terapie. Li fissò un attimo, poi prese le medicine e sorrise. “Tutto bene?” chiese
l’infermiere. Loro guardarono un attimo la stanza, poi si voltarono verso la finestra e
videro la sera arrivare sulle case attorno alla clinica, sul giardino, sul pioppo dove
tanti pomeriggi si erano appisolati. Si guardarono poi la coda, si accesero una
sigaretta, si sentirono soli nella loro stanza vuota e senza guardare l’infermiere
risposero: “Tutto bene”:
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un istante solo prima di ripartire
: oh eccomi qui da solo, quasi le due,
la brace rossa dell’ultima sigaretta
che s’attorciglia nel buio alle mie dita
oh eccomi solo nella stanza vuota
lo specchio di tutte le mie ragioni
contro il riflesso di tutti i miei torti
eccomi solo nella mia stanza vuota
eccomi di nuovo a parlare ai miei morti:
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13. funerale bianco – h.16:35
“con la sua morte, l’unico sacrificio assolutamente vero offerto per noi, tutto ciò che c’era in noi di
colpevole e che dava il diritto ai principati e alle potestà di costringerci a espiare con i supplizi,
egli ha pulito, abolito, estinto”.
Sant’Agostino, Il Maestro interiore
: non aveva più la coda, molte cose erano cambiate da allora. La recessione lo aveva
spinto a desiderare ardentemente di morire, ma oggi non era più così. Erano passate
molte lune da quei giorni folli: gli prese la voglia di sdrammatizzarli, di esorcizzarli il
più possibile. Venne visitato così dal ricordo del primo morto visto “live”. Avrà avuto
un cinque anni al massimo, sei forse, quando questo incontro finalmente arrivò.
Toccò al nonno del suo amichetto Nino. Nel tragitto da casa sua a quella del caro
estinto ripensò alle volte in cui lo aveva visto passeggiare per i vicoli di Piani assorto
e pensieroso. Portava grandi baffi color crema, arrugginiti dalle sigarette. Parlava
poco. Non appena entrò nella stanza, con un balzò saltò le lamentatici e preso da
un’emozione fortissima volse il viso dentro la bara: pareva dormisse. Era
elegantissimo, con le mani in mezzo alla pancia e un rosario stretto tra le dita. Era
morto il giorno del suo compleanno. La moglie, poche ore prima, per l’occasione del
suo centenario gli preparò un piatto di gnocchi fatti a mano, racchiusi dentro un
delirio di profumi e portati da un ragù di carne e una spolverata di parmigiano. Il tutto
innaffiato da un buon bicchiere di vino rosso. A quell’età poteva oramai permettersi
di tutto. Si mangiò gli gnocchi quasi piangendo dalla gioia, poi si voltò verso la
moglie e le disse: “Oh, non ho mai mangiato così bene in vita mia”. E crepò. Resto
con gli occhi aperti, fermo e immobile sulla sedia della tavola da pranzo. Stecchito
nella gioia. La moglie raccontò poi che stampata sul viso aveva proprio l’espressione
della beatitudine, come mai gli aveva visto in cinquant’anni di vita insieme. Lui
comprese che morire nella soddisfazione del corpo, con addosso il piacere delle cose
materiali, vale quanto un’estrema unzione.
Il suo amico Riccardo gli raccontava spesso un’altra storia vera di morte che trovava
sempre sublime ricordare: nel corso di un pranzo di raduno di vecchi alpini, in un
ristorante del cuneese, a un certo punto un vecchio saltò su dalla sedia e ridendo
chiese silenzio e attenzione, poi esclamò: “In questa meravigliosa valle di Borgo San
Dalmazzo salutiamo tutti il nostro capitano Testa”. E crepò. Restò in piedi con gli
occhi allucinati che si spegnevano piano e il suo bicchiere di barolo in mano, poi
lentamente scivolò sull’erba; morì con l’omaggio al suo vecchio capitano tra le
labbra. Aveva sempre amato le storie altrui di morti, funerali, seppellimenti. Perché
non lo toccavano, perché non ancora ne era stato visitato. Sentiva e sapeva di
muoversi alla cieca attraverso questi racconti con l’abilità danzante dell’immaturità,
senza possedere nessuna parola che riuscisse a districarne il silenzio:
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quello che non c’è
: dal momento che ci muoviamo alla cieca
e attraversiamo il giorno che esce con noi
abbiamo solo intravisto il nostro fiato
spalmarsi e appannare lo specchio d’aria
l’aria si aprirà su di noi su nient’altro
che le parole cui stiamo rinunciando
il silenzio e l’inverno saranno stati per noi
un lungo e vacuo luogo di maturità
per noi due che ci tramutiamo in morte
da una vita che non ci appartiene:
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14. catalogo di fiche nella città di Imperia – h.16:45
“di tutte le belle passanti che non siamo riusciti a trattenere”
Fabrizio De Andrè, Le passanti
: la sua compagna dormiva ancora, lui nonostante gli psicofarmaci non riusciva.
Terminato il suo catalogo di morti toccò a quello delle fiche. Andò nel bagno piccolo
e prese 4 compresse di Tavor da 2,5 mg. perché aveva voglia di andare a nuotare
sotto i portici di Oneglia. La rossa del negozio d’abiti eleganti all’angolo, sedici anni
e apprendista da quattro mesi, la scopò talmente forte che le spezzò l’osso pelvico, e
la lasciò in stato confusionale: i medici dissero “shock da perforazione”. Era la prima
volta lei che scopava, e non pensava di averle reso un gran bel servizio. La mora del
negozio di telefonia, così grintosa nel suo vitino da vespa e nelle sue tette sode come
bocce di marmo, quella che glielo faceva rizzare solo con gli occhi, si beccò una
schizzata talmente forte, mentre gli stava facendo una spagnola, che il seme le centrò
la pupilla dilatata dal piacere e per poco l’accecò. La troia del bar, invece, a cui
piaceva farsi infilare bottiglie di Beck’s in culo mentre veniva scopata, ci rimase
molto male quando il vetro si scheggiò per la troppa foga dell’agire, e le procurò un
taglio alla mucosa anale che la costrinse a stare fuori dal giro per quattro mesi. La
tipa che stava dietro al bancone della macelleria, con il piercing al naso e le natiche
perfette, assumeva un’aria quasi comica quando si piazzava alla pecorina sul divano,
voltava la testa irta di capelli verso di lui e lo implorava di incularla a secco, non
facendosi alcuno scrupolo. Amava indossare un collare autentico, non uno di quei
gingilli acquistati nei sexy shop, bensì proprio un vero collare da cane. Mentre la
sodomizzava lui tirava il collare più forte che poteva, fino a farla vomitare, fino a che
gli occhi non le schizzavano fuori dalle orbite. Nel momento in cui lui veniva, lei
finiva invariabilmente con il cagarsi addosso. La scena successiva vedeva la ragazza
a riassestarsi in camera e china a pulire con uno straccio le chiazze di vomito, lui nel
bagno con spugna e sapone a scrollarsi dal pene le macchie di diarrea e sperma. La
commessa della bigiotteria, che era stata anche con un suo amico, succhiava il cazzo
in maniera sublime. Non gli riuscì mai, nel corso dei loro quindici incontri, di
scoparsela. Veniva sempre nel corso dei preliminari. Naturalmente in bocca. Proprio
non resisteva all’aroma caldo del suo fiato. Sospettò che il piano della commessa
fosse proprio quello, ma gli stava bene così. Non si ricordava più chi lo aveva
avvertito della sua passione per lo sperma. La titolare della maglieria, con suo collo
aguzzo e i capelli nero corvini sciolti fino alla base della schiena, quando lo
cavalcava faceva danzare le tette e ululava, il che lo costringeva ogni volta a ridere
istericamente. Lui amava scopare nel silenzio, per assaporare come non mai i mugolii
delle amanti. Lei urlava, si contorceva tanto da fargli perdere la sensibilità al cazzo,
dopo. Doveva quasi sempre masturbarsi prima di incontrarla, e in fondo sperare che
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non gli si rizzasse. L’infermiera amava essere presa a sberle sul culo. Si calmava solo
al sopraggiungere di vistose ecchimosi. Una volta la fustigò con un battitappeto e non
seppe controllarsi: lei urlava di smetterla ma lui credeva fosse il solito gioco e
continuò fino a strapparle lembi di pelle e a far schizzar sangue sulle lenzuola. La
tredicenne a cui dava ripetizioni di storia lo spompinava fino a berne lo sperma
quando non aveva con sé i venti euro dovuti per la prestazione. Sempre più spesso
finiva con il non averli, sempre più spesso utilizzava lo specchio nel bagno grande e i
suoi fazzolettini per pulirsi le labbra vischiose. La barista che con i suoi tatuaggi sulla
schiena e sulle braccia adorava scopare nella posizione del missionario mentre con le
unghie gli raschiava la schiena, che amava fargli un pompino dopo la scopata, perché
voleva assaggiare gli umori della sua fica mischiati al sapore del cazzo. La sorella del
suo amico che lavorava come ragazza immagine presso uno stock dell’Emporio
Armani amava essere scopata in piedi e mordicchiargli le orecchie mentre biascicava
porcherie. Lui faceva una fatica del diavolo a tenerla su, perché nonostante la
bellezza era anche piuttosto formosa, ma si rincuorava subito perché quella posizione
gli permetteva di appoggiare le mani a coppa sotto il suo culo perfetto in modo da
tenerla su. Anche lei amava l’ingoio dopo il pompino, ed erano sempre chiacchiere e
discussioni e contratti, prima, in modo che l’amplesso non fosse lasciato al caso ma
studiato movimento su movimento, e poi agito. Tutte loro e le altre, le passanti, che
non riusciva a trattenere, amava.
Dopo la nuotata si sentì fiacco, non era più come avere sedici anni e passeggiare
attraverso i portici immaginando le ragazze che avrebbe voluto accompagnare al
cinema o a mangiare un gelato. Tante volte aveva passeggiato con i suoi amici
parlando di politica e filosofia, di vecchi cantanti dimenticati da tutti mentre con gli
occhi saettava a destra e a sinistra alla ricerca della ragazza dal viso più carino, più
tranquillizzante possibile. Ancora oggi incontra alcune di quelle ragazze d’allora, che
hanno scelto di lavorare nelle scarperie del centro o nelle profumerie che invadono i
portici. Le trova commoventi. I portici sono molto cambiati da allora. Sembra che
non vengano quasi più utilizzati dai giovanissimi come trampolino di lancio per farsi
notare (probabilmente perché sono così sballati di Vicodin che non riuscirebbero a
distinguere una fica da un buco del culo). Perlopiù incontra coppie di anziani a
passeggio, trentenni con i loro passeggini e i loro gelati sbavati sulle boccucce dei
bimbi, così belli e innocenti da fargli, a volte, venire da piangere. Salì il ricordo delle
passeggiate con gli amici sotto i portici, così:
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sotto i portici di Oneglia
: - Muoviamo il culo?
- Andiamo pure.
Al Bar Ariston, che fa angolo, mi sembra,
in edicola è uscito Metal Shock di novembre,
in saldo a centocinquantamila,
Le Gemelle.
Facciamo la fila.
Sparatoria sul lungomare di S. Lorenzo,
studio notarile Re,
gabinetto fondato nell'anno 1843.
La beltà del viso,
crema idratante Nivea, il push-up Clizia
hai visto che tette gli sono venute alla Cinzia?
Soliti casini a Montecitorio.
Il presidente si è dimesso
tumulto a sinistra, tumulto a destra.
La principessa Diana è morta.
La pasticca del Re Sole c’è ancora?
Si getta dalla finestra per amore.
Lo conoscevo di vista.
Facciamo un salto da Berio?
E’ dall’altra parte, prima arriviamo in fondo
Lotteria del mondo.
Oggetti d'arte,
quadri, antichità,
24.
24 rosso e Tuttocittà.
Via dell’Ospedale.
Centro Tim.
Ragazzo pratico cercasi per lavoro stagionale.
Fallimento!
Grande liquidazione!
Ribassi del 50 %
vietato l’ingresso ai cani.
Qui soggiornò Giuseppe Garibaldi.
Galleria Isnardi.
Caffè Piccardo. Fine della tratta.
- Torniamo indietro?
- Torniamo, dai:
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15. sempre sulla stessa strada – h.17:00
“perché sta succedendo qualcosa qui ma tu non sai che cos’è. Non è così signor Jones?”
Bob Dylan, Ballad of a Thin Man
: ancora stordito dal tavor riuscì a fatica a raggiungere lo stereo e ad accenderlo.
Partì il colpo secco della batteria come una porta sbattuta in faccia e da quel disco del
1965 di Dylan scelse di farsi cullare. Per lui Highway 61 Revisited era il miglior
rappresentante, attraverso la musica, di quella naturale tensione che ha qualunque
uomo verso il concetto, astratto eppure ben presente nell’anima, di “liberazione”. Una
condizione umana, cioè, che sia svincolata - e nella sua forma massima scevra - da
ogni tipo di costrizione intellettuale, sia essa di origine sociale, culturale, religiosa o
ideologica. L’ariosità, la potenza e la semplicità bibliche di quelle sghembe melodie
giocate sui pochi elementari accordi del blues saturati dalle elettriche e dall’hammond
gli apparivano quasi come “flauti di Pan” nella celebrazione dell’impotenza e della
fine di uno stile di vita rurale, bucolico e più vicino ai ritmi dell’uomo. Dylan
prendeva le distanze sia da se stesso, sia dal folk, sia da quanto andavano predicando
le comunità hippy statunitensi. Ancora non era stato sotterrato nulla, ancora erano da
venire Woodstock e Altamont ma mai la musica popolare riuscì a dare una chance a
chiunque avesse qualcosa di interessante da dire usando una semplice canzone. Ciò
che vibrava nell’aria era l’eco di una stagione contraddittoria che stava per morire,
eppure ancora ricca di forti e vivaci stimoli musicali e culturali; forse la sensazione
che provava Dylan era quella di non avere il tempo di dire tutto, di farsi sentire ora,
di esprimere tutto quello che pulsava sotto i cuori di quei ragazzi e di quelle ragazze.
Highway 61 Revisited risente di questo clima da presagio della morte di un’utopia di
pace e fratellanza e la speranza di una possibilità nuova di riscatto, più che sociale
umano. Le musiche sono semplici, scarne, suonate da musicisti in stato di grazia. Non
c’era più tempo per le chitarre acustiche, per i tappeti sonori dolci ed eleganti, per gli
abbellimenti armonici fini a se stessi. Non è un caso che alcuni critici del tempo
definirono il disco non compiuto. Eppure esso è denso di musica ancor oggi viva e
suadente: scabra e rabbiosa, certo, ma anche ricca di melodie e armonie, popolare e
sperimentale insieme, dolce e acida come certi assolo di chitarra, tipicamente
contemporanea ma attentissima alle suggestioni musicali del passato.
Ascoltare e riascoltare quel disco non significava per lui celebrare in maniera vaga gli
anni ’60 che tanto lo affascinavano, quanto piuttosto quel senso di possibilità e di
speranza che si alimenta sempre nel cuore della giovinezza, e che proprio in quegli
anni si faceva, forse più che in altre epoche, più consapevole e diretta.
I temi portanti che aveva individuato in quel primo disco rock erano avvolti
dall’ipocrisia che frena la spontaneità degli uomini, dalle false ideologie (siano esse
culturali, religiose o politiche) che non lo fanno esprimere al proprio meglio, dalla
lotta che combatte ogni giorno per contrastare questo stato di cose e che quasi sempre
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inevitabilmente fallisce miseramente. La società nuova che stava nascendo non
piaceva ovviamente a Dylan. Da lì a breve avrebbe fatto la sua comparsa negli Stati
Uniti la famiglia Manson, i vecchi cantautori folk erano oggetto di processi pubblici
improvvisati, la politica e le ideologie prendevano il sopravvento sull’umanità delle
persone. Naturale, o quasi, che un artista sensibile come Dylan rivolgesse, senza però
troppe speranze, il suo sguardo ad un’epoca magari passata, ma più libera, più
sperimentale, più vicina a un’idea di uomo felice. Una società marchiata dalle idee di
liberazione. Le brutture dell’epoca si riversano addirittura, in alcuni passaggi del
disco, in vere e proprie invettive. La confusione è totale sembra dirci Dylan: “c’è
grande confusione sotto il sole quindi la situazione è eccellente”. Ma più che
manifesto politico si profila quasi come condizione umana. La confusione, la lotta,
l’ipocrisia che vanno a incidere in primis sui rapporti di coppia. Queen Jane
Approximately: La storia di un ragazzo e una ragazza che da una stagione di amore
libero e spontaneo si trovano invischiati in una realtà che non solo non è più la loro,
ma anche li schiaccia, lasciandoli spaventati, soli e definitivamente divisi al termine
della storia.
Una morte simbolica, dunque, quella dell’innocenza e della giovinezza, ma anche
l’apertura e la possibilità verso un altro tipo di vita e di mondo meno ingenuo e più
adulto.
Al termine di Desolation Row si sentì un ipocrita perché gli venne in mente, così
all’improvviso, un suo amico poeta che non avrebbe mai accettato nemmeno
lontanamente di lavorare su un “cantante”, un amico che forse in quel momento,
mentre lui si stonava di Dylan e Tavor, era impegnato in uno studio matto e
disperatissimo sulle riletture di Biamonti o di Tommaso Campanella o di sa il diavolo
chi, nella bolgia maledetta di altri più illustri dottori in lettere:
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molto meglio questo di altro
: nessuno meglio di te conosce il linguaggio
nessuno divide e moltiplica meglio di te
declami mirabilmente Montale e Boine
ma non riesci ad accordarti al suono di una casa
le riconosci le risate dei tram a Milano?
o guardi le teste dei brumisti nel mezzo
sonno tentennare? i tuoi cuccioli implumi
mettono mani a libri e quaderni e matite
io ho imparato tutto dalle insegne del Conad
sfogliando pagine di latta e di ferro
nessuno odia i grassi quanto li odio io
eppure alla fine sono diventato come loro
sempre pronto a svendermi per un pranzo
sempre pronto a scopare con qualche puttana
sognando di parlare coi serbatoi d’acqua
sparsi per le strade e diventati pozzanghere
i tetti afferrano al volo ciò che ho da dire
poi cigolano nella notte, l’uno con l’altro
dimenano le loro piccole lingue rosse
sussurrando appena tutto ciò che è indicibile:
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16. new economy in poetry: una lettera – h.17:30
“non ho creduto in niente”
Edoardo Sanguineti
: cari e care,
dimenate le vostre piccole lingue rosse sussurrando appena tutto ciò che è possibile
dire e poetare. E’ davvero un piacere e un onore, oh bardi presenti e futuri alla lettura,
ascoltarvi. E poi farvi notare come nonostante le vostre fragili bocche siano così
acute, nemmeno più ce la fate a uscire fuori dal pianerottolo di casa per declamare
qualche vostra storta sillaba. Che direbbe di voi Ferlinghetti? Nonostante i toni fermi
e cortesi delle vostre poesie, così pregne di contenuti forti, aspri e poco rassicuranti,
ho il dispiacere di comunicarvi che a mio modo di vedere l’unica cosa di buono che
siete capaci di fare, oggi come oggi, è andarvene a vivere a Parigi, al massimo
facendovi ringraziare da Aldo Nove nei suoi libri. Oppure siete capaci di invecchiare.
Ho letto i vostri versi. Ho apprezzato la vostra urgenza, la vostra tempestività, la cura
e il rigore che da sempre hanno fatto da corollario alla relazione che avete mantenuto
con i libri che avete stampato. Degli altri poeti poco m’importa, e di voi come
persone forse ancor meno. Ma è a voi poeti che volgo la mia attenzione: vorrei
moriste tutti, così vi ristampano i libri introvabili e io posso godere nel leggervi
meglio in tutte le vostre angolature.
Non vi scompensi però quest’ultima mia osservazione: ci tengo a rassicurarvi sopra
un innegabile fatto: io non sono un tipo violento. Se c’è qualcuno che vi ha riportato
una cosa simile è incontrovertibilmente una enorme testa di cazzo.
Procediamo comunque con ordine: io, al contrario di voialtri, non ho mai avuto una
relazione sessuale con il vocabolario, sia dall’interno dell’apparato sia dall’esterno. A
me l’apparato fa vomitare. A voi evidentemente no, perché l’apparato ce l’avete
scritto nel sangue e vi dà da mangiare. I più talentuosi di voi oggi fanno i portaborse
alla facoltà di Lettere nell’Università di Genova. Una bella fica che frequentava con
me il corso del professor Coletti ogni tanto la vedo ancora in giro per le aule, quando
mi capita di andarci, e la scorgo sempre impegnata alla ricerca di…libri rari o di…
cazzi duri? Chissà…
Più in là del “Pronto Intervento Poetico” non andate. Qualche lettura alla Madeleine
di sera, ubriachi fradici, col sol fine di spupazzarvi qualche fica decerebrata che si
commuove davanti agli scritti patetici di gente patetica che lascia sulla carta solo le
lagnanze per non essere riuscito a leccare la passerina alla vicina di casa che tanto
adorano.
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Io no. Io vivo a Imperia e non sono come voi. Ad esempio non viaggio come voi. La
strada più lunga che ho percorso è stata quella per affrontare un pellegrinaggio a
Lourdes. Io non sono come voi, io amo Lourdes, secondo me è il posto dove c’è più
poesia al mondo.
Entrando un po’ di più nello specifico: non è mia intenzione macchiare l’immagine di
nessuno ma non trovate quantomeno sospetto che le Farfalle da combattimento
combattano solo sulla carta? E che nello stesso libro il vostro amico poeta si lagni con
l’ultra settantenne Sanguineti che ormai non se ne può più del capitalismo marcio che
corrompe gli animi, che non se ne può più dei gadget col Che? Scusate una cosa: ma
che cazzo ce ne fotte a noi di condividere queste ciance con uno che ormai sta alle
soglie dell’arteriosclerosi e non sa più che dire, tanto che alle ultime elezioni ha
rispolverato la storia del bisogno di una vera “lotta di classe”?
Per me, compagno professore, l’unica lotta di classe che ricordo era quella che facevo
con i miei compagni alle medie a colpi di cerbottana prima che in aula entrasse il
prof. Siamo seri: il vostro amico poeta è decisamente meglio quando scrive di
profilattici.
Ora voglio chiedervi una cosa, brutta manica di stronzi: ma secondo voi io ho il
diritto a dirvi queste cose? A volte mi faccio qualche scrupolo di coscienza. Perché il
fatto è che ho delle domande sopite nei vostri confronti. Dove cazzo eravate voi,
nuovi direttori della poesia, quando hanno ammazzato a Genova Carlo Giuliani? Ma
non eravate il “Pronto Intervento Poetico”, il “Gruppo ’93”.
Oh illustrissime teste di cazzo, ci fate o ci siete? Fate gruppo solo per scopare, come i
ragazzini che formano una band rock o anche per fare della poesia un’azione? Per
scendere in strada? Avrete mica paura di scendere in strada? Avrete mica paura di
incontrare lo spettro di Carlo Giuliani che punta il dito su di voi? Avrete mica paura
che possa domandarvi dov’eravate voi, quel giorno?
A me di Carlo Giuliani non frega un cazzo. Secondo me se l’è cercata la morte, e
starò sempre dalla parte di quel carabiniere. Ma almeno voi, Cristo Onnipotente …
Questo è il mondo, cari e care. E il mondo, si sa, è un covo di serpenti. Il mondo tenta
di farci fuori perché il verso è per carattere schietto e franco. I poeti sono i primi ad
assumersi ogni responsabilità delle loro azioni, e se sbagliano sono pronti a pagare. I
poeti sono i legislatori non riconosciuti del mondo.
Le parole che vi ho scritto spero vi siano arrivate, anche se non le ho scritte io.
Meglio, le ho scritte io ma non è a voi che volevo scriverle. Meglio ancora, è vero
che volevo mandarle a voi ma non ho ancora finito di scrivervele tutte. Le mie parole
sono sempre fuori contesto. Sono sempre in ritardo. In ritardo sulla Storia, sulla
Società, sul Costume, sulla Politica.
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Oh bardi futuri che ancora oggi affollate la Facoltà di Lettere dell’Università degli
Studi di Genova! Oh maschi che vi fate sfondare dai pompini delle studentesse! Oh
femmine che vi fate leccare la fica fino a farla diventare spugnosa e arrossita, tanto
che poi non vi basteranno chili di Vagisil per farvela tornare accettabile!
Oh bardi futuri! Scendete in strada! Scendete in strada! Scendete in strada! Scopate
pure, ma scendete in strada! Smettetela di fare i professionisti della parola!
Ora, per concludere, voglio raccontarvi questa: quando frequentavo l’Università io
(all’incirca nei primissimi anni ’90) c’era una segretaria al polo linguistico di piazza
della Nunziata, che portava due occhi di zaffiro puro. La mia amica Michela, che
allora mi accompagnava sempre, mi diceva che quella un tempo si rovinava di canne
e orge fino a un certo punto della sua vita. Un giorno, infatti, incontrò una specie di
veggente sudamericana che le cambiò l’esistenza, tanto che oggi conduce una vita
morigerata e spirituale. La lesse dentro.
Io avevo un debole per lei. Anch’io volevo leggerle dentro, ma passando attraverso la
sua fica. Il suo nome era Modiana. A quel tempo però io ero uno che si faceva
abbastanza i cazzi suoi, inoltre ero sempre lacerato dalla timidezza. E dalla
recessione. Se quella succhiacazzi della Modiana si fosse decisa a prendermelo in
bocca credo mi sarebbe passato tutto il livore che provavo allora per il mondo, e oggi
per voi. Quella rabbia che malcelo attraverso una polemica con voi imbecilli.
E invece sapete cosa accadde allora? Niente, ecco cosa accadde. Una volta Michela,
provando pena per me, provò ad approcciarla chiedendole un parere sul sottoscritto.
Modiana rispose che mi trovava eccessivamente femminile, che lei amava di più gli
uomini che mostravano più rudezza e più decisione nel comporre versi. Uomini come
voi, insomma.
Merda, ero andato lì a studiare perché desideravo da lei quel tanto che mi bastava e
poi stop: una semplice scopata, magari un pompino con ingoio e nient’altro. Giorni e
giorni trascorsi nel tentativo di scoparmela e invece un cazzo: tempo sprecato a
spolpare pezzi di letteratura per niente:
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quel tanto che mi basta poi stop
: ho spolpato quel tanto di letteratura che basta
da poterti sputare le ossa in faccia e sul naso
ho sciolto nell’acido nomi e cognomi dati
e incominciato ad usare per intero i miei
ho rifatto il letto al meglio e ho corretto le frasi
parlando poco in casa per quel poco che parlo
e vaffanculo a Filologia Italiana e a Glottologia
sono Emiliano Moncia amico mio e non sono te
per quello che me ne fotte puoi andare al diavolo
dal giorno che fecero rimare Nietzsche con camice
rima incantevole e per niente comica cocco mio
mi ci gioco le palle che ora soffrirai nel chiamarmi:
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17. scolpire le parole – h.18:35
Bambini che giocano nei campi
Che ridono fanno capriole
Pescano remano nel ruscello
Lo spillo del vestito della mamma diventa l’amo
Oh tempi felici quando il sole brillava tutto il giorno
Ma cosa è successo a tutti quelli che si sono persi per strada?
Murray Lachlan Young, da Casual Sex e altri versi
: dopo la lettera scritta ai suoi odiatissimi poeti figli del vocabolario si sentiva più
disteso, rilassato. E ripensò ad un altro lato della poesia. Per un paio d’anni infatti,
grazie all’amicizia con il dottor Luca Necciai, infaticabile curatore del sito
www.amicipoesia.altervista.org, ebbe modo di far parte della giuria in un concorso di
poesia organizzato dal comune di Pamparato, uno strepitoso paese arroccato nella Val
Casotto, poco distante da Garessio, rinomato anche per i suoi gustosi biscotti.
Il giorno della premiazione, circondato da decine di uomini e donne che avevano
regalato i loro versi al premio, fieri e timidi nel loro stesso essere presenti alla
cerimonia, pensò a quante fossero, al mondo, le definizioni della parola “poesia”. A
quante voci hanno cantato, spiegato, urlato il suo significato. A quante
indeterminatezze vibrano nel suo senso oggi, agli albori del ventunesimo secolo.
Pensò a Lawrence Ferlinghetti, a come nella sua assenza le donava significato: “un
letto a mezzanotte senza amore, un cielo notturno senza stelle”. Pensò a quanto lui
stesso amasse questa definizione, a quanto la sentisse particolarmente sua.
Eppure anche lì, in quel posto perso dentro il centro del Piemonte, abitato dall’amore
di poche anime viventi, trovò un paniere di voci intrecciate ai suoi pensieri. Tra le
carte che sfogliava, ben piantata dentro un paio di versi di un giovane partecipante al
premio, c’erano queste parole: “Sono il menestrello della parola / dissolvo pagine e
pagine di pensieri.”.
Lì per lì non seppe come definire le emozioni che stava provando: si sentiva
commosso ma allo stesso tempo patetico e sentimentale. Eppure amò quest’immagine
di poeta come “menestrello della parola”, un po’ come il “burattinaio di parole” che
Francesco Guccini cantò qualche anno prima in una sua canzone.
La poesia è un linguaggio che non esiste, ma che va costruendosi continuamente. Un
linguaggio, forse, addirittura multimediale, con il suo sincretismo di segno, musica,
gesto, teatro e parola.
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E quindi, evidentemente, multimediali lo erano anche i nostri padri greci e latini,
quando per cantare le imprese dei grandi imperatori e dei condottieri dovevano
forgiare dal vocabolario comune parole nuove, eroiche, supreme, dal momento che
nuovi, eroici, supremi erano i protagonisti dei loro versi. Occorreva inventarsi un
linguaggio diverso e magnifico, insomma, perché letteralmente, “non c’erano parole
per descrivere quelle imprese”. Era necessario scolpire dalla materia grezza della
parola un senso nuovo del raccontare. Scolpire la parola come un sasso grezzo.
Che sia la scultura l’arte più prossima alla poesia?
Pensava: la fame di intagliare parole è ancora ben viva dentro le coscienze degli
uomini, oggi più che mai. Il desiderio di inventarsi un linguaggio diverso e inaudito
per le cose della vita è ancora ben saldo. Le cose che amiamo, le cose che vogliamo
trattenere. Anche solo con un respiro, affinché non restino dimenticate:
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una cosa dimenticata
per Eraldo Odasso e Luca Necciai
: lì, proprio lì in un canto, accanto la scopa,
c’è una cosa di legno, lì, lasciata così
col manico curvo: c’è una mazza, lì,
adoprata a pestar le castagne da gente di qui:
ricorda, lì, stando zitta, che c’è il tempo che passa
e c’è il tempo che non passa, e che ne passa
dal giorno che nell’aia larga quasi una piazza
la mazza, lì, ha pestato l’ultima castagna, proprio qui:
ora è una cosa dimenticata, lì, e c’è più nessuno che
ricorda che è stata come una cosa viva, qui,
e che è ancora lì, in un canto, che ascolta i canti
e le risa delle vegliatrici che un giorno sentiva:
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18. scene da una storia d’amore e incapacità – h.19:00
“Non faccio altro che lamentarmi, l’avversione è troppo profonda, sto cominciando a chiedermi se
la misura non sia colma. Ascolto me stesso indulgere a quel genere di piagnisteo rituale che
procura una così cattiva nomea presso il pubblico ai pazienti in analisi. E’ possibile che abbia
veramente detestato la mia fanciullezza e provato tanto livore nei confronti dei miei poveri genitori
quanto sembro provarne adesso, mentre mi guardo indietro avvantaggiato da ciò che sono e non
sono? (…) Indipendentemente da ciò, la mia coscienza desidera scoprire, prima che ricominci con
le menate, che allora la mia infanzia non era questa cosa che adesso mi sento così estranea e
oggetto di risentimento”
Philip Roth, Lamento di Portnoy
: undici di ottobre lento, cullato dal dondolo e dalle sigarette fumate in silenzio, nel
tentativo sempre meno riuscito di mettere ordine tra i files della sua memoria, per
capire il momento esatto in cui si era trasformato in pesce, per carpirne il motivo.
Girovagò per le stanze della sua infanzia sotto l’effetto di quattro Xanax da 50 mg. e
emblematiche gli tornarono subito alla mente le botte prese da sua madre. Il padre
non lo aveva mai picchiato invece. A parte una volta: gli diede un sonoro calcio in
culo davanti a tutti, all’interno di una sala giochi, perché l’aveva beccato a marinare
la scuola. Aveva 14 anni. Ma Dio Santo, la madre quante botte che gli aveva dato…
ne possedeva un campionario immenso! Ricordava perfettamente una delle prime
legnate prese da piccolo (gliene aveva date sicuramente anche prima, ma di quelle
proprio non riemergeva più nulla, oramai). Comunque nella sua coscienza scolare era
scolpita una giornata particolare, quando lui aveva circa sei anni. Si era andati, allora,
a pranzo dalla zia G, insieme a tutta la mandria di parenti, cuginetti e cuginette
compresi. Allora vivevano a Latte, una frazione di Ventimiglia a pochi minuti dal
confine con la Francia. Il parentado amava molto fare grigliate di carne all’aperto e
orge di bistecche e rostelle cuocevano tra chili di carbone e legna ammucchiata, quel
giorno. L’usanza faceva sì che mentre gli uomini cuocessero le carni, le donne
preparavano in casa la tavola e i tagliolini freschi da servire poi con il ragù,
chiacchierando, il più delle volte, delle disgrazie avvenute a lontanissime cugine o zie
rimaste in Abruzzo o emigrate in Canada. I bambini naturalmente erano abbastanza
liberi di scorrazzare nel piccolo prato davanti casa e giocare all’aperto. Lui, quel
giorno, era particolarmente orgoglioso di sé, perché dopo tanto tempo la mamma gli
aveva comprato un paio di stivali da cow boy in pelle vera (povera donna, chissà
quanto le erano costati, allora…). Sta di fatto che nel corso di una scorribanda si
accorse di un piccolo tozzo di legno carbonizzato da cui veniva fuori un gran fumo.
Lo trovò così, per caso, proprio al limite tra il prato e la campagna vicina, mentre
stava giocando a nascondino con i cugini. Senza neanche pensarci un attimo si
trasformò nel piccolo John Wayne della situazione e con una colpo di tacco girato a
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terra e ben assestato spense il piccolo tizzone. Il problema fu che il fumo non uscì più
dal legnetto carbonizzato, ma direttamente dalla suola del suo stivale nuovo di zecca.
Raschiò per terra ben bene e quando tutto si spense un terribile odore di cuoio
bruciato gli saliva fin dentro il cervello passando attraverso le narici, e una macchia
giallastra faceva bella mostra di sé dalla suola dello stivale nuovo. Quando andò dalla
madre a riferirglielo, si prese una tale scarica di legnate che trentacinque anni dopo
ancora se la ricordava. Ad oggi, ancora non si permette di spegnere con i tacchi
neppure le cicche di sigarette che lascia cadere in strada.
Tempo dopo, ma più o meno sempre tra i cinque e i sei anni, a casa della nonna,
mamma e zia P. parlavano della figlia di quest’ultima, allora giovane adolescente e di
conseguenza alle prese con i primi turbamenti sentimentali e ormonali. Durante quasi
tutto il viaggio da Imperia a Ventimiglia (perché nel frattempo lui e la sua famiglia si
erano trasferiti a Imperia) madre e padre non parlarono d’altro che del fatto che
qualcuno, chissà chi, aveva visto T. (la cugina quindicenne appunto), in compagnia di
un tipo piuttosto avanti con l’età, seduta in un’auto strana a parlare. Questo episodio
scandalizzò molto la madre e tutta la famiglia. A lui in effetti importava poco se T.
era seduta con un tipo dentro una macchina, non ci trovava assolutamente niente di
male. Evidentemente si sbagliava. Giunti in casa dei nonni, dopo il pranzo e i giochi,
si recò in cucina perché, oltre ai discorsi tra i vecchi di casa, amava ascoltare anche le
chiacchiere delle comari e delle donne. A un certo punto sentì pronunciare dalla
madre il nome di T, la figlia della zia P., sempre lei, la quale era presente e stava
ascoltando. Non aveva idea di cosa stessero dicendole, ma pensava fosse una cosa
riguardante la storia dell’auto, così si mise in testa di esclamare: “Sai zia che la
mamma e papà hanno parlato tutto il tempo di T. in macchina?” Non fece in tempo a
dire “macchina” che sentì una sberla fargli girare la testa, e si ritrovò sul divano
bianco steso come un cencio, incapace di capire la situazione e di interpretare la botta
presa. Guardò per tutto il tempo il Gran Premio in televisione in compagnia del
nonno e non osò più dire una parola.
Quando aveva più o meno dodici anni, la madre e la zia G. andarono al mercato e
tornarono dopo aver comprato due maglie perfettamente identiche, erano due polo,
differenti solo dal colore: una era rosso acceso, l’altra bianca. Lui non era andato al
mercato, era rimasto a casa della zia G. a giocare col cuginetto, sorvegliato dallo zio
D. Quando tornarono e mostrarono le polo sua madre gli chiese di scegliere quella
che gli piaceva di più. Erano identiche, una era destinata a lui, l’altra al cuginetto.
Siccome lui era il più piccolo, aveva l’onore di scegliere per primo.
In quel momento lo acciuffò una botta di panico: scegliere. Dannazione, non sapeva
scegliere, per lui le polo erano uguali, guardava la madre implorandola di dirgli
qualcosa, di fornirgli anche un semplice indizio, sapere da lei quale fosse meglio per
lui, sapere quale a lei piaceva di più. Per lui una polo era una polo, assolutamente
indifferente. A quel tempo pensava solo all’Inter. Non ricevendo alcun messaggio
chiaro, a un certo punto, spinto anche dal nervosismo della madre, indicò la bianca e
immediatamente dopo la zia G. disse: “Ok, allora è fatta! La rossa la darò a L., tanto
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sono belle tutte e due”. Appena scesa dalla macchina rimasero soli lui e la madre, e
lei le disse ciò, semplicemente: “Sei un idiota, ho sudato sette camicie per farmi dare
dall’ambulante la maglietta rossa a un prezzo stracciato. Il rosso ti dona, possibile che
alla tua età ancora non sai vestirti? Possibile che non ti rendi conto se una maglietta ti
può donare o no? Quella polo rossa era la cosa più bella che ho visto al mercato e tu
invece sei andato a scegliere come un babbeo quella più brutta, che tra l’altro costava
anche meno. Non indossò mai quella maglietta e il senso di colpa più grande della
sua vita era ancora oggi legato a quell’episodio. La consapevolezza che non valeva
niente come persona, che non era capace di scegliere, che nella vita avrebbe fatto
sempre le scelte sbagliate. Senza nessuna indicazione da seguire, solo giudizi da
sopportare. Bene. Andò esattamente così. E per un sacco di cose molto più decisive di
quella stupida polo rossa.
Altro episodio: questa volta era molto piccolo e non ricordava neanche bene cosa
avesse combinato. Nulla comunque di così grave dal momento che non era un bimbo
terribile, “vivace” come si suol dire, quanto piuttosto legato a regole ben precise che
se non osservate venivano punite rigorosamente con la scopa sulla schiena. D’altra
parte questo modo di essere educato gli permetteva di restare per molto tempo, nel
corso delle giornate, solo a fantasticare. I suoi lavoravano in campagna e gli
affidavano solo responsabilità piccole, come ad esempio quella di bagnare i gerani sul
davanzale della finestra, stare attento al gatto e non fare entrare nessuno in casa.
Probabilmente contravvenne e una di queste responsabilità, forse non chiuse l’acqua
della vasca per l’irrigazione dei campi e un po’ di terreno si allagò. Nulla di
gravissimo, era già accaduto altre volte. Fatto sta che la sera, al ritorno a casa, la
madre ebbe una vera e propria crisi isterica, si lanciò su di lui urlando e gli strappò i
vestiti di dosso, poi lo pestò fin quasi a farlo sanguinare. Non aveva idea da dove
scaturisse tutta quella rabbia e quel risentimento verso di lui, ma i colpi dati
all’orecchio se li ricordava molto bene. Oltre al fatto di vedersi stracciare anche lembi
dei pantaloni, a sentire i colpi sulle braccia come frustate e le botte sulla pancia con le
mani nude e callose da lavoratrice.
Nel corso di una giornata estiva del 1997 divampò improvvisamente un incendio
terrificante, quasi di proporzioni epiche, che lambì la sua casa e i terreni del padre.
Una intera collina stava prendendo fuoco. I pompieri facevano quello che riuscivano
a fare, e tutti agivano molto in fretta. Lui era chiamato a dare una mano. L’adrenalina
gli scoppiava in petto dalla paura, ma anche il senso di eccitazione di essere lì a
tentare di salvare la sua casa insieme ai pompieri lo emozionava non poco. Era lì che
tentava di avvitare con tutto l’impegno che possedeva in quel momento la pompa
dell’acqua al rubinetto ma faceva abbastanza fatica, perché non era un’operazione
che compiva così spesso.
Sua madre lo vide armeggiare con la gomma e la pompa e il rubinetto, e con le
fiamme alte fino a due metri che a momenti la lambivano, invece di pensare alla loro
incolumità, pensò bene di urlare davanti ai pompieri che era una mezzasega e che non
valeva niente lì, che il suo intervento serviva solo a peggiorare le cose e lo cacciò via.
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Quando lavorava in campagna con lei, fin da bambino erano sempre urla, e perché lui
non sapeva fare nulla, o perché faceva le cose troppo lentamente. Questa costanza nel
considerare il figlio un incapace totale aveva ancora del commovente per lui. Ancora
oggi glielo ripete quotidianamente. Dopo anni di analisi ancora non aveva cavato un
ragno dal buco da questa faccenda. Ancora pochi giorni prima della sua partenza per
Lanzarote la madre ha continuato a dirgli che lui come persona non vale niente, che
non è capace di fare nulla in casa, che non sa risparmiarsi i soldi che guadagna
facendo un mestiere che non è in grado di fare. Che lui non è e non sarà mai un uomo
pratico, e che finché sarà viva lei andrà bene, ma dopo che sarà morta per lui saranno
guai. Inizierà a “cagare con il suo culo”, come è solita dire ormai da trentacinque
anni.
Quando decise di sfidanzarsi (due volte) da due ragazze che si era accorto di non
amare più scoppiarono due tragedie, nel senso che i pianti della madre fluirono a
dirotto, le chiusure nei suoi confronti divennero atroci, i silenzi e le incazzature
costanti, i paragoni con i figli dei parenti, loro sì ragionevoli e servizievoli e con la
testa a posto, all’ordine del giorno. Suo figlio per lei era sempre stato una specie di
mezzo matto, e il modo che aveva per amarlo e insegnargli la vita era quello di
condannarlo all’etichetta dell’incapace, dello stupido, dell’incoerente, di quello che
non aveva voglia di fare niente e che mai niente nella vita avrebbe combinato. Specie
con le donne. Non sapeva come trattarle.
Lui ricordava, ora, immerso nell’acqua, che in trentacinque anni di vita i suoi
problemi non erano mai stati ascoltati in casa, che lui passava sempre in secondo
piano rispetto alle sofferenze e ai sacrifici dei suoi genitori. Ogni volta che la madre
tornava dal lavoro, la stanchezza le impediva di parlare al figlio, e ogni volta che il
figlio tentava di imbastire un discorso, andava sempre a finire che lui non aveva
abbastanza esperienza per esprimere concetti validi. Soltanto ora cominciava a
rendersi conto della solitudine che aveva vissuto da bambino e da adolescente,
dell’impossibilità di essere guidato nella vita da educatori troppo stanchi di lavorare,
troppo rancorosi nei confronti delle proprie sofferenze per ascoltare e accettare anche
quelle del figlio. Eppure amava i suoi genitori, avrebbe fatto qualsiasi cosa per loro, e
non portava loro alcun rancore, se non quello, ormai quasi dissolto dalle nubi del
tempo, di non aver avuto mai tempo di capire che in quella casa, a soffrire e a stare
male, spesso non erano soltanto due persone, ma tre:
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mia madre ha l’anima di pane
a mia madre
: ho nostalgia del pane mai assaggiato:
il sapore del chapati, del phulka bollente
o del tandoori nan mentre sorseggio tè
cullato dalla nenia di un sufi su un tappeto
ma ho sulle labbra il sapore del pane cotto
a legna da mia madre la sua licenziosità
la soffice morbidezza che avvolge il palato
mentre scende la sera e i cani abbaiano
la sensazione di molle cedevolezza sotto i denti
l’emozione della crosta dura e del cuore tenero
la sensualità del perfetto contrasto strutturale
l’anima che per un attimo ridiventa terra:
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19. le cose che ama di lei – h.19:30
“are you experienced?”
Jimy Hendrix
: mentre l’anima ridiventa terra la terra la germoglia. Lui e la sua compagna erano di
nuovo a casa, sulla superficie. Lui le annunciò che sarebbe andato in bagno, e poco
elegantemente le disse: “vado a cagare e poi a farmi una doccia, prima di cena,
amore” e come sempre questo fu una specie di segnale, nel senso che lei sapeva che
se il suo amore andava a lavarsi e a cagare come minimo per prima cosa si sarebbe
fumato una sigaretta, poi si sarebbe letto almeno metà Rolling Stone, poi si sarebbe
goduto la cagata e l’orgasmo da post parto, poi se andava bene avrebbe lanciato uno
sguardo al water che sicuramente sarebbe stato schizzato di merda, quindi avrebbe
fatto due cose: o lo avrebbe tenuto sporco sperando che nessuno se ne accorgesse
(“ma chi, per Dio, se in questa casa ci viviamo solo io e te?”) oppure a malavoglia ci
avrebbe passato lo spazzolone fino a rendere il bagno bianco; avrebbe immerso lo
spazzolone nell’apposito cilindro pieno di candeggina, dato una spruzzata di profumo
all’ambiente (reso irrespirabile) e pensato che questo tipo di operazioni occorrerebbe
portarle a termine ogni volta che uno ha voglia di farsi una sonora cagata in santa
pace. I piaceri hanno un prezzo.
Regole della casa: se a lui capita di dover pulire il bagno nella sua interezza,
compreso il bidè e la tazza della doccia, deve ricordarsi di versare in un contenitore
d’acqua fredda e pulita un misurino di candeggina: è il miglior modo di pulire,
sbiancare e igienizzare. Le pubblicità sull’argomento mentono tutte. La candeggina
va anche versata nel buco della tazza del cesso, poi ci va immerso lo spazzolone, in
modo che si disincrosti dai pezzettini di cacca che possono restarci appiccicati. E quei
bastardi ci rimangono sempre appiccicati.
Passando al reparto spazzatura/cucina: bisogna che lui si ricordi che lo straccio non
va appeso dove stanno le presine, bensì attorcigliato al manico del forno, più pratico
da usare in caso di bisogno. La distanza tra il forno e le presine è di 56cm circa, ma
comunque ciò che dice in materia la sua compagna è legge. Lo straccio va nel manico
del forno, non si discute. Le bottiglie di plastica vanno pressate e gettate
nell’immondizia. Sempre. Comunque. Non esistono giustificazioni. Se non lo fai sei
una merda. La spazzatura, inoltre, quando è piena bisogna buttarla. E fin qui lui ci
arriva. Ma attenzione, non nella pattumiera che è nel vano scala, ma in quella giù in
magazzino. Quindi l’operazione consiste nel caricarsi di spazzatura, scendere
attraverso la scala a chiocciola (strettissima e sicuramente progettata da un maniaco e
comprata da mio padre in un momento di perdita di lucidità dovuta a un ipotetico calo
zuccherino, il che soffrendo di diabete è possibile), rischiare di gettarsela addosso e
poi liberarsi di quel dannato sacchetto di plastica bestemmiando.
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Capitolo indumenti/igiene personale: gli indumenti sporchi non vanno assolutamente
lasciati in giro, pena la decapitazione, bensì presi (una volta fatta la doccia,
ovviamente, questo è concesso) e portati di sotto al fine di infilarli nell’apposito
cesto, quello appunto che raccoglie gli indumenti sporchi. Per quanto riguarda la
doccia, è importante ricordarsi che la saponetta lava meglio, sgrassa di più la pelle e
la rende più liscia; è più naturale, è in armonia coi campi in fiore e con grano
dell’Arkansas e lascia una sensazione di pulizia maggiore. Anche se loro vivono a
Piani e non nell’Arkansas. Ma questi sono dettagli. Per le varie fragranze e unguenti,
nell’atto del lavarsi, c’è un discorsetto da fare: non è tanto importante per lei il
profumo o l’aroma della saponetta: il fatto è che usare la saponetta le ricorda
l’infanzia in Calabria, è naturale ed è pregna degli odori di una volta, di panni stesi al
sole che sanno di sapone di Marsiglia, tanto per intenderci.
Regole della sua compagna: il cruccio delle donne, ad esempio, ovverosia la
depilazione. A lei piacerebbe avere la pelle più liscia, la farebbe sentire più femminile
(lei ha un “maschile” – psicologicamente parlando – molto forte, dice). Per lei il
femminile è il femminile, il maschile è il maschile. Ad esempio: per lei gli uomini
che si depilano non esistono come maschi, ne pone in dubbio la loro stessa virilità.
Capita l’antifona? Dopo la depilazione lei utilizza la crema sorbetto della kaloderma,
che rinfresca e non unge. Lui comunque la trova estremamente femminile e sexy, ma
contro i drammi della depilazione la battaglia è persa in partenza.
La prima cosa che lei fa la mattina appena sveglia è bere acqua a temperatura
ambiente (e questo è ottimo e lui lo apprezza), fumare la prima sigaretta all’aria
aperta (e questo non è ottimo e lui non lo apprezza per un cazzo), poi la prima tazza
di caffè, meglio se non caldissimo. Non riesce a far colazione e se proprio deve riesce
solo con cibi salati, non sopporta il dolce perché le da la nausea. Dopodiché controlla
nel frigo se ci sono tutte conservate le bottigliette piccole di plastica, quelle d’acqua,
che continua a usare e riusare fino all’usura. C’è il frigo che straborda di bottigliette
vuote.
Lei è una tipa a cui piacciono le cose funzionali: una volta si è comperata una borsa
double-face che ha usato fino alla disintegrazione. A lei piace fumare molto in
macchina, guidando e ascoltando i suoi CD preferiti, però ogni tanto si lamenta del
fumo e blatera di voler smettere. Ma siccome possiede una volontà da scoiattolo,
difficilmente riuscirà in tempi brevi a raggiungere tale obiettivo.
Ama girovagare per i mercatini dell’usato con il suo compagno appresso perché
adora quegli ammennicoli, ma solo se tenuti in buono stato.
Nell’ambito relax la cosa che la manda in orbita è l’odore delle lenzuola, o anche
dormire con due cuscini; provare piacere nel fare la cacca senza avere dei veri e
propri “riti” come il suo compagno (sigaretta, riviste, silenzio, concentrazione,
abbandono). Vorrebbe una cagata naturale, spontanea, non indotta da nessuna erba o
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tisana o lassativo. Una cosa in armonia col mondo - ricordate l’Arkansas? Ecco, hai
capito con chi hai a che fare? Una volta ha confessato al suo uomo che un piccolo rito
prima di andare in bagno ce l’aveva: si toglieva tutte le parti di vestiario sotto la
cintura e si lasciava la maglietta. Poi, così come ha cominciato, ha smesso. Quando
va a letto le piace lavarsi i denti molto bene, passarsi il dentifricio, preferendo uno di
una marca non troppo forte (ad esempio il suo compagno usa il Marvis, dentifricio
coi controcazzi), ecco diciamo che in questo periodo lei trova il Pepsodent
abbastanza concreto.
Camminare a piedi nudi sul prato nuovo appena innaffiato, sentire la piacevolezza dei
fili d’erba che le accarezzano le palme dei piedi la sparano in un’altra dimensione. Le
piace stare seduta e anche sdraiarsi sul cemento, a volte. Adora studiare, per poi
riproporle al suo compagno, le posizioni in cui dormono i gatti, specie quelle che
assumono quando vengono a dormire senza alcun permesso nel letto che hanno
preparato per gli ospiti dentro lo studio.
Ama le caramelle sfuse, comprate non nei supermercati bensì nei negozi specifici di
dolciumi, in special modo va matta per le caramelle alla liquirizia Horvath. La sera,
dopocena, per lei è inconcepibile non andare sul dondolo in terrazza, anche solo per
dieci minuti, a succhiare le caramelle, gustare una goccia del caffè serale, parlare un
po’ col suo compagno oppure anche schiacciare un pisolino, o magari pensare un po’
alla giornata appena trascorsa, al lavoro, a qualche problema che la assilla. Spesso
però adora starsene lì a contemplare la natura e ad ascoltare le rane gracchiare.
Non ama leggere libri ma li assaggia per vedere se la prendono, e se la prendono poi
la costringono a una lettura tutta d’un fiato, altrimenti “le passa il sentimento”. Le
piace avere le dediche sui libri, e rimprovera spesso il suo compagno quando
dimentica di scriverle.
Fa un poco di fatica nel mettere i suoi abiti e le sue cosine in ordine, forse li sente
oppressi tra le ante dell’armadio, tanto che spesso dice che ama vedere i suoi capi
d’abbigliamento stesi sul letto, in modo da sceglierli a colpo d’occhio, d’istinto.
Ha dato un taglio ai perizoma, le piace poco il reggiseno, preferisce le mutandine
classiche, quelle un po’ fanciullesche, con “Hello Kitty” stampato sopra. Ecco, al suo
compagno questo eccita da morire. Neanche lui ha mai amato il perizoma come
indumento intimo femminile.
Stare sdraiati sul dondolo, nelle notti di luglio, e mettere su l’ultimo CD di Eric
Clapton, Back Home, è un momento di dolcezza infinita. Il disco si apre con So Tired
che significa “così stanco” (intro perfetto dopo una giornata di lavoro), poi i ritmi si
fanno più lenti e ariosi, c’è qualche spruzzatina di reggae e sembra un po’ di entrare
in una tipica atmosfera giamaicana. In seguito il suono si fa più intimo, casalingo, ti
lascia pensare e ballare dolcemente sulla veranda con un bel sound chiaro e aperto:
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back home
a Emanuela, sempre e per sempre
: è oggi un cielo chiaro mentre la strada si apre alla collina
tra il mandorlo e il ciliegio già in fiore il traffico spegne
le sue ruggini, non riesce a cambiare quest’aria ferma
i fiori e le rose ancora spruzzate dalla brina del mattino
occhieggiano come donne divertite a un appuntamento
la scala a chiocciola, la terrazza, il dondolo
le cicale e le rane canteranno anche questa sera
si aprirà il cancello, abbaieranno i cani all’auto
il mio cuore batterà in sincrono con i loro sussulti
come un pesce rosso impazzito fuori dalla fontana
sarà così che la mia voce salirà il tuo maggio
e le finestre sapranno l’odore d’aria e di pietra
scorrerà una porta, si smuoverà l’anima
e ci sarai tu – ferma e chiara:
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20. l’arcobaleno prima del traffico – h.20:30
“chi non ha ancora accettato il fatto compiuto deve rassegnarsi:la letteratura – narrativa
scomparirà, sommersa dalla sua noia, e verrà sostituita da tante cose più fresche, eccitanti e
interessanti.”
Tommaso La Branca, AndyWarhol era un coatto
: anche la cena andò a meraviglia. Si limitò a mangiare un po’ meno per far contenta
la sua compagna e a tratti vi furono risate e racconti divertenti. Anche per il
dopocena, il solito rito: salire al piano di sopra e controllare le e-mail. Mandò giù tre
compresse di Tavor da 2,5 mg come digestivo e accese il computer. Ricominciò a
immergersi lentamente nel fondo dei suoi oceani, rammentandosi di un racconto
bucolico, una specie di fiaba scritta con la Carla anni fa. Non si ricordava però se la
teneva ancora tra i files o no. Controllò. Niente. Mandò allora un breve sms a Carla
chiedendole se lei lo possedeva ancora e infatti dopo dieci minuti circa l’e-mail con
l’allegato arrivò sul suo desktop. Ringraziò la Carla con un altro sms e si mise a
leggerlo, per capire se fosse ancora buono o meno. Stava cercando di mettere giù
qualcosa che contrastasse in maniera forte con il testo in versi su John Fante di cui
aveva preparato la cover per il progetto Undicidieci, e che sostanzialmente era una
caustica rappresentazione del traffico che tiranneggiava Imperia. Traffico per cui
diversi amministratori e architetti, dell’attuale e di passate giunte, avrebbero dovuti
essere almeno impiccati, secondo lui, come si faceva con gli ubriaconi nel west,
anche perché era sicuro che il livello di scolarizzazione di tal signori fosse lo stesso.
Questa dunque era la fiaba che lesse e che decise di inserire nel libro che stava
scrivendo:
“Un giorno lontanissimo, praticamente il doppio di milioni e milioni e milioni di anni
fa, il nostro bellissimo pianeta Terra si trovò sbigottito di fronte al più grande litigio
mai visto: si azzuffarono, pensate un po', addirittura le stagioni. Tutte insieme. Prima
di allora la primavera, l'estate, l'inverno e l'autunno danzavano tranquillamente e si
susseguivano senza problemi: il Sole veniva dopo la Pioggia e la Pioggia veniva dopo
il Sole. Era naturale. Ma quel giorno lontanissimo - accidenti a quando avvenne proprio il Sole, nel momento esatto in cui lasciava spazio alla Pioggia, cominciò a
lamentarsi circa il fatto che lui doveva lavorare di più, e che gli toccava sempre
mettere una pezza ai guai che combinava la pioggia, come ad esempio le alluvioni e
le inondazioni. E poi i bambini, quando piove, sono sempre tristi. Vai a sapere perché
mai gli venne in mente di dire una cosa del genere...chissà, forse era stanco. Sta di
fatto che la Pioggia, vanitosa come una faina, rispose stizzita che invece era lei che
era costretta a lavorare di più, dal momento che il Sole non faceva altro che far
seccare i campi e inondare - disse proprio così - di caldo gli uomini. E poi i bambini,
quando c'è il sole, hanno troppo caldo e sono sempre tristi. Litigarono talmente forte
che alla fine decisero di dividersi in due parti uguali la Terra, per dimostrare che l'uno
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poteva vivere meglio senza l'altra. E così la nostra povera Terra si ritrovò divisa in
due: dal Polo Nord all'Equatore la Pioggia prese il comando e dall'Equatore al Polo
Sud il suolo era ricoperto dal Sole. Come riuscite facilmente a immaginare la
situazione per gli abitanti del pianeta non era per niente facile. Nella parte del Sole la
siccità e il caldo erano insopportabili e da quella della Pioggia le alluvioni e l'acqua
battente in eterno non erano certo benvolute. Gli uomini erano arrabbiati, tristi e
spaventati, nessuno sapeva cosa fare. Discutevano e ridiscutevano, si accapigliavano
e si maledicevano l'un l'altro. E allora furono i bambini a prendere in mano la
situazione. Si riunirono tutti insieme e decisero di intervenire. Dopo una grandiosa
riunione e una bella discussione chiamarono il Sole e la Pioggia e chiesero loro di
fare la pace. Non era possibile continuare così. Se la storia del litigio fosse andata
avanti ancora per molto tutti loro avrebbero odiato sia l'uno che l'altra. I due litiganti
ascoltarono attenti, poi si guardarono in faccia e scoppiando in una sonora risata si
resero improvvisamente conto dell'importanza reciproca e si strinsero la mano.
Dissero che la pace era fatta. I bambini però chiesero un segno chiaro della avvenuta
riconciliazione, una prova che non si sarebbero mai più spartiti il pianeta. I due allora
si fecero l'occhiolino e regalarono ai bambini un ponte colorato che dalla Terra salisse
su fino al cielo ogni volta che la Pioggia lasciava posto al Sole. Un grande arcobaleno
comparve sulla Terra per una settimana intera: dalle auto la gente scese, intasando
tutte le strada, solo per guardare lo spettacolo”.
Lo trovò ancora piuttosto buono, nonostante fossero passati un paio d’anni da quando
l’avevano scritto, gradevole alla lettura e piuttosto sciolto. Pensò che l’adattamento
col testo di Fante potesse riuscire abbastanza bene. Oltretutto proprio la sera prima,
tornando dall’aeroporto di Genova in auto, si sentì per tutta la durata del viaggio
come circondato da un’orgia malefica di clacson, tubi di scappamento, camion, moto
che zigzagavano ovunque rischiando di fargli a fettine la sua recentissima Matiz. Se
poi aggiungiamo che il suo sguardo era perennemente distratto dai pensieri sulle
scollature delle ragazzine e delle colleghe che aveva visto a Lanzarote e che erano
miscelati a dosi discrete di psicofarmaci…praticamente ogni cinque minuti rischiava
di sbandare e finire la sua vita come il protagonista de L’Isola di cemento di Ballard.
Comunque tutto il traffico che aveva assorbito la sera prima gli aveva fatto venir
voglia di andare a cercare qualcosa di Fante che rispondesse bene alle sue idee, e
inoltre di andare a ripescare qualcosa di naturale, di docile e armonioso. Magari
qualcosa di già scritto, dal momento che in quel momento non si sentiva proprio né
docile né armonioso. Non ce la faceva proprio a scrivere nulla di originale: le
emozioni che provava veleggiavano da tutt’altra parte. L’aiuto di Carla fu quindi, per
lui, quella sera, determinante. Pensò che aggrapparsi a qualcosa di bello pur di restare
a galla quando stai scivolando verso il fondo degli oceani potesse avere almeno due
letture razionali: una negativa (usi le persone sane per salvarti il culo), una positiva
(chiedi aiuto quando sei nella merda). Anche se strafatto era consapevole che
comunque fossero andate le cose i suoi sforzi di dare alla sua vita una svolta
andavano verso la seconda opzione. Ma era ogni giorno più difficile, ogni giorno più
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forte la narcotizzazione dei suoi sentimenti e delle sue emozioni. Ecco, anche in quel
momento, fuggì. Volontariamente diresse la sua mente verso altri argomenti. Tornò a
lavorare al testo di Fante, cercò di immaginarselo e di trovare la maniera migliore di
interpretarlo. Fante gli ricordava il padre. Bene, questo poteva essere un inizio.
Aveva voglia di descrivere il traffico cittadino. Ok. Provò a incastrare tutte queste
cose. Imperia negli ultimi anni era divenuta una vera e propria giungla incustodita,
senza alcuna regola, e che anche la persona più buona al mondo (ad esempio suo
padre) rischiava costantemente di perdere le staffe.
Alla fine venne a galla un episodio, lo scrisse, lo maneggiò, lo confrontò con il testo
di Fante, gli piacque, lo inserì nel testo.
Già che c’era, diede uno sguardo anche alle altre mail:
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la città invasa dal traffico
: sembra non ci siano leggi guidi attraverso Imperia fai un’inversione a U
sul Lungomare Vespucci quando pare a te guidi a destra poi a sinistra
al senso unico in Viale Matteotti puoi saltare sul marciapiede
buttare giù ciclisti e pedoni suonare il clacson come un folle provare
sempre a superare qualsiasi cosa urlare e mandare all’inferno chiunque
anche in Corso Garibaldi le cose non vanno meglio, ma gli incidenti
sono pochi quando c’è molto traffico mio padre si butta a sinistra
piazza le mani sul clacson nel tentativo di far saltare i nervi
gli altri automobilisti i pedoni terrorizzati e qualche vigile
gli urlano dietro agitano i pugni i rumeni sputano per terra
in Via Nizza per via degli studenti che traversano la strada
gesticola in modo convulso ride e mette gli occhiali da sole
ieri sera poco prima dell’incrocio di Via Cascione ha visto
una Cadillac Coupè de Ville nuova e bianca targata Monaco
immediatamente ci si è messo alle costole dando di clacson
senza mai mollarlo l’automobilista francese è impazzito
ha tentato di accelerare per seminarlo ma non ci riusciva bene
il francese si sarebbe buttato giù da una scarpata
pur di farlo passare e dopo un altro lunghissimo assedio
col clacson che gli strideva nelle orecchie ha trovato un angolo
passandogli accanto mio padre gli ha scaricato insulti e grida
una curva più avanti e sì è imbattuto in due pulmann enormi
hanno incagliato la Cadillac e all’improvviso si è verificata
una empasse inenarrabile coi passeggeri a litigare col francese
mio padre ha iniziato a dare pugni al cruscotto dal ridere:
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21. bestie – h.21:30
“eravamo quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo”
Gino Paoli, Quattro amici
: trangugiò altri due Tavor da 2,5 mg prima di aprire l’e-mail di un amico. La lesse e
si divertì molto. Aveva voglia di iniziare una corrispondenza con gli amici che teneva
sparsi per l’Italia. Le corrispondenze, d’altra parte, non le tengono semplicemente le
aspiranti melisse p tempestate dagli ormoni che, come ama sottolineare con sarcasmo
e senso acuto della provocazione il suo amico Paolo, sublimano l’assenza di sesso
orale succhiando la punta della loro bic, magari sdraiate sul letto pronte ad allagare i
fogli con l’inchiostro simpatico delle loro timide emozioni. Un ottimo diario per
esempio lo teneva l’Ungaretti uomo di pena in guerra, sotto forma di poesia.
Iniziò creando la mailing list e annunciando a tutti che: a parte la pratica del sesso
anale, l’osservazione da antropologi degli invertebrati che abusano di droghe
sintetiche e il decadimento delle norme sociali, tenere una corrispondenza tra amici
attraverso le e-mail era per lui tra le avventure più graziose per cui valeva la pena
fermarsi un attimo dal lavoro e lasciare boccheggiare la materia grigia.
Continuò con un paio di domande provocatorie, giusto per scaldare l’atmosfera:
chiese loro a quanti e quali ieratici idoli avevano incensato templi così immensi da
permetter loro di soggiogarli a tal punto da illuderli che lasciarli fasciare da completi
griffati e padroneggiare un vocabolario che comprende le parole e/o espressioni break
even, non si preoccupi, fattura e bonifico li affrancasse davvero dall’essere loro
stessi. “Perché fate ciò che fate?” – chiedeva (erano quasi tutti avvocati o piccoli
imprenditori) – “Volete il possesso di un’auto più potente? E fin dove avete
intenzione di arrivarci? A Busalla, in provincia di Genova, forse? Volete davvero che
la vostra dichiarazione dei redditi passeggi accanto a voi quando, nelle domeniche di
giugno, vi gustate un gelato nocciola & pistacchio sul lungomare di Oneglia?”
Nonostante il Tavor si rendeva conto dell’inutilità e della pretenziosità di tali
domande, ma non aveva nient’altro di meglio da chiedere e il farlo lo divertiva
comunque. “Perché accumulate denaro? Per contribuire alla crescita della democrazia
nel Paese? Per conquistarvi beni di consumo che dopo tre secondi getterete
nell’immondizia convinti che l’inesistenza di Dio è comprovata proprio dal fatto che,
ci fosse veramente un Dio, non vi avrebbe mai permesso di spendere soldi per
acquistare tali idiozie?”
Anche i suoi amati amici avevano passato il giro di boa dei trent’anni, lavoravano
diciotto ore al giorno e stentavano, alcuni, a credere che fino a pochi anni prima il
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problema principale della loro esistenza consistesse principalmente nell’aver studiato
abbastanza per affrontare l’agonia dell’interrogazione di matematica della
professoressa Monti, o quella più sottile ma non meno diabolica del professore di
latino, Anfosso; o anche quella rigorosa e implacabile di Ribò, professore di scienze,
ma anche solo quella più ragionevole e a tratti sopportabile, come quella del
professore di italiano Alassio, se vogliamo.
Anche i suoi amati amici avevano poco più di trent’anni, alcuni trentatre come lui, e
anche ovviamente come Cristo quando si lasciò crocifiggere portandosi addosso le
colpe dell’umanità, tornandosene al Padre con nello stomaco l’impossibilità di vivere
dentro il mondo. Poco più di trent’anni come il Buddha quando si mise a sedere sotto
un albero a meditare così da dare a tutti gli uomini almeno uno strumento che li
liberasse dalla loro sofferenza.
Oggi compiva trentatre anni: era stato un giorno carico di nuvole, scrisse agli amici.
Era solo, la sua compagna era ancora al piano inferiore a chiacchierare con i suoi, e
lui non aveva voglia di stare in casa. Uscì sulla terrazza, gli venne improvvisamente
voglia che fossero le sei di pomeriggio, così da poter andare a passeggiare sotto i
portici, con lo sguardo che si avviluppava come una serpe attorno ai corpi
stupefacenti delle ragazzine che incrociava. Sedicenni e diciassettenni che portavano
a spasso la loro gioia di vivere. Gli piaceva immaginarsele disinnescate tra le sue
lenzuola, quelle due bombe che si elevavano allo sguardo come trofei.
Lo avvinghiò una voglia matta di mordere la luce della luna, di masticare le nuvole,
di inghiottire il vento e digerirlo in tempesta. Lo prese una smania di scoparsi la figlia
tredicenne di un suo vicino di casa. Una cosa eretica magari, alla presenza del
vescovo, all’interno di una delle sale principali della diocesi. Ebbe voglia di urlare
che era interessato solo a sollevare gonne e a inserire parti del suo corpo, poco gli
importava quali, all’interno di qualsiasi umido scranno di un corpo femminile
giovane, puro e immacolato.
Si rendeva conto dell’inutilità di quei pensieri ossessionati dal sesso, ma non aveva
voglia di mettere la testa a posto. Non voleva correre il rischio di non ritrovarsela più:
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quattro amici
agli amici
: per la tristezza occorrono amanti che rasserenino
ti sussurrano cose così primaverili e assolate
che ti fanno scordare tutto come fossero d’oppio
ma oggi la mia amante si chiama solitudine
nelle giornate buone tutto è buono
e uscire nel mondo è come uscire da scuola
con ogni cosa faccio baldoria
io ho quattro amici che sono come quattro
quieti luoghi in cime a queste colline morte
quattro soste all’ombra dopo una passeggiata
li vedo quando capita e ci sto come si sta
accanto alla fontana a sentire l’acqua tremare:
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22. entiazel – h.22:00
liberamente ispirato alla canzone “Amore Assurdo” di Morgan, contenuta nell’album
“Da A ad A” (Sony, 2007)
mi ha telefonato dopo più di un anno
di silenzio, e mi ha chiesto: “Are you
in love?”. Potevo risponderle
che sono continuamente innamorato,
che adoro sempre, che sono
fedele alla dea di Pafos, ad Eros.
Ma lei, che cosa voleva sapere?
Perché mi aveva chiesto così?
Ho esitato, ho esitato.
Giuseppe Conte, “May be” da Dialogo del Poeta e del Messaggero
: chiuso, affondato in un’orgia di Tavor e Xanax, con i ricordi confusi, ripensò a
quanto fosse assurdo ritrovarsi seduto ancora una volta davanti al pc a scrivere di lei.
Perché il pensiero del sesso lo ricollegava immediatamente a Entiazel.
La prima volta che si incontrarono fu sette anni fa, alla stazione di Bologna. Lei gli
disse che lo trovava più basso di come se lo immaginava, e rise, ma con una cortesia
attenta a quella piccola gaffe. Lui ci scherzò sopra, non diede apparente peso a quelle
parole, ma si rese conto subito che qualcosa nella serata sarebbe andata storta. E così
in effetti fu, almeno fin quando si limitarono a gironzolare per la città (lo colpì il fatto
che fosse molto sporca), ad andare per pub giusto per gustare l’atmosfera di una città
godereccia come Bologna (lui continuava a trovarla sporca, vandalica e un po’ troppo
selvatica per i suoi gusti) e alla fine cenare in un piccolo ristorante a base di tomini e
piadina. Trovò vomitevoli entrambi, ma la bellezza della ragazza che aveva di fronte
cancellava ogni cosa. La storia iniziò a prendere il verso giusto quando rimasero soli
e un taxi li accompagnò a casa di un suo amico, momentaneamente assente per
lavoro. Si sistemarono in camera, poi lui andò in bagno a farsi una doccia. Quando
uscì lei aveva un corpetto bianco e delle mutandine di pizzo che le fasciavano il culo
in una maniera straordinaria e impensabile. Fino a quel momento lui trascinava con
sé un cuore ma entrando nella stanza e guardandola stesa sulle lenzuola capì che non
lo avrebbe mai più posseduto allo stesso modo. Erano passati sette anni da allora, da
quel temporale notturno che la fece sobbalzare come una bambina mentre già il
corpetto era scomparso e i suoi seni erano pieni nelle sue mani che strizzavano i suoi
capezzoli argentati. Prima della pioggia stavano leggendo Il racconto dell’isola
sconosciuta di Saramago (glielo aveva portato lei in dono, in cambio lui le aveva
regalato Mister Vertigo di Paul Auster). La voce di lei era un rimedio per le sue corde
vocali, se ne accorse e lo baciò con un tono morbido, dal gusto di farfalla. Una
farfalla aveva tatuata sulla spalla: “è il mio simbolo di libertà” gli disse, ma lui non si
stancava mai di leccargliela, perché alla fine non avesse ragione. Avrebbe dovuto
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prenderla in parola allora, ma era solito non seguire mai la stessa strada: cambiare
improvvisamente direzione, mascherarsi, farsi e fare aspettare, nascondersi e giocare.
Ancora oggi, dopo sette anni la stessa e-mail e lo stesso numero di cellulare sui quali
farsi cercare, ardere, desiderare, assistere allo spettacolo d’arte varia del ragazzo che
s’innamorò di lei, che commise mille peripezie, viaggi a Roma e desideri di viaggi a
Putignano, messo roba nelle stive per ricordare, accumulare nastri, carte, fotografie.
Oggi aveva ancora voglia di contatto, di scriverle e parlarle. Volgersi a lei e ritornare
nella sua vita anche solo per una notte, per restituirle quello che lei gli aveva dato.
Nonostante sette anni di cuore infranto, da lontano, aveva voglia d’esser grato. Salì in
soffitta, dove l’aveva accompagnata una volta e dove stava un grande specchio
davanti al quale lui le alzò un giorno la maglietta, le sollevò i seni e iniziò a leccarla
sulla nuca e sulle orecchie. Ritrovò lo specchio intatto, e il disco di Ry Cooder che
ascoltarono nel momento dell’abbandono, in quel gelido mattino di giugno
bolognese. Fu fatale per lui accompagnarla alla stazione, leggerle l’etichetta a spirale
sulla maglietta che indossava, che se continuava a guardarla girare lo poteva
ipnotizzare, diventare un cono che saliva, tridimensionale.
Nello specchio in soffitta non rivide solo quegli attimi, ma anche quella notte golosa
di Bologna, la sua musa con una candela all’oppio aspirata dalle splendide narici;
rivide anche l’illusione di rimaterializzare il loro disordine speciale, il suo
abbigliamento sbagliato e casuale che tanto la faceva sorridere.
Una notte a Genova, il loro secondo incontro: gli odori eterosessuali scambiati tutta la
notte, una vasca da bagno e loro due immersi nel vino rosso, brindare al sesso. “Vuoi
scoparmi tutta la notte” le chiese mentre lui affondava e spingeva dentro di lei, con la
rabbia di sapere che non l’avrebbe mai più rivista. “Scopami tutta la notte” le
sussurrava, ed era proprio quella voce a riempirgli l’erezione, a sfiorare con talmente
tanta grazia il suo sesso da farlo indurire e scoppiare, venendole sui seni dopo ore e
ore di disperato amore. La contrazione dei muscoli della sua fica, l’abilità con cui
riapriva e chiudeva la muscolatura interna, la capacità straordinaria di tenerlo dentro
quanto lei desiderava e lasciarlo andare solo quando lei ne aveva voglia erano un
sortilegio, una magia che trasformò il ragazzo in uomo. Un autentico rapimento. Non
ci fu mai il pompino tra loro due: era una cosa su cui scherzavano sempre, ma era
talmente bello per lui penetrarla che per la prima volta nella sua vita non sentiva
l’esigenza del fiato e della lingua di una donna accarezzargli il cazzo. Il suo fiato era
di biancofiore e gelsomino, emanava purezza attraverso il respiro e le parole, il suo
corpo grondava desiderio e sudore, stanchezza e armonia, godimento e assuefazione.
La sua fica stillava miele.
Inspiegabile cosa accadde una volta uscito da quelle due stanze, a Bologna e a
Genova. Forse trasformazione radicale di tutto il suo universo, forse il cuore in pezzi
separati definitivamente e tenuti incollati nel petto solo dalla disperazione, conservati
come i frammenti dello specchio su cui ora stava riflettendo il viso della sua Entiazel.
Un viso che poteva scegliere, idolatrare, venerare. Ma che dopo un tale amore non
poteva più riamare:
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ogni cosa
per Entiazel
che ha anche altri nomi
ma non qui
: ma se è un odore sessuale ciò che cerchi
farò ogni cosa tu mi chiederai di fare
se vuoi un differente modello d’amore
ti indosserò in una maschera nuova
se quello che aspetti invece è un partner
stringi forte il palmo della mia mano
se invece vuoi mettermi al tappeto quando
sei arrabbiata sappi che io resterò a terra
sarò il boxeur che salterà su un ring per te
sarò il dottore che esaminerà ogni tuo centimetro
sarò il pilota esperto che ti farà montare in auto
sarò buono anche solo per farti fare un giro
stanotte però lasciami strisciare ai tuoi piedi
soltanto per ululare alla luna la tua bellezza
per graffiarti il cuore come un cane in calore
per lacerare il tuo sesso e poi implorarti pietà
dirti che se vorrai camminare insieme a me
qualche istante sulla sabbia io sarò qui:
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23. breve commiato – h.22:10
“anche per tutti loro è giunto il momento di dirsi addio”
Pier Vittorio Tondelli, Camere Separate
: si alzò e si diresse verso la biblioteca. La copia delle Opere di Pier Vittorio Tondelli
gliel’aveva donata proprio la piccola Entiazel.
Venne colto dalla disperazione. Volle scrivere direttamente a PVT, ma non su un
formato word…aveva voglia di sentire le mani muoversi impugnando una penna,
vedere tracce su un pezzo di carta. Tornò alla scrivania e iniziò di getto a scrivere:
“te non ti ho mai conosciuto, se non altro perché quando te ne sei andato io ero
troppo piccolo per capire le cose, tanto che quel giorno lì io mica me lo ricordo. Mi
ricordo che avevo forse sì e no 18 anni, quel giorno lì. Sì sì sì lo so cosa stai
pensando: non ti credere che non t’immagini strabuzzare gli occhi e sorridere
bellissimo come sicuramente eri (di te ho avuto sempre e solo le foto dentro nei libri
e sopra i giornali, ovvio), con la fantasia di vederti e dirmi: “come sarebbe a dire che
eri troppo piccolo? a 18 anni?” Sì caro Pier, a 18 anni ero un’altra persona così come
molte volte nella mia vita sono stato tante persone diverse, procurandomi un’infinità
di metamorfosi, morti e rinascite continue, come un piccolo Lama ligure. Chissà
quante altre me ne ricapiteranno? Lo dico a te perché queste cose tu sì che le sai bene,
e non ho per niente voglia adesso di starti a ripetere cose che già conosci.
Te non ti ho mai conosciuto, dicevo, ma ti avevo dentro nello stomaco e sei venuto
fuori nella luce nella mia essenza quando ho letto i tuoi Altri Libertini e le tue
Camere Separate. Sì sì sì ma ora a me che cosa resta di te? Tu mi hai visto con Enos,
con la Carla e con la tua mamma davanti alla tua tomba, ero lì con quel rosso mazzo
delle mie rose che ti ho portato solo per te e che ti avrebbero tenuto compagnia con
quel profumo di rosa che solo le rose hanno.
Sì sì sì ma adesso che mi hai insegnato a leggere, a parlare, a scrivere? adesso che mi
hai preso la mano e mi hai invitato a iniziare il viaggio? Dove devo andare?
Quando penso a te ho un vuoto dentro la bocca e dentro l’anima, che intanto
diventando piccola piccola si fonde con lo stomaco. Ti devo l’amore, Pier, quasi la
vita.
Fatti un buon viaggio, che ci stai tu che hai il tuo odore da seguire e ci sto anch’io che
ho il mio odore da seguire: ti lascio nella sera insieme al ricordo delle mie rose e a
quello del mio primo bacio a scuola dato alla ragazza Sara, che mi abbandonò perché
anche lei, come noi, aveva il suo odore da seguire”:
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è che ho il mio odore da seguire
ancora alla Carla,
per quella volta che
mi ha insegnato Tondelli
: ma che bella bambina magra e bionda che è
avrà si e no quattordici anni ma gesù è bella
si vede come mi guarda dal fondo del corridoio
nell’intervallo prendo la sua mano nella mia
e dico bè lei mette la sua manina nella mia
e dice bè anche lei e dopo espletata questa rapida
conoscenza rotoliamo giù per le scale in palestra
dicendo bè come due pecorelle innamorate
le do un bacio? daglielo daglielo che la vocina
mi dice così allora glielo do ma con che coraggio
poi anche lei mi bacia e si macella con le dita
la focaccina farcita che tiene stretta stretta a se:
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24. la bambina – h.22:30
“respirando ho guardato la bambina che sorrideva e questo era un sorriso e era il mio batticuore
che nessuno ha mai scritto su un giornalino, su un libro è difficile mentre Filippo è lì vicino a te c’è
un’agitazione così forte, non riesco a spiegare ma tutto era così davvero sera che diventava sera, e
si trasforma in notte e estate e voglia di piangere e ridere nello stesso batticuore”
Aldo Nove, Amore mio infinito
: era una questione di meccanica. Non fece in tempo a commuoversi per Entiazel e
Tondelli che tornò con la memoria ad affondare dentro il nero degli Oceani. Si stava
di nuovo trasformando in un pesce. Una questione di meccanica: ti fai di
psicofarmaci e inizia la trasformazione squamosa. E i ricordi arrivano subito. La
prima bambina la conobbe alle Magistrali, nel corso di un’assemblea per protestare
contro la riforma del governo che tagliava fondi alle scuole pubbliche. Non ricordava
i particolari dell’incontro, le fasi successive di consolidamento della conoscenza e la
trasformazione in amicizia vera e propria. Si ricordava però la serata in pizzeria, alla
fine dell’anno scolastico. A un certo punto una sua amica decise di andar via, a casa,
e lei si offrì di riaccompagnarla a piedi. Andò anche lui. Al ritorno erano soli,
passeggiavano più lentamente. Si sfioravano, ridacchiavano, lui faceva battute
divertenti, lei sorrideva. Non appena svoltarono l’angolo di piazza San Giovanni e si
ritrovarono nei pressi del mercato coperto lui si trattenne un istante, giusto il tempo di
farla avanzare di qualche passo. Non c’era nessuno con loro, la strada era per metà
oscura. Lei si voltò, lo fissò piegando all’ingiù un angolo della bocca e sollevando le
sopracciglia in un’espressione di finta sorpresa e di curiosità. Erano faccia a faccia, e
lui desiderava proprio questo. Le sferrò un pugno e la colpì al naso. Il sangue schizzò
altissimo, lei non ebbe neppure il tempo di respirare né di dire niente. Con un paio di
movimenti rapidi e precisi, nel più assoluto silenzio, la trascinò all’interno del
mercato coperto. Ora lei iniziava a mugolare. L’afferrò per capelli e la portò nella
zona più scura. Le montò a cavalcioni e le strappò la t-shirt sbrindellandogliela. Poi le
infilò i lembi della maglietta in bocca, in modo che non urlasse. Nello stesso
momento le serrò due ganci alle mandibole e per poco non si spezzarono. Dopodiché
tastò a terra e trovò una corda (sapeva che era lì, pensò) e legò i polsi al bancone. La
luna filtrava attraverso la finestra, la luce era appena percettibile ora. Si alzò in piedi
e la guardò. Singhiozzava, aveva gli occhi otturati dalle tumefazioni e il suo volto era
indistinguibile. Viola, si accorse. Gonfio, storpiato dai colpi. Rivoli di sangue. Lei
tremava, piangeva, tossiva? Non gli importava. Si chinò su di lei e le sfilò gonna e
mutandine. Le mise una mano sulla minuscola fica. I peli biondicci quasi rilucevano.
La fica pulsava. Terrore, presumeva. Le infilò un dito dentro, tenendole ferma la testa
con l’altra mano, poi un altro dito, poi un altro. Non c’era traccia di umidità dentro la
vagina. Lui sentiva le pareti vischiose, era come sfiorare la muscolatura dei quarti di
bue. Le infilò la mano dentro, lei tentò di urlare. Si dimenava sempre di più. Allora
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lui con la mano libera lasciò i capelli e le serrò la gola, stringendogliela. Ogni volta
che lei si dimenava, lui aumentava la pressione di pollice e indice. La ragazza imparò
subito come evitare di dimenarsi. Intanto esplorava l’interno della fica, sempre più
velocemente, sempre più veementemente, fino a che non si trasformò in una furia.
Sbatteva e spingeva e fendeva veri e propri pugni dentro la fica della ragazza. Lei
smise di dimenarsi a un certo punto, ma lui ormai non riusciva a fermarsi. Artigliò la
mano e la estrasse brutalmente dalla fica strappandole brandelli di carne schiumosa.
Fuoriuscì un fiotto di sangue più violento delle altre volte, e si stava formando una
vera e propria pozza. Con un bastone trovato lì accanto la penetrò, due o tre colpi
secchi, prima affondandola dentro poi storcendo il bastone a destra e a sinistra, in
modo da squarciala in due. Una piccola crepa di sangue e ossa si formò sul bacino.
Allora a mani nude tentò di aprirla, fece leva sulle gambe e strappò con quanta forza
aveva in corpo. C’era una puzza tremenda ma a lui non faceva alcun effetto. La
ragazza al terzo tentativo si aprì, fu come aprire un pollo arrosto. Schizzarono sangue,
ossa e brandelli di carne da ogni parte, la pozza era talmente larga che ormai lui non
riusciva più a evitarla e ci scivolava sopra ogni volta che si rialzava. Il suo volto
rimase intatto, solo gonfio e violaceo. Lo squarcio partiva dalla fica e arrivava al
collo. Assomigliava ai quarti di bue che lo zio macellaio ogni tanto gli mostrava nelle
celle frigorifere. Si concentrò sul viso però. Non ce la faceva a vederlo così
implorante, stupefatto nonostante la morte, si alzò in piedi e la guardò meglio.
Sembrava una bestia scannata e lasciata alle mosche. Adorava guardarla così ma il
viso proprio non andava, l’opera non era completa. Si guardò attorno, scivolò un paio
di volte sulle pozze di sangue e bestemmiò, poi su un bancone trovò qualcosa che
faceva al caso suo. Chissà come mai qualcuno aveva dimenticato una mannaia
proprio lì. Era un vecchio ferro del mestiere, probabilmente non serviva più molto per
filettare la carne con precisione ma per quello che si accingeva a fare lui andava
benissimo. Si piazzò davanti alla testa della ragazza e menò due fendenti alla gola
talmente violenti che nonostante la leggera resistenza che fecero le ossa del collo, la
testa si spezzò e rotolò di fianco al corpo. Lui le andò dietro, e menò altri colpi al viso
fino a farle saltar via gli occhi, la bocca, frantumi d’ossa e finché la scatola cranica
non si aprì del tutto. La materia grigia iniziava a colare e il cervello uscì come una
lumaca dal proprio guscio, lentamente. Appena fu fuori dalla scatola cranica, lo pestò
e lo ridusse a una poltiglia rossastra e grigia. Adesso poteva ritenersi soddisfatto.
Si sedette davanti a lei finché non si risvegliò, poi la prese per mano, l’aiutò ad
alzarsi, le diede un bacio. Lei sorrideva. Insieme tornarono alla pizzeria.
Riemerse a galla velocemente, respirando a fatica. La sua compagna gli era accanto
con un bacio, tornata per passare le ultime ore di quella giornata speciale insieme a
lui. Ma lui aveva ben altro ancora da dire:
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una breve ma intensa dissertazione
: se non mi sento a posto con me stesso
significa che è per questo che sto così male
e la tua fica mi gira al largo
se invece mi sento a posto con me stesso
significa che è per questo che sto così bene
è quindi possibile che la tua fica torni da me
io mi sento a posto con me stesso
ma tu di me non vuoi neanche sentir parlare
è per questo che non ti senti a posto
che vuoi quindi da me?
io non mi sento a posto con me stesso
ma a te pulsano cuore e fica pur di stare con me
è per questo che ti senti a posto
e io ti voglio
io non mi sento a posto con me stesso
tu ardi per me
tu non ti senti a posto con te stessa:
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25. da qualche parte al di là della stanchezza – h.22:55
questo brano è dedicato a due amici molto speciali: Roberto Corradi e Fabio Freri,
con i quali ho vissuto momenti di passionale condivisione nel corso del lavoro che ho
svolto insieme a loro. Oggi posso dire che l’amore che ogni giorno regalano,
nonostante mille difficoltà, ha per me un significato che va ben al di là
dell’ammirazione e del rispetto che nutro per loro: aleggia dalle parti
dell’insegnamento per imparare a vivere meglio.
Emiliano
Elargendo raramente una lode e dando invece libero corso alle critiche, i leader autoritari erodono
il morale dei dipendenti, come pure l’orgoglio e la soddisfazione che essi traggono dal proprio
lavoro, andando così a pregiudicare proprio i fattori che motivano i lavoratori più produttivi. Di
conseguenza, questo stile sottrae al leader uno strumento di cruciale importanza: la capacità di
suscitare nei suoi collaboratori il senso di appartenenza a un grande progetto collettivo. Al
contrario, il leader autoritario lascia che i dipendenti provino uno scarso coinvolgimento, se non
addirittura di alienazione, nei confronti del proprio lavoro, finché non arrivano a chiedersi: “Ma
che senso ha tutto questo?”.
Daniel Goleman, Essere Leader
: non era a posto con se stesso, immerso nella confusione dei files e degli
psicofarmaci, e quindi non riusciva a stare tranquillo insieme alla sua compagna, così
le disse che si sentiva ancora molto stanco dal viaggio di ritorno da Lanzarote. Si
scusò per averla trascurata proprio in quel giorno speciale ma le promise che la
giornata successiva sarebbe stato tutto per lei. Non ci fu bisogno di dire altro perché
lei capì e andò a letto regalandogli un bacio che sapeva di amido di riso e gioia di
vivere.
Non appena si spensero le luci in camera da letto andò furtivo nel bagno piccolo e si
imbottì di Xanax e Minias .
Decise da sballato di lasciare il lavoro.
Si rammentò chiaramente, mentre stava tornando a inabissarsi negli Oceani, di quel
giorno d’estate in cui telefonò a Federico chiedendogli la carità di sostituirlo sul posto
di lavoro. La motivazione che intendeva fornire al suo capo, quando sarebbe stato
messo a confronto, era quella di aver semplicemente avuto voglia di andare a teatro a
vedere l’Amleto proposto da una compagnia di Imperia dal nome affascinante: “I
cattivi di cuore”. Non aveva mai visto lo spettacolo a teatro, si era sempre basato
sulle opere cinematografiche, specie su quella di Kenneth Branagh, che trovava un
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po’ troppo stucchevole ma tutto sommato ammirevole dal punto di vista scenico e
anche da quello interpretativo. Naturalmente non era vero ma sapeva che il capo
aveva un debole per gli aspetti culturali della vita, e tanto valeva approfittarsene un
po’. A Federico intendeva dire invece la solita palla che si sentiva male.
La motivazione reale, invece, scopriva la propria essenza nell’incontestabile fatto che
si era rotto il cazzo di stare lì dentro a grattarsi con la sensazione di non star
combinando niente di buono. Oltre alla voglia di stordirsi con gli ansiolitici e i
neurolettici. La cosa buffa era che non si sentiva assolutamente in colpa per aver fatto
la telefonata. Tutt’altro, pensava che avrebbe potuto fare la stessa cosa anche il
martedì successivo, che era giorno di ferragosto e lui invece era segnato nei turni di
lavoro. Quando arrivò Federico si accomiatò prestissimo, quasi fuggì via. Si portò
dietro le pastiglie, ne prese ancora quattro (questa volta si trattava del Tavor da 2,5
mg), e si diresse a piedi, già barcollando, verso la spiaggia del Prino.
Aveva voglia di sedersi davanti al mare a pensare alla stanchezza che in quel
momento, forse, gli stava giocando un brutto tiro. Una forma abissale di stanchezza,
quella che già allora lo trasformava ogni tanto in pesce, che lo costringeva a nuotare
invece che a vivere.
Si rendeva conto che aveva regalato alla stanchezza un alibi per potersi dire e
manifestare un bel po’ di cose che gli rodevano da troppo tempo. Cose che riteneva
giuste. Il capo avrebbe per forza di cose dovuto comprenderlo, e aveva una gran
voglia che fosse lì presente, quella sera. Aveva voglia di essere compatito perché si
rifugiava nel sentirsi così stranamente stanco. Era circondato dalla stanchezza, e si
arrogava il diritto di classificare le sue posizioni sul mondo non badando più a
gentilezze diplomatiche, ma lasciandosi andare a un briciolo di sano cinismo,
d’arroganza e di tutto il campionario che il suo attuale status gli permetteva.
Anche nell’azienda per cui lavorava era un pesce. Per molto tempo aveva nuotato al
largo dagli intrecci politici e dalle ipocrisie che regnavano sovrane tra gli
amministratori. Lui era uno dei dipendenti più anziani, ma non gliene importava più
nulla. Aveva solo voglia di pensare al lavoro. Il lavoro è una parte determinante della
nostra vista, non è vero? Spesso trascorriamo più tempo fuori di casa che tra i nostri
cari, no? A volta abbiamo anche l’impressione di conoscere meglio i nostri
collaboratori piuttosto che i nostri figli o i nostri compagni/e di vita.
L’ultima volta che si era trasformato in pesce era entrato a gamba tesa causando una
serie di conseguenze disastrose: pianti a dirotto, crisi istituzionali e convocazioni
clandestine per cene informali al ristorante “Gocce di Mare”, alla Marina di Porto
Maurizio, per tentare di sgomitolare le varie matasse che aveva contribuito a creare.
Era consapevole del fatto che gli interventi politici in azienda lui proprio non sapeva
farli bene. Anche perché quella sera al ristorante “Gocce di Mare” ebbe la netta
sensazione che se solo avesse accettato di prendere in mano in toto la questione senza
giocare al rivoluzionario, ci si poteva mettere d’accordo e di fatto, considerando
l’inesperienza di chi gli stava subdolamente offrendo quell’affare, l’azienda sarebbe
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andata nelle sue mani e in quelle del suo amico / collega alla velocità della luce.
Anche se questo avrebbe voluto voler dire spedire qualcuno in galera o se non altro
metterlo seriamente nei guai. Qualcuno a cui lui voleva comunque bene, nonostante
lo considerasse un incapace. Anche gli incapaci, gli disse una volta il direttore di una
banca, hanno diritto a lavorare.
Quella notte, zuppo di sedativi, guardava il mare. Un attimo dopo ci si tuffò. L’acqua
era calda e avvolgente, e lui iniziò a nuotare sott’acqua: giunse alla conclusione
scontata che la situazione in azienda era infognata nella più totale merda da qualsiasi
punto di vista uno la potesse inquadrare, e cominciò col fare mente locale su di una
sera di qualche tempo prima. Erano a casa sua: il capo, il supervisore, un collega
anziano e il presidente della società. Una specie di riunione del Consiglio di
Amministrazione allargato a lui (per meriti acquisiti sul campo). Quella sera gli restò
impressa perché su una cosa si trovarono d’accordo tutti, alla fine di una lunghissima
discussione: non erano stati bravi a creare un sistema, una “cultura del lavoro” per
usare i termini esatti, in grado di reggere nel tempo. Avevano creato solo parole
(questa particolare espressione, ricordava benissimo, l’aveva usata il capo in
persona). Si erano ripromessi di cambiare in maniera radicale ognuno le proprie
prassi lavorative, si erano lasciati dandosi appuntamenti per risistemare il tutto per la
trecentesima volta. Non accadde niente, manco a dirlo, come per le trecento volte
precedenti. La vita lavorativa scorreva come era sempre scorsa. Decisero di
organizzare in ottobre un viaggio a Lanzarote, nelle Canarie, per proporre ai
dipendenti un modo entusiasmante di affrontare una convention.
E così, mentre nuotava, decise di lasciare il lavoro.
Il fatto principale era che sostanzialmente al gruppetto dirigente parlare piaceva tanto.
Gli era sempre piaciuto. Avevano, negli anni, impegnato tanto di quel tempo a
parlare, a incontrarsi, a chiarirsi, a confrontarsi, a stimolarsi, a giudicarsi, a umiliarsi
che se avessero messo su un circolo filosofico sarebbero arrivati alla stregua, almeno,
della Scuola di Francoforte. Lo psicologo Edward De Bono, che è ricco e felice e
vive su un’isola che si è comprato nella laguna veneta coi soldi ricavati dai suoi
ridicoli manuali sul pensiero laterale, direbbe che avevano sprecato tempo.
Decise di lasciare il lavoro mentre era sott’acqua perché i pesci hanno molte doti, e
questo è risaputo, ma sono anche un po’ lenti nel capire le cose, e prima o poi
finiscono tutti all’amo. In quattro anni di lavoro era sempre lì a fare turni per 850
euro al mese scarsi. Era lo start-up, si diceva, bisognava stringere i denti. Accidenti,
pensava, quattro anni di start-up non sono un po’ troppi? E inoltre molta gente era
stata assunta da quattro mesi appena e guadagnava più di lui, pur avendo le stesse sue
mansioni. A causa di una gestione miope e tremolante di paura, questa gente era in
possesso di vero contratto a tempo indeterminato. Anche lui ne aveva avuto uno
simile quando entrò in azienda. Poi, sotto la minaccia della chiusura per debiti,
accettò di svolgere le sue mansioni per un paio d’anni come co.co.pro, con la solenne
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promessa che sarebbe stato riassunto a tempo indeterminato passata la crisi. Nei due
anni successivi si ventilò l’ipotesi che da un paio d’anni si passasse a un paio di
secoli di precariato. Cazzo, si sentiva proprio un grande: stava lavorando sodo e si
stava costruendo un solido futuro di precariato. Qui due erano le cose, anzi tre: o era
un coglione lui, o erano più furbi gli altri, o vigeva un sistema di meritocrazia,
all’interno della loro cultura aziendale, che faceva cagare. Quella notte accettò le tre
ipotesi in maniera tutto sommato paritaria, con un lieve cedimento verso l’ultima
opzione.
Sott’acqua incontrò una piccola sardella, si avvicinò alla sua bocca dimenando
elegantemente appena la coda, avvolta nel fascino rilucente dalla luna fin sulle sue
squame, e dolcemente gli disse: “Non ti sembra di esagerare come al solito? Non è
che sei un povero stronzetto buono solo a lagnarsi e basta, come tua madre? Il mondo
è pieno di persone come te. E siete tutti bravi. Vi interessa solo di voi stessi, vi rompe
le palle stare sempre lì a fare quello che vi ordinano di fare e vorreste che le cose
fossero sempre semplici. Ecco, appartieni alla razza di quelli che sputano nel piatto
dove mangiano”.
“Può darsi” rispose lui emettendo bolle dalle narici e dalla bocca “Anzi, magari è
proprio solo questo il problema, magari questo è unicamente lo sfogo di un frustrato
che non ha voglia di lavorare e che, appunto, sputa nel piatto dove mangia.”
Prese fiato, poi continuò: “Anzi, facciamo ancora un passo più azzardato: ti dico io
che questo è lo sfogo di uno che non ha voglia di lavorare e sputa, e non è una
maniera di lottare per migliorare le proprie condizioni lavorative. Non c’è niente di
idealistico in queste lamentele. Sono false, come sono falso io, come siete falsi voi”.
Rabbia, rabbia? No. Più esattamente “ammosciamento”, o meglio “disincanto”, o
anche “delusione”. Ecco, meglio. Sì. Perché se fosse stato veramente arrabbiato
avrebbe urlato che si era stufato, ad esempio, di sentire che la solita collega lavorava
poco, si lamentava sempre, non era in grado di fare questo, non era in grado di fare
quello.
Se fosse stato veramente arrabbiato avrebbe telefonato al capo per raccontargli
meglio di quella volta in cui il presidente lo chiamò dicendogli che bisognava andare
a ripulire la vecchia sede dell’azienda dalle ultime cose rimaste e lui rispose
seccamente che ci sarebbe andato volentieri, a patto che con lui ci fosse anche “la
solita collega”. In quell’occasione, dopo avergli riattaccato il telefono e poi
richiamato, il presidente gli disse che probabilmente lui aveva ancora dei problemi,
delle riserve con “la solita collega”, ma che l’azienda con “la solita collega” aveva
risolto tutto, che stava lavorando alla perfezione. Inutile dire come poi si risolse la
cosa. Inutile dire che quella non fu l’ultima volta in cui gli vennero riferite difficoltà e
assenze dal lavoro della “solita collega” per inutili motivi. Tutto questo non perché
lui avesse particolari risentimenti nei suoi confronti (era consapevole che non era
colpa sua se anni fa a causa della sua inettitudine lui era stato costretto a fare anche
fino a quattro o cinque turni di 24 ore di seguito… e poi a dirla tutta le stava pure
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simpatica come persona), quanto perché quella vicenda era un po’ il simbolo, e
insieme il “marchio”, di ciò che lui leggeva come problematica principale
dell’azienda: l’incapacità di affrontare e superare i problemi in maniera creativa e
alternativa a quei tre o quattro standard che conoscevano e applicavano fino alla
nausea. Fatalmente poi, sarebbe in seguito risultato chiaro come i problemi fossero
sempre circolari e tornassero sempre. Come direbbe il sempre caro vecchio Carlo
Marx, due volte: la prima sotto forma di tragedia, la seconda di farsa.
Si era alla farsa, ora.
Prese fiato un attimo e riepilogò la situazione attuale alla luce di quanto pensato
finora: quattro anni di lavoro ed era un precario del cazzo, ci metteva la sua
macchina, i suoi soldi, il suo telefono; faceva lo stesso numero di ore di quello che
lavorava lì da tre mesi; doveva stare attento a non lasciare un attimo la sua posizione
e stop. Si doveva limitare a dire qualche no e a farsi rompere i coglioni il meno
possibile; nel caso l’utenza avesse esagerato doveva ricordare che lui lì, in quel
settore, era il capo e comandava lui e tutte quelle enormi, ridicole, stupefacenti
cazzate che alimentavano un vero e proprio stato di autoritarismo nazista,
dimenticando il concetto di autorevolezza; ovviamente prendeva meno soldi
dell’ultimo arrivato, e i soldi li prendeva quando c’erano se c’erano non si sa come
erano. Era lo start-up. La formazione non sapeva nemmeno dove stava di casa, il
formatore si occupava dei cazzi suoi quando veniva se veniva, visto che lui lavorava
sì per il benessere di tutti, ma lo faceva gratis e da 500 km di distanza e quindi
faceva quello che poteva, una volta ogni 15 gg per massimo un’ora. Ma dovevano
essere i dipendenti a cercarlo perché se no lui non li incontrava. E i programmi
formativi dovevano essere sempre loro a farli, nel senso che dovevano essere loro a
prendere da soli coscienza delle loro difficoltà così da poter suggerire quali rimedi
offrire e proporli al formatore. Era lo start-up.
Le cose più calde: era nelle mani di responsabili che dicevano di essere
interscambiabili per qualsiasi cosa a ogni piè sospinto. Poi però se non trovava uno e
chiamava l’altro per qualsiasi bazzecola, era sempre l’altro quello da chiamare. L’arte
di scaricarsi dalle responsabilità, questo lo aveva assimilato molto bene, tra maestri
simili. Aveva a che fare con una manicata di responsabili irresponsabili, che
continuavano candidamente a dirgli di vigilare gratis sull’operato dei suoi colleghi
per salvaguardare il suo posto di lavoro. Cioè di incularseli a sangue se facevano
delle porcate e di decidere di fatto lui del loro futuro in azienda perché loro non
avevano le palle per farlo.
Era sempre sott’acqua, decise di riemergere e asciugarsi sul bagnasciuga prima di
tornare a casa e scrivere la sua lettera di dimissioni. Sapeva che non avrebbe mai
avuto un futuro in quel posto, in mezzo a quella gente, e voleva vivere altri momenti,
voleva entrare in un circuito di professionalità certificata e stare insieme a gente
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umana, vera, viva, sofferente e gaudente come lui. Non voleva più essere un pesce sul
lavoro. Un traguardo l’aveva raggiunto, e questo gli strappò un sorriso.
Ora aveva sputato nel piatto dove aveva mangiato. Ora aveva messo in discussione
un po’ di belle cose nella sua vita professionale, almeno. Ora gli si mostrava chiaro il
fallimento nel costruire una buona “cultura del lavoro” accompagnandosi a persone
irresponsabili. Ora aveva detto che questo fallimento, questo e solo questo costituiva
il nodo centrale da cui si dipanavano molti altri dei suoi problemi. Ora aveva detto di
non aver più voglia di giocare a lavorare, ma di lavorare sodo, e non vedeva l’ora di
andare in ferie.
E poi, alla fine dell’estate, magari in ottobre, cambiare lavoro. Lo decise quel giorno
d’agosto, sulla riva del mare, ripensando alla sua vicenda in termini shakespiriani,
con la convinzione di essere un eroe tragico, uno che morendo, sotto lo squarcio della
lama ancora bruciante nel petto, riesce a voltarsi verso la platea a sussurrare: “Tutto il
resto è silenzio”:
102
climax
: il nostro povero Amleto, grand sèrieux, tale e quale un Romeo
qualsiasi importuna con la sua chitarra scordata la pallida Ofelia
armato soltanto di un cappello nella mano sinistra
siamo oggi in una delle sale più adorne del palazzo reale
su loro due incenerisce l’aria una luna cortese ma annoiata
Giulietta lei saprebbe cosa fare: si rintanerebbe
dal balconcino fin dentro la sua stanza e fra le lenzuola
s’infilerebbe due dita sotto le mutandine ma Ofelia no
le strade di questo melò non portano a nulla d’interessante
la conversazione langue e alla fine tutto quello che posso
fare è spedire due miei scagnozzi dal proscenio a pugnalare
quaranta volte e una il petto e la schiena della dolce Ofelia
il sangue sembra vero sulle assi illuminate dalla luce
però Amleto rotea gli occhi verso la lama e riflette
il suo sguardo folle e sorridente si fonde al mio
è evidente che non avrà bisogno d’amore domattina
ogni spettatrice annega invece tra le lacrime
è il climax perfetto che ogni vero amante va cercando:
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26. vincere è una gran bella cosa – h.23:00
“lo scoraggiamento non è la condotta giusta di un essere umano: non siamo uccelli o animali, cui
basta semplicemente lamentarsi e lagnarsi, ma dobbiamo usare la nostra intelligenza e lavorare
sodo.”
Dalai Lama
: e poi a lui interessava scrivere. Fino a quel momento il punto più alto della sua
carriera letteraria, ciò che lo aveva gratificato di più, si manifestò nel corso di una
mattina del 1997 attraverso la cassetta delle lettere. Trovò una busta bianca. Il
mittente era Giulio Einaudi Editore. Aprì la busta, c’era una lettera. La lettera diceva:
“abbiamo valutato con attenzione il manoscritto che ci ha inviato, le comunichiamo
però che esso non risponde alla nostra linea editoriale e che quindi ci è impossibile
pubblicarlo. Cordiali saluti”. Quasi svenne dalla gioia. Perché, s’intende, essere
rifiutati da Einaudi significa una cosa sola: che era stato letto. E se era stato letto
voleva dire che in qualche modo era stato preso in considerazione. Perché sapeva
bene che, in caso contrario, le grandi case editrici non si degnano neanche di
spendere gli spiccioli per una lettera di rifiuto. Ricevere una lettera di rifiuto è
l’aspirazione di chiunque voglia scrivere. Ricordò un aneddoto su Stephen King che
lo divertiva sempre molto: a suo tempo il giovane Steve piantò un chiodo in camera
sua e disse a se stesso: “pianterò qui le lettere di rifiuto che ricevo. Quando non
staranno più nel chiodo smetterò di scrivere”. Alla fine i chiodi divennero
innumerevoli, zeppi di lettere di rifiuto, tanto che una intera parete della sua stanza ne
era tappezzata.
Il giorno in cui lo rifiutò Einaudi, quindi, restò memorabile. Fino a quel momento.
Fino ad allora aveva pubblicato due sillogi poetiche e qualche articolo sparso, oltre ai
racconti e ai testi per le canzoni di Jeff Aliprandi. Si considerava fortunato ad aver
fatto tutte quelle cose. E non si scordava certo che arrivò un paio di volte finalista in
due prestigiosi concorsi letterari.
Alle ore 12.00 del 6 ottobre 2006 il suo cellulare iniziò col suo trillo un evento
speciale. Lo cercò nella tasca destra del giubbotto che indossava e guardò il display.
Non aveva il numero in rubrica. Piccolo senso di panico, ma buono, come sempre
quando rispondeva a un numero sconosciuto. Pensò: “Saranno quelli dell’azienda che
vogliono rompermi i coglioni per qualche cazzata che hanno fatto loro e che hanno
voglia di scaricare su di me? Improbabile. Sono seppelliti in una bara di cambiali.
Sarà qualche giovane donna col cuore infranto che vuole supplicarmi di tornare con
lei perché la notte si sogna ancora la mia indiscutibile capacità sessuale? Improbabile
anche questo: il mio pene non ha mai avuto tanta personalità. Sarà qualche vecchio
utente dell’ex azienda che vuole minacciarmi di morte perché un anno e mezzo fa gli
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ho causato un piccolo disguido? Possibile, ma improbabile. Gli utenti sono bestie, ma
non arrivano a tanto”.
Con la voce un po’ screziata da quella piccola forma d’ansia rispose: “Pronto?”.
Dall’altra parte una voce maschile, abbastanza profonda, lievissimamente cadenzata,
baritonale ma non troppo, con uno stranissimo accento famigliare ha detto: “Pronto.
Il signor M.?” rispose: “Sì?” con nella testa una cosa sola: “io questa voce l’ho già
sentita. Da qualche parte”. Sai quando ti telefona un vecchio amico e non riconosci
immediatamente la voce? Hai quel momento di pausa e indecisione in cui tenti di
mettere a fuoco quel tono di voce, quella inflessione.
Dopo un secondo di silenzio la voce disse: “buongiorno, sono L. G. Volevo dirle che
lei è il vincitore della tredicesima edizione del “Premio Nazionale di Poesia”.
A quel punto il 75 per cento delle sue capacità cognitive andò a farsi fottere. La
restante parte si scisse in due tronconi: un pezzo di materia grigia tentava a fatica di
seguire quello che gli diceva la voce del poeta al telefono, l’altro pezzo turbinava su
se stesso dicendosi: “sì, coglione, ha detto che hai vinto tu.” ripetendo all’infinito,
come un mantra ipnotico, sempre la stessa frase: “sì, coglione, ha detto che hai vinto
tu, sì, coglione, ha detto che hai….”
Quello che ricordò in seguito della telefonata è irriferibile, anche perché sono rimasti
soltanto brandelli. Pensò che vincere un premio di poesia così importante era una
bella cosa, che gli faceva fare pum pum al cuore come da tempo non succedeva, e
appena riuscì a riprendere fiato, si guardò attorno finchè non trovò un fiore piantato ai
bordi della strada, quasi sull’asfalto. Si chinò su di lui e gli disse: “Ciao Allen
Ginsberg, è un piacere incontrarti qui”:
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come ti penso stasera, Allen Ginsberg
: come ti penso stasera Allen Ginsberg, che attraverso i carruggi
coi sacchetti della spesa tra le mani e con l’occhio alla luna,
che affamato di fatica mi sono infilato all’Ipercoop a comprare
frutta al neon, pesche e ombre! famiglie a far provviste per la sera,
scaffali ricolmi di mariti! mogli inscatolate e bimbi incellophanati:
ti ho visto, Allen Ginsberg, senza figli, vecchio frocio puttaniere,
che t’appigli alle carni del frigo per slumare i garzoni del droghiere
ti ho udito, te, chiedere in giro: chi ha stecchito le cotolette di maiale?
quanto vanno al chilo le banane? e il mio angelo custode, quanto vale?
dove andiamo stasera, Allen Ginsberg? dove punta stasera la tua barba?
così cammino coi sacchetti della spesa tra le mani, e mentre canto
le luci nelle case spente aggiungono ombre alla mia ombra,
io e te ci sentiamo soli
torneremo mai laggiù a puntare alla perduta America
dalla prua di una barca, anche ora che silenziosa è la tua elica?
ah caro padre, lunga barba nera, vecchio solitario maestro di coraggio
quante New York ho bagnato nel lete in questo giorno di maggio:
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27. lettera a Ricardo - h. 23:12
: “amico mio,
io mi sono ubriacato la prima volta a sedici anni, nel corso del primo capodanno
passato insieme ai miei amici. Una vera e propria festa. Prova a pensarmi lì,
adolescente obeso e brufoloso, nel bel mezzo di un posto zeppo di fiche. Non appena
ci misi piede pensai che forse una scarica leggera di adrenalina mi avrebbe messo in
circolo. Mi scolai una quindicina di birre in meno di mezz’ora.
La botta arrivò all'incirca cinquanta secondi dopo l’ultima ingollata. Ero in piedi,
appoggiato al portone d’ingresso della maxi cantina affittata per l’occasione insieme
ai miei amici. Stavo fissando una tipa esile e bionda, fisico atletico, grandi tette.
Visino delicato, sono sicuro che a te sarebbe piaciuta molto. Vestito lungo con
spacco. Subito una scarica accecante di adrenalina mi si arrampicò velocissima sulla
schiena come un esercito di formiche rosse impazzite, facendomi incuneare come un
arco. Poi di botto non sentii più le gambe e crollai in ginocchio. Mi tappai le orecchie,
allora, perché avevo come l'impressione che mi stessero prendendo fuoco. Non sentii
più nulla per qualche secondo. Dopo arrivò un ronzio da lontano. Tentava di
penetrarmi il cervello. Un ronzio che si avvicinava sempre di più: dapprima lo
avvertii debole, distante, poi via via più forte fino alla deflagrazione finale. Lì
impazzii quasi dal dolore, anche se i miei amici presenti allora giurano che non urlai
né feci scene patetiche. Spesso, crescendo, mi sono accorto di quanto le nostre
versioni di fatti accaduti si differenzino terribilmente da punti di vista differenti.
Comunque in quei momenti non sentivo più niente eccetto quel cazzo di ronzio: era
come se una mosca gigante mi stesse volteggiando sull'anima: ZZZZZZZZZZZZZ.
"Ho chiuso, qui ho veramente chiuso" pensai. "Questa fottuta mosca mi sbranerà!"
Panico. Mi giravo continuamente come un animale impazzito da tutte le parti ma non
riuscivo a localizzare il dannato insetto, mi si contorceva la pancia dagli spasmi,
tentavo di rotolarmi per terra tappandomi bene le orecchie ma non serviva a niente. E
poi, quando fui sul punto di strapparmi le orecchie dalla testa per il dolore,
all'improvviso la mosca scomparve e così come era arrivato anche il dolore svanì. La
pace durò solo un attimo però, perché immediatamente dopo mi acciuffò la nausea.
Restai steso a terra ancora un paio di minuti, poi cominciai ad avvertire un forte
prurito alle gambe: me le tastai alla svelta e i polpastrelli riconobbero
immediatamente la carne. Mi sentivo di nuovo le gambe. Mi rialzai in piedi e sembrò
andare meglio, anche se mi girava tutto. La testa era sul punto di esplodere in mille
schegge. Strizzai diverse volte gli occhi dal dolore. Quando li riaprii sussultai. Stava
accadendo qualcosa di spaventosamente bizzarro: la bionda che stavo tampinando era
davanti a me, a pochi centimetri dal mio viso, completamente nuda. I seni puntati sul
mio petto. All'improvviso la bionda si arrestò. Digrignai i denti dal terrore, impalato a
terra. In un intreccio di capelli sentii che le mani della ragazza stavano sbottonandomi
i pantaloni. Alzai gli occhi al cielo mentre i suoi capelli scendevano sui miei coglioni.
Me lo prese in bocca e iniziò a succhiarmelo. Io vedevo mattoni e cemento e ferro e
lamiere tutti ingarbugliati, la cantina stava assumendo sotto i miei occhi mostruose
107
forme simili a quelle umane. Potevo distinguere le finestre storcersi come occhi, il
portone come un’enorme bocca demoniaca gridare e sferragliare, e più in basso
un’enorme fica in cemento armato e mattoni dilatarsi. La ragazza muoveva le labbra
e la lingua con un ritmo circolare, lisciava e leccava, copriva il pene con l’alito caldo
mentre con la lingua partiva dalla base per leccarlo fino alla punta. Sempre lo stesso
movimento, circolare, ritmato, prima lento poi veloce, prima lento poi veloce.
Cominciai a mugolare e non appena mi accorsi che stavo per venire presi la ragazza
tra i capelli per allontanarla, puntando il mio uccello sulla sua faccia. Aprii gli occhi e
la vidi inginocchiata davanti a me, con la bocca aperta. Lasciai partire lo schizzo e
glielo lasciai inghiottire.
Poi, a causa probabilmente dell’estasi, caddi nuovamente col culo a terra coprendomi
il viso con le mani, poi guardai di nuovo: una folla di ragazzi mi parve intenta a
fissarmi. Da ognuna delle bocche di quelle persone lacrimava una schiuma olivastra.
Attorno a me c'era solo sabbia. Sabbia. Sabbia. Sudavo come un maiale. Di colpo
avvertii uno spasmo e uno stimolo violento m'invase gli intestini: dovevo
assolutamente cagare.
Non so se ti è mai successo ma non è facile calarsi le braghe davanti a un sacco di
gente e alla ragazza che ti ha appena fatto un pompino, e che ha ancora in bocca i
resti del tuo sperma. Comunque la sensazione che provi è una specie di disgusto
misto a vergogna, con il martellamento continuo degli attacchi di nausea e il
giramento costante di testa. I conati di vomito divennero una vera e propria tempesta
nel mio stomaco. Cacciai un urlo strozzato e nel tentativo di accucciarmi avvertii un
dolore atroce proprio su per il buco del culo, come se qualcuno mi ci stesse infilando
un ramo di ulivo con tutte le foglie e le olive, cercando di farmelo uscire dalla bocca.
Voltai la testa e sobbalzai ancora una volta. La bionda mi stava infilando un vibratore
su per il culo. Il grosso attrezzo roseo si faceva largo nuotando tra le mie tenere
chiappe e gli aculei gommosi che lo ricoprivano mi stavano mordendo. Piccoli fiotti
di sangue sgorgavano dai peli strappati. Preso dal panico, caddi ancora a terra, e per
qualche secondo probabilmente svenni perché non ricordo più nulla.
Mi risvegliai tra atroci dolori. La prima cosa di cui mi accorsi era che stavo marcendo
coi vestiti addosso nel bagnato. Ero steso lungo per terra ed ero zuppo. Poi arrivò la
puzza, mi resi conto non solo di avere i pantaloni completamente fradici di diarrea,
ma di avere anche la t-shirt verde dal vomito e uno schifo di sapore acido in gola.
Dovunque mi toccassi ero lercio: ero quasi certo di essermi continuato a cagare
addosso anche nell'incoscienza perché non riuscivo proprio a ricordare da dove fosse
uscito tutto quel liquame giallastro. Non avevo sentito la sensazione della cacata.
Comunque mi tirai su in qualche modo ed ebbi conferma di quello che mi era
successo: mi ero contemporaneamente cagato, pisciato e vomitato addosso. Puzzavo
in maniera indescrivibile. La testa mi scoppiava dal dolore. Mi voltai da tutte le parti
in maniera istintiva, come per cercare qualcuno a cui chiedere aiuto. La prima cosa di
cui mi accorsi fu ancora la bionda. Era semplicemente lì, nuda, bellissima, ed era
rimasta solo lei. Io ero paralizzato. Lei si riavvicinò lentamente senza dire una parola.
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Di nuovo sentii le sue mani arrabattarsi con il lercio dei pantaloni, di nuovo la vidi
chinarsi, di nuovo la sentii mentre iniziava a succhiarmi il cazzo. In quello stato. Il
puzzo di marcio e il piacere della seconda schizzata in bocca si fusero all’improvviso.
Lì piansi.”
(rilesse, poi continuò a scrivere)
“Ci hai creduto vero? Oppure no? Qual è il punto esatto in cui hai iniziato a dubitare
che la storia fosse autentica? Già dall’inizio? E se la storia che ti ho raccontato fosse
realmente accaduta, tu cosa penseresti? Ho mille domande da farti, ancora. Dove
cazzo sei andato a cacciarti, Ricardo? Tu che mi sorridevi sempre, tu che mi
raccontavi storie false e vere e le mescolavi con un’abilità tale da lasciarmi sbigottito,
tu che mi ascoltavi chiederti se eri veramente una persona falsa o vera? Tu che mi
chiedevi cose false, io che ti proponevo cose vere. Tu che pretendevi cose vere, io
che ti lasciavo cose false.
Dove hai portato la tua assurda, magnifica cialtroneria? Le tue provocazioni al mondo
che invidiavo così tanto? La tua gioia. Dove hai nascosto i tuoi errori di grammatica,
la tua teoria buddista, il tuo canto dentro la mia auto nel corso di una normale
conversazione, tu che eri un oceano di saggezza sghemba? Dove sono andate le tue
finte informazioni sul mondo? Quelle che masticavi e sputavi così dolcemente?”
: sto leggendo adesso questo cazzo di fottuto quotidiano di merda, e nelle pagine della
cronaca locale c’è il tuo nome. Dice che sei morto, amico mio. Che sei morto in
Brasile. Non ti sentivo da mesi, e trovo il tuo nome su un giornale, tra i necrologi.
: Ricardo muore. Merda. Il grottesco della vita ti ha fottuto. Proprio la parte che
meglio riuscivi a controbilanciare con la tua intelligenza, proprio quelle zone
d’ombra che quasi nessuno riesce a vedere nel mondo e che tu avevi così chiaramente
tatuate dentro le pupille dei tuoi magnifici occhi.
: Ricardo muore. Morire così a diciannove anni, amico mio, è una vendetta angelica,
che non ha stillato una sola lacrima dal mio volto. Solo una grande, incontenibile
rabbia. Perché adesso è come se io fossi ancora lì, davanti a un drugstore ad
aspettarti. E tu, come sempre, sei in un maledettissimo ritardo:
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sto aspettando di fronte a un drugstore
: sto aspettando di fronte a un drugstore
che deve aprire alle nove
un Mugwump levantino è seduto nudo
su uno sgabello del bar coperto di seta rosa
orpelli e velluti rossi
il cameriere lascia cadere una goccia di Martini Dry
acuta esalazione di metallo malato
la malattia ha il dono di insediarsi
nei punti più strategici / timida carne sperimentale
sto aspettando di fronte a un drugstore
ad ascoltare i grugniti e gli strilli e i borbottii
interi alberi passano galleggiando
serpenti dai colori brillanti tra i rami
lemuri pensosi guardano la riva
con gli occhi tristi
vacui come specchi di ossidiana
rimangono solo le ossa a ridere
vibrano con un movimento silenzioso:
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28. sì – h.23:35
“con le labbra rivolte a un cielo di foglie rimasero a darsi voce. Fermarono il tempo. Senza toccare
il presente sospesero realtà raccontandosi favole”.
Isabella Santacroce, Lovers
: non reggeva, non reggeva. Si fece 25 gtt di Minias, accese il computer ed entrò in
chat. Sentì il bisogno di navigare virtualmente, sentì la voglia di concludere qualcosa
almeno oggi con una donna vestita soltanto dei suoi chips. Qualcosa di veloce. Ciao
gli parve una maniera bella, semplice, pulita e sincera di salutare una ragazza in chat,
ed era proprio a questo che stava puntando: aveva voglia di utilizzare uno
stratagemma di aggancio il più tranquillizzante possibile. Non trovò altro che un
semplice ciao lanciato a un nickname casuale, Annalou79. Funzionò, la ragazza
virtuale rispose. Si rammaricò subito di non avere una sua foto da inserire
nell’apposito spazio che il sito metteva a disposizione dei suoi utenti. Le scrisse che
avrebbe rimediato il prima possibile. Lei gli disse che non le importava, voleva fare
solo due chiacchiere e poi neanche lei aveva inserito la sua foto, gli chiese perché
aveva scelto come nick hidalgo, lo trovava intrigante. Per questo aveva risposto al
suo saluto. Lui non le rispose subito, riflettè sulla parola intrigante che leggeva sullo
schermo luminoso e d’istinto le scrisse “voglio portarti a letto. Ti va l’idea?”
Annalou79 non scrisse niente ma non abbandonò la stanza. Lui continuò a battere le
dita sulla tastiera del PC senza più guardare lo schermo: “Voglio fare l’amore con te
anche se non ti conosco e non so nulla di te. Proprio perché non ti conosco e non so
nulla di te. So solo che sei una donna e che non mi importa nulla che tu sia bella o
brutta. Sei una donna e ti immagino con labbra gustose e occhi limpidi, e solo per
questo voglio prenderti, solo per una notte”. C’era silenzio. Lui pensava, mentre
scriveva, altre cose: pensava che avrebbe amato incontrarla la prima volta solo per
sentire quali e quante emozioni fosse riuscita a suscitare in lui. Capire se le
aspettative che si stava creando avrebbero trovato un riscontro dentro il suo cuore.
Immaginava un invito, un assenso, una cena formale in un ristorante sul mare,
ascoltare la sua voce vera e chiacchierare di ogni cosa, sorseggiando vino e
ascoltando in sottofondo del jazz o del chill out. Passeggiare sul lungomare, starle
dietro, abbracciarla con le labbra e respirare il profumo dei capelli sulla sua nuca,
scendere a baciarle il collo, stringerle da dietro i seni, sentirla vibrare mentre la
accarezzava. Dava per scontato che sarebbe stata una donna bellissima. Ma non solo
questo. Aveva voglia di immaginare di raccontarle le cose che sapeva del mondo e
ascoltare le cose che lei sapeva del mondo. Ciò che aveva imparato e ciò che aveva
insegnato, e nel farlo adorava fantasticare sui toni bassi della sua voce, lievemente
arrochita dal fumo di una Marlboro Light. Assaggiare ogni sillaba stillata dalle sue
labbra, scendendo con gli occhi verso la scollatura, con già una mano dentro le sue
mutandine. Cucirle il sesso con la lingua. Immaginarsela in ginocchio davanti a lui,
ora, con in bocca il suo sapore, baci dolci fino a farlo venire. Farle vibrare ogni corda.
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Annalou79 non scrisse niente ma non abbandonò la stanza. Lui non le scrisse niente
di questo, le chiese invece se per caso le piacesse essere dominata, se aveva fatto
esperienze bdsm e se avesse intenzione di sperimentare ogni sua fantasia di dominio,
magari anche discostandosi un po’ dalle regole di quella pratica, mietendo posizioni
attraverso le fascinazioni delle loro menti. Le scrisse: “Il nostro incontro avverrà in
una stanza d’albergo, e all’improvviso ti tapperò la bocca infilandoci un uovo. Non
voglio che parli né che mugoli durante tutto il corso del nostro incontro. Ti benderò e
poi ti spaccherò l’uovo in bocca. Tu non potrai sputarlo. Ti lascerei solo il tempo di
riprendere fiato poi ti sigillerei le labbra con del nastro adesivo. Questo almeno in un
primo momento, perché in seguito il nastro verrà tolto, in modo da lasciare che ai
resti dell’uovo si mesci il mio seme. Dovrai essere abilissima a raccogliere ogni
liquido che uscirà dal mio sesso. Ma questo solo dopo. Prima dovrai
meritartelo”.Visualizzando la scena sentiva che il cazzo iniziava a premergli sotto i
pantaloni. Si slacciò la patta. Era durissimo. Abitava la sua fantasia questa
sconosciuta con la bocca sporca di uova e tappata dal nastro. Immediatamente dopo
se la raffigurava spogliata, con indosso solo le mutandine e un babydoll. La
costringeva a sedere su una sedia legandole mani e piedi. A questo punto aveva a sua
disposizione in una stanza anonima una donna legata in totale balia dei suoi desideri.
Iniziò una lenta carezza con una mano, con l’altra continuava a sbattere sui tasti del
Pc. Un paio di schiaffi in faccia ben dati gli schiarirono la mente sul desiderio
successivo: la cera. Accendere una candela e far colare della cera sul collo e sul seno
e sulle spalle della sconosciuta per lui riusciva ad essere una situazione ancora
affascinante, nonostante la banalità del luogo comune erotico. Immaginava il
supplizio di quella troia. Le carezze che si dava iniziarono ad essere più elastiche e
ritmiche. Un momento dopo lei era già in ginocchio a succhiargli l’uccello, ma non
tanto da farlo venire: sempre inginocchiata la stava girando ora e, strappandole i
capelli con furia, la inculava senza l’aiuto né di oli né di unguenti. A secco, fino a
non accorgersi dei rivoli di sangue che già colavano sulle cosce. Trascinarla poi per i
capelli nel bagno premendole la testa nel water, pisciarle in testa e in faccia e in
bocca per poi tirare lo sciacquone. Lasciarla come un cencio steso a terra, montarle
sopra e scoparla come un animale. Rialzarsi un attimo prima di venire e schizzarle in
bocca. Annalou79 non scrisse niente ma non abbandonò la stanza. Le urla soffocate. I
gemiti. Qualcosa che nella sua mente si avvicinava al piacere più bello. Le sue mani
che artigliavano la mente della ragazza. Le bende e il buio che la tenevano
prigioniera. Affondare la carne del suo cazzo nel culo. Sentire le ossa della
sconosciuta spezzarsi sotto i suoi colpi. Le carezze erano a un ritmo vertiginoso.
Intorno a lui altre urla soffocate. Il mondo chiuso completamente fuori. Immaginava
la ragazza supplicarlo un attimo dopo averla svestita delle bende e un attimo prima di
farla tacere per sempre. Venne sull’immagine di dolore e sangue, sui suoi pantaloni
con uno schizzo talmente violento da farlo quasi svenire. Tremò tutto il suo corpo, gli
ci vollero diversi minuti di respiro affannato prima di riprendersi. Alzò lo sguardo sul
monitor, c’era una parola non sua: “Sì”:
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che senso ha
: ho camminato tutto il pomeriggio
il mio contatto con la natura
nonostante questo l’angoscia mi ha invaso ancora
sono tornato in Hotel a preparare le mie cose
non posso impedirmi niente
è semplicemente la presenza della vita
ad avvelenarmi la serata
l’assenza dell’anima
o la sua presenza
che accerchia la mia serenità
a nulla è servito allenarmi i muscoli oggi
con l’approssimarsi della sera
qualcosa ha iniziato a impregnarmi il cuore
in una Termini stranamente semideserta
poco prima che il treno per Genova mi trascinasse via
mi sono infilato in un bagno alla turca
ho tirato fuori dalla mia sacca
una rivista per scambi di coppia
ho lasciato la mia e-mail scarabocchiata sulla porta:
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29. ciò che è e ciò che dovrebbe essere – h.23:55
“quando per esempio si ritrovano dopo un lungo tempo senza vedersi, e anche se sono pieni di echi
di brutte frasi e si lasciano travolgere dal bisogno di comunicazione e parlano e parlano in un
flusso di idee e sensazioni senza smettere per un attimo di registrare le variazioni sottili dentro e
fuori le parole che vibrano con la stessa identità inarrestabile di un diapason”
Andrea De Carlo, Pura Vita
: si segnò sull’agenda l’e-mail di Annalou79 e il numero di cellulare che gli aveva
lasciato. Prima di chiudere in chat Annalou79 gli comunicò che quella sera stessa gli
avrebbe scritto un’e-mail, così lui la attese fumando, e per poco non la scordò, già
che era tornato a navigare nelle profondità dell’Oceano.
Alla fine aprì la posta elettronica e trovò l’e-mail.
Cominciò col descrivere il suo ritorno a casa, avvenuto alle prime luci dell’alba di
una afosa giornata di luglio di un anno fa, dopo una fuga, con uno stile simile a quello
di un verbale. Se ne sarebbe ricordato molto tempo dopo, lui, di quanto importante
fosse stato l’imprinting di quelle parole sulla sua pelle. Raccontava: la ragazza si
ripresentò ai suoi con i soli indumenti che indossava e una piccola borsa contenente
alcuni ricambi di biancheria intima. Preferì proporre fin da subito un’immagine di sé
che non gli apparteneva ma che trovava appropriata in quella circostanza: le guance e
gli occhi scavati, dimagrita e sciatta, allampanata e incredula come una reduce chiusa
al dialogo, anche in virtù del fatto che in passato con i suoi non parlava spesso.
Questa modalità gli permetteva di ridurre ai minimi termini i contatti verbali con i
suoi. Glielo aveva sempre permesso e pensò fosse un bene ritornare con almeno una
solida certezza legata al suo passato. Appena rivide la madre, la comunicazione con
lei si svolse, e si sarebbe poi svolta per tutto il primo periodo del suo ritorno,
esclusivamente attraverso i più comuni canali della gestualità. Non una parola
riverberava nell’aria. Nel rivederla sua madre non pianse nemmeno. Lei decise in
quel momento che da lì in avanti l’assenza di parole sarebbe stato l’unico appiglio a
cui si sarebbe agganciata mani e piedi per riordinare le idee. Per il resto era convinta,
davvero, di volersi sbattere con un certo zelo nel tentare di adeguarsi alla condizione
perduta di figlia, riprendendo in mano le prime, basilari regole che avevano sempre
sollevato quella casa dal caos: il rispetto degli orari di colazione, pranzo e cena, ad
esempio, ma anche la pulizia della propria camera (che ritrovò intatta, pulita,
trasparente e spolverata come se tredici anni non fossero trascorsi). Già dall’inizio si
rese conto però che una certa tendenza al disordine faceva fatica a scrollarsela di
dosso. Lo sguardo accigliato del padre quando entrò nella sua stanza per salutarla, al
rientro dal lavoro, fu più eloquente di qualsiasi altra cosa a questo proposito. Anche il
padre non pianse, ma questo lei se lo aspettava.
Appena richiuse la porta la ragazza si rivolse allo specchio, si chiese come fare per
difendere la propria riservatezza dalla ritrovata invadenza dei genitori, come evitare
ciò che accadde tredici anni prima. Arrivò a maturare al quinto giorno la ferma
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volontà di persistere con l’interruzione di ogni tipo di comunicazione verbale con i
suoi.
La laconicità. La ragazza si mostrò rispettosa nel suo nuovo rapporto con i genitori,
ce la mise tutta (si ripeteva allo specchio), ma al decimo giorno, improvvisamente, si
ripresentarono i segnali di quel tentativo di “allargarsi” sulle regole che tredici anni
prima fecero deflagrare il rapporto con i suoi. Riprese a fumare in camera, ad avere
piccoli ritardi nel sedersi a tavola con loro, a svegliarsi tardi al mattino. I suoi
tacquero con lei ma i loro sguardi erano atroci di paura e risentimento.
L’iniziale disordine si trasformò rapidamente in totale trasandatezza. La sua stanza si
aggrovigliò di abiti gettati in terra, di polvere sulle mensole, di residui di carte lasciati
a marcire sulla vecchia e mai usata scrivania nel giro di istanti. E poi di capelli nel
lavabo del bagno e macchie di umore sulle lenzuola. Non portò più nulla a lavare, sua
madre e suo padre non entrarono più nella sua stanza né le chiedevano nulla. Si
chiuse a chiave. Il silenzio la accerchiava, come desiderava. La sporcizia non faceva
altro che aumentare il senso di felicità che la stava abbracciando.
Lui lesse le parole di questa ragazza-chip che aveva di fronte sullo schermo di un
monitor. Gli aveva spedito anche una sua foto e non era niente male, forse solo un
po’ di fianchi larghi. Non si stupì che non fosse una strafica.
Comprese la felicità della ragazza per aver ottenuto da lui un contatto, evidentemente
anche lei quella notte aveva voglia di navigare negli assolati mari del sud. Si alzò
dalla scrivania e si allontanò senza pensare a nient’altro che a una conversazione
avuta qualche anno prima con Michela, seduti in un pub di Genova:
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certe volte no
a Michela
: io ordino un caffè e lei un frappè
voglio farmene uno anch’io le dico
uno di che? chiede prendendo su una
cucchiaiata golosa di caramello caldo
un frappè rosa proprio come il tuo
sbatto forte il mio cucchiaio sul tavolo
non puoi sei troppo maschio per questo
non è vero dico cosa non è vero? chiede
mi fissa dal mascara liquido sul viso
non è vero che sei un maschio?
certe volte no le dico rabbuiandomi
lei allunga una mano sotto il tavolo
e mi tasta velocissima tra le gambe
io salto via il cucchiaio rotola a terra
cazzo! urlo poi mi mordo il labbro
per aver detto la parolaccia in quel pub
si che sei un maschio anche se ho avuto
i miei dubbi devo ammetterlo e ride
cazzo! ripeto e riprendo a respirare:
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30. fogli – h.23:59:59
“un giorno in più che passa ormai con quest’amore che non è grande come vorrei…
storie come amici perduti che cambiano strada se li saluti”
Riccardo Fogli, Storie di tutti i giorni
: l’undici ottobre stava per terminare. Lui era ancora sveglio alla scrivania ma non
pensava più a nulla, ora. Stava facendo spazio dentro la mente, voleva sbarazzarsi,
anche solo per un istante, delle sovrastrutture.
Poi arrivò. Come dal fondo di un tunnel nero.
Accadde nel febbraio o nel marzo del 1982. Ora non ricordava bene. Chiudendo gli
occhi rivedeva però nitidamente, come se il tutto fosse accaduto l’altro ieri, sua
madre intenta a sfoderare il divano. Rivedeva il salotto della loro vecchia casa ai
Piani, in via Principale 32. La disposizione dei mobili, i vasi troppo carichi di fiori, le
suppellettili sghembe, quasi tutte bomboniere donate in occasione di matrimoni o
comunioni o battesimi di parenti. Più di ogni altra cosa l’attenzione della sua
memoria si concentrava sulla madre, i suoi gesti mentre allungava con presa ferma le
antine del divano e lo trasformava in letto. Lo faceva ogni anno, nel periodo del
Festival di Sanremo. Ricordava i suoi che gli permettevano di stendersi insieme a
loro, a guardare lo spettacolo fino a quando non si addormentavano tutti. Nessuno
riusciva mai a vedere la fine, la tele restava accesa tutta la notte come un oracolo a
vegliare tre destini addormentati.
Era un momento emozionante per lui, piacevole anche nel respiro della memoria,
l’unico nell’anno in cui poteva accoccolarsi, nonostante i suoi nove anni, nella
serenità di un letto insieme al padre e alla madre. Vibrava quasi un’atmosfera da
innocente rito pagano, come se tutto ne avesse il sentore: si spegnevano le luci un
istante dopo aver acceso Rai 1, si aspettava la sigla dell’eurovisione e subito dopo la
sigla del Festival, con le immagini di Sanremo. Era contento perché immaginava che
tutti potessero vedere i luoghi in cui era nato. Specie i parenti rimasti in Abruzzo. E
questa sensazione di ritrovata famigliarità lo scuoteva un po’ da dentro il cuore, lo
faceva sentir bene, condividere con i parenti lontani e con altri milioni di persone un
pezzettino della sua terra. Sentiva che anche per i suoi era la stessa cosa, e in fondo
ne era orgoglioso.
Nell’edizione del 1982 si impose Riccardo Fogli con Storie di tutti i giorni. Non si
addormentò subito, resistette e lo vide esibirsi a tarda serata. Mamma e papà erano
già addormentati. Ai suoi occhi Fogli apparve elegantissimo, indossava uno smoking
nero ed era accompagnato sul palco solo da un chitarrista, vestito interamente di
bianco. Ne rimase affascinato. Ma ciò che più lo rapì furono le parole del testo:
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faceva fatica a capirle tutte, ma nonostante avesse nove anni, gli pareva di coglierne il
senso. Era un pezzo ritmato ma le parole dicevano che era dura vivere, che uno sogna
di cambiare in meglio la sua vita ma non sempre ci riesce. Diceva che lavorare
costava sudore e spesso non si riusciva a raccogliere granché da quanto si era
seminato. Gli sembravano parole importanti, come quelle che spesso ascoltava dai
grandi che lo circondavano. Però con loro ascoltava i lamenti e basta, e invece con
Riccardo Fogli per chissà quale strana alchimia riusciva a sintonizzarsi, sentiva che
lui diceva le stesse cose ma in modo diverso, riusciva quasi a capire che c’erano tante
maniere di dire le cose. E non tutte portavano con sé il peso del lamento. Passò la
notte sveglio, ma al mattino non si sentì affatto stanco, e ci mise poco a prepararsi per
andare a scuola.
Nei giorni successivi il pezzo passò moltissimo in radio. Iniziò a canticchiarlo, ogni
momento era lì a farne il verso, ad ancheggiare davanti a uno specchio. Prese e
mandò a memoria. Poi un pomeriggio, dopo i compiti, lo scrisse tutto sul suo
quaderno e lo lesse: adorava lo scalpitare della lingua nella cavità orale mentre le
parole scorrevano, come se non sapesse dove andare, come se corresse impazzita
avanti e indietro, su e giù sfiorando denti, palato, brandelli di labbra.
Aveva scoperto la poesia. Sorrise:
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elegia sanremese
Ciò che è veramente inspiegabile non ha altro santuario che i mezzi di comunicazione di massa.
Cèsar Aira, Come diventai monaca
: ora è finita questa giornata e sono pulito. Ora sento le valvole che regolano il mio
corpo andarsene via via irrigidendosi; sento che il sangue non pompa come dovrebbe,
che la ragnatela delle mie vene e delle mie arterie è compromessa in un reticolo di
vicoli ciechi, che la mia solidità mentale potrebbe da un momento all’altro collassare,
lasciandomi steso a terra come un cencio di carne.
Mi detergo il sudore dalla fronte chiuso nel controsenso della mia esistenza, persisto
a vivere e non rassicuro certo così la quieta tachicardia che regola le mie notti e i miei
giorni. Ho un buon macinato di caffè sottomano e sono strafatto di psicofarmaci.
Sono rimasto immoto qui, in questa macabra giornata di ottobre, a schiacciare tasti
sul mio pc, a ricordare, a scrivere lettere, a mettere disordine tra i files. Questa
esperienza è stata una cosa che mi ha terrorizzato. Non ne conosco il motivo, non
riesco a definirne ombre e contorni.
Non sono mai stato un cacasotto, nemmeno da bambino. Mai stato uno di quei
patetici poppanti alienati dalla paura del buio, dell’uomo nero o del gatto. Al
massimo mi terrorizzavano le galline, con i loro becchi affilati come lame di Toledo.
Sono cresciuto in campagna, di conseguenza ho fatto molto presto conoscenza con
quelle orribili creature bipedi.
La mia povera mamma ci ha sempre provato, anche sotto minaccia, a insegnarmi
come spargere a terra le semenze di granone per farle ingrassare. Non c’è mai stato
niente da fare purtroppo: non appena aprivo la piccola porticina in legno della
gallinaia venivo investito da quel tanfo micidiale di merda e piume, e i miei occhi
andavano dritti in quelli dei polli, specie dei più cattivi. Potevo sentire vibrarmi la
pupilla mentre si dilatava nella perforazione dell’ostilità del diabolico pollame. Tale e
quale a un esercito di disperati guidati solo dall’istinto di mangiare e uccidere, gli
animalacci iniziavano a gracchiare mefistofelici e a sollevare nubi di polvere fitta,
sbattendo vorticosamente le ali. Venivano verso di me. Gettavo il granone a terra in
un lampo col sudore che mi copriva di sale le palpebre, non riuscendo quasi a
ritrovare la via d’uscita da quella che è stata sempre, è tuttora e sarà nei secoli dei
secoli una sporca, maledetta Città di Dite.
A quel tempo pativo anche un po’ il restare solo a casa davanti alla tele quando i miei
uscivano per andare a trovare una qualsiasi zia. Io trasalivo in un rassegnato senso di
disperazione arrotolandomi nel mio corpicino gassoso e rifiutandomi di andare. Mi
sentivo già grande per stare in casa da solo. Io e Hurricane Polimar su Rai 2.
Due secondi dopo che i miei erano usciti il rimorso per non essere con loro mi
attanagliava. Avrei dovuto saperlo che prima o poi i cartoni finiscono e si resta soli.
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Soli e in attesa che la casa si riempia di nuovo. Tutto quello che facevo, mentre il
buio inghiottiva la mia stanza, era affacciarmi alla finestra stando ben attento a non
precipitare giù, a non finire con la testa dentro i vasi di gerani che mia madre, la mia
caritatevole, orribile madre, aveva piazzato davanti al portone, per abbellire
l’androne. Restavo da solo con la paura che mi marchiava le viscere.
Odiavo i miei genitori già a nove anni perché mi permettevano di restare solo in casa.
Mi permettevano di provare sulla pelle la sensazione della paura viva.
Una volta m’ero lasciato convincere dalla mia vicina di casa, un’allora sedicenne
tettona affatto sgradevole, che giocare al dottore dentro casa mia sarebbe stato più
divertente che farlo io dal balcone lei dall’androne. Così l’ho lasciata entrare, e
mentre si spogliava per mostrarmi le sue inequivocabili virtù indispettite dalle
malattie di cui io avrei dovuto prendermi cura, mi sentivo avviluppare da una gioia
serpentina immensa, assai prossima all’illuminazione di stampo tibetano. Il fatto è
che le malattie e gli acciacchi, mi assicurava lei con un sorriso vigliacco, erano
situate proprio lì. Era proprio lì che i sintomi si rendevano evidenti. “Dottore mi
dica…Metta una mano qua e senta ben che cos’ho…Sarà mica male?” Io, per carità
di Dio, la mano la mettevo anche se non avevo mai fatto il giuramento di Ippocrate,
ma da medico…voglio dire, in fondo era una qualifica guadagnata sul campo, con il
riscontro sociale di una sedicenne in calore. La mano sentiva, e qualcosa là sotto di
me si muoveva, ma a nove anni cosa vuoi saperne tu? Mi pareva che le cellule del
mio abominevole ammasso di ciccia si scagliassero tutte contro la parete della mia
epidermide in maniera suicida, a testa bassa, furiose. Come volessero uscire. Sentivo
chiaro come il sole che mi urlavano in faccia: “cazzo, fa’ qualcosa! Fa’ qualcosa!” Io
mi limitavo a toccare quella ferita piccola che la mia amica possedeva tra le cosce.
Una sensazione gradevole. Umida. Ho pagato per quei momenti di abuso della
professione medica: non ho mai saputo come diavolo avessero fatto i miei a scoprire
che l’avevo fatta salire in casa nonostante il divieto. Ricordo perfettamente però la
distorsione del viso di mia madre, le smorfie mentre mi urlava contro, i sottili sputi
che arrivavano alla mia faccina grondante lacrime di pietà.
Nonostante questo episodio, continuavo a restare solo in casa. Nei pomeriggi
particolarmente inutili mi sfogavo sul mio organo Bontempi sperando che quella
cacofonia vagamente stordita servisse in qualche modo a esorcizzare la mia
solitudine, e non solo a esasperare l’anziana vicina.
La musica non mi ha mai esorcizzato, sono io che ho esorcizzato lei. Non sono mai
diventato un buon tastierista. A quattordici anni mi sono messo in una band che si
chiamava N.V.D.N. (acronimo burlesco e risibile per “Non Vuol Dire Niente”, o
anche “Noi Vogliamo Debora Nuda”), messa su da un mio vecchio amico punk (anni
dopo sono venuto a sapere che aveva fatto una specie di patto col diavolo in un
crocicchio, vicino a Torre Paponi, una cazzutissima frazione di Arma di Taggia). A
10 minuti dall’ingaggio, manco il tempo di inebriarmi dell’odore di una vera sala
prove, il punk si girò verso di me e bofonchiando mi ordinò: “Tu qua mi devi fare
120
questa sequenza: re settima diminuita, la diesis, do settima”. Mortificato dal fatto che
io non sapessi leggere la musica e lui non sapesse farsi una cresta come si deve, lo
piantai lì.
So che ora vende elettrodomestici da Trony. Qualcosa nel patto col diavolo deve
essere andato storto.
Ora, trentatre anni dopo, sono solo in casa. Ho una compagna, due cani, due gatti, un
appartamento tutto mio. Mia mamma e mio papà vivono in un appartamento sotto di
me. Eppure sono solo in casa. E i miei me lo permettono ancora, cazzo. E io non
voglio, cazzo. E oggi è stato il mio compleanno, cazzo. E io sono strafatto, cazzo.
Il sole ha svettato sulle colline ma io non l’ho visto. Solo un cardellino si è posato
nella prima mattina, proprio poco dopo l’uscita di scena di mio padre e della cosa,
sulla ringhiera della mia terrazza. Aveva fame o sete o che so io, il piccolo figlio di
puttana. L’ho guardato dritto negli occhi senza rivolgergli nemmeno la parola. E’
trascorso troppo tempo da quando leggevo la Tamaro (si fosse posato allora, avrei
sicuramente acconsentito a una pur breve conversazione con il bipede alato).
Il sole lo illuminava di sbieco, dipingendogli curiose macchioline marrone, con
minuscole screziature argentee e rossicce. Stava bene, a giudicare dal modo in cui
sfringuellava, ma sembrava come oppresso da un sottile male di vivere. Per mandarlo
via ho acceso lo stereo e con uno scatto fulmineo ho alzato a palla Folsom Prison
Blues di Johnny Cash. Si è fuso con l’orizzonte.
Adoro la bucolica vita di campagna perché si armonizza bene con il rock n’roll; da
qui l’osservatorio sulle cose del mondo appare appena sfocato, come una vecchia
Polaroid asciugata dal tempo. Vile, se vogliamo dircela tutta, ma dannatamente reale:
e a me sembra di essere diventato, cogli anni, un fottuto Palomar strafatto. Ogni volta
vedo le cose tutte come fossero nuove: un filo d’erba, un grillo, un cane vagabondo,
una ranocchia gracidante, un anemone, un sasso, Across the Great Divide di The
Band…
Penso a come sarebbe vivere a Sanremo tra qualche mese, nel periodo del Festival.
Mi viene voglia di farmi di crack.
A circa una ventina di chilometri da casa mia c’è Sanremo. Lo so perché ci sono nato.
Da che mondo è mondo Sanremo è Sanremo, e tu non hai la più pallida idea di cosa
sia Sanremo. No tu proprio non hai la più micragnosa idea di cosa sia il Festival di
Sanremo. Non sto scherzando, so quel che dico. Tu proprio non ne hai idea. Ci vuole
fegato per affrontare questo evento senza la protezione del tubo catodico.
Io ho visto. E non solo le migliori menti della mia generazione: quelle si sono già
fottute da immemorabile tempo. Ho visto a Sanremo, sigillati dentro la pancia delle
loro crucche camerette arredate da Ikea, vecchi ventenni consumatori di droghe
pesanti e leggere, di creme contro brufoli e celluliti, che tenevano nascoste riviste
porno nei fondi dei doppifondi dei cassetti dei comodini, sotto brandelli di carta
straccia, assieme con accendini sgasati e depliant di agenzie viaggi. In quei giorni di
follia collettiva ho sentito i loro lamenti muti da qui, come avessi l’orecchio incollato
alle loro porte con l’odore di crema che quasi mi si strofinava sulle guance correndo
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poi impazzita dentro le mie narici per arrivare al cervello e fotterlo. Nei momenti di
irreale silenzio notturno ho visto il loro pianto rigare le lenzuola, e mi sono alzato sui
tacchi fino a raggiungere lo spioncino per guatare la maniera sublime in cui
torturavano le lenzuola con le dita, come le masticavano, le rosicchiavano, tentati
quasi di spolparle vive. E ho pianto con loro. Da dietro le loro porte ho sussurrato:
“Come pensate di dirlo in giro dopo?” - era per non rincuorarli - “Come direte che
odiate a morte il Festival di Sanremo ma ci state incollati lo stesso? Come farete ad
affrontare i vostri procreatori, voi che siete soltanto i reduci dei figli di una X? Volete
sbattervene dei loro steccati bianchi? Dei loro prati all’inglese? Li hanno messi su per
voi, cocchi miei. Non ce la farete mai. E io vi capisco, e piango insieme a voi, solco
con voi la lanugine del vostro copriletto.
Ho visto i miei amori provinciali, trentenni, confusi, abbagliati dalle cose che non
sono riusciti a fare, consapevoli che la loro esistenza su questo pianeta è soltanto il
maledetto frutto della loro fantasia. Niente di più. Ho visto questi fortunati fallimenti
a due gambe fare la coda per vedere il Festival. Gente che miete lavori che detesta,
che non è stata in grado di combinare niente nella vita, che non riesce neppure a
decifrare il proprio fallimento, che si sente addosso lo sguardo sprezzante di Allah.
In tutti loro ho visto me stesso, riflesso in un patetico provinciale tra i provinciali, con
gli abiti usati, o comprati all’Oviesse, strisciare attraverso Via Matteotti alla ricerca
de Le Vibrazioni. Mi sono visto entrare al Dì per Dì come in una chiesa, con
l’entusiastica missione di riuscire a non spendere tutto il mio assurdo denaro in
bottigliette d’acqua e integratori alimentari. I miei soldi guadagnati col sudore
dell’incapacità.
Ho visto specchiarsi dentro cucchiaini da caffè poeti che insistevano a misurare la
loro vita, dimenticandosi di quanto il mondo sia il posto crudelmente più spiacevole
che abbiano mai visitato. Ho visto i miei poeti con gli occhi asciutti ai funerali dei
loro padri.
Eppure c’è stato un tempo in cui sapevo anche vergognarmi, sapevo entrare in un pub
come un appestato senza speranza, parcheggiare la mia Uno ammaccata senza
stupirmi nemmeno un attimo di quello che non sarei diventato. Di quello che non
diventerò mai.
Guardavo la mia Sanremo stesa con le gambe aperte, succhiandone tutto il miele che
riuscivo a cavarne, senza avvertirne l’acre sentore di morte che aleggiava come una
invisibile fuliggine attraverso i comignoli della città vecchia.
Ciò che oggi, qui, mi spaventa è la raziocinante convinzione che Tenco abbia fatto la
cosa giusta. Tenco aveva lo sguardo di un uomo che ha capito e visto prima di tutti
questa gente muoversi lenta, sotto sembianze mostruose. Aveva lo sguardo di un
uomo che ha bisogno di strizzare più volte le palpebre per non svenire quando scorge
la gente attraversare le strade. Aveva visto quello che anch’io ho visto:
: l’audace scommessa, qui, è vivere.
122
crediti e fonti
tutto mi appartiene
niente è mio
lampi e istanti è la cover di Altre istruzioni di Gianni D’Elia, poesia che puoi
trovare nella raccolta edita da Einaudi Congedo della vecchia Olivetti del 1996. Di
D’Elia mi piacque subito una foto che scovai dentro una rivista: portava i capelli
lunghi e aveva un’aria un po’ annoiata. Sembrava un cantante. Il fatto poi che
avesse scritto un testo, sempre in quella raccolta, titolandolo con una celebre
canzone dei Led Zeppelin...Non so, non è che proprio mi piacciano le sue cose
però…in foto aveva quell’aria molto…poetica, cazzo. Era figo capisci? E io avrò
avuto ventidue anni quando lo scoprii. Frequentavo l’Università con la patetica
illusione che bastasse “fare il poeta” per portarsi a letto quante più ragazze
possibili. Inutile dirti che fallii miseramente. D’altro canto, nel ripensarci ancora
oggi, l’auto sabotaggio direi che rientra perfettamente nel mio copione.
tu dormi arriva da un testo di Antonio Porta tratto da Come può un poeta essere
amato? del 1983. Oggi puoi leggerla a pagina 125 del volume Poesie 1956 –
1988, edizioni Oscar Mondadori. Antonio Porta lo lessi tardi, verso i venticinque
anni, quando ormai ero saturo degli altari sanguinetiani. Per me fu il più bello dei
“Novissimi”, perché aveva una scrittura mite e un’ombra di tristezza in più, e
anche di umanità, nei vicoli dei suoi versi. Era, in fondo, “quello tranquillo”, un
po’ come il George Harrison dei Beatles. A vent’anni Lennon per me era una sorta
di Messia canterino e laico – non so se ti rendo l’idea - oggi lo scettro lo passerei
al compianto Harrison, il Signore lo abbia in gloria. Ho scritto questo testo di
getto, con la mia compagna nell’altra stanza che dormiva. Quando gliel’ho fatto
leggere si è commossa, ma io di più nel vederla con le lacrime agli occhi. Nota: tu
dormi ha vinto la 13ma edizione del Premio Nazionale di Poesia “Ossi di
Seppia”, nel dicembre 2007, con giuria presieduta da Giuseppe Conte, Plinio
Perilli e Lamberto Garzia.
equinozio e solstizio hanno la loro mappa nella città di Eufemia, e per trovare
affinità e divergenze con l’originale devi visitarla. Le indicazioni per trovarla sono
semplici: a pagina 36 de Le città invisibili di Italo Calvino ne saprai di più. Non
posso prestarti la mia copia nelle edizioni Oscar Mondadori perché è talmente
consunta dalle innumerevoli riletture da dover anch’essa essere rinnovata. Il buon
vecchio compaesano Italo: come si fa a non scrivere di lui? A non dedicargli
qualcosa? Ai tempi era una lettura quasi obbligata, perché andava a chiudere tutto
123
un cerchio di scrittori in cerca di paternità che amavo: Daniele Del Giudice,
Andrea De Carlo, Francesco Biamonti. Ma anche Bret Easton Ellis, tanto per dire.
Sempre mi ha attratto l’eleganza della forma di cui Calvino fu maestro, specie
allora, quando il mio motto era il sanguinetiano “il mio stile è non avere stile”.
Mentivo, naturalmente. Ero solo invidioso.
blues viene dal testo LXXVI della sezione “Speen e Ideale”, da I fiori del male di
Charles Baudelarie. Nelle edizioni Einaudi con traduzione di Giovanni Raboni la
trovi a pagina 119. Il primo libro di poesie che ho letto, a diciannove anni, per
intero. E come vedi sono ancora qua, quindi direi che ha significato qualcosa per
me. Mi ricordo che Anna – si era allora al quinto anno dell’Istituto Magistrale –
restò affascinata dal fatto che mi piacesse Baudelaire, lo trovava…cool. Intrigante.
Naturalmente volevo farmela, e la tacchinai per tutta la durata dell’anno
scolastico, senza cavarne niente se non un tristissimo addio davanti al Palazzo del
Parco di Bordighera, dove ero andato a sentirla suonare il piano per un saggio
della sua scuola di musica. Non la rividi mai più, partiva per Milano e credo oggi
faccia l’avvocato. Le scrissi qualche lettera d’amore appassionato e stupido.
Giustamente non mi rispose mai. Avrei fatto la stessa cosa anch’io. Comunque,
Anna, mi scuso se nel corso degli anni successivi qualcosa di me è arrivata alle tue
orecchie. So che alcune persone hanno straparlato, e hanno detto cose false su di
te e me, su una presunta storia. Bè, voglio che tu sappia che sono stato io a mettere
in giro quelle voci, mi sono inventato tutto. Ha senso scusarsi adesso? No, anche
perché mi devi ancora due cassette di Elvis Presley che ti prestai nel 1991, e mai
regalate.
sulla sponda occidentale è tratta da un brano in prosa che trovi alle pagine 200 –
201 ne Un altro giro di giostra di Tiziano Terzani, edizioni Longanesi. Posseggo e
ti consiglio un bellissimo DVD con la sua ultima intervista a Mario Zanot: io la
guardo e riguardo in continuazione. Sai cosa mi affascina? Il fatto che sia rimasto
profondamente fiorentino, italiano e occidentale pur nutrendo uno sconfinato
amore per l’Asia ed esserci vissuto così a lungo. La sua prosa semplice e precisa
mi ha preso fin da subito, e i suoi libri sono stati sciroppati a una tale velocità che
ancor oggi mi meraviglia. E’ raro questo, di solito leggo e assorbo molto
lentamente. Omaggiarlo mi sembrava il minimo.
le cose tutte che mi abitano è tratta dalla poesia Pazzi gli uccelli di Mario
Novaro, contenuta a pagina 93 della raccolta Murmuri ed echi, a cura di Giuseppe
Cassinelli per le edizioni “All’insegna del pesce d’oro” di Vanni Scheiwiller. Un’
edizione rara. Il poeta Giovanni Giudice, con cui ho condiviso buona parte delle
mie passioni letterarie (avevamo entrambi diciotto anni), mi introdusse a Novaro.
Ricordo le passeggiate alle logge di Santa Chiara a parlar d’innamoramenti e
poeti. Molto, molto esistenzialista come cosa…allora amavo veramente essere un
dannatissimo esistenzialista, anche se non avevo la benché minima idea di cosa
significasse. Le conversazioni con Giovanni quindi di fatto si riducevano a suoi
124
monologhi sulla bellezza del verso e ai miei adoranti ascolti passivi, cercando in
lui il maestro che ogni scrittore in versi fisicamente cerca.
da questo luogo e oltre è la cover di una poesia di Josef Stalin, nientemeno. Il
testo originale si intitola Il veleno della rivoluzione e non ho idea se sia pubblicato
in qualche antologia o libro. Fino all’8 maggio 2007, giorno in cui comprai “La
Stampa” e tra le pagine “cultura e spettacoli”, a pagina 39, scovai un bell’articolo
di Marcello Sorgi sulla giovinezza innamorata di Stalin, non mi risultava che il
dittatore di tutte le Russie avesse mai coltivato velleità letterarie. Ma
probabilmente mi sbaglio. Sai tu qualcosa di più al riguardo?
perché dal treno non ti spaventino le gallerie è tratta da La galleria di Gianni
Rodari, che si trova dentro Filastrocche in cielo e in terra. Puoi scioglierti dietro
queste e tutte le altre fiabe di Rodari leggendo I cinque libri, edizioni Einaudi. La
poesia che ho manipolato io è a pagina 119. Rodari morì di polmonite per essere
uscito di casa, nel corso di una gelida nottata d’inverno, per salvare un gattino
perduto e riportarlo al figlioletto. E questo, almeno per me, può bastare per
consacrarlo come eroe. Naturalmente il valore delle sue liriche e delle sue fiabe lo
scoprii molto presto, ancora prima del mio adorato Pinocchio, e quindi saremo
all’incirca nei pressi della prima elementare. Su questo: io non ci ho mai creduto
all’innocenza dell’infanzia, e credo che alcuni passaggi di Undicidieci possano
rivelartelo assai chiaramente. Ricordo una bimba che in prima elementare mi
chiese di accompagnarla nei bagni e mi mostrò la piccolissima fica, chiedendomi
di toccargliela. Non lo feci, e questo credo sia sufficiente a spiegare molte cose.
Non è che ci sia molto da aggiungere.
possiamo giocare un po’ ora è la trascrizione di alcuni tra gli inossidabili e ancor
più improponibili giochi e bisticci linguistici proposti da Alessandro Bergonzoni
nel suo Le balene restino sedute, edizioni Mondatori 1989. Leggi il racconto
Violino e Violenza e lasciati travolgere, e riavvolgere, e avere le traveggole. A
pagina 21. Questo libro fu il primo che comprai per posta. Lo presi assieme a Le
età di Lulù di Almudena Grandes. Comicità ed erotismo: a quattordici anni le mie
idee erano già chiare sul che fare da grande. Bergonzoni mi risucchiò in un vortice
di risate irresistibile, oramai trascorse e impresse solo nella mia memoria. Nel
rileggerlo oggi non c’è più un solo rigo che mi diverta, ma credo sia meglio così.
genealogia dell’incompletezza è un mix di cose, non ha un vero e proprio testo di
riferimento. Diciamo che in esso si incastrano parti dell’elenco del telefono della
Telecom con il Libro delle Cronache dalla Bibbia e una strizzatina d’occhio a La
mostra delle atrocità di James G. Ballard. Anzi, a pensarci meglio forse c’è
qualcosa di più che una semplice strizzata d’occhio alle fantasie ballardiane. Il
tutto è per la Carla, che sempre mi incoraggia e mi vuole bene.
125
inverno è la cover di Primavera di Charles Simic. La trovi a pagina 103 del libro
Hotel Insonnia, edizioni Adelphi. Il titolo della raccolta di Simic fu la vera origine
del mio interesse verso di lui. Lo scovai su un numero di “Poesia” e rimasi
affascinato dai suoi versi brevi, rapidi e sciolti come piccoli acquerelli. Non è il
caso di rendere noto il perché dalla primavera si sia passati all’inverno, mi pare,
no? Nota: inverno ha vinto la 13ma edizione del Premio Nazionale di Poesia “Ossi
di Seppia”, nel dicembre 2007, con giuria presieduta da Giuseppe Conte, Plinio
Perilli e Lamberto Garzia.
un istante solo prima di ripartire viene da Condizione, testo di Giorgio Caproni
tratto dal libro Il muro della terra. Lo puoi trovare oggi a pagina 303 della
raccolta edita da Garzanti Poesie 1932 – 1986. Caproni invece sì. Di lui amo tutto,
senza alcuna riserva, tanto che l’ambizione massima mia sarebbe quella di puntare
la penna sul foglio e vedere trasformate le mie parole in schizzi d’inchiostro fini e
popolari allo stesso tempo, come i suoi. Ambizione eccessiva, lo riconosco. E
sicuramente non arriverò mai alle vette del poeta livornese. I geni arrivano
raramente attraverso i secoli. Con questo non voglio creare false aspettative al mio
ego narcisista, solo coccolarlo un po’...
quello che non c’è arriva da Frammento dal freddo, una poesia dell’immenso
Paul Auster che puoi trovare a pagina 207 di Affrontare la musica, la raccolta dei
suoi versi tradotti in italiano per la prima volta presso le edizioni Einaudi. A
Genova lessi per la prima volta Auster. Poi andai a vedere Smoke e da allora la
relazione è sempre la stessa. Lo sconvolgimento dei sensi quando lo leggo non si è
appannato, né accenna ad acquietarsi. L’unica cosa: pensavo che le sue poesie
fossero più belle. Non si può chiedere tutto, però. Lo so, dannazione, lo so…
sotto i portici d’Oneglia ovviamente viene dritta dritta dalla celeberrima La
passeggiata di Aldo Palazzeschi, testo che vai a trovare in ogni antologia
scolastica, suppongo, anche se io ti consiglio di leggerlo annotato nella Antologia
della poesia italiana a cura Edoardo Sanguineti, nelle edizioni Einaudi. Cazzo
cazzo cazzo quanto mi piace quella poesia lì e tutto quel “futurismo”. Altro che
nipotini del Gruppo ’63, gente, qui siamo dalle parti della magia pura!
molto meglio questo di altro è “La mia università”, sezione del poemetto Amo di
Vladimir Majakovskij. Negli Oscar Mondadori è contenuta in A piena voce.
Poesie e Poemi, a cura di Giovanna Spendel, alle pagine 187/188. Ne vale
certamente la pena. Del poeta russo non mi importa più nulla ormai, ma a
vent’anni mi incuriosivano di lui due cose: il fatto che fosse russo e quello che
scrivesse in maniera così “figurativa”. Tutte e due le cose si sono perse nel tempo
e la passione è svanita, non per questo mi rifiuto di omaggiarlo, ci mancherebbe
altro.
126
quel tanto che mi basta poi stop è tratta dalla seconda poesia della sezione “La
scuola di eloquenza” del poeta inglese Tony Harrison, contenuta a pagina 75 di V.
e altre poesie. Tutto quel libro è una meraviglia, leggiti il poemetto V. e goditi
come la poesia contemporanea possa ancora parlare agli uomini e alla terra in
maniera tanto commovente. Non ho nient’altro da dire su questa cosa.
una cosa dimenticata è la traduzione in italiano di una poesia del poeta dialettale
piemontese Leo Prato. Non so se ci sono testi pubblicati di questo autore, ma la
poesia e tutte le notizie che vorrai le puoi andare a cercare sul sito ufficiale del
comune di Pamparato. Scrissi il pezzo perché mi beccai un raffreddore
memorabile nell’agosto 2006 (questa è la poesia più vecchia, infatti) e non potei
partecipare fisicamente all’evento in qualità di giurato. Così pensai di rendere un
piccolo omaggio al paese e in particolare a quello splendido concorso di poesia.
mia madre ha l’anima di pane è la riscrittura in versi di un articolo del
novembre 1999 di Salman Rushdie, “Pane lievitato”, che oggi puoi assaporare
nella raccolta di saggi Superate questa linea, a pagina 123. Edizioni Oscar
Mondadori. Ce ne sarebbero di cose da dire su mia madre…ma non è questo il
luogo né il tempo. A te basti sapere che l’autore si compiace quando mette in atto
modalità auto distruttive, e quando quelle stesse modalità le riconosce negli altri
ne resta affascinato. Ma al contrario di molti egli non possiede la virtù del
coraggio di mettere in atto le proprie emozioni, di giocare le carte del suo piacere.
Ne consegue ciò che ne consegue, informati presso un qualunque strizzacervelli.
Ad ogni modo ciò che non è possibile qui tacere è la bontà del pane cotto al forno
di mia madre. Mi è tornato in mente all’improvviso, come un gioco di associazioni
junghiane, mentre leggevo l’articolo di Rushdie. Lasciando perdere per un attimo
mia madre e questi aneddoti che ti regalo proprio perché siamo quasi alla fine del
libro… Su Rushdie ho una cosa da raccontarti: anni fa comprai i Versi Satanici e
iniziai a leggerli. Mi persi dopo un centinaio di pagine. Nel corso di un viaggio in
treno verso Milano particolarmente recessivo, presi la penna, aprii sconfortato il
libro e scrissi sulla pagina del copyright che non lo avevo proprio capito, così
come la mia vita, e che non me la sentivo più di leggerlo, e che lo avrei
abbandonato sul treno alla mercé di un qualsiasi passeggero curioso. Chissà chi se
lo è preso…
back home è tratta da Passerò per Piazza di Spagna, di Cesare Pavese. Fa parte
della sezione “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, a pagina 80 delle Poesie del
disamore, edizioni Einaudi. Il titolo l’ho ripreso da un disco particolare di Eric
Clapton. E’ un disco soul, e quando uscì non piacque a nessuno tranne che a me e
alla mia compagna. Da allora suonare quella musica è un ottimo pretesto per
rilassarci e insieme godere del fatto che siamo tra i pochi ad amare quel tipo
particolare di sound, come se Eric l’avesse composto apposta per noi. Sarà una
banale coccola tra innamorati, e allora? Hai qualcosa in contrario a questo genere
di cose?
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la città invasa dal traffico arriva da una lettera di John Fante al figlio Nick del 9
agosto 1957. Fante allora si trovava a Napoli, dove stava lavorando alla
sceneggiatura di un film per De Laurentiis tratto da uno dei suoi libri. La lettera in
questione l’ho scovata in Tesoro, qui è tutto una follia. Lettere dall’Europa 1957
– 1960, pubblicata da Fazi. Leggere Fante e rivedere la mia famiglia (con
l’eccezione dei miei genitori, sia chiaro, di cui non sparlerei mai!) è un tutt’uno.
Stesse facce, stessi atteggiamenti odiosi, stesso menefreghismo, stessa superiorità.
Stessi fallimenti insomma, ma senza il senso dell’ironia dello scrittore
californiano.
quattro amici viene dai Frantumi del mio concittadino Giovanni Boine. Il poeta,
anch’egli di Imperia, Giovanni Giudice mi regalò anni fa la meravigliosa opera
completa di Boine nelle edizioni Garzanti, a cura di Davide Puccini. Non ho mai
letto per intero Boine, ma la scuola della mia città a lui è intitolata e poi il Peccato
parla di un tizio che si innamora di una monaca di clausura, e la cosa ovviamente
non mi è rimasta indifferente. Peccato per le poche scene di sesso, mi verrebbe da
dire. Con un sorriso, caro Giovanni, con un sorriso.
ogni cosa è l’unica poesia presente in Undicidieci ad essere tratta dal testo di una
canzone, pur essendo la musica - in particolare rock e pop – dichiaratamente la
fonte d’ispirazione principale di questo progetto, come ti ho scritto all’inizio del
libro. E’ come quando si dice “l’eccezione che conferma la regola”. L’autore
originale è Leonard Cohen, il brano I’m your man è tratto dall’omonimo disco
della Columbia del 1984. Cohen, lo sai, è una voce, una presenza costante da
quando avevo sedici anni. Lo ascoltai per la prima volta dopo aver comperato una
compilation in edicola. Poi quando uscì Grace di Jeff Buckley con quella
splendente versione di Hallelujah, ne approfondii ancora di più la conoscenza.
Quel timbro così pieno di fuoco mi ha sempre lasciato immaginare le più sconce
cose che potessi immaginare. Sai che molti critici hanno parlato del perfetto mix
di spiritualismo e sensualità presente nella sua voce. Il tocco mistico mi ha
pervaso, sì certo…ma quel timbro così caldo ha sempre fatto emergere, almeno
dalle corde della mia anima, la parte più erotica. Che arriva a Entiazel.
è che ho il mio odore da seguire è, come si può facilmente prevedere dal titolo,
la cover di un brano di Altri Libertini, primo romanzo di Pier Vittorio Tondelli. Se
prendi Opere dei classici Bompiani trovi tutto a pagina 137. Oltre naturalmente a
ogni altro scritto di PVT. A parte Camere Separate e Altri Libertini non ho mai
letto nulla per intero dell’autore di Correggio. Vado a smozzichi e bocconi, con
lui. Ovviamente adoro il Weekend Postmoderno proprio perché è costruito così, e
la leggerezza dei testi, incollata insieme dalla grana degli stili in esso contenuti, mi
riempiono sempre il cuore di gioia. Enos Rota mi fece tenere una piccola
conferenza su PVT, a Bordighera. Erano presenti solo nove persone, e una di esse
era mia madre. Era la prima volta che mia madre assisteva a una mia
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“performance” nel mondo della poesia. Non so quanto ne sia rimasta colpita, ma
contenta direi di sì. Al ritorno in macchina mi stupì dicendomi che a lei piacevano
i gay. Aveva visto Aldo Busi in tv la sera prima da Costanzo dire cose intelligenti.
una breve ma intensa dissertazione fa il verso (è il caso di dirlo) a un testo
contenuto a pagina 14 di Nodi, il volumetto di poesie che lo psichiatra inglese
Ronald D. Laing pubblicò nel 1974 e che io posseggo nella quarta edizione
Einaudi della collana “Nuovo Politecnico”. Ho voglia di raccontarti ancora
qualche aneddoto, già che ci siamo. Credo di non averlo sufficientemente
sottolineato nel libro ma è con la masturbazione solitaria e fantasticata che godo di
più. Non per questo mi fa schifo scopare, tutt’altro. E’ solo che lì non hai da
preoccuparti di nulla, l’ansia sbollisce, gli stimoli si riducono a una serie
meccanica di relazioni tra la tua fantasia e la tua mano e basta, e capisci anche tu
che questo semplifica notevolmente le cose. Tuttavia alcune volte ho goduto
insieme a un’altra persona. Mi spiace essere così patetico, ma ogni volta che
questa strana situazione mi è capitata è stata dettata dall’amore e basta. Ogni
maledetta volta che mi innamoro godo quando vengo, altrimenti ciccia, nulla,
nada, adios. Proprio niente. Se sono innamorato posso anche fare l’amore, non
venire (magari perché ho mangiato un chilo di gnocchi venti minuti prima e sono
leggermente appesantito) e godere lo stesso. Ma se non provo niente, se il mio
battito cardiaco non si insinua tra le pieghe di quello della mia compagna, posso
eiaculare ettolitri di seme senza nemmeno sentirlo uscire. Come il getto di una
pompa che pesca acqua da uno stagno.
climax viene da Notturno, una delle poesie giovanili di Thomas S. Eliot. Nelle
edizioni Bompiani delle Poesie la migliore traduzione di Roberto Senesi la trovi a
pagina 143. Si sa ormai qual è il più crudele dei mesi. Eliot mi ha accompagnato
per tutta l’adolescenza e parte della mia vita da adulto. Non ho mai capito bene le
sue liriche. Mi piacciono giusto alcuni frammenti e pochi passaggi. Ma quelli che
mi piacciono mi piacciono veramente tanto. Mi ha sempre dato l’idea di essere un
vecchio gentiluomo con una vita “difficile” alle spalle ma riluttante al racconto. E
questa cosa ovviamente mi ha affascinato fin dalle prime letture. Leggere poesie e
non capirle è stata la mia chiave di volta nella scoperta del verso. Spesso non
capisco nemmeno quello che scrivo io ma a differenza di anni fa, questa volta
inizio a preoccuparmi un po’.
come ti penso stasera, Allen Ginsberg è la cover di Un supermarket in
California, contenuta in Jukebox all’Idrogeno, ovviamente di Ginsberg. Io però ho
letto per la prima volta questo testo in una vecchia edizione Rizzoli di Foglie
d’erba di Walt Whitman a pagina 35 - 36, giacché il testo di Ginsberg era proprio
un omaggio al grande vecchio americano. Per questo ho deciso di prendere due
piccioni con una fava. Dato il respiro dei poeti in questione, oltre a Whitman ti
consiglio di assaggiare anche Papà respiro addio. Poesie scelte 1947 – 1995 di
Allen Ginsberg, nelle edizioni NET. Un gran bel modo di respirare. Nota: come ti
129
penso stasera, Allen Ginsberg ha vinto la 13ma edizione del Premio Nazionale di
Poesia “Ossi di Seppia”, nel dicembre 2007, con giuria presieduta da Giuseppe
Conte, Plinio Perilli e Lamberto Garzia.
sto aspettando davanti a un drugstore è un cut-up. Nessuna parola o segno del
testo è mio, ma tutto viene dal Pasto Nudo di William Burroughs. Io ne posseggo
una copia del 1992, SugarCo edizioni, che trovai al “Libraccio” di Genova in
Corso Italia secoli fa, quando ancora mi baloccavo come studente di lettere
fancazzista. E’ una bella edizione, con in copertina un’inquietante immagine tratta
dal film di Cronenberg. Ricordo che quando uscì in video corsi ad affittarlo, per
tentare di decodificare le asperità del testo con l’aiuto delle immagini. Feci male i
conti.
che senso ha è la cover di una poesia di Michel Houellebecq contenuta alle pagine
85 – 87 de Il senso della lotta, raccolta di poesie edite sempre nella collana
Bompiani “InVersi” a cura di Aldo Nove. Ecco un altro libro che mi ha stuprato:
Piattaforma. Ogni singola parola sta dove ha necessità di stare, ogni colpo al
cuore che prendo mentre lo leggo e rileggo fa sempre lo stesso effetto, come di
una decompressione del plesso toracico. Sulla stessa falsariga ti consiglio anche
Lanzarote. Ho soggiornato anch’io a Lanzarote e poco ricordo, come hai avuto già
modo di leggere. Qui posso ancora dirti che a parte i cammelli e l’odore pungente
dell’Oceano, poco altro mi ha colpito. Un pezzo di terra tetro, nero. Troppo caldo.
Vale la pena parlarne perché quella fu la prima volta che presi l’aereo per andare a
una convention in un’isola così “esotica” (considera che il posto più esotico in cui
sono stato io fino ad allora è stato Lourdes). Mi immaginavo le convention
aziendali come un’interessante prospettiva di commettere orge e scopate a tempo
illimitato. Indovina un po’ una cosa? Non mi successe nulla di tutto questo. Me ne
stavo rintanato tutto il tempo nella mia camera 5 stelle con vista sull’Oceano da
solo a pensare al mio perduto amore. Che ignobile testa di cazzo! Una volta sola
vinsi la mia inettitudine alla socialità e accettai un invito in discoteca da parte dei
miei colleghi. Non ricordo nient’altro se non la visione fugace di una ragazzina
inglese che ballava con in testa un fermacapelli a forma di cazzo.
certe volte no è un brano di pagina 93 da Ingannevole è il cuore più di ogni cosa
di J. T. Leroy, per le edizioni Fazi. Senti una cosa: a me personalmente importa
poco se il ragazzo in questione esista veramente o meno. Se lo abbia scritto lui, la
sorella o lo sa il diavolo chi. Se sia tutta una gigantesca truffa o un ottima strategia
di marketing. Io penso che chiunque sia stato a farla, questa truffa, attraverso
queste parole, è un maledetto genio.
elegia sanremese ha dietro di sé un movimento contrario rispetto agli altri testi
del libro, nel senso che deriva dall’omonimo volume di Tommaso Ottonieri, edito
nella collana “InVersi” a cura di Aldo Nove, edizioni Bompiani del 1998. Quel
libro è però scritto in versi, mentre il mio pezzo è la cover in prosa
130
dell’essenzialità di un po’ tutte le sue poesie. Ho conosciuto Tommaso Ottonieri la
sera del 2 febbraio 2000 presso il Circolo Arci “Antica Compagnia Portuale” di
Imperia. Era lì in compagnia dei poeti genovesi Paolo Gentiluomo e Donald Datti
per delle letture dai suoi testi. Fu una serata molto divertente, ricordo che mi
fermai con lui a chiacchierare per un po’, era attento e spiritoso come un poeta.
ancora una cosa prima di chiudere
Il rock e il pop hanno giocato un ruolo essenziale nel corso del processo creativo di
Undicidieci. Tutti gli scritti originali in prosa, ad esempio, hanno dietro
un’ispirazione musicale forte. Se ti va l’idea, ti propongo di leggere ogni capitolo del
libro gustandoti i brani che ascoltavo io mentre battevo le dita sulla tastiera. Proprio
sul tempo di queste canzoni:
1. Immersione: Angel dei Massive Attack
2. Tra la ragazza e l’acqua: Tiny Dancer di Elton John
3. Lanzarote: The Crystal Ship dei The Doors
4. La posizione del corpo: Bleeding me dei Metallica
5. La cosa: Three Wishes di Roger Waters
6. Sul tempo di una fotografia: Imitation of life dei REM
7. La camera degli equilibristi: Where the wild roses grow di Nick Cave
8. Jona e i granchi: We’re going to be friends dei The White Stripes
9. Appunti sul block notes giallo: Wharehouse Blues dei Motorhead
10.Scendo solo: Walking in my shoes dei Depeche Mode
11.Iniziazioni: 14 years dei Guns and Roses
12.La sirena: I’ll never get out of this world alive di Hank Williams
13.Funerale bianco: Down to the river to pray di Alison Krauss
14.Catalogo di fiche nella città di Imperia: The Nobodies di Marilyn Manson
15.Sempre sulla stessa strada: Ballad of a Thin Man di Bob Dylan
16.New Economy in poetry: una lettera: This Bird’s Gonna Fly dei Los Lobos
17.Scolpire le parole: Rivers of Babylon di Steve Earle
18.Scene da una storia d’amore e incapacità: Beautiful boy di John Lennon
19.Le cose che ama di lei: Take my hand di Ben Harper
20.L’arcobaleno prima del traffico: Mellow Yellow di Donovan
21.Bestie: Get the money di Iggy Pop & Goran Bregovic
22.Entiazel: The Great Gig in the Sky dei Pink Floyd
23.Breve commiato: Ordinary World dei Duran Duran
24.La bambina: Helter Skelter dei The Beatles
25.Da qualche parte al di là della stanchezza: Jailbird dei Primal Scream
26.Vincere è una gran bella cosa: Rome Wasn’t Built in a Day dei Morcheeba
27.Lettera a Ricardo: Hurt di Johnny Cash
28.Sì: Sexual Healing di Marvin Gaye
29.Ciò che è e ciò che dovrebbe essere: Father and son di Cat Stevens
30.Fogli: Hound Dog di Elvis Presley
131
ghost tracks
(cose vecchie e nuove)
“i miei capelli stanno diventando grigi
e i miei amici sono tutti andati
io soffro nel posto dove di solito canto
e sono pazzo d’amore
ma non riesco ad andare avanti
spendo tutto il tempo che mi rimane
qui nella torre della poesie.
Ho chiesto ad Hank Williams
quanto ci si possa sentire soli:
Hank Williams non ha ancora
risposto ma lo sento tossire tutta la notte,
cento piani sopra di me nella torre della poesia”
Leonard Cohen, Tower of song
132
breve nota introduttiva
I primi cinque testi di questa sezione sono riletture di poesie apparse in una mia
plaquette del 1997 dal titolo L’acqua per terra, edita dalle Edizioni della Rosa.
Hanno compiuto dieci anni, e mi piaceva l’idea di riproporle oggi vestendole con un
abito diverso, non so se migliore o peggiore di quello che già indossavano. Ma si
tratta pur sempre di giocare, no? E di fare “cover”… E quindi eccole qua con indosso
colori differenti, stoffe più adatte a questo speciale compleanno, un po’ cipria e
rossetto in più, qualche goccia di profumo. Direi che è come se avessi deciso di farmi
un regalo per il mio decennale dalla prima pubblicazione. Non è la cinquina migliore
di quella plaquette, ma li ho scelti perché tutti i testi hanno una particolarità che li
affratella: sono cinque ritratti di ragazze che allora rinfrescavano con la loro presenza
(ma anche con la loro assenza) le mie giornate. Oggi non ho idea di dove siano, di
che vita facciano, di come siano diventate. Non ne ricordo nemmeno con precisione i
nomi (beh, della prostituta di cui parlo proprio davvero non so più nulla…); solo
Cristina, che incrociavo spesso nei corridoi della mia scuola e con cui mi fermavo
spesso a chiacchierare, mi sovviene in questo momento. E la dolce Rosanna, che
trattai così male da vergognarmene ancora oggi. Anche di lei, non so più nulla. So
solo che io sono molto diverso dalla persona che dieci anni fa abitava il mio corpo, e
anche in questo caso non so dire con esattezza se il bilancio sia positivo o negativo. E
non so dire, cara Rosanna, se questo possa servire a giustificare un po’ quel mio
accanimento adolescenziale, senza molto garbo, nei tuoi confronti. Chissà che mi
prese, accidenti. Eppure amavo tanto trascorrere i pomeriggi al telefono con te. Ha
senso dedicarti oggi questi cinque cambi d’abito?
Le successive lodi ad Allah, invece, sono nuove di zecca, maturate tutte nella
primavera e nell’estate del 2007 e sono dedicate a mio padre, che ha sempre cercato
di farmi uscire dalla mia stanza e dalla mia solitudine. Non ho molto altro da dirti, le
poesie parlano da sole. Credo che dopo tanto guardarsi dentro abbia ragione mio
padre: un’occhiata a quanto sta accadendo nel mondo può essere considerata una
buona occasione per prendersi una boccata d’aria.
133
1. cinque cambi d’abito
a Rosanna
“Ch’io non ti vegga ancor qual’eri il giorno
Che né vezzosi appartamenti accolta,
Tutti odorati de’ novelli fiori
Di primavera, del color vestita
Della bruna viola, a me si offerse
L’angelica tua forma, inchino il fianco
Sovra nitide pelli, e circonfusa
D’arcana voluttà;”
Giacomo Leopardi, Aspasia
134
1. giorno d’estate
: se ti tuffi fai bene a tuffarti
a stufarti di tutti e per niente
anche di me che ti ho toccata
una volta soltanto e mi basta
oggi l’estate s’innaffia su Oneglia
sto come un granchio annoiato dal mare
disfo e ricucio e abbandono nell’aria
tutti gli amori che ho baciato ai muretti
la sera mi copre distratto e si sveste
si passa una mano sui fianchi poi smette:
135
2. l’incontro a una festa
: dubitavi delle labbra in serata
delle bocche dei capelli delle altre
versavi sorsi di vino fusi al rossetto
la tua lingua densa come uno sciroppo
la cipria sbocciava dalle tue guance
nell’incontro notturno che scordammo
il tuo fiato era impregnato d’arancia
un frammento della mezza stagione
uno scacco uno trabocchetto al mio cuore:
136
3. corridoi
: esca mia liscia ahi quanto lascio che tu mi scomponga a una lisca
non ti chiedo di consolidarmi quanto piuttosto di scordarmi
se non ti volti più alle logge di Santa Chiara per quanto sei rara
non ti spremi né respiri non esprimi non imprimi né comprimi
non mi succhi i cocci con la tua bocca da chioccia sotto la doccia
mi lasci me che ti spero me che ti scoppio me che ti spoglio
ahi quanto mi scontenti mio imperfetto sonetto mio relitto
motivetto di cui non parlo mai giochetto di cui non canto mai
mi pianti t’osservo m’incanti ancora come i serpenti e ti cerco
ma non ti sporco e mi cedo e mi spreco me che non ti assaggio:
137
4. tu sai
: tu sai che non ballo: ritocco quest’ultimo verso
ti spiega qualcosa di me che non sai più
ti esce uno strano sbadiglio di bocca che mi stronca
ti affacci sugli occhi verso giochi di luce lontani:
138
5. ode a una puttana sull’Aurelia
: daccapo: una sbronza di trecce e fermacapelli
nodi alla gola e reggicalze, mini e pantacollant
tacchi alti sul rintocco delle campane a mezzanotte
ogni suono per metà saputo per metà assente
penso sia doveroso raccapezzarsi un poco appena
tra la bianco vestita slavata dell’est e l’autoctona
filiforme come un’agreste ninfa, scesa sul litorale
e così somigliante a una matrona romana di carta
le dico: ho conquistato un frasario di passaggi
tra andirivieni d’istanti, luci al crocevia
ma tu eri sommersa dai veli come setacci
che pativano sul tuo volto lontano nella sera:
139
2. lodi ad Allah
A mio padre
“Contro l’indifferenza della vita
vedo inutile anch’essa la virtù
e provo forte come non ho mai
il senso della nostra solitudine.
Io voglio confessarmi a tutti, padre,
che ridi se mi vedi e tremi quando
d’una qualche premura ti fo segno,
di quanto fui codardo verso di te
Benché il rimorso mi si alleggerisca,
che più giusto sarebbe mi pesasse
sul cuore, inconfessato…”
Camillo Sbarbaro, poesia IV da “Pianissimo”
140
1. skyline
: s’alza il canto dalla gola del muezzin
gola rossa dalle guglie dei minareti d’Istanbul
verso il porto di Genova verso la baia di San Francisco
taglia il canto la notte che s’alza su Liverpool
che attraversa la luce di Dehli e si posa al tramonto
sulle chiese di Parigi e sui campi orati di Tangeri:
141
2. i vigneti di Allah
: ahi Jamila, per una mescita di vino novello
ingoierei te in una sorsata e la tua Persia tutta
ma per dio fremeranno le labbra di Allah
quando saranno unte d’uva e mosto,
quando rivedrà i buddha ricostruiti in Afghanistan
e tra i tuoi capelli i resti impigliati delle mie dita;
ti aspetterò per assaggiare il sapore liquoroso della luna
scivolare dai tuoi fianchi, e da quelli della piccola Aisha
fino al fondo della mia gola rossa tra i vigneti di Allah:
142
3. canto di Maryam
: la prima tazza di caffè caldo la mattina
e il Washington Post posato ancora sul tavolino,
la terrazza aperta sulla quinta sura del Corano
e la pace dei tuoi seni disinnescati tra le lenzuola
sotto di noi va l’autostrada per Teheran: osservo
le insegne al neon del negozio di Ismaiel;
poco lontano quattro ragazze fumano in una
Paykan gialla, da sotto i veli spuntano i loro occhi scuri:
143
4. memoria di Sayed
: il mullah Sayed ricordò Alessandro il Grande entrare in Persepoli
le bambine stuprate nell’orgia del grande rogo e poi cotte
e le fiamme e i soldati copulare con il cielo notturno stellato
ancora ricordò nel settimo secolo il massacro degli Zoroastriani
che mangiavano erba dalla terra e fumavano l’oppio sui tappeti
guardando i seni delle bambine sollevarsi notte dopo notte
e la stirpe mongola che annientò la dinastia dei Selgiuchidi
e l’afgano che in sella a un gigantesco branco di elefanti
rase al suolo Isfahan nel 1721; la sua voce era carica di vento:
144
5. quindici anni
: Ardit viene da Tirana e ha capelli crespi e scuri e denti aguzzi,
porta dieci centesimi e dal suo pacchetto stracciato di Marlboro
tortura di sguardi una piccola bionda slovena che passa veloce:
ricorda bene il corpo nudo del fratello inghiottito dall’Adriatico.
Said lavora all’emporio, vende arance e verdure e i datteri neri.
Ama la zuppa chiamata harira e il kebap speziato e gustoso:
non sa più chi sia suo padre ma la madre tesse veli a Marrakesh
e di hennè le mani e le braccia della sorellina appena sbocciata.
Amish ha preso la sua sposa bambina sul letto in ferro battuto
nella casa del padre, sotto gli occhi degli amici e delle vecchie.
Ha frequentato i bordelli di Istanbul e guardato il Galatassaray
in curva, pestando forte i piedi e innalzando lodi ad Allah.
Ha smesso di piovere e stanno seduti sul muretto di piazza Mameli.
Fumano l’erba indovinando le mani delle ragazze che passano:
ora non hanno voglia di parlare né di camminare a piedi nudi.
Soltanto la luce della mezzaluna li riflette dall’asfalto bagnato:
145
Emiliano Moncia
Undicidieci – Ira Facit Versus
Indice Generale
titolo
146
pagina
manuale d’uso……………………………………………..………. 4
Undici Ottobre………………………………..……………..…….7
1. immersione………………………………………..………………8
lampi e istanti……………………………………….………………11
2. tra la ragazza e l’acqua……………………….…………..……..12
tu dormi………………………………………….………………….14
3. lanzarote…………………………………………………………15
equinozio e solstizio……………………………….………………..18
4. la posizione del corpo…………………………………………...19
blues……………………………………………….………………..22
5. la cosa…………………………………………………………... 23
sulla sponda occidentale………………………………………….. 27
6. sul tempo di una fotografia………………….………….……... 28
le cose tutte che mi abitano……………………………………….. 30
7. la camera degli equilibristi………………………………………31
da questo luogo e oltre……………………………………………. 35
8. Jona e i granchi…………………………………………………. 36
perché dal treno non ti spaventino le gallerie…………………….. 40
9. appunti sul block notes giallo………………..………...…….…41
possiamo giocare un po’ ora……………………...………………. 44
10. scendo solo…………………………………...……………….. 45
genealogia dell’incompletezza………………………………….…. 47
11. iniziazioni…………………………………………………….…48
inverno………………………………………………………..…….51
12. la sirena…………………………………….….……………….52
un istante solo prima di ripartire………………………………..….57
13. funerale bianco…………………………………………………58
quello che non c’è…………………………………………………. 59
14. catalogo di fiche nella città di Imperia………..……………….60
sotto i portici di Oneglia……………………………………………62
15. sempre sulla stessa strada…………………….……………….63
molto meglio questo di altro……………………..………………...65
16. new economy in poetry: una lettera…………………………..66
quel tanto che mi basta poi stop…………………..……………….69
17. scolpire le parole…………………………….………………...70
-
una cosa dimenticata………………………………….……….….72
18. scene da una storia d’amore e incapacità…………………….73
mia madre ha l’anima di pane……………………….…….……...77
19. le cose che ama di lei…………………………..……………...78
back home……………………………………………..…………..81
20. l’arcobaleno prima del traffico……………….………………82
la città invasa dal traffico…………………………..……………..85
21. bestie…………………………………………..………………86
quattro amici…………………………………..…………………..88
22. entiazel……………………………………..……………….…89
ogni cosa……………………………………..……………………91
23. breve commiato……………………….………………………92
è che ho il mio odore da seguire………….……………………....93
24. la bambina………………………….…………………………94
una breve ma intensa dissertazione…….………….……………...96
25. da qualche parte al di là della stanchezza……………………97
climax………………………………………….….………………103
26. vincere è una gran bella cosa………………………………...104
come ti penso stasera, Allen Ginsberg…………..………………..106
27. lettera a Ricardo……….……………………………………..107
sto aspettando di fronte a un drugstore…………………….…….110
28. sì…………………………………………….………………...111
che senso ha…………………………………….………..….……113
29. ciò che è e ciò che dovrebbe essere…………………….……..114
certe volte no…………………………………….…..……..……...116
30. fogli……………………………………………………………117
elegia sanremese……………………………………..…..………..119
crediti e fonti……………………………………..….….………123
ghost tracks (cose vecchie e nuove)………………….…………132
breve nota introduttiva………………………………...………….133
cinque cambi d’abito……………………………………………..134
1. giorno d’estate…………………………………………………..135
2. l’incontro a una festa……………………………………………136
3. corridoi……………………………………………….………….137
4. tu sai………………………………………………….………….138
5. ode a una puttana sull’Aurelia………………………………….139
lodi ad Allah…………………………………………….…………140
1. skyline………………………………………………….………...141
2. i vigneti di Allah…………………………………………………142
3. canto di Maryam………………………………………...………143
4. memoria di Sayed………………………………………...……...144
5. quindici anni………………………………………………..…...145
indice generale…………………………………………………..…146
147