E sono io, donna, che ti accuso di Sandra Giuliani

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E sono io, donna, che ti accuso di Sandra Giuliani
E sono io, donna, che ti accuso
Sandra Giuliani
Iniziò con il fattaccio di Nettuno e solo il coraggio controcorrente di un gruppo di registe della RAI (Rony Daopulo,
Paola De Martiis, Annabella Miscuglio, Loredana Rotondo) portò a conoscenza della gente quanto accadeva nelle aule
di un tribunale dove una avvocatura di difesa usava parole e comportamenti che continuavano a procurare violenza alla
donna che da vittima, gradualmente, si trovava ad essere percepita come consenziente, complice e infine correa.
L'atteggiamento mentale che emergeva in aula era che una donna «di buoni costumi» non poteva essere violentata; che,
se c'era stata una violenza, doveva evidentemente essere stata provocata da un atteggiamento sconveniente; che, se non
c'era una dimostrazione di avvenuta ribellione, la vittima doveva essere per forza di cose consenziente.
Iniziò con quel documentario la visione vergognosa di una madre degli imputati che pur di difendere il figlio fu la prima
a indicare nel comportamento della vittima le ragioni stesse del fatto: "se l'è cercata": una sentenza pregiudiziale che
andrebbe incenerita nel momento stesso in cui è stata pensata.
Iniziò con quel Processo per stupro una pagina di onore per l'avvocatura ad opera di una donna, Tina Lagostena Bassi,
che rimandò al mittente ogni parola denigratoria e rivendicò a tutte le donne, simbolicamente, il diritto di sentirsi parte
lesa: "siamo noi, donne, che vi accusiamo".
Era l'anno 1979 e lo stupro era ancora un reato contro la morale.
Oggi, nel 2012 è un reato contro la persona ma noi donne siamo ancora alla sbarra: tutte parte lesa.
Ma qualcosa è cambiato.
Ogni volta che ti permetti di dire esplicitamente o indirettamente "se l'è cercata", io come donna ti accuso.
Ogni volta che una legge non tutela la vittima e crea misure attenuanti nelle pene, io come donna ti accuso.
Ogni volta che fai informazione accostando alla parola violenza aggettivi come "passionale" veicolando un sapere
sull'amore molesto che mistifica l'amore, io come donna ti accuso.
Ogni volta che fai misera sociologia addebitando l'incremento delle violenze sessuali al cambiamento dei costumi
femminili, alla facilità degli incontri, all'esibita capacità di provocazione e tentazione femminile, io come donna ti
accuso.
Ogni volta che al bar in ufficio nell'androne del condominio trasformi in battute volgari il femminicidio ritirando fuori
luoghi comuni sulle suocere-streghe e sui poveri generi, sulla guerra tra coniugi e su chi veramente comanda, sui poveri
padri e più poveri mariti che soccombono alle angherie femminili: "altro che sesso debole!" – una frase che andrebbe
incenerita prima ancora di essere una sinapsi cerebrale – , io come donna ti accuso.
Ogni volta – come sta accadendo per i fatti di Montalto di Castro – dove se manca la videocamera di Loredana Rotondo
non mancano gli occhi e gli orecchi delle tante donne che sono tutte lì a dire accanto alla ragazza: siamo tutte parte lesa,
sindaco e, tutte, come donne, ti accusiamo.
Le parole sono fatti. E dei fatti giustificano, alla fine, l'accadere.
Le parole traducono i pensieri. E i fatti sono la materializzazione concreta di ciò che si crede vero, di ciò che ci
convinciamo essere vero.
Le leggi sono fatte di parole. Attenzione a chi le scrive e a chi le usa nei tribunali. Quelli giuridici e quelli urbani,
conviviali e familiari.
I luoghi comuni sono l'alibi per non pensare con la propria testa, per non mettersi mai in crisi e per non crescere. Come
persone, come cittadini.
Lo stupro esiste da sempre. Perché questa è Storia scritta e pensata dagli uomini. Per gli uomini contro le donne. E' fatto
comune nelle guerre. E' fatto comune nelle case private, nei vicoli urbani, nei luoghi di aggregazione sociale, di lavoro e
di divertimento. Dentro i letti coniugali.
Ovunque una relazione tra uomo e donna sia immaginata come un gioco di caccia. Un gioco tra non pari.
Ovunque si perpetui l'illusione che la virilità acquista valore solo se è predatoria e la femminilità ha nel DNA
l'ambiguità delle risposte (i no che sono sì) nei confronti di un Desiderio che è sempre e solo maschile e che del vuoto
dell'altra si empie e si autoproduce.
Non ci sono più stupri perché le donne hanno cambiato i costumi e gli uomini sono più deboli e disorientati da questa
stuola di virago che infesta le strade ancheggiando e mostrando il sedere.
Non ci sono più stupri perché le donne prima sembra che ci stiano e poi dicono no e si sa la carne è carne e l'uomo è
sempre pronto mentre la donna.... boh... non si sa mai.
Non ci sono più stupri perché le nostre città hanno aperto case e vicoli agli extra-comunitari: ai rumeni "tutti ubriachi",
ai nigeriani "selvaggi tribali", agli zingari "ladri analfabeti".
Perché le porte che si aprono sono quelle di casa nostra.
Oggi gli stupri sono all'ordine del giorno perché molte donne li denunciano. Perché molti padri e molte madri non si
vergognano di una figlia violentata. Perché molti stupri finiscono con l'omicidio e aumentano le donne uccise. E spesso,
molto spesso, alla violenza sessuale esplicita si sostituisce la penetrazione mortale del coltello o il peso lacerante del
bastone. Più e più volte perché non basta uccidere... la vera pulsione distruttiva porta in sè il desiderio
dell'annientamento.
Eppure molti stupri ancora non hanno parole. Nè persone dietro a quelle parole che possano riottenere dignità.
Le donne esistono in una resistenza continua. Negate. Annientate.
Fisicamente, simbolicamente.
La non rappresentanza di genere nei posti di lavoro – qualunque posto di lavoro che implichi anche un ruolo di potere –
è un sintomo di questo annichilimento continuo.
La rappresentanza per eccesso del corpo femminile non è un atto di riconoscimento tantomeno di elogio ma una
strategia di distruzione capillare che una volta era composta da donne sull'altare – vergini e caste gentili e pure– e oggi
da donne smembrate come in una macelleria visionaria.
Sono pezzi di donna. O idee di donna. Esposte e consumabili. Le donne vere non ci sono.
Se citiamo una scrittrice mettiamo l'articolo davanti al suo cognome: la Morante. Non diremmo mai il Moravia. Perché
non esiste ruolo sociale che non venga percepito – se abitato da una donna – come un'eccezione o un'occupazione
indebita.
Non è il segno di riconoscimento di una differenza, come valore, ma la spia di una marginalità tollerata.
Che siano sempre e solo le donne a muoversi in difesa dei propri diritti è un fatto di ragionevolezza storica che
appartiene a tutti i deboli della terra.
I forti, i potenti disegnano sempre il Mondo a propria "immagine e somiglianza" e si spartiscono ricchezze e bottino,
creano capitalismi di mercato e di idee.
Solo i deboli della Terra, per vivere, camminano sentieri di uguaglianza e di emancipazione.
Perché tutti i deboli della terra sanno di essere nati liberi.
Solo i forti devono vivere nel Mondo inventato dalla schiavitù.
Oltre queste Colonne... sono "nessuno".
Ed è un fatto ragionevolmente storico che ogni conquista di libertà sia un vantaggio per tutti; che una rivoluzione di
idee e di mercato cambi le regole di produzione non solo quelle di consumo.
E che quindi la pericolosità insita in chi alza la testa e dice no (ed è no non un sì mascherato) è ben chiara a chi ha tutto
l'interesse di mantenere il Mondo com'è.
Solo i forti devono vivere nel Mondo inventato dalla schiavitù.
Oltre queste Colonne... sono "nessuno".
Ma qualcosa è cambiato, e non da ieri. Anche se vive di maree, di secche e di incagli.
E' un movimento lento, corrosivo, planetario: il potere di dirsi.
Non abitare il silenzio. Mai più.
Never more.
La violenza sessuale è l'ultimo atto – reiterato, compulsivo – di un Mondo in declino, che implode rovinosamente su se
stesso.
Non è una questione femminile, di donne tra donne.
E' una questione civile. In tutti i Paesi del Mondo.
Il vostro Mondo, disegnato da voi e per voi, che è solo una prigione.
La vostra schiavitù.
Noi siamo sempre state libere.