L`INCONTRO MANCATO: NOTE SULLA POESIA DI CESARE
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L`INCONTRO MANCATO: NOTE SULLA POESIA DI CESARE
1 L’INCONTRO MANCATO: NOTE SULLA POESIA DI CESARE PAVESE Prisca Agustoni1 Se l’esordio letterario di Cesare Pavese si deve a Lavorare stanca, libro di poesie pubblicato nel 1936, in cui, come è possibile notare in liriche quali I mari del Sud, il progetto iniziale che gli servirà come carro trainante di tutta la sua produzione posteriore é già presente, pur se in una veste seminale, nel tentativo di superare il lirismo dell’ermetismo italiano abbracciando quindi un’apertura verso un dettato più marcatamente narrativo – rifacendosi anche a voci, esperienze e realtà regionali, contadine, in opposizione alla realtà urbana – d’altro canto non si può ridurre questa prima esperienza letteraria di Pavese ad una fase embrionale delle seguenti pubblicazioni. È innegabile che l’autore fosse principalmente un notevole narratore, ossia un artista capace di modellare la sua visione del mondo nella stesura di una vicenda, nella caratterizzazione psicologica dei suoi personaggi. Ma è anche vero che la voce espressa dai versi iniziali di Pavese mettono in rilievo alcune tematiche o preoccupazioni care all’autore, come il complesso rapporto che questi manteneva con la figura femminile, reso celebre al pubblico principalmente grazie alle poesie lasciate postume, e pubblicate dopo il suo suicidio, avvenuto il 27 agosto 1950, in una camera d’albergo a Torino, dopo una’ennesima frustrazione amorosa. Questi testi, dieci liriche in tutto – otto in italiano e due in inglese – furono ritrovate ordinate all’interno di una cartella, come se stessero lì, a testimoniare il seguito tragico della vicenda biografica dell’autore. Vennero poi pubblicate, con il titolo emblematico di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, un anno dopo, dall’editore Einaudi, assieme alle nove poesie della raccolta La terra e il mare, del 1947. La prima di queste liriche ci presenta d’entrata, al quinto verso, uno dei temi costanti nell’opera di Pavese, che è il riferimento al suicidio, “il vizio assurdo”, il peso di un’insoddisfazione dell’anima che lo portò a compiere il 1 Docente di letteratura e lingua italiana presso l’Università Federale di Juiz de Fora. 2 gesto finale. Come spesso riferiscono i critici e scrittori che si dedicarono allo studio dell’opera di Pavese, o che lo conobbero personalmente, una delle ragioni attribuite alla depressione e sconforto che lo dominavano per lunghi periodi era l’assenza, durante tutta una vita, di una relazione affettiva stabile e felice. In questo senso, se la donna fu per Pavese una figura spesso sfuggente, “traditrice” – perchè capace di mantenere una relazione intellettuale ricca e stimolante ma incapace di darsi appieno in una relazione amorosa con lui, come avvenne con diverse donne delle quali s’innamorò e con le quali alimentò una densa relazione d’amicizia e di scambio intellettuale - , la sua poesia, già dagli esordi, rivela alcuni tratti che configureranno la personalità della donna cristallizzata poi anche dagli avvenimenti biografici e da lasciti di elementi decadentisti, come possiamo leggere nel suo saggio Analisi di P., che Pavese scrisse per Fernanda Pivano, allora giovane universitaria, per la quale nutrì un’intensa passione amorosa. Nel frammento che riportiamo, è possibile cogliere la lucidità con la quale analizza il suo comportamento davanti al fenomeno dell’innamoramento, e fornisce importanti indizi del suo processo creativo: [...] P. è senza dubbio un solitario perché crescendo ha capito che nulla che valga si può fare se non lontano dal commercio del mondo, è il martire vivente di queste contrastanti esigenze. [...] Che potrà fare un uomo simile davanti all’amore? [...] Una volta che sarà innamorato, P. farà esattamente ciò che gli detta la sua indole e che è appunto ciò che non va fatto.Lascerà capire, innanzi tutto, di non essere più padrone di sé; lascerà capire che nulla per lui nella giornata vale quanto il momento dell’incontro; vorrà confessare tutti i pensieri più segreti che gli passeranno in mente [...] Perchè tanta ingenuità? È evidente: P. fa sul serio, recita sul serio, e si monta come come l’attore di vecchia scuola o come quel trageda dannunziano che voleva che nemmeno la maschera dorata di un suo Atride fosse di “metallo vile”. Ecco la mania di assoluto, di simbolismo [...] P. vuole che ciò che prova sia nobile;significhi, simboleggi una nobiltà sua e delle cose: diventi un idolo, insomma.[...] Qui occorre tener presente che che in P. una passione s’intrica con la sua poesia, diventa carne di poesia, e come tale gli s’identifica col linguaggio, con lo sguardo, col respiro della fantasia [...] Se questo testo venne scritto nel 1940, vi percepiamo aspetti che riprendono e approfondiscono tematiche già insinuate nella raccolta Lavorare stanca. A questo proposito, ci interessa evidenziare, oltre al già riferito lignaggio simbolista-decadentista con le sue sfumature romantiche – percepibile, al di là dell’esplicito dato dannunziato, anche dallo spiccato volo trascendente dell’anima dell’artista, che “si monta”, ossia, tende verso l’assoluto, il sublime, 3 l’idolo – , la rappresentazione della donna come essendo quella figura, o meglio, quell’entità irraggiungibile, incapace di colmarlo e che quindi lo fa sprofondare, ripetutamente, nella solitudine. Vediamo a questo proposito il componimento Incontro, nel quale troviamo tratteggiata con particolare precisione la linea sottile che conduce l’uomo, in questo caso la voce enunciatrice, alla ricerca della completezza nell’emblema femminile che vi si presenta, reso materia grazie alla forza del paesaggio. Una linea che porta anche allo smarrimento, allo sradicamento – concetti essenziali al mondo pavesiano. La poesia s’apre attraverso il rapporto metaforico fra donna e paesaggio, sul quale s’appoggia tutta la lirica: le “dure colline” che forgiarono il corpo dell’uomo (v.1) e che sono metafora della donna, passano l’idea che sia la figura femminile, sia la natura dalla quale questa nasce siano inattingibili nella loro segreta realtà o essenza, come rivela l’ultimo verso della prima strofa: “[...] mi han schiuso il prodigio / di costei, che non sa che la vivo e non riesco a comprenderla”. Poco a poco, nella lirica si profila con maggior chiarezza la similitudine tra gli attributi del paesaggio, in particolare della collina – uno dei miti più cari a Pavese – e quelli della donna, la cui voce “suonò / come se uscisse da queste colline”, una voce che è “netta e aspra insieme, una voce di tempi perduti” (v.9). Il rinvio a una nozione di “tempi perduti”, anticipa i versi sucessivi, nei quali ritorna la stessa idea, rafforzata però da un innalzamento della figura umana alla sfera del mito, che è immutabile ed eterno e che mantiene la sua struttura universale pur nel contesto rurale nel quale si svolge il componimento: “Qualche volta la vedo, e mi vive dinnanzi/ definita, immutabile, come un ricordo./ Io non ho mai potuto afferrarla: la sua realtà/ ogni volta mi sfugge e mi porta lontano [...] Mi accenna negli occhi / tutti i cieli lontani di quei mattini remoti” (vv.10-18). L’enfasi data al campo semantico della lontananza, del remoto, di ciò che si colloca in un toponimo non definibile con precisione, e situato in un tempo anteriore e impreciso, crea una sospensione riferenziale, ossia, l’atmosfera mitica alla quale Pavese fece ricorso per creare il suo universo simbolico: nei miti, infatti, Pavese credeva racchiudersi il codice di lettura e comprensione del mondo. “Il mito – scriveva - è un fatto avvenuto una volta per tutte che perciò si riempie di significati e sempre se ne andrà 4 riempiendo in grazia appunto della sua fissità, non più realistica. Esso avviene sempre alle origini, come nell'infanzia; è fuori dal tempo". Il componimento si chiude con una strofa emblematica: “L’ho creata dal fondo di tutte le cose/ che mi sono più care, e non riesco a comprenderla” (vv.21-22). Esiste una ricerca, da parte dell’autore, di scavare nella propria interiorità per estrarvi queste raffigurazioni mitiche, dell’infanzia, del mondo prerazionale, per cui incomprensibili, e che provocano lo sradicamento esistenziale, fonte della solitudine ontologica contro la quale Pavese luttò tutta la vita, testimoniando l’impegno, la dedicazione, la sofferenza e la sensibilità di un individuo che, condividendo preoccupazioni specifiche della sua era moderna, si individualizzano nella vicenda personale e nell’opera di una vita. Esiste quindi la frustrazione, in coda al componimento, dell’incontro mancato, della donna, del dialogo e dell’amore come mete irraggiungibili, in una poesia il cuo titolo, ora letto come paradossale, ci sembra un tragico augurio o messaggio di speranza lanciato in un oceano di parole, sul fondale del tempo, e approdato oggi alle rive della nostra sensibilità contemporanea.