IL SEGRETO DI BIMA
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IL SEGRETO DI BIMA
LORENZO SARTORI IL SEGRETO DI BIMA RACCONTO GAINSWORTH PUBLISHING Questo romanzo è un'opera di finzione. Nomi, personaggi e fatti descritti sono frutto dell'immaginazione dell'autore. Ogni somiglianza con eventi, luoghi o persone reali, vive o defunte, è puramente casuale. © 2015 Gainsworth Publishing Prima edizione: maggio 2015 Grafica: Gainsworth Publishing ISBN 978-88-99437-00-8 www.gainsworthpublishing.com IL SEGRETO DI BIMA A tutti quelli che sono entrati nel mondo di Tidor attraverso la foresta di Liwiz. Possano gli spiriti che la proteggono non farvi più uscire. 1 TIAS Il sentiero che Tias stava percorrendo si snodava sinuoso giù per la collina e, tagliando per il promontorio, giungeva fino al mare. Aveva l'aspetto di un serpente scintillante che si godeva la luna piena scomparendo di tanto in tanto tra l'erica, le felci e la betulla nana. Il ragazzo procedeva lento. Il cuore gli pulsava in gola e la vibrazione di ogni suo passo sul terreno sdrucciolevole era una sorta di pugnalata che saliva fino allo stomaco. Si sentiva come all'inizio di un lungo viaggio senza ritorno, sebbene la meta del suo errare non fosse a più di mezzo miglio in linea d'aria. Aveva appena imboccato la seconda curva di quel sentiero. Alla quinta lo avrebbe lasciato per percorrere il breve vialetto che costeggiava un muricciolo di pietre aguzze, eretto a secco da pazienti pastori chissà quanto tempo prima. Di giorno gli era sembrato tutto più facile. Tutto più vicino. Al termine del vialetto stava una catapecchia fatta di legno marcio e coperta in malo modo da lastre di ardesia. È lì che doveva compiere la sua missione. Il piano l'avevano congegnato Dulke e Giarin: mentre lui doveva distrarre il vecchio pescatore, a loro, giù alla spiaggia, spettava il compito di trascinare in acqua la sua barca, messa al riparo dalla marea. Impossessatisi dell'imbarcazione, i due complici avrebbero risalito la costa fino alla Baia delle Capre e lui il sentiero. Doveva solo aspettare il segnale convenuto: il fuoco che Dulke e Giarin avrebbero acceso prima di mettersi in mare. Si sarebbe levato alto, visibile anche dall’abitazione del vecchio, gli aveva assicurato Dulke. Tornato sui suoi passi, Tias doveva poi prendere la strada lastricata che, in un familiare saliscendi percorso decine di volte nelle spensierate sere d’estate, conduceva fin quasi alla baia. Da lì sarebbero salpati tutti e tre per risalire poi la foce del Sungai Ye. I due amici erano certi che il vecchio non se ne sarebbe neanche accorto. Di sicuro erano anni che non usava la barca, forse decenni. E se tutto fosse andato per il verso giusto, gliel’avrebbero restituita tre, massimo quattro giorni dopo. Intatta o quasi, insomma, così come l’avevano trovata. «Non è che affonderà? È tutta marcia questa bagnarola» aveva provato ad obiettare Tias qualche giorno prima durante un sopralluogo. Giarin era scoppiato a ridere. Le ispide sopracciglia rossicce si erano poi inarcate severe e il suo viso rubicondo si era deformato in una smorfia odiosa. «Sei solo un codardo, Tias. Un povero moccioso senza palle» aveva sibilato con disprezzo, facendo vibrare a malapena le labbra carnose. Dulke, che dei tre era il più vecchio, ma di soli due anni, gli aveva appoggiato la mano sulla spalla. Aveva sollevato il mento spigoloso e piantato i due piccoli occhi neri nei suoi. «So che non mi deluderai. Questa missione dipende tutta da te.» Quelle parole erano bastate per far sentire Tias come un eroe pronto a partire per la guerra. Un lampo di luce aveva attraversato la sua faccia da bambino, abbarbicata su un corpo esile come un giunco che l’adolescenza aveva appena iniziato a mutare. Sarebbe diventato alto come suo padre o forse di più. Il rispettabile borgomastro di Sampir. Un giorno forse sarebbe stato nominato pure lui primo cittadino di quel minuscolo paese di pescatori sorto secoli prima alla foce del Sungai Ye, non lontano dalla città portuale di Sulwesi. Chissà cosa avrebbe pensato suo padre della bravata che si apprestava a compiere. Rubare la barca a un povero vecchio per risalire il grande fiume e giungere così nella capitale. E il tutto per prendere parte a una festa. Ma non era una festa qualsiasi. Era la festa per i quattordici anni della principessa Meli. Un evento a cui nessun ragazzo del regno avrebbe voluto rinunciare. Due giorni di bagordi per le vie e le piazze della capitale, Bima. Le taverne avrebbero sistemato all’aperto i loro lunghi tavoli, offerto cinghiale e servito fiumi di cervogia senza guardare in faccia a nessuno. Così almeno quello che gli aveva raccontato Giarin, che sulla faccenda sembrava essere il più informato dei tre. Ma la cosa che più eccitava Tias era che il palazzo reale sarebbe rimasto aperto per due interi giorni. Si sarebbero potute visitare le sale del potere, magari anche le segrete e vedere da vicino il trono dove sedeva re Yudra. Fosse stato fortunato avrebbe potuto conoscere di persona il re, la bella principessa Sari e il principe ereditario Awira. E sua sorella Meli, di cui ormai si parlava in ogni angolo del regno per via dell’incontenibile esuberanza. «E ora spicciati» aveva ripreso severo Dulke, allontanando con un gesto di stizza la mano dalla spalla di Tias. «Se non prendiamo la barca del vecchio dovremo passare per la foresta di Liwiz e non credo che voi due ce la potreste mai fare. Anche senza la nebbia quello rimane un posto maledetto.» No, lui almeno non ce l’avrebbe fatta. Il solo pensiero gli fece accapponare di nuovo la pelle. Inspirò la brezza che veniva dal mare e si strinse nel giacchino di cuoio che portava sopra una camicia ormai divenuta troppo corta. Doveva solo distrarre il vecchio pescatore per il tempo che serviva ai suoi due compari a trascinare in acqua, con l’aiuto della marea, la vecchia carretta. Un gioco da ragazzi, dopo tutto. «Digli che ti sei perso e che vuoi raggiungere Sulwesi. Fatti offrire da bere, prendi tempo» gli aveva suggerito Dulke. «Magari riesci anche a scroccargli un piatto caldo. Una testa di fanciullo bollita, servita con erbette di campo.» Era intervenuto l’altro, contorcendo il suo faccione in smorfie di finto terrore. «Piantala Giarin. Quello è solo un vecchio scorbutico. Non dirmi che anche tu credi a ciò che raccontano in paese?» I due si erano guardati per un po' in cagnesco. Tias ricordava bene cosa dicessero del vecchio e questo non lo faceva certo stare meglio. Quando era più piccolo, sua sorella Janiza, per tenerlo buono, gli aveva narrato diverse storie a riguardo. Si diceva che quel tizio fosse vissuto così a lungo perché si cibava di bambini e di adolescenti. Si nutriva della loro giovinezza. Storielle, si disse abbozzando un sorriso che la brezza proveniente dal mare gli asciugò in un istante. Se voleva veramente visitare Bima e le sale del palazzo reale, avrebbe dovuto farsi coraggio e aumentare il passo. Lui non era un codardo e avrebbe fatto la sua parte. Non si sarebbe lasciato intimorire da un attempato eremita, fosse stato anche un povero pazzo. E così aveva superato il promontorio e passato la terza, la quarta e poi anche la quinta curva e ora la casa del vecchio era perfettamente allineata con la grande luna gialla che dominava il cielo. Ancora pochi passi lungo il vialetto pietroso cosparso di cespugli di erba incolta e sarebbe giunto a destinazione. Si accorse in quel momento che stava tremando. Era stata una calda giornata di primavera, ma ora il freddo e l’umidità si erano ripresi quanto il sole aveva loro tolto nelle ore precedenti. Non era solo il freddo e questo Tias lo sapeva bene. Si girò verso il mare, ma non scorse niente se non la striscia giallastra lasciata dalla luna a sfregio delle tenebre. Sufficiente a far brillare l’acqua, non a illuminare a dovere la spiaggia. Per un attimo aveva sperato di poter già vedere il fuoco ergersi in alto, il segnale che avrebbe reso inutile la sua missione, ma Dulke e Giarin avevano imboccato il sentiero scosceso che portava direttamente alla spiaggia solo pochi minuti prima di lui e con ogni probabilità ora stavano imprecando tra i rovi e le rocce scivolose. Deglutì e riprese a camminare. Fu un attimo. Uno sbuffo, un ringhio soffocato e ancora silenzio. Poche frazioni di un eterno secondo, sufficienti perché il cuore gli si gelasse nel petto. Poi aveva ripreso a battere forte, ma non quanto quell’acuto e prolungato latrato che ora stava squarciando la notte. Un cane da guardia. Perché Dulke e Giarin non gli avevano detto niente? Tias non aspettò che il bastardo si potesse avvicinare. Forse era rinchiuso in un recinto. Forse no. Non aveva intenzione di scoprirlo. Si girò e si mise a correre. In quel momento vedeva solo casa sua, il suo letto. Suo padre era a Sulwesi a guidare una delegazione locale e sarebbe stato fuori casa per qualche giorno, quanto a sua sorella, beh, aveva altro da pensare. Si sa che i topi ballano quando il gatto non c’è e Janiza era sicuramente a ballare con quel bellimbusto di Gainon e non sarebbe tornata prima dell’alba. Se mai fosse tornata. Per cui sarebbe corso a casa, dove nessuno gli avrebbe chiesto niente, e si sarebbe infilato sotto le coperte. E al diavolo la festa a Bima. Avrebbe visto il palazzo reale in un’altra occasione. Magari accompagnando suo padre durante una visita ufficiale. «Bomir, smettila!» sentì tuonare. E gli acuti latrati cessarono di colpo, come inghiottiti dalle tenebre. «Chi è là?» Riprese la voce. Il ragazzo arrestò la sua corsa e mugugnò qualcosa, ma aveva perso il fiato e la voce si ripeté. «C’è qualcuno là fuori? Posso avere una risposta o devo lasciare che Bomir faccia il suo lavoro?» Tias si schiarì la voce ed emise un mugolio che l’uomo parve percepire. Il vecchio infatti stirò il collo coperto da una lunga barba color cenere. La torcia che brandiva proiettava sul suo viso ombre spigolose. «M-mi sono perso» balbettò il ragazzo, facendo due passi verso l’uomo, con le braccia in alto in segno di resa. «Sto cercando di raggiungere Sulwesi. Là abitano i miei nonni… sono orfano…» improvvisò. Non era bravo a farlo né a mentire e decise di tacere. Poteva bastare. L’anziano pescatore si sarebbe impietosito e lo avrebbe fatto entrare nella sua topaia. Fece un altro passo in avanti per mostrarsi per quello che era: un innocuo ragazzino. Bomir riprese a ringhiare e Tias si fermò all’istante anche perché alla luce della torcia si accorse che il bastardo non era esattamente un cane, ma un lupo dal pelo lungo e grigio come quello del suo padrone. «Sulwesi è oltre il promontorio» borbottò l’uomo, puntando l’indice nodoso in direzione della luna gialla. «Sono quasi dieci miglia» aggiunse, prima di girarsi per entrare in casa seguito dal fedele animale. Tias deglutì, guardò ancora una volta verso il mare nella speranza che un bagliore gli confermasse che la sua missione era stata comunque compiuta, ma il buio gli gelò ogni speranza. Tornò con lo sguardo al vecchio, ormai sulla porta di casa. «Aspetti! Credo di essermi preso una storta» piagnucolò. «Non penso di riuscire a fare così tanta strada.» Il vecchio si girò verso il ragazzo e con lui il lupo. «Non sono un medico. E non credo ne troverai uno al villaggio.» «Forse può bastare una fasciatura o solo un po' di riposo.» Tias vide le ombre sul viso del pescatore deformarsi quando la torcia prese a muoversi nella sua direzione. L’uomo si stava avvicinando con un passo incerto. Bomir si era nel frattempo accucciato sull’uscio e aveva emesso un timido guaito, rassegnato. Il ragazzo sentì il calore della fiamma indagatrice sul viso. Il vecchio aveva preso a scrutarlo con due occhi opachi e annacquati dal tempo, perle incastonate dentro orbite profonde. Tias si chiese quanti anni potesse avere. Almeno cento, forse molti di più. Forse era vero quanto si raccontasse di lui in paese. Trasalì quando l’uomo, con un sibilo di voce, lo invitò ad entrare nella sua tetra dimora. Il piano stava funzionando, ma non riuscì a rallegrarsene. 2 NELLA CASA DEL VECCHIO PESCATORE Tias trattenne un conato di vomito e per un attimo si dimenticò di zoppicare. L’odore di cui era impregnata la casa era ributtante. Sapeva delle peggio cose che gli potessero venire in mente. Escrementi, vomito, carogne in avanzato stato di decomposizione. Morte. Il vecchio lo fece accomodare al grande tavolo che dominava l’unico ambiente, quattro spesse assi di quercia, ormai lucide per l’usura, inchiodate insieme in malo modo. Il crepitante caminetto, al cospetto del quale si era accucciato Bomir, e una branda lercia completavano l’arredamento di quella sinistra topaia. Per un po' cercò di trattenere il respiro, ma quando il vecchio si rivolse a lui chiedendo da dove venisse, dovette riprendere fiato. E pensare velocemente. Troppo velocemente. «Vengo da…» Iniziò a gesticolare in modo scomposto. Poi schiarì la voce e riprese con più decisione: «…potrei avere un po' d'acqua? Mi brucia terribilmente la gola e non riesco a parlare.» Accompagnò la frase fingendo di mandar giù un doloroso grumo di saliva. Quando il vecchio gli mise sotto il naso un coccio contente una strana brodaglia, con qualcosa che galleggiava sopra, Tias si pentì di non essersi preparato prima una risposta convincente. Che avrebbe potuto inventarsi ora? Non aveva mai messo piede fuori dal dipartimento di Sulwesi. Aveva sognato tante, forse troppe, volte di viaggiare e di visitare le quattro contee del regno e pure Bima, anzi è per quello che in fondo ora si trovava in un bel guaio. Ma non aveva mai avuto l’occasione di farlo. Aveva solo quattordici anni, dopotutto. Poi ebbe un’illuminazione. «Vengo da uno dei Villaggi Persi, nelle terre a sud dei monti. Non è rimasto più niente, laggiù, solo case bruciate» aggiunse con una certa soddisfazione. Suo padre gli aveva raccontato quanto successo alcuni giorni prima. Tre villaggi di coloni, a sud delle montagne del Tua Semar, erano stati razziati e rasi al suolo dai predatori Sosk, una delle popolazioni barbariche con cui il regno di Tidor era in guerra da tempi immemorabili. Già in passato quei villaggi, sorti oltre i confini protetti dalla grande catena montuosa, erano stati occupati dai nemici e la popolazione ridotta in schiavitù. Dopo la battaglia di passo Kemiatan, avvenuta cinque anni prima, la regione era stata liberata. Per un paio di anni i villaggi erano rimasti abbandonati in quanto considerati comunque indifendibili e i coloni erano tornati nei luoghi di origine. Ma in tempi più recenti qualcuno di loro era ricomparso a sud dei monti, attratto dalle fertili terre. Erano tornati a ridare vita ai Villaggi Persi. Ora, però, le ultime incursioni dei Sosk avevano forse messo la parola fine a quegli insediamenti. Tias si sforzò di incrinare la voce e di versare, senza successo, una lacrima. «E ora non ho più nessuno, se non i nonni che stanno a Sulwesi.» Il vecchio non fece altre domande. Non sembrava né sorpreso né commosso. Ma non mostrava neanche diffidenza. Lo fissava con due occhi pressoché bianchi, come pietre levigate e azionate da qualche misterioso ingranaggio nascosto dentro le pieghe di un viso troppo vecchio per essere vivo. «Mettiti sul letto che diamo un’occhiata alla tua caviglia.» Tias si alzò e mosse verso la branda lurida ricordandosi questa volta di zoppicare. Aveva zoppicato con la sinistra o con la destra, prima? Doveva essere la sinistra, non ne era certo, ma decise in quell’istante che sarebbe stata lei d’ora in avanti la gamba dolente. Il vecchio diede un’occhiata alla caviglia, mentre il ragazzo non riusciva a staccare lo sguardo dal suo volto, nascosto pietosamente da una incolta barba grigia. Tias si chiese perché quella massa di peli ispidi e lunghi non fosse color bianco. Non sapeva per quale ragione ma se fosse stata bianca come la neve in qualche modo l’avrebbe rassicurato di più. E invece era grigia come il manto di Bomir, appisolato vicino al camino di pietra e indifferente a quanto stesse accadendo in quella stanza. «Senti dolore, ragazzo?» gli chiese l’anziano, piegando con delicatezza il piede prima in un verso e poi nell’altro. «Un po'» mugugnò Tias. O avrebbe dovuto dire molto? Un po’ gli sembrava più onesto, una bugia meno grave. Poi pensò che Dulke e Giarin avevano avuto tutto il tempo per compiere la loro missione. Un gioco da ragazzi l’aveva definito quello sbruffone di Giarin. Bene, lui la sua parte l’aveva fatta. Era entrato nella casa del vecchio e aveva sfidato pure un feroce lupo. Se non erano stati in grado di trascinare in mare una piccola barca nei tempi stabiliti, era un problema loro. Dal canto suo quello che doveva fare, lo aveva fatto. «Comunque sto già meglio. Credo che ora potrò riprendere il mio cammino» farfugliò, alzandosi in piedi di scatto, ma ricordandosi di far apparire sul volto una piccola smorfia di dolore dopo avere appoggiato il piede sinistro. «Come vuoi, ma non credo sia saggio arrivare a Sulwesi in piena notte. La strada è abbastanza sicura, ma la città, dopo il tramonto, non è un posto adatto a viandanti incauti.» «Non sono un viandante incauto» sbottò Tias. Il vecchio trattenne un sorriso e si allontanò dal ragazzo volgendogli le spalle. Tias zoppicò solo leggermente, avvicinandosi alla finestra. Da lì si sarebbe dovuta vedere la spiaggia, ma i vetri erano così sporchi che nemmeno il bagliore di un incendio vi sarebbe passato attraverso. «Non credo lo accenderanno mai quel fuoco» disse a sorpresa l’uomo, accarezzando il suo lupo. Tias trasalì. Non era certo di avere inteso in modo corretto le parole del vecchio che ora si era seduto al tavolo e lo stava scrutando senza espressione. Bomir si era invece seduto sulle zampe posteriori davanti alla porta e aveva ripreso un atteggiamento che sembrava ostile. Non stava ringhiando, ma teneva sollevato il labbro mostrando i canini aguzzi. «Io… loro…» «Loro se ne sono già andati, qualche minuto fa. Non si sono solo presi la barca, ma anche gioco di te. Spero che quella vecchia bagnarola regga fino a Bima. Sono secoli che non le faccio un po' di manutenzione.» «Io glielo avevo detto che non era una buona idea» ansimò il ragazzo. La voce era incrinata dalla paura. «Tias, Tias…» mormorò il vecchio scuotendo la testa. Il ragazzo deglutì. Non gli aveva mai detto il suo nome, né l’uomo glielo aveva chiesto. Sì sentì in trappola. Tradito dai suoi amici e prigioniero di un vecchio pazzo. Ripensò ai racconti di sua sorella e gli si accapponò la pelle. Poi il vecchio si alzò in piedi dirigendosi con passo incerto verso il caminetto. Mise una mano sui lombi e si piegò per raccogliere un ciocco di legno. Lo gettò tra le fiamme che lo avvolsero avidamente, crepitando di gioia. «Dimmi, ragazzo. Perché vuoi visitare la capitale?» Come diavolo faceva a sapere tutte quelle cose? Era forse uno scherzo congegnato da Dulke e Giarin? Gli avrebbe storto il collo a quei due. «Ho… ho sempre desiderato visitare il palazzo reale… e vedere di persona il re…» mugugnò incredulo. «E come mai tanta ammirazione per il re? » Tias alzò le spalle. Tutti ammiravano il re, che domande. «Pensi sia un buon re, Yudra?» «Certo, signore» rispose il ragazzo senza esitazione. Il vecchio corrugò la fronte. «E perché? Cosa fa di un re, un buon re?» Tias rimase in silenzio. Che ne sapeva in fondo? Re Yudra era l’unico sovrano di cui conoscesse qualcosa. Per lui era il re. L’essenza stessa della figura di re. Era benvoluto dal suo popolo, era un condottiero valoroso, era il simbolo di un regno piccolo ed eterogeneo, ma con un passato glorioso. Un regno che non aveva mai visitato, ma cui sentiva con orgoglio di appartenere. Era un re del quale suo padre parlava sempre con entusiasmo. Tanto bastava. Il vecchio non attese la risposta del ragazzo, forse neanche se l’aspettava, tornò al caminetto e buttò dentro un altro ciocco. La fiamma prese nuovo vigore. Tias invece sembrò spegnersi. Si sentiva in obbligo di dire qualcosa, ma non riuscì ad articolare parola. «Dopo tutto non è stato in grado di difendere i Villaggi Persi. Se non hai più una casa e una famiglia è anche colpa del tuo re» riprese l’uomo. C’era una vena di sarcasmo nella sua voce. «Yudra è il migliore re che il regno di Tidor abbia mai avuto. Mio padre dice che…» «Tuo padre è solo il borgomastro di un piccolo villaggio di pescatori.» Lo interruppe in modo brusco il vecchio. «E ha un figlio che racconta un mucchio di frottole. E a dirla tutta, non le sa neanche raccontare bene.» Tias si sentì avvampare di rabbia. Una voce gli diceva che doveva solo uscire di lì e tornarsene a casa. Ma qualcosa lo tratteneva e non era Bomir sulla porta. La paura stava lasciando il campo alla curiosità. No, il vecchio non sembrava avere cattive intenzioni. Era troppo impegnato a far male con le sue parole. Corrosive come l’acido, ma in fondo vere. «E allora chi fu un gran re? Chi fu il migliore re di Tidor?» chiese il ragazzo, rosso in viso. «Forse nessuno. Forse Tidor non ha mai avuto un buon re. Forse non se l’è mai meritato questo regno un buon re.» «Neanche Bima, il Fondatore?» riprese Tias, ora in piedi davanti al tavolo. «Che ne sai tu di Bima?» «Fu lui a fondare questo regno quasi novecento anni fa. Venne dal mare e sbarcò con un imponente esercito. Conquistò il regno in tre soli giorni, un regno così florido che le popolazioni indigene si sottomisero in poco tempo. Tutti i re e i capi tribù del continente vennero a prostrarsi davanti a lui.» Il vecchio scoppiò a ridere, poi prese a tossire. Tias temette che quei vecchi polmoni potessero venire sputati sul tavolo. Poi l’uomo si fece serio. «È questo quello che ti raccontano a scuola?» «Che mi raccontavano. Non vado più a scuola, non sono più un bambino.» «E quindi pensi di non avere più niente da imparare?» «Non ho detto questo.» Il pescatore appoggiò i gomiti sul tavolo, spostando il busto ricurvo verso Tias. «Vuoi sapere chi fosse veramente Bima? Chi era prima di giungere qui con un’imponente esercito, come dici tu?» Gli occhi del vecchio si erano fatti meno opachi. Emettevano a modo loro una strana luce. Tias non rispose, ma prese uno sgabello e si sedette al tavolo. 3 KOA LO ZOPPO Di tutte le torri, quella che sorgeva all’imboccatura del porto era la più maestosa. Nera, come del resto molte delle costruzioni in pietra della città, e a pianta esagonale. La leggenda vuole fosse stata edificata dallo stesso Ekon, primo re del Vecchio Regno. Per certo la Torre Nera era il più antico edificio della capitale Paelay e l'emblema stesso del regno. Poco sopra le sue fondamenta partiva la grande catena di ferro posta a difesa del porto. La catena congiungeva la vecchia torre con uno sperone di roccia, su cui era stata costruita una torre minore. Il sistema difensivo della capitale contava su altre ventisei torri e su due ordini di mura, che lambivano il mare fino ad accarezzare le pendici del monte Gunapi, accogliendo in un doppio abbraccio ricchi templi, eleganti case alte fino a quattro piani, giardini pensili e vigne. Nel corso della loro storia, queste imponenti difese avevano tenuto lontano non solo le numerose navi di pirati che infestavano il mare del Sud, ma anche la temuta flotta kamalide. Solo sei anni prima però la catena fu allentata proprio per permettere ai vicini di accedere con le loro navi dentro il grande porto a forma di testa di cervo. Ma quelle navi portavano nel loro grembo una speranza di pace e una giovane principessa in sposa. Il matrimonio tra la figlia del sovrano kamalide, Indah, allora quindicenne e re Koa, che i contemporanei chiamavano lo Zoppo, per via di una ferita in guerra, e che gli storici avrebbero ricordato come l’ultimo sovrano del Vecchio Regno, sanciva di fatto un’alleanza senza precedenti e il primo passo verso l’unificazione dei due regni. Ma dopo sei anni, Indah non aveva ancora partorito colui che al compimento della maggiore età sarebbe diventato il signore dei due popoli. L’uomo che avrebbe governato su tutta l’isola-continente di Mauna. La giovane regina aveva però dato alla luce due bellissime bambine, che avevano ereditato i capelli dorati della madre e gli occhi argentei del padre. E Koa, dal canto suo, aveva dato il seme ad almeno cinque figli bastardi, per cui sapeva che avrebbe dovuto solo pazientare e che presto sua moglie avrebbe portato in grembo il futuro re. E per quanto avesse quasi trent’anni più della sua giovane sposa, sentiva dentro di sé il vigore di un ventenne. E il tempo dalla sua parte. Meno paziente era Zuksa, il suo primo consigliere. Un uomo di circa settant’anni, alto e dall’aspetto lugubre, che aveva servito prima ancora il padre di Koa e che il tempo aveva indurito come la creta al sole. Come molti della sua generazione si ostinava a vedere nei Kamalidi i nemici irriducibili di sempre e l’alleanza solo un pretesto con cui i rivali stavano prendendo tempo, tramando alle spalle e finanziando le varie ribellioni che da un anno a quella parte stavano mettendo a dura prova il prestigio della corona. I problemi però ora non venivano dalla costa occidentale dell’isola, dove il regno di Kamalia esercitava ancora la sua influenza, ma dal nord, dagli altipiani del Nuin, dove un capo ribelle di nome Yisba stava aizzando le popolazioni locali, dedite principalmente alla pastorizia e al duro lavoro nelle cave di pietra, a chiedere l’indipendenza dalla corona. «Notizie su a nord?» aveva chiesto Koa versandosi del vino giovane in una coppa d’oro forgiata almeno un secolo prima. «La flotta è risalita lungo il fiume, maestà, e l’esercito è sbarcato all’Approdo delle Ombre tre giorni fa e si è congiunto con le truppe mandate dalle contee di Fjaniah e Usil. Non sappiamo altro al momento, ma non sarei sorpreso se proprio oggi giungesse un messaggero a comunicarci che il nemico è stato sconfitto. Yisba è solo un avventuriero, non ha alcuna preparazione militare. E quei pastori e spaccapietre non reggeranno un solo minuto davanti ai nostri uomini.» Koa si gongolò per un attimo sul capiente trono di lava alle rassicuranti parole di Theus, il giovane Comandante della Guardia Rossa. Colui che aveva preso il posto di Bima, lo Stratega mandato a nord a domare la ribellione con una forza di circa seimila uomini. Congedò con un cenno l’ufficiale, poi il suo sguardo si incupì. Solo Zuska, rimasto in disparte e in attesa di conferire con il suo re, sarebbe stato in grado di leggere nella sua mente. Solo lui avrebbe scorto negli occhi assenti del sovrano l’invidia che stava nutrendo i suoi pensieri. Invidia per il cugino Bima, che si sarebbe coperto di gloria un’altra volta, mentre lui era costretto a restare tra le mura di Paelay per via di quella maledetta caduta da cavallo, che solo i più fedeli sapevano non si fosse procurato in battaglia, ma dando la caccia a uno stupido cervo. Avrebbe dato il regno con tutte le sue responsabilità per essere lassù al nord, con la sua cotta di maglia in acciaio brunito, l’elmo crestato e l’inseparabile ascia bipenne. Si immaginò davanti a suoi uomini. Guerrieri pronti a scavalcare con impeto i cadaveri dei compagni ma costretti ad arrancare dietro un re storpio. Sorseggiò il vino e chiuse gli occhi. Zuska attese con pazienza il suo momento.