Cesare Pavese

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Cesare Pavese
Cesare Pavese
Biografia dell’autore
Cesare Pavese nasce il 9 Settembre 1908 a Santo
Stefano Belbo in provincia di Cuneo, da un padre
cancelliere del tribunale di Torino, e da una madre
benestante.
I problemi che afflisse la famiglia Pavese, non furono di
natura economica ma bensì relazionale ed affettiva
infatti, quando Cesare ebbe 6 anni perse il padre e,
questo fatto pregiudicò in modo negativo il carattere
psicologico del figlio che già di per se era scontroso ed
introverso.
Dopo la morte del padre la famiglia Pavese mise in
vendita la casa a Santo Stefano Belbo per trasferirsi a
Torino
In seguito, dopo la vendita della casa di Santo Stefano
per il trasferimento a Torino, nella mente di Pavese
continuarono a rimanere impressa per sempre l‟idea della sua infanzia continuando a
considerare la campagna e il paesaggio delle Langhe il luogo dell‟immaginazione e del
ricordo, come potremo vedere nelle opere “Paesi tuoi” e “La luna e il falò”.
Pavese frequentò la prima elementare a Santo Stefano Belbo, poi tornato con la famiglia a
Torino, i suoi studi proseguirono in quella città, dove dopo aver finito le primarie, Cesare
frequentò il ginnasio, e dal 1923 il liceo “D‟Azeglio”, dove conosce nuovi amici, come Leone
Ginzburg e Norberto Bobbio, Elio Vittorini e il professore d‟italiano Augusto Monti che, lo
avvicinò ai valori dell‟antifascismo.
Durante il corso dei suoi studi, Cesare insieme al suo amico Elio Vittorini, iniziarono a
coltivare un interesse per la letteratura americana e la lingua inglese, al punto da laurearsi
(1930) in Lettere e Filosofia con una tesi di Walt Whiteman. Questa passione si tramutò
presto in lavoro, Pavese diventò critico letterario e traduttore, tradusse testi di molti letterari
famosi, come: Sinclair Lewis, Sherwood Anderson, John Dos Passos, il Dedalus di Joyce e
Moby Dick di Melville.
Stile letterario
Pavese ha svolto un ruolo di primaria importanza nel passaggio dalla cultura degli anni „30 a
quella del dopoguerra. La sua figura si è sempre legata a un profondo senso di
contraddizione fra letteratura e impegno politico, tra esistenza individuale e storia collettiva,
attraverso una tormentosa analisi di sé e dei comportamenti altrui e di una costante ricerca
del miglioramento, come uomo e come scrittore. Pavese tratterà vari argomenti ma
principalmente baserà la sua scrittura su alcuni principali temi, ovvero: la ricerca di contatti
umani, di incontri con la realtà quotidiana, di reimmersione nel mondo rurale da cui proviene,
a difesa della meccanicità della vita cittadina, dalla solitudine interiore e dal congiunto
pensiero della morte. Scrive numerose opere sia brevi che lunghe improntate sul realismo
della letteratura nord-americana (La spiaggia, Fiera d‟Agosto, La luna e i falò). In seguito ad
alcune vicende molto intime, Pavese svilupperà il pessimismo e la vocazione suicida
nell‟autore (verrà la morte e avrà i tuoi occhi).
Quindi nasce in Pavese un contrasto interiore tra il suo innato gusto decadente e le sue
innate intenzioni di instaurare o sperimentare una nuova letteratura anglo-americana.
Sviluppa inoltre un dissidio di fondo fra la sua ispirazione lirico - elegiaca e l‟intenzione di
piegare questa sua vocazione ad esigenze ideologiche che possono essere prima quella del
realismo americano e poi quella del marxismo. Egli, in ogni caso, rimane un lirico, poiché in
lui l‟elegia tragica tornerà sempre ad addensarsi come sentimento della malinconia del
vivere. Si direbbe che Pavese, poiché subiva pienamente le insidiose suggestioni
dell‟irrazionalismo contemporaneo in tutte le sue svariate forme, cercava di farsi forte e
difendersi con la sua cultura umanistica contro ogni dispersione irrazionale in sede artistica.
Opere di Pavese
Le opere principali di Pavese sono: “Lavorare Stanca” ,“I paesi tuoi”, “La bella estate” ,
“La casa in collina” , “La luna e i falò” , “Il mestiere di vivere”.
● “Lavorare Stanca”, venne pubblicata la prima volta nel 1936, ed è un‟opera che in
un certo senso racconta il clima socio-culturale instauratosi negli anni 30‟ in Italia.
Questa consiste in una raccolta di poesie, che, nel 1943, Cesare Pavese suddivide
per tematiche. Precedentemente nel 1936, il primo anno di pubblicazione di questa
raccolta venne censurata. L‟opera è suddivisa in sezioni di liriche, la prima
sezione “Antenati” tratta di tematiche legate al paesaggio rurale e la vita
contadina. L‟ambientazione di questa sezione de “Lavorare Stanca” viene intuita
dalla scrittore come un simbolo della sua infanzia in contrapposizione alla vita
contadina e l‟età adulta che per il poeta suscitano frustrazione e fallimento. Le
poesie di Pavese sonno caratterizzate un po‟ tutte dall‟ incomunicabilità e la
solitudine caratteristiche centrali dell‟opera. Una successiva sezione “Dopo” affronta
il tema dell‟amore e una relazione con una donna che si conclude con
rassegnazione e malinconia. Ci sono altere sezioni in questa raccolta come “Città
in Campagna”, “Maternità”, “Legna verde” e l‟ultima sezione “Paternità”. Nella
sezione “Città in Campagna” si nota l‟impegno politico e sociale dell‟autore che
s‟incentra sul lavoro e la fatica dei contadini e gli operai inseriti in paesaggi urbani
e rurali, ovviamente accompagnati del senso di solitudine dell‟autore senza amore
e affetti. Infine nella penultima sezione di “Lavorare Stanca” emerge chiaramente il
tema politico trattato da Pavese, questa sezione difatti è composta da poesie scritte
tra il 1934 e il 1935 narranti le lotte operaie e l‟esperienza dell’esilio e la prigione,
questo comportò la censura dell‟intera opera avvenuta nel 1936.
● “I paesi tuoi”, è un romanzo che venne pubblicato nel 1941. Il tema dominante
dell‟opera è la differenza di ambiente sociale, un personaggio torinese di nome
Berto e il contadino Talino. La vicenda è raccontata attraverso l‟ottica di Berto così
differente da Talino e piena di tematiche di complesse. Nei testi di pavese troviamo
inoltre il discorso diretto fra personaggi.
● “La bella estate” quest‟opera fu pubblicata nel 1949, un anno prima del suicidio dello
scrittore. L‟opera è composta da tre testi: “La Tenda”, “Il diavolo sulle colline” e “Tra
donne sole” . Con questi tre racconti Pavese vince il premio Strega nel 1950. i tre
fanno riferimento alla tematica del passaggio traumatico dall‟età adolescenziale a
quella adulta, i protagonisti dei testi sono tutti accomunati da delusioni e
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●
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frustrazioni. L‟ambientazione dei tre scritti è prevalentemente urbana a differenza
di altre opere come “Paesi tuoi, “Il Carcere” e “La casa in collina”
“La casa in collina” venne ugualmente pubblicata nel 1949, è un‟opera in cui sono
presenti molti elementi autobiografici.
L‟autore compie un indagine sulle
conseguenze psicologiche e sociali della Seconda Guerra Mondiale e la
Resistenza, a cui Pavese non partecipa direttamente ma sceglie di rifugiarsi, come
il protagonista di “La casa in collina” in campagna. Dall‟opera emerge il legame
disarmonico che c‟è fra l‟intellettuale e la realtà, il rapporto che c‟è con il mondo
rurale delle Langhe contrapposto a quello della città e il ruolo della memoria
individuale, il ricordo.
“La luna e i falò” , è l‟opera definitiva di Pavese, pubblicata pochi mesi prima del
suo suicidio. Il libro viene considerato l‟affermazione definitiva dello scrittore, che
unisce quest‟ultimo componimento ai precedenti, attraverso il ricordo simbolico
dell‟infanzia passata a Santo Stefano Belbo, il senso di solitudine esistenziale, e le
ragioni dell‟antifascismo. La storia dell‟opera è narrata in prima persona dal
protagonista, che si chiama Anguilla.
“Il mestiere di vivere” è il diario personale di Cesare Pavese che racchiude le
vicende che vanno dal 1935, quando lo scrittore viene confinato, fino al 1950, l‟anno
del suo suicidio. la casa editrice Einaudi pubblica questo diario nel 1952, due anni
dopo della morte dell‟autore. Pavese in questo manoscritto inserisce sensazioni,
ricreando un vero e proprio percorso poetico e autobiografico, accompagnato da
un‟accurata confessione e analisi lucida e cosciente, riguardo la sua attività di
poeta. Il modo con cui apprendere “Il mestiere di vivere” porta al poeta verso la sua
drammatica fine.
Incipit de “La luna e i falò”
C'è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in
Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c'è da queste parti una casa
né un pezzo di terra né delle ossa ch'io possa dire "Ecco cos'ero prima di nascere". Non so se vengo
dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi.
La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla
campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da
vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana.
Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono
buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e
paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.
Se sono cresciuto in questo paese, devo dir grazie alla Virgilia, a Padrino, tutta gente che non c'è più,
anche se loro mi hanno preso e allevato soltanto perché l'ospedale di Alessandria gli passava la
mesata. Su queste colline quarant'anni fa c'erano dei dannati che per vedere uno scudo d'argento si
caricavano un bastardo dell'ospedale, oltre ai figli che avevano già.
C'era chi prendeva una bambina per averci poi la servetta e comandarla meglio; la Virgilia volle me
perché di figlie ne aveva già due, e quando fossi un po' cresciuto speravano di aggiustarsi in una
grossa cascina e lavorare tutti quanti e star bene.
Io venni su con le ragazze, ci rubavamo la polenta, dormivamo sullo stesso saccone, Angiolina la
maggiore aveva un anno più di me; e soltanto a dieci anni, nell'inverno quando morì la Virgilia, seppi
per caso che non ero suo fratello.
Adesso sapevo ch' eravamo dei miserabili, perché soltanto i miserabili allevano i bastardi
dell'ospedale. Prima, quando correndo a scuola gli altri mi dicevano bastardo, io credevo che fosse
un nome come vigliacco o vagabondo e rispondevo per le rime.
Ma ero già un ragazzo fatto e il municipio non ci pagava più lo scudo, che io ancora non avevo ben
capito che non essere figlio di Padrino e della Virgilia voleva dire non essere nato in Gaminella, non
essere sbucato da sotto i noccioli o dall'orecchio della nostra capra come le ragazze.
Analisi dell’ Incipit e de “La luna e i falò”
Nell‟incipit dell‟opera il narratore è un trovatello cresciuto in un paese delle Langhe e
soprannominato Anguilla. Dopo diversi anni Anguilla fa ritorno nel suo paesino dopo essere
emigrato in America. Anguilla si ricorda così degli anni dell‟infanzia e la gioventù trascorsi
nel paese in cui fu raccolto e cresciuto da una famiglia povera, nella casa sulla collina di
Ganimella. Il protagonista si accorge però che le le persone con cui è cresciuto sono
scomparse e i luoghi sono cambiati dal tempo. Anguilla inizia il racconto di tutti i personaggi
del paese, come narratore interno ed esterno . La storia del romanzo sono le vicende che
hanno caratterizzato la vita dei personaggi., di dice romanzo con la cornice. L‟incipit inizia
con la storia dell‟infanzia di Anguilla, che presenta elementi autobiografici di Pavese. Il
dolore di Anguilla è anche nel fatto che, dopo la morte di Virgilia, egli scopre che non era
sua sorella e la sofferenza del personaggio è scaturita anche dalle vicende della sua vita
che racconta in prima persona.
L‟ambiente dell‟opera è reale e identificato dai nomi dei luoghi, le colline, e i poderi dei
proprietari. La narrazione si svolge sempre, per tutta l‟opera, in un contesto rurale, nel
paesino di campagna Santo Stefano Belbo, che si trova nelle Langhe cuneesi in
Piemonte. Ogni personaggio della storia è approcciato al luogo, nonostante il protagonista,
Anguilla, si senta sradicato dal luogo. Lo sradicamento dalla propria civiltà è tipico di alcuni
autori del 900‟ che esaminano la crisi delle razionalità. La casa di Ganimella è il podere in
cui Anguilla è stato cresciuto dai genitori adottivi. La vicenda si svolge nel dopoguerra, lo si
capisce dalle persone della narrazione, che portano i segni della guerriglia, del Fascismo, e
prendono parte molti poi alla Resistenza. Non è dato sapere nella narrazione se tutti i
personaggi sono realmente esistiti, ma sono storicamente verosimili e funzionali alla
vicenda del protagonista.
La morte di Gisella
“Rispunta Talino con quattro tridenti in mano e li butta sotto il carro nelle gambe di Miliota, che deve
fare un salto se vuole salvarsi.
– Bastardo, – gli grida.
– Non è mica vero, – le fa Ernesto tranquillo, – è figlio anche lui di suo padre.
– Molte cose sarebbero chiare, se fosse bastardo, – gli dico; e vedo Ernesto che mi fissa, come se
non avesse capito. Prima parlava ridendo e adesso mi guardava.
Tornato Vinverra, cominciano a scaricare. Il grassone aveva disfatto le corde che tenevano fermi i
covoni, poi s‟erano messi col tridente, lui e Talino, sopra il carro, e piantavano delle forcate là dentro,
come due facchini. Sotto, Ernesto e le ragazze prendevano in spalla i covoni e li gettavano sotto il
portico.
– Su e giù, su e giù, – gridava quello grasso, in mezzo alla polvere e al sole, – domani ballate per
l‟ultima volta.
A vedere Ernesto che s‟era tolto la giacca e faceva il contadino, e la schiena piegata di quelle
ragazze, e l‟Adele che dalla finestra della sua stanza guardava e pareva che ridesse, mi viene
vergogna e do mano a un tridente per aiutare anch‟io. – Forza, – grida Talino, – si mette anche il
macchinista -. Parlava sghignazzando, il sudore e le vene del collo lo eccitavano. I covoni pesavano e
Talino me li gettava sulla testa come fossero dei cuscini. Ma tenevo duro; dopo cinque o sei viaggi
vedevo solo come un incendio e avevo in bocca un sapore di grano, di polvere e sangue. E sudavo.
Poi mi fermo, arrivando sotto il portico. Quelle erano le gambe di Gisella. Il covone mi bruciava il collo
come un disinfettante. E sento Talino che dice: – Gisella è venuta a vederti, forza! – Getto il covone
sul mucchio e la vedo che passa ridendo, col secchio, fresca e arrabbiata. Mi asciugo il sudore, e
Gisella era già contro il pozzo, che agganciava. Tanto io che Ernesto le lasciamo tirare su l‟acqua, e
poi corriamo insieme a bere. – Uno per volta, – diceva Gisella, e gli altri due si fermano lassù coi
tridenti piantati.
– Quando abbiamo finito, porta qui la bottiglia, – dice Vinverra traversando il portico.
Mi ricordo che Gisella guardava dritto nel grano, mentre bevevo. Guardava tenendomi il secchio a
mani giunte, con fatica, come aveva fatto per Ernesto ma lui lo guardava, e con me stava invece
come se godesse facendosi baciare. Quando ci penso, mi sembra così. O magari era soltanto lo
sforzo, e il capriccio di avercene due intorno che bevevano. Non gliel‟ho più potuto chiedere.
Ecco che saltano dal carro Talino e Gallea. Vengono avanti come due ubriachi, Talino il primo, con le
paglie in testa e il tridente in pugno.
– Là si lavora e qui si veglia, – fa con la voce di suo padre.
– C‟è chi veglia di notte e chi veglia di giorno, – gli risponde Gisella. Ma lui dice: – Fa‟ bere, – e si
butta sul secchio e ci ficca la faccia. Gisella glielo strappa indietro e gli grida: – No, così sporchi
l‟acqua -. Dietro, vedo la faccia sudata dell‟altro. – Talino, – fa Ernesto, – non attaccarti alle donne.
Forse Gisella cadeva; forse in tre potevamo ancora fermarlo; queste cose si pensano dopo. Talino
aveva fatto due occhi da bestia e, dando indietro un salto, le aveva piantato il tridente nel collo. Sento
un grosso respiro di tutti; Miliota dal cortile che grida «Aspettatemi»; e poi Gisella lascia andare il
secchio che m‟inonda le scarpe. Credevo fosse il sangue e faccio un salto e anche Talino fa un salto,
e sentiamo Gisella che Gorgoglia: – Madonna! – e tossisce e le cade il tridente dal collo.
Mi ricordo che tutto il sudore mi era gelato addoso e che anch‟io mi tenevo la mano sul collo, e che
Ernesto l‟aveva già presa alla vita e Gisella pendeva, tutta sporca di sangue, e Talino era sparito.
Vinverra diceva «d‟un cristo, d‟un cristo» e corre addosso ai due nel trambusto la lasciano andar giù
come un sacco, a testa prima nel fango. – Non è niente, – diceva Vinverra, – è una goffa, àlzati su -.
Ma Gisella tossiva e vomitava sangue, e quel fango era nero. Allora la prendiamo, io per le gambe, e
la portiamo contro il grano e non potevo guardarle la faccia che pendeva, e la gola saltava perdendo
di continuo. Non si vedeva più la ferita.
Poi arrivano le sorelle, arrivano i bambini e la vecchia, e cominciano a gridare, e Vinverra ci dice di
stare indietro, di lasciar fare alle donne perché bisogna levarle la camicetta. – Ma qui ci vuole un
medico, – dico, – non vedete che soffoca? – Anche Ernesto si mette a gridare e per poco col vecchio
non si battono. Finalmente parte Nando e gli grido dietro di far presto, e Nando corre corre come un
matto.
– Altro che medico, – dice Gallea che ci guardava dal pilastro – ci vuole il prete.
– E Talino? – fa Ernesto, con gli occhi fuori.
In quel momento l‟Adele tornava col catino correndo e si fa largo e s‟inginocchia. Mi sporgo anch‟io e
sento piangere e vedo la vecchia che le tiene la testa, e Miliota che piange e l‟Adele le tira uno
schiaffo. Gisella era come morta, le avevano strappata la camicetta, le mammelle scoperte, dove non
era insanguinata era nuda. Poi la vecchia ci grida di non guardare. Mi sento prendere il braccio. –
Dov‟è Talino? – chiede ancora Ernesto.
Si fa avanti Gallea. – È scappato sul fienile, – ci dice tutto scuro, – gli ho levata la scala.
Ernesto voleva salire. Gallea lo tiene e lo tengo anch‟io. Batto i piedi in un manico. Era il tridente di
Gisella, tutto sporco sul manico ma non sulle punte. – Teniamo questo, – gli dico, – senz‟un‟arma
Talino è un vigliacco.
Poi sentiamo di nuovo tossire. Meno male, era viva. Il fango dov‟era caduta col secchio faceva
spavento, così nero; e la strada fino al grano era sempre più rossa, più fresca. Vinverra ricomincia a
bestemmiare coi bambini, e si guardava intorno: cercava Talino. Si alza l‟Adele e dice a Pina: – tu va‟
avanti -. Poi chiamano Ernesto che venga a aiutare. Io no, perché ero nuovo, e da quel momento mi
cessò il sopraffiato e cominciarono a tremarmi i denti. La prendono Ernesto e Vinverra; e Miliota le
teneva un braccio. La vecchia mandava via i bambini. Attraversano adagio il cortile, le avevano
coperto le mammelle, entrano in cucina. Le vedo l‟ultima volta i capelli che pendevano e una gamba
scoperta. Poi la portano su.”
Alla sua uscita, il romanzo “Paesi tuoi” (1941) fu accolto da vari tipi di reazioni, alcune forti e
contrarie. Questo fu dovuto ad uno dei temi trattati nello scritto, ovvero quello dell‟incesto,
argomento trattato con libertà e ferocia.
La trama è molto semplice: Berto uscito di prigione insieme a Talino (il suo compagno di
cella) viene invitato da quest‟ultimo nella sua dimora di campagna per effettuare una
riparazione alla mietitrebbia. Qui Berto trova un ambiente piacevole e primordiale. I giorni
passano tranquilli finché non esplode il dramma. Gisella (una sorella di Talino, in passato
violentata dallo stesso) porge un secchio d‟acqua a Berto in modo che egli possa dissetarsi.
Talino in preda alla gelosia ed un attacco di passione violenta pianta il tridente nella gola
della sorella uccidendola.
In questo racconto Berto, protagonista- narratore, svolge un ruolo fondamentale. Infatti lui
non racconta solamente ma riporta all‟interno del romanzo il pensiero dello scrittore. Si trova
lì in rappresentanza dell‟animo dello stesso Pavese che descrivere così una realtà dove la
violenza e la crudeltà umana fanno da padrone. Un‟altra figura ricorrente all‟interno del
romanzo è quella del seno femminile, ripresa più volte dall‟autore. Viene attribuita alla figura
un senso di vita, di sesso, di femminilità e maternità. Abbiamo quindi una ritualizzazione
della morte di Gisella dove vengono presentati in contrasto la vita e la violenza, la bellezza
femminile e l‟aspra crudeltà umana.
E dei caduti che facciamo? - La casa in collina
Pavese pubblica “La casa in collina” nel 1949. Il romanzo tratta le conseguenze
psicologiche, morali e sociali del secondo conflitto mondiale e della Resistenza. La
narrazione è fortemente intrisa di elementi autobiografici, andando così a dare informazioni
personali sull‟autore stesso.
All‟interno del romanzo Pavese tratta nuovamente il dissidio fra la solitudine contemplativa
dell‟intellettuale e la presa di posizione storica ed ideologica che gli eventi richiederebbero.
Pavese avverte questa divisione di pensiero e la riversa nel romanzo come elemento
autobiografico, andando quindi a rappresentarsi nel protagonista. Poi troviamo la differenza
fra chi si impegna e riesce a prendere delle decisioni e chi, come il protagonista, è vittima
del dubbio e dell‟incertezza (il protagonista ad un certo punto arriverà ad avere una crisi
esistenziale all‟interno del romanzo).
Ultima antitesi che troviamo è quella di una profonda riflessione dell‟autore sul significato
dell‟esistenza umana.
“Ci sono dei giorni in questa nuda campagna che camminando ho un soprassalto: un tronco
secco, un nodo d'erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi... Io non credo che
possa finire. Ora che ho visto cos'è la guerra, cos'è la guerra civile, so che tutti, se un giorno
finisse, dovrebbero chiedersi: - E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? - Io non
saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo
sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.”
Prova a dare una spiegazione al senso della morte dei caduti non riuscendo a trovarlo. Per
Pavese la guerra dovrebbe essere un elemento da evitare in modo da non incappare in
quelle che sono “futili cadute”.