Luigi BONATTI - Fondazione Economia Tor Vergata

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Luigi BONATTI - Fondazione Economia Tor Vergata
LUIGI BONATTI*
“Sotto-capitalizzazione delle imprese, sovra-patrimonializzazione delle famiglie, rendite
immobiliari e crescita”
Intervento all’incontro del Gruppo dei 20 - 16/9/2016
È stato spesso osservato che il problema strutturale delle imprese medio-piccole italiane, più che la
difficoltà di accedere al credito, è la carenza di capitali. Tale endemica sotto-capitalizzazione determina
fragilità finanziaria ed è tutt’uno col nanismo della struttura produttiva italiana. Quest’ultimo, a sua volta,
spiega in misura considerevole, tra le altre cose, perché gli investimenti in ricerca e sviluppo delle
imprese italiane sono bassi e, quindi, perché esse sono poco innovative. Pertanto, se veramente si vuole
ridare uno slancio non effimero alla crescita economica italiana, è essenziale favorire la capitalizzazione
delle imprese medio-piccole, passaggio obbligato per aumentarne dimensione media e produttività.
Come è stato più volte sottolineato, la scarsa propensione del piccolo imprenditore italiano alla
trasparenza, per quel che riguarda i conti della sua impresa e la sua riluttanza ad aprire le strutture di
governance aziendale a presenze estranee alla sua famiglia, gioca senz’altro un ruolo importante nello
scoraggiare la piccola-media impresa italiana a ricorrere al mercato per accrescere il proprio capitale di
rischio. D’altra parte, le imperfezioni peculiari al mercato dei capitali italiano e il suo ritardo nello
sviluppo di strumenti adeguati di finanza d’impresa giustificano almeno in parte tale diffidenza.
Certamente, poi, il trattamento fiscale ha favorito fortemente lo sbilanciamento della struttura del capitale
d’impresa a vantaggio del debito, malgrado negli ultimi anni si sia cercato un riequilibrio con
provvedimenti quali il meccanismo del ROL (che limita la deducibilità degli interessi) e l’incentivo ACE
(che favorisce la patrimonializzazione delle imprese).
Pochi però hanno finora rilevato l’oggettiva relazione che lega la sotto-capitalizzazione delle piccole e
medie imprese italiane (in grande maggioranza a controllo familiare) alla sovra-patrimonializzazione
delle famiglie italiane, ovvero, all’elevato rapporto tra ricchezza delle famiglie e reddito che caratterizza
l’Italia nei confronti internazionali. Se, infatti, in quasi tutte le economie avanzate nell’ultimo
quarantennio si è verificato un considerevole aumento del rapporto tra ricchezza delle famiglie e reddito,
dovuto in larghissima misura all’incremento del valore degli immobili sospinto, a sua volta, dal sostenuto
trend di crescita dei loro prezzi, nel confronto internazionale la ricchezza delle famiglie italiane è
particolarmente elevata sia in termini pro capite sia in rapporto al PIL. Come si evince, infatti, anche
dall’ultima Relazione Annuale della Banca d’Italia, nel 2014 la ricchezza netta delle famiglie ammontava
a circa sei volte il prodotto interno lordo (PIL), un valore appena superiore a quello prevalente negli anni
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Università di Trento
immediatamente precedenti la crisi finanziaria globale e di tale ricchezza netta circa il 56% era costituito
dal valore delle abitazioni. Sempre in quell’anno, la ricchezza media delle famiglie italiane appariva
essere leggermente superiore a quella delle famiglie tedesche (che con la crisi del debito sovrano europeo
hanno recuperato buona parte della differenza in termini di ricchezza che le separava dalle famiglie
italiane), a fronte però di un reddito pro-capite italiano che era il 75% di quello tedesco. Occorre inoltre
notare che in Italia il peso della rendita immobiliare sul valore aggiunto non ha fatto che aumentare,
dall’inizio degli anni ‘80 ad oggi, portandosi dal 5% al 12.6% dell’ultimo triennio (è significativo che
nell’ultimo quindicennio – che ha visto crescere la quota dei salari – tale aumento sia avvenuto
interamente a scapito dei profitti). Infine, non è da sottovalutare che, mentre fino a una quindicina di anni
fa tantissime famiglie italiane – come di altri paesi occidentali – accedevano per la prima volta ad una
qualche forma di proprietà, acquistando una casa che era frutto del loro risparmio, negli ultimi anni, a
causa dell’invecchiamento della popolazione e della ridotta natalità, una notevole frazione della
popolazione eredita, o è in attesa di ereditare, dei patrimoni immobiliari più o meno cospicui. Ciò non è
ovviamente senza conseguenze sugli incentivi ad intraprendere ed investire in asset produttivi, oltreché
sulle disuguaglianze di ricchezza e di opportunità.
Quali sono le ragioni strutturali dell’aumento, nell’ultimo quarantennio, del valore delle abitazioni che si
è verificato a livello mondiale? Tra quelle principali se ne possono individuare quattro. La prima e più
ovvia è che la terra sulla quale le case sono costruite è un fattore scarso e non riproducibile: a mano a
mano che un territorio si congestiona, perché in esso vanno localizzandosi attività di ogni genere, il
prezzo relativo dei terreni fabbricabili aumenta e con esso il valore delle case che su questi terreni
poggiano (la terziarizzazione in atto, rendendo più importanti le economie di agglomerazione, accresce
ulteriormente il valore delle aree urbane); la seconda ragione ha a che fare col fatto che, a mano a mano
che cresce il reddito, una quota maggiore di esso tende ad essere utilizzato dalle famiglie per abitare in
case più comode e spaziose, localizzate in aree più appetibili e magari per disporre di seconde o terze case
in località amene; la terza ragione è legata alle innovazioni finanziarie che hanno reso molto più facile e a
buon mercato, per un gran numero di famiglie, accedere al credito per l’acquisto di case e la quarta al
trattamento fiscale di favore riservato in quasi tutti i paesi all’abitazione (in particolare a quella di
residenza).
Le ragioni di fondo per cui questi trend non sono favorevoli alla crescita economica di lungo periodo
vanno ricercati anzitutto nell’effetto di spiazzamento sugli investimenti in asset produttivi (materiali e
immateriali) esercitato dall’alto tasso di ritorno sugli investimenti immobiliari, spinto al rialzo
dall’aspettativa di guadagni in conto capitale dovuti all’aumento a lungo termine dei prezzi delle case.
Inoltre, la crescita della rendita immobiliare finisce col comprimere, oltre i profitti, anche i salari, con
effetti disincentivanti sugli investimenti in capitale umano e sulla partecipazione al mercato del lavoro.
Come già accennato, tali effetti non sono trascurabili nel pieno di una transizione demografica che vede
restringersi il numero medio di figli in famiglie in possesso di discreti patrimoni, per lo più costituiti di
immobili. Se poi, (come accade in Italia) il trattamento fiscale penalizza chi abita in una casa in affitto
rispetto a chi abita in una casa in proprietà, la diffusione della proprietà immobiliare tende a scoraggiare
la mobilità del lavoro sul territorio, aumentando la disoccupazione e riducendo la produttività. Infine, non
è inutile insistere sul fatto che la crescita dei valori degli immobili e delle rendite ad essi connessi ha
contributo, un po’ ovunque nelle economie avanzate, a quell’aumento delle disuguaglianze di ricchezza e
di reddito riscontrato negli ultimi decenni.
Ai trend globali illustrati sopra vanno aggiunte alcune peculiarità italiane. È plausibile che la casa, quale
luogo per eccellenza della vita famigliare e del legame tra generazioni, assuma particolare rilievo in una
società quale quella italiana nella quale i valori familiari appaiono più sentiti che in altre società
occidentali. Più prosaicamente, le regolazioni del mercato degli affitti, che in passato hanno creato un
razionamento nell’offerta di abitazioni in affitto a buon mercato, gli scarsi investimenti pubblici in
edilizia abitativa e il trattamento fiscale che favorisce fortemente la scelta di abitare in una casa in
proprietà hanno ulteriormente stimolato la propensione delle famiglie italiane ad acquistare la propria
abitazione. La propensione a favore degli investimenti immobiliari è inoltre accentuata dalla bassa
alfabetizzazione finanziaria delle famiglie italiane e dalla loro scarsa fiducia negli intermediari finanziari
e nei mercati dei capitali. Per quel che riguarda più specificamente il rapporto che intercorre tra sottocapitalizzazione delle piccole-medie imprese e propensione agli investimenti in edilizia abitativa, occorre
tener conto che la diffusione dell’impresa a controllo famigliare è in Italia senza paragoni nel confronto
con le maggiori economie avanzate, che le aliquote di tassazione dei redditi d’impresa sono tra le più alte
del mondo e che evasione ed elusione fiscale in questo ambito sono massicce. Si può quindi
ragionevolmente presumere (non mi risulta ci siano stime attendibili in merito) che siano stati veramente
cospicui negli anni i fondi generati dall’attività d’impresa surrettiziamente sottratti ad essa per andare ad
alimentare il patrimonio familiare dell’imprenditore ed essere – in misura consistente - investiti in
immobili. L’abusivismo edilizio ha probabilmente facilitato, almeno nelle ampie aree del Paese in cui è
fenomeno di massa, questa pratica. Nel caso italiano sembra quindi legittimo sostenere che ci sia un
chiaro legame non solo - come sosteneva John Kenneth Galbraith - tra povertà pubblica (il grande stock
di debito pubblico accumulato, le infrastrutture spesso fatiscenti, il degrado del territorio …) e ricchezza
privata (in questo caso delle famiglie), ma anche tra sotto-capitalizzazione dell’apparato produttivo
italiano (e conseguente sua povertà tecnologica e bassa produttività) e sovra-patrimonializzazione delle
famiglie.
È possibile correggere le distorsioni che sulla base dei meccanismi sopra esposti determinano bassa
crescita e al tempo stesso aumento delle disuguaglianze? Oltre a potenziare gli incentivi per riequilibrare
la struttura del capitale d’impresa a svantaggio del debito e per favorire gli investimenti in ricerca e
sviluppo, occorrerebbero - in Italia più che in altri Paesi - dei cambiamenti del sistema tributario volti a
ridurre la convenienza relativa ad investire in immobili residenziali ed aumentare quella ad investire in
asset produttivi, penalizzando la rendita immobiliare a vantaggio della remunerazione degli input
produttivi. A fondamento di questa riforma dovrebbe essere il riconoscimento del fatto che la rendita
urbana è una produzione collettiva di valore generata dal comportamento aggregato di un gran numero di
individui, oltreché da interventi pubblici sul territorio quali ad esempio gli investimenti in infrastrutture.
In base a questo principio, è inaccettabile - sia sul piano dell’efficienza che su quello dell’equità - che
siano dei privati ad appropriarsi delle plusvalenze che si determinano a seguito di tale produzione
collettiva. Sarebbe invece coerente con tale principio un forte prelievo generalizzato sulle plusvalenze
realizzate al momento della vendita di qualsiasi asset (in Italia la normativa vigente prevede che, se una
casa è messa in vendita dopo un periodo di possesso maggiore di cinque anni, l’eventuale plusvalenza non
è tassata in quanto vale la presunzione che non si è trattato di un investimento speculativo), così come
un’imposta sugli aumenti di valore della terra. In Italia inoltre, dove il trattamento tributario delle eredità
è molto benevolo in confronto alle altre economie avanzate, sarebbe altamente auspicabile – ancora una
volta sia sul piano dell’efficienza che dell’equità - un considerevole rialzo delle aliquote dell’imposta di
successione e la diminuzione delle relative franchigie, in modo da ridurre la tendenza all’accumulo e alla
concentrazione di ricchezza, in primis quella immobiliare. Non c’è infine alcuna ragione né di efficienza
né di equità per cui il consumo di servizi abitativi – anche quelli prodotti con abitazioni di proprietà
propria – non debbano essere tassati come gli altri consumi. Gli aumenti di gettito ottenibili con la
tassazione delle rendite immobiliari andrebbero utilizzati per ridurre le elevatissime aliquote italiane sui
profitti d’impresa e sul ritorno degli investimenti in capitale produttivo ed umano.
Certamente un’agenda che si muova nella direzione su delineata si scontrerà con la resistenza di quella
parte assai consistente della società italiana che ha nell’appropriazione delle rendite immobiliari una fonte
importante di reddito e nell’accumulo di asset immobiliari il motore principale della crescita della propria
ricchezza familiare. Tale agenda è però un passaggio indispensabile se si vuole veramente ridare
dinamismo all’economia italiana e rilanciarne in modo sostenibile la crescita.