Raimondo Montecuccoli e la guerra contro i Turchi
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Raimondo Montecuccoli e la guerra contro i Turchi
Raimondo Montecuccoli e la guerra contro i turchi: riflessioni su strategia e arte militare di Piero Del Negro © Società Italiana di Storia Militare 1 Raimondo Montecuccoli e la guerra contro i turchi: riflessioni su strategia e arte militare di Piero Del Negro Della guerra contro il Turco in Ungheria 1660-1664, l’opera più nota di Raimondo Montecuccoli, anzi l’unica che abbia goduto di una sicura fortuna presso il grande pubblico, ha circolato nel Settecento e nel primo Ottocento in quanto Memorie del General Principe di Montecuccoli e successivamente - e sino ad un quarto di secolo fa - sotto il titolo di Aforismi dell’arte un’indubbia bellica1, testimonianza della tendenza a conservare nell’ombra il ruolo degli ottomani negli scritti del modenese. Eppure riflessione teorica e prassi militare di Montecuccoli, pur riconoscendo quale periodo formativo la Guerra dei Trent’Anni e quindi una dinamica interna all’Europa centro-occidentale coinvolta nell’ultimo grande 1 Sulla fortuna di questa e delle altre opere di Montecuccoli cfr. RAIMONDO LURAGHI, Nota critica, II, Delle precedenti edizioni delle opere di Montecuccoli e di questa nostra, in Raimondo Montecuccoli, Le opere, 3 voll., [i voll. I-II a cura di Raimondo Luraghi, il III a cura di Andrea Testa], Roma, Ufficio storico Stato Maggiore dell’Esercito, 1988 e 2000 [d’ora in poi: ORM], I, pp. 116-122. Su Montecuccoli uomo di Stato cfr. soprattutto Fabio Martelli, Le leggi, le armi e il principe. Studi sul pensiero politico di Raimondo Montecuccoli, Bologna, Pitagora, 1990 e Raffaella Gherardi Fabio Martelli, La pace degli eserciti e dell’economia. Montecuccoli e Marsili alla Corte di Vienna, Bologna, Il Mulino, 2009. Su Montecuccoli militare cfr. anche Piero Del Negro, Gli aforismi militari di Raimondo Montecuccoli: rapporti tra scrittura e arte della guerra, in Epizentrum des neuzeitlichen Militärgeschichte - Bewaffnung des Volkes und Triumpfzug des Kaisers, Tokyo, Verlag Sairyûsma, 1992, pp. 256-270 e ID., Raimondo Montecuccoli e la rivoluzione militare, in Raimondo Montecuccoli. Teoria, pratica militare, politica e cultura nell’Europa del Seicento, Modena e Pavullo nel Frignano 4-5 ottobre 2002, Atti del convegno, a cura di Andrea Pini, Pavullo nel Frignano, Comune di Pavullo nel Frignano, 2009, pp. 51-58. 2 conflitto di religione, raggiunsero senza dubbio il loro azimut negli anni 1660 in relazione e in reazione agli ottomani, come indicano la vittoria di S. Gottardo del 1° agosto 16642 e, appunto, Della guerra contro il Turco, un’opera conclusa nel 16703, ma frutto della rielaborazione e del ripensamento di una serie di scritti redatti negli anni 1661-644. Prima del 1661 Montecuccoli guardò unicamente o quasi verso occidente. Nell’ampio Trattato della guerra, che l’allora colonnello di cavalleria scrisse o comunque portò a termine a Stettino nel 1641, mentre era prigioniero degli svedesi, gli accenni ai turchi si contano sulle dita di una mano. Gli ottomani erano evocati soprattutto in quanto, incarnando la massima minaccia che gravava sui cristiani, da un lato giustificavano il monopolio della corona imperiale da parte degli Asburgo (chi meglio di casa d’Austria era in grado di «far resistenza alle forze del Turco»?)5 e dall’altro potevano essere utilizzati come un pretesto per imporre nuove tasse ai sudditi («è detto vulgare de’ populi della Germania negl’Imperatori Austriaci che, quando vogliono chieder danari a qualche Dieta, fanno subito correr avvisi et imprimer gazette e venir lettere d’Ungheria che il Turco si muove con armate formidabili e poderose, per assaltare la Cristianità dalla parte d’Ungheria»)6. 2 Cfr. da ultimo Hubert Michael Mader, Raimund Fürst Montecuccoli und die Schlacht von St. Gotthard-Mogensdorf im Jahr 1664: Eine Bewärungsprobe Europas, in «Österreichische Militärische Zeitschrift», 2006, n. 3, pp. 307-322. 3 Ma la prima redazione risaliva al 1668: cfr. R. Luraghi, Introduzione, a R. Montecuccoli, Della guerra contro il Turco in Ungheria 1660-1664, in ORM, II, p. 244. 4 Cfr. ORM, III, pp. 126-160 e 171-187. A sua volta lo scritto L’Ungheria nell’anno MDCLXXVII (ivi, pp. 244-274) riassume e aggiorna i resoconti e le proposte contenuti in Della guerra contro il Turco in Ungheria 1660-1664. 5 R. Montecuccoli, Trattato della guerra, in ORM, I, p. 160. 6 Ivi, p. 186. 3 Montecuccoli citava poi tra le ricompense, di cui potevano beneficiare i soldati, lo scudo d’oro - lo zecchino - concesso dai veneziani, allora nel secondo Quattrocento - in guerra contro «il Gran Turco Maometto» (vale a dire Maometto II), ai cappelletti - in realtà agli stradiotti - «per ciascuna testa del nemico che fosse riportata»7. In effetti la guerra dei turchi era analizzata dal modenese unicamente in relazione alle fortificazioni: «il Turco non costuma di fortificar molte piazze, perché nissuno ardirebbe intraprender d’andar assalire alcuna delle principali che non avesse subito sulle braccia un’armata potentissima la quale lo faria ben ritirare. Oltre che quando ei dubita che se ne voglia assalir qualcheduna, vi getta dentro otto o diecimila soldati, e così non si cura d’altra fortificazione»8. Non doveva quindi meravigliare che i turchi «anche oggidì decidono la più parte delle lor guerre per battaglie»9. Erano, come si può vedere, delle chiose tecniche, nelle quali la prospettiva della guerra santa affiorava in un modo un po’ rituale, come avveniva del resto quando il colonnello ricordava che «i maestri dei fuochi d’artifizio, nell’insegnare la composizione dei fuochi velenosi, fanno far giuramento che chi gli impara non se ne debba in modo alcuno servire se non contro il nemico commune dei Cristiani, il Turco»10. Nell’altra opera maggiore degli anni 1640, la prima versione del trattato Delle battaglie, Montecuccoli prese in considerazione i turchi in un numero ancora inferiore di occasioni, ricordando soltanto che avevano «la forza della [loro] armata principalmente nella Cavalleria leggera, armata d’armi da tiro»11 e insistendo sulla necessità di dare, prima del combattimento, da «bere a’ soldati qualche cosa che dissipando dall’immaginazione le idee meste et oscure, riempie il capo di spiriti caldi et allegri». La bevanda, sulla quale si soffermava lungamente, rivelando una grande competenza nel campo della botanica, era «il Maslach de’turchi», un «succo meloso» ricavato da un’umbrellifera, il quale, «disciolto nell’idromele» e «preso», «subito eccita un’animosità meravigliosa nell’uomo et talora li fa simili a furibondi, sì che, rapiti fuori di sé medesimi, e particolarmente in guerra, non temono alcun pericolo per grande che sia»12. 7 Ivi, p. 279. 8 Ivi, p. 231. 9 Ivi, p. 234. 10 Ivi, p. 387. 11 R. Montecuccoli, Delle battaglie, in ORM, II, p. 89. 12 Ivi, pp. 75-77. 4 Anche quando Montecuccoli fu costretto a confrontarsi, come accadde nel caso del Discorso sopra le fortezze, che si dovriano avere negli Stati di S.M. Cesarea datato Praga 14 dicembre 1648, con un tema, che imponeva di prendere in considerazione il pericolo ottomano13 e di conseguenza l’assetto delle fortezze collocate sulla lunga frontiera che separava i domini imperiali da quelli turchi, se la cavò con una considerazione, che tra l’altro faceva trasparire la mancanza di una sua conoscenza diretta - per adoperare un eufemismo - del quadro locale: «nella Schiavonia e Croazia, si suppone che le piazze da tenersi siano state erette e fortificate con esquisito giudizio, poiché li pericoli del Turco sono sempre stati iminenti, e le guerre moderne non ci hanno recato confusione. Pure, dalla pianta che bisogna fare di ciascheduna di per sé [...] si conoscerà se vi sarà qualche diffetto, che si dovrà rimediare»14. «Le guerre moderne», un aggettivo, quest’ultimo, in questo caso impiegato nel suo significato etimologico di ‘contemporaneo’, «non ci hanno recato confusione»: questa frase offriva la chiave per comprendere e, in una certa misura, giustificare la disattenzione dell’allora tenente-maresciallo nei confronti degli ottomani. Anche se continuava ad evocare «li pericoli del Turco» nella misura in cui rappresentavano, per così dire, la ragione sufficiente politico-militare di casa d’Austria, nello stesso tempo non poteva non tener conto del fatto che dal 1606 regnava la pace sulla frontiera con gli ottomani. I quaranta e più anni di tranquillità, di cui aveva beneficiato il confine meridionale dell’Impero - una tranquillità che risaltava ancora 13 Il pericolo ottomano era evocato soprattutto per giustificare la creazione di «un essercito in pronto», vale a dire di un esercito permanente, che era ritenuto indispensabile a «Sua Maestà», l’imperatore Ferdinando III, «la quale è circondata in una parte dal Turco nimico commune della Cristianità, e nell’altra da una quantità di potentati forestieri, che sono nell’Imperio, Francia [«Franconia», nella versione a stampa qui utilizzata], Svezia, e Danimarca, insaziabili ne’ desideri, e vasti ne’ dissegni loro» (R. Montecuccoli, Discorso sopra le fortezze, che si dovriano avere negli Stati di S.M. Cesarea, in ORM, III, p. 106). 14 Ivi, pp. 104-105. 5 più nitidamente se era paragonata allo stato di guerra di fatto permanente che aveva contraddistinto i rapporti degli Asburgo con i protestanti, all’interno e all’esterno dell’Impero, e con la Francia, cattolica ma alleata alle potenze del Nord luterane o calviniste - avevano trasformato «li pericoli del Turco» da effettivi a virtuali e nello stesso tempo avevano estromesso la guerra ottomana da un fondaco di exempla alimentato, va da sé, soprattutto dai più recenti sviluppi bellici. Non meraviglia pertanto che nelle Tavole militari del 1653, un ambizioso tentativo di raccogliere, come ha scritto Raimondo Luraghi, «in un quadro unico tutta l’arte e la scienza militare» e quindi di redigere «un vero e proprio vademecum militare ad uso dei comandanti»15, Montecuccoli, pur ricordando decine e decine di generali e di battaglie, non cogliesse mai l’opportunità di menzionare i turchi. Quando, nel 1661, fu affidato a Montecuccoli, che nell’occasione fu promosso a feldmaresciallo generale, il difficile compito di fronteggiare un’offensiva ottomana in Ungheria e in Transilvania, la guerra contro i turchi venne ad occupare, come è ovvio, il centro della sua riflessione teorica e, ad un tempo, pragmatica (nel caso del modenese i due piani si erano sempre influenzati vicendevolmente)16. A partire dall’Umilissimo parere intorno alla conservazione dell’Ungheria e della Transilvania presentato all’imperatore Leopoldo I il 25 febbraio 166217 Montecuccoli sviluppò una riflessione, che sarebbe culminata prima della battaglia di S. Gottardo nel Discorso della guerra contro il Turco e nel 1670 nel suo già citato capolavoro Della guerra contro il Turco in Ungheria. Nell’Umilissimo parere erano individuate tre possibili strategie, una linea difensiva («lasciandosi sostanzialmente le cose ne’ termini in ch’elle sono»), una linea di consolidamento delle posizioni asburgiche nella parte dell’Ungheria rimasta in possesso degli imperiali e una linea aggressiva nei confronti degli ottomani. Era nel corso di un bilancio dei rischi e dei vantaggi, che comportava l’adozione di quest’ultima linea strategica, che si faceva necessariamente strada un confronto tra i turchi e gli europei in chiave militare o, più precisamente, tattica, il confronto tra gli eserciti che combattono «con l’arte» - evidentemente quelli cristiani - e gli eserciti - come quello ottomano - che combattono «colla gran moltitudine». Da tale confronto Montecuccoli ricavava l’ottimistica 15 R. Luraghi, Introduzione, a R. Montecuccoli, Tavole militari, in ORM, II, p. 125. 16 Cfr. Thomas M. Barker, The Military Intellectual and Battle - Raimondo Montecuccoli and the Thirty Years War, New York - Albany, State University of New York Press, 1975. 17 Cfr. ORM, III, 127-133. 6 convinzione che «la Cristianità non [avesse] mai avuto armi sì floride in piede, e sì raffinate nell’arte militare com’ella ha di presente»18, una tesi ribadita anche in una memoria redatta un paio di settimane più tardi, Combinazione della guerra contr’al Turco in Transilvania, ed Ungheria19 e ulteriormente sviluppata in un documento coevo, il Saggio della combinazione ‘ad artem sciendi universalem’. In quest’ultimo Saggio il generale precisava che «la forma di guerra del Turco si è: I. di dar battaglia, II. abbondare di cavalleria, III. consumar i viveri e distruggere le campagne, IV. circondar il nemico, V. usar grande sforzo nell’espugnazione delle piazze, VI. fare grandi scorrerie, VII. uscire tardi la campagna», mentre quella «della nostra guerra dev’essere: I. aver un gran vantaggio dalla natura e dall’Arme, II. pigiare il piede, pigliar posti, espugnar piazze, III. non si spostare mai troppo da’ suoi magazzini, e da’ suoi vantaggi, e se si può da un fiume reale, IV. prevenire l’inimico nell’uscire in campagna, ed espugnare qualche luogo prima che il Turco esca, V. far caminare continuamente le recrute di fanti e cavalli, perché continuamente vanno scemando». Ancora una volta la risultante di tale analisi parallela era assai confortante: «si può andare a dirittura a far giornata col Turco perché, purch’egli sia capace di dar battaglia, egli non può mai vincerla, non potendo egli fortificarsi per la grande circonferenza, e per non aver fanteria abbastanza in proporzione della cavalleria per guardare le linee, e per diffenderle»20. Sempre nel 1662 alcune schematiche Osservazioni di Montecuccoli aprivano la strada ad una riflessione, che ricalcava solo in parte quella precedente sulla «forma di guerra» e che puntava invece ad illustrare i «vantaggi» dei due eserciti. I turchi avevano dalla loro: «I. la quantità grande della gente numerosa, II. la celerità che hanno i cavalli Turchi, il modo del vivere, d’armarsi e di vestirsi, III. il commando dispotico e tirannico, col quale ad un minimo cenno hanno carriaggi, guastatori, proviande, e quello che desiderano da’ paesi contigui, che atteriscono coll’abbruggiarli», laddove i «vantaggi nostri» erano: «I. espugnare, e diffender le piazze, II. andare a piè fermo, e non per fatti, III. fortificarsi nel campo, e non lasciarsi forzar a battaglia a grado dell’inimico, e poter forzar lui a combattere quando si voglia, non sapendosi egli servire dell’arte. In somma, il vantaggio del Turco consiste nella furia e 18 Ivi, p. 133. 19 Ivi, pp. 134-137. 20 Ivi, pp. 138-146: 142 e 144. 7 nell’urto; il vantaggio de’ nostri, nell’Arte e nel vantaggio dell’Arme, de’ siti, e della prevenzione»21. Nel Discorso della guerra contro il Turco, datato Vienna 1° marzo 1664, furono ripresi e sviluppati in modo organico i precedenti appunti. Montecuccoli individuò sedici principi relativi alla guerra dei turchi, ai quali contrappose venti massime, vale a dire altrettante proposte che dovevano consentire di tener testa agli ottomani negli assedi e sui campi di battaglia. Lo schema binario del Discorso individuava quali protagonisti i turchi e i cristiani, ma Montecuccoli di fatto rovesciava lo schema usuale delle guerre di religione, subordinando, in una certa misura, la religione alla guerra o, meglio, adoperando l’efficienza militare quale un metro per giudicare la validità delle scelte di ‘civiltà’, ivi comprese quelle dettate dalla religione. Ad esempio il primo principio recitava: «il Turco ha più gran numero di gente e più poderoso essercito dei Cristiani, perché: 1. possiede un vasto Impero; 2. la poligamia dei suoi Stati augmenta la moltiplicazione degli uomini; 3. tutti vanno alla guerra, non dandosi altra scala per salire agli onori e alle ricchezze che quella delle armi; né essendo fra di loro monasteri o chiostri, academie o studi, esercizi o altre professioni che distolgono le persone dall’arte militare [...]; 4. ha il Turco di continuo in piedi una milizia grossissima propria e ausiliaria». Nel secondo principio si spiegava che «il Turco è valoroso nel combattere quanto il Cristiano perché: 1. ha la taglia ben fatta e robusta, si nutre di poco ma buon cibo, non distrugge con la crapula la complessione; 2. è avvezzo all’esercizio dell’armi, ond’è ardito; 3. tiene l’ora e il genere della morte essere inscritti dal fato a ciascheduno sulla fronte e però inevitabili, onde nemmeno in tempo di contagio usa il Turco precauzione alcuna». Quanto alle armi e alle tattiche, il tallone d’Achille degli ottomani, «la Cavalleria turca è più agile che l’alemanna [...] ma non può sostener ferma lo urto d’uno squadrone proporzionato, ben insieme serrato e gravemente armato», mentre «la Fanteria [...] priva delle picche, non può, investita da uno squadrone o da un battaglione di picchieri, sostenersi intiera e resistere». Di qui la tesi che «tutto il nostro vantaggio è di formar un corpo solido sì fermo ed impenetrabile, che ovunque egli stia o vada sia come una fortezza; e impenetrabilità non si può attendere se non dalla picca e dalla corazza». Di conseguenza la cavalleria leggera dei cristiani, la quale si comportava come quella ottomana, in quanto anch’essa non poteva «star salda quand’ella [era] vigorosamente 21 Ivi, pp. 156-158: 156. 8 investita», non doveva essere in «un troppo gran numero, perché col suo moto a caracollo [...] cagioneria troppa confusione nella battaglia». Inoltre «il Turco conduce seco Artiglieria di numero e di calibro molto maggiore della nostra» e di conseguenza «fa ben maggiore effetto della nostra, ma a riscontro ella è molto più difficile a condursi, a maneggiarsi e più lenta a ritirarsi e a raggiustarsi»; in poche parole, il compito, che Montecuccoli assegnava all’artiglieria degli imperiali, quello di «poter sempre covrire i lati dell’esercito sia nel marciare, nell’alloggiare e nel combattere», era imperfettamente assolto dagli ottomani, i quali, tra l’altro, non fortificavano i loro accampamenti in quanto, come già sappiamo, facevano assegnamento sulla «moltitudine della gente» e non avevano «Fanteria abbastanza in proporzione della circonferenza, per guardarlo». Del resto anche «le piazze del Turco non sono buone come le nostre; non sono fabbricate alla moderna, non hanno fianchi reali [...] le case fabbricate maggior parte di legno» e questo perché «si fidano nella quantità del presidio e nella forza dell’esercito che hanno sempre in piedi per rendersi padroni del campo». Uno dei limiti della guerra degli ottomani era la stagionalità: «non suole il Turco prima della fine di maggio o del principio di giugno porsi in campagna», in quanto «la quantità smisurata dei cavalli, cammelli e altri armento non trova sostentamento prima che l’erba sia spuntata fuori e che li grani sono prossimi a maturare» e «la lontananza della gente che ritrae dall’Asia» impedisce di riunirla prima dell’avanzata primavera. Di conseguenza «il guerreggiare di vernotempo è un avvantaggio che i cristiani avranno sopra il Turco», il quale, tra l’altro, «col bere acqua non è sì atto a sopportare il freddo». Montecuccoli riconosceva invece che «il modo di guerreggiare del Turco è più adeguato alla segretezza, risoluzione, celerità e esecuzione del nostro, perché: 1. il dominio del Turco è monarchico e assolutamente dispotico, acquistato per lo ius dell’armi [...] 2. le commissioni sono date libere, assolute e con piena autorità al Capitano dell’esercito [...] 3. dipendendo il tutto dal consiglio d’un solo che non ha pari nel carico né collegati per concertarli, che ha il comando illimitato [...] a cui cenni obbediscono ciecamente l’esercito e il paese [...] vengono a cessare e togliersi quelle cause che di lor natura involgono consulte, conferenze, obiezioni, dispute, dissensioni e emulazioni, e quindi per conseguenza necessaria divulgazione dei segreti, irresoluzioni, discrepanze e freddezze nell’esecuzione». Montecuccoli, che anche alla battaglia di S. Gottardo si sarebbe trovato alla testa di un esercito federale, quello del Reich, appoggiato in quella circostanza da un solido corpo francese, insisteva sulla necessità di ovviare a questo stato di cose, dando 9 «l’autorità assoluta ad uno solo, o aggiungergli un consiglio di pochi ma buoni, fideli, esperti»22. La vittoria di S. Gottardo conseguita da Montecuccoli sui turchi non incise più che tanto - come testimoniano le considerazioni raccolte in Della guerra col turco in Ungheria, le quali spesso riprendevano alla lettera quelle del Discorso - sulla sua visione della potenza ottomana e sul suo giudizio relativo alle istituzioni militari. Quanto alla potenza, scrisse che «non senza buon discorso alla regione ed al sito sagacemente rifflesso, ha il Turco fatta la guerra con tanta profusione di sangue, d’oro, e di tempo per il conquisto di Candia, poiché con essa si ha assicurato il dominio della Grecia e dell’Asia»23. La sconfitta ottomana del 1664 non era affatto considerata dal vincitore della battaglia una svolta epocale, un sicuro indizio che il declino dell’impero ottomano era ormai dietro l’angolo. Al contrario il feldmaresciallo riteneva che «vano error lusinga coloro che delle forze del Turco parlano con poca stima: tanti regni da lui conquistati né mai più da’ cristiani ripresi, tante piazze forti espugnate, tante battaglie campali vinte, convincono di temerità e d’insufficienza sentimenti così impropri, i concetti di chi vibrando per ispada la lingua, batte con parole magnifiche l’oste»24. E ricordava anche, in chiave storica, che «dal disprezzo che si è fatto del Turco hanno principalmente avuto origine le nostre perdite; la temerità o la trascuraggine di combattere sproporzionatamente pochi contra molti, ha messo le vittorie in mano de’ barbari»25 I pregi delle istituzioni militari ottomane erano quelli già individuati nelle opere precedenti, in particolare nel Discorso: «il Turco, del cui dominio la forma è tutta bellicosa e feroce, ha gli apprestamenti militari sempre in assetto» e, grazie a questo «lungo apparecchio», poteva puntare su «una presta vittoria» e quindi condurre, al pari degli antichi romani, «guerre corte e grosse»26. Se Montecuccoli talvolta avallava la tradizionale immagine negativa degli ottomani («tenebre» per quel che riguardava la religione, «tirannide» sul fronte politico, «lubrico continuo de’ precipizi del corpo e dell’anima» quanto alla morale)27, ciò non 22 R. Montecuccoli, Discorso della guerra contro il Turco, in ORM, II, pp. 205-239: 206, 209-210, 213-215, 219, 222, 227 e 229. 23 ID., Della guerra contro il Turco in Ungheria 1660-1664, in ORM, II, p. 310. 24 Ivi, p. 388. 25 Ivi, p. 492. 26 Ivi, pp. 463 e 465. 27 Ivi, p. 421. 10 valeva in ambito militare, nel quale al contrario riconosceva ai turchi delle qualità belliche talmente spiccate che non esitava a collocarli, come abbiamo visto, accanto ai romani e, in un’altra occasione, sullo stesso piano degli spartani28. Ciò che invidiava particolarmente agli ottomani era, oltre al «lungo apparecchio», la «milizia perpetua in piede», l’esercito permanente29. Quando passava in rassegna i tipi di reclutamento più adatti a raggiungere tale obiettivo, Montecuccoli finiva per attribuire la palma ad un sistema, come quello svedese, l’Indelningsverket, basato su una sorta di coscrizione: «sarebb’egli insopportabile aggravio», era la domanda retorica che si poneva, «se ad ogni dieci case s’imponesse il sostentar un soldato, cui, presente, fornissero il vitto ed il vestito, absente, il danaro equivalente?»30. Nello stesso tempo il feldmaresciallo accostava gli svedesi agli ottomani, sottolineando che «ha la Svezia destinato in ciascheduna provincia un certo numero di case e campi, come Timari, per lo mantenimento de’ soldati»31. Tuttavia va anche precisato che il timar, che era, come spiegava lo stesso Montecuccoli, «un assegnamento d’entrata sopra certi terreni, per lo più acquistati in guerra, e che hanno qualche rapporto alle colonie romane o alli feudi ed alle commende»32, forniva all’esercito ottomano la cavalleria leggera, mentre l’Indelningsverket alimentava soprattutto la fanteria pesante di picchieri, contribuiva, cioè, a quell’«andare a piè fermo, e non per fatti» e a «formar un corpo solido [...] fermo ed impenetrabile» che erano le carte vincenti della tattica ‘cristiana’. Inoltre Montecuccoli suggeriva che «dovriasi in ciascheduna provincia fondare un’Accademia militare (ad imitazione de’ Giannizzeri del Serraglio) dove instrutti alla guerra venissero gli orfani, i bastardi, i mendicanti e i poveri che negli ospitali soglionsi alimentare», aggiungendo anche, sul filo della sua polemica contro le istituzioni religiose e universitarie che sottraevano finanziamenti, uomini e lustro a quelle militari, che «la fondazione di cotali scole saria forse di maggior merito al zelo de’ fondatori e di maggior promozione alla Cristiana Religione, che quella non è di novi monasteri o di ginnasi superflui»33. 28 Ivi, p. 466. 29 Ivi, p. 465. 30 Ivi, p. 472. 31 Ivi, p. 469. 32 Ivi, p. 465. 33 Ivi, p. 474. 11 Un altro punto forte delle istituzioni militari ottomane era quella che Montecuccoli definiva la «virtù esecutiva», vale a dire la capacità di tradurre i piani in operazioni e, più in generale, di gestire efficacemente la guerra. Tale «virtù» nasceva «dal comando che hanno que’ Capi despotico, indiviso»: dispotico in quanto rifletteva «le leggi fondamentali del regno» ottomano, che prevedevano che «un solo sia Principe e tutti gli altri sieno schiavi» e che garantivano di conseguenza «al Capitano generale» dell’esercito turco «commissioni libere, assolute e con piena autorità»; indiviso, in quanto non ha «il capo né pari nel carico, né ausiliari, né collegati per consultarli nell’imprese e nelle dissensioni per conciliarli; ma a’ di lui cenni e l’esercito e il paese tutto ciecamente obbediscono»34. L’esercito permanente garantiva «capi e soldati sperimentati, valorosi ed esecutivi». Quanto al valore, nasceva «prima dalla complessione robusta, [...] poi dalla perizia del maneggio dell’arme e degli esercizi militari, [...] dalle vittorie passate; da que’ duo gran poli dell’orbe politico: premio, e pena, l’uno amplissimo, l’altra severissima appo i turchi; dalla religione persuadentegli conseguirsi l’eterna beatitudine nel morir combattendo»35. Inoltre «ottima è la disciplina fra i turchi. Sono forti, obbedienti, temperanti, nella speranza di gran premi e nel timor di gran pene»; il soldato ottomano era, come riconosce anche la più recente storiografia, quando lo confronta con il soldato europeo contemporaneo36, «ben nutrito e ben coperto»; questo stato di benessere contribuiva a far sì che i turchi fossero «obedientissimi nell’osservazione delle lor leggi, nell’instituzione di abitar in camerate insieme, del silenzio, dell’orazioni e nel rispetto agli offiziali e nella prontezza di eseguir i commandamenti»37. Il numero, un comando ‘dispotico’, l’esercito permanente basato su un un valido tipo di reclutamento, la logistica ben temperata: questi, in estrema sintesi, i «vantaggi» degli ottomani. Anche se non mancavano in tali ambiti delle note critiche (Montecuccoli sottolineava che «avvi però di presente tra essi ancora degli abusi e delle corruzioni, poiché alcuni vengono di primo balzo dagli offizi della Porta al comando degli eserciti innalzati», mentre «il Soldano ne’ lussi marcido e delle maomettane leggi poco curante, non esce più in persona alle 34 Ivi, p. 481. 35 Ivi, pp. 480-481. 36 Rhoads Murphey, Ottoman Warfare 1500-1700, London, University College London Press, 1999, pp. 88-89. 37 R. Montecuccoli, Della guerra contro il Turco, cit., in ORM, II, pp. 487-488. 12 conquiste»)38, i limiti dei turchi sul piano militare riguardavano soprattutto la tattica e, in misura minore, la tecnologia. È vero che il feldmaresciallo, ricuperando e generalizzando una contrapposizione già presente nell’Umilissimo parere del 1662, sosteneva anche la tesi, assai impegnativa e non a caso da egli stesso contraddetta sotto più aspetti, che «li popoli barbari ripongono principalmente i loro vantaggi nella moltitudine e nel furore; ma le milizie ammaestrate, nell’ordine e nel valore»39. In effetti, quando enumerava gli elementi, in cui consisteva «principalmente il nostro vantaggio col Turco», Montecuccoli li individuava in aspetti tecnici, non nelle qualità ‘morali’, vale a dire «nella fortificazione, la cui sottigliezza egli non cape; nel maneggio spedito dell’Artiglieria, che appresso di lui è più lento; ne’ fuochi d’artifizio e nel distinto movimento dell’esercito, che fra’ suoi è confuso»40. In particolare «non sono [...] i lor movimenti così a minuto distinti come i nostri, e de’ Giannizzeri è l’uso, doppo aver fatta col moschetto lor salva, trar fuora la sabla e con essa correr su l’oste»41. Invece, come indicavano i «punti da osservarsi nella battaglia», vale a dire le istruzioni operative date da Montecuccoli alla vigilia della battaglia di S. Gottardo, «la moschetteria non faccia tutta insieme una salva, ma compartiscasi in modo ch’una o due file per volta sparando, li tiri sieno continui, e dove l’ultima di esse ha dato fuoco, abbia la prima ricaricato» e «l’istesso deesi osservare nello sparare dell’Artiglieria»42. Inoltre «li pezzetti da reggimento», vale a dire l’artiglieria reggimentale, «vansi caricando e sparando e spingendo [...] con la stessa prestezza come altri marciano, dovunque e’ si vuole»43. L’architettura bastionata, l’«ordine» e la «sodezza» sui campi di battaglia garantiti dalle picche e dalla cavalleria pesante, il fuoco continuo, l’impiego tattico dell’artiglieria: erano queste le principali conquiste tecniche e tecnologiche tipiche di quel fenomeno dell’età moderna che è stato definito e precisato - in particolare da Geoffrey Parker - in relazione all’affermazione dell’Occidente, la rivoluzione 38 Ivi, p. 480 39 Ivi, p. 463. 40 Ivi, p. 499. 41 Ivi, p. 486. 42 Ivi, p. 439. 43 Ivi, p. 534. 13 militare44, una rivoluzione, come denunciava Montecuccoli, in taluni decisivi aspetti ignorata - checché ne affermino Rhoads Murphey e Jeremy Black45 - dagli ottomani46 e che al contrario il generale modenese aveva evocato fin dai primi anni 1660 nella sua caratteristica di fondo, quando aveva assegnato ai cristiani il «vantaggio» di avere a disposizione «armi» non solo «floride», ma anche e soprattutto «raffinate nell’arte militare»47. The Battle of Saint Gotthard (1664) triumphal arch in Church St. Joseph, into the village of Mogersdorf, paint Josef Rösch, 1912 44 Cfr. la recente puntualizzazione, in riferimento soprattutto al caso italiano, ma sulla base di un’ampia comparazione a livello europeo, di Luciano Pezzolo, La “rivoluzione militare”: una prospettiva italiana 1400-1700, in Militari in età moderna: la centralità di un tema di confine, Milano, 20 giugno 2004, a cura di Alessandra Dattero e Stefano Levati, Milano, Cisalpino, 2006, pp. 15-62. 45 Cfr. R. Murphey, Ottoman Warfare, cit., pp. 106-108, che riprende la tesi esposta da Jeremy Black, A Military Revolution? Military change and European Society 15501800, Basingstoke, MacMillan, 1991. 46 Cfr. anche, a questo proposito, il meditato giudizio di un altro italiano, che era entrato al servizio imperiale pochi anni dopo la scomparsa di Montecuccoli, il bolognese Luigi Ferdinando Marsili, l’autore dello Stato militare dell’Imperio Ottomanno, incremento e decremento del medesimo / L’État militaire de l’Empire Ottoman, ses progrès et sa décadence, 2 voll., in Haya, appresso Pietro Grosse, e Giovan Neaulme, Pietro de Hondt, Adriano Moetjens - in Amsterdamo, appresso Herm. Uytwerf, Franc. Changuion, 1732. Sull’esperienza militare di Marsili e sulla sua valutazione dei turchi, assai più critica di quella di Montecuccoli, ancorché in larga misura parallela, cfr. Piero Del Negro, Luigi Ferdinando Marsili e le armes savantes nell’Europa tra Sei e Settecento, in La politica, la scienza, le armi: Luigi Ferdinando Marsili e la costruzione della frontiera dell’Impero e dell’Europa, a cura di Raffaella Gherardi, Bologna, Clueb, 2010, pp. 101-145. 47 Cfr. sopra alla nota 18 la citazione tratta da R. Montecuccoli , Umilissimo parere, cit. 14 3 agosto 1664 Mogersdorf an der Raab, St. Gotthart (Szentgotthard) 15