Sei in ogni mio respiro
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Sei in ogni mio respiro
Il libro «Respira. Respira e basta. Non guardare indietro. È solo dolore.» La vita di Blythe McGuire è ormai da troppo tempo un vortice di pensieri, panico, depressione e apatia. Da quattro anni, per l’esattezza. Da quando un terribile incendio ha portato via i suoi genitori. Per Blythe, quella ferita brucia ancora, oggi come ieri. Ed è impossibile separare i ricordi dal dolore. Un dolore devastante che le toglie il respiro. Come se, ogni giorno, fosse sul punto di affogare e dovesse lottare per non andare a fondo. E ora, all’ultimo anno di college, è stanca, senza più voglia di combattere. Poi, però, qualcosa cambia. Succede quando il suo sguardo incontra quello di Chris Shepherd. Chris la trascina fuori dal torpore che l’avvolge. Si insinua in quella piccola parte di lei che ancora insegue la speranza. Il piacere. E la riporta alla vita. Blythe, seppure con qualche esitazione, comincia ad amarlo. Ma non appena le acque si fanno più calme, si accorge che lo stesso Chris è intrappolato nel proprio passato. Un passato che potrebbe essere più complicato del suo. E lei, forse, è l’unica persona in grado di salvarlo. Perché quando la vita ti trascina in un abisso oscuro, per risalire puoi soltanto nuotare contro la corrente, respirare e amare. Arriva finalmente in Italia Sei in ogni mio respiro, un romanzo intenso, coraggioso e sexy. Con un messaggio che ci tocca da vicino: nella vita, per quanto ci sentiamo annegare e trascinare sempre più a fondo, ci sarà sempre qualcuno a cui aggrapparci, qualcuno che sarà lì per insegnarci di nuovo a respirare. L’autrice JESSICA PARK, autrice bestseller del New York Times, vive nel New Hampshire con la famiglia. Quando non scrive, è possibile trovarla su Facebook a seguire stelle del rock degli anni ‘80. Preferibilmente con un caffè in mano. www.jessicapark.me Facebook: authorjessicapark Twitter: @JessicaPark24 Jessica Park Sei in ogni mio respiro Traduzione di Cecilia Pirovano A Tommy, che è e sempre sarà il mio Sabin. Questo libro è dedicato a chiunque sia sopravvissuto. Siete ancora tutti interi. Nonostante la natura brutale e in apparenza senza scampo del mondo, potete ancora amare ed essere amati. Anche quando vi sentirete annegare e trascinare sempre più a fondo, avrete comunque tempo per aggrapparvi a qualcuno che vi insegnerà di nuovo a respirare. 1 Dal fondo INCIAMPO sul primo gradino davanti al dormitorio e finisco distesa sull’asfalto. Rimango lì per un momento, a pensare che con le chiavi conficcate nella mano dovrei sentire più male. Per non parlare delle ginocchia, visto il colpo che si sono appena prese. «Benissimo», mormoro, poi mi rialzo e arranco fino alla porta. Rido tra me mentre a fatica cerco di infilare la chiave nella toppa. La buona notizia è che, se davvero ho preso una bella botta come credo, forse domani proverò qualcosa. Sempre meglio che non provare niente, no? Quasi mi merito una medaglia. Non che questa sia una gran vittoria però, andrebbe bene anche una medaglia di bronzo. Mi appoggio alla porta per tenermi in equilibrio, mi sembra immensa. Aspetta, cosa vale ancora meno del bronzo? Il ferro? Lo zinco? Le fanno le medaglie di zinco? Dopo aver armeggiato un po’ con la serratura, capisco che sarà difficile entrare in un dormitorio nel Wisconsin con la chiave della mia casa vicino a Boston. Alla fine infilo quella giusta. «Ce l’ho fatta!» sussurro trionfante. La grossa porta in metallo è pesantissima e non riesco a spalancarla del tutto, quindi mi appiattisco contro lo stipite e striscio attraverso la stretta apertura. Un’altra vittoria! penso con la mente annebbiata. Tra i postumi della sbronza e le varie botte che ho preso, so già che domani starò da schifo. E così continuerà la mia infinita ricerca di sensazioni fisiche e non. Di qualsiasi cosa. Ma anche adesso che sono ubriaca marcia, sono sicura che difficilmente i lividi lasciati da una notte di alcol si possano considerare un passo avanti sul piano emotivo. È già qualcosa, però. Qualcosa di diverso dal torpore. Almeno una distrazione, e le distrazioni sono sempre le benvenute. Le scale sono inondate da un’orrenda luce al neon. Sono deserte, anche se a quest’ora so che da un momento all’altro potrei incontrare uno studente come me, che rientra barcollando abbracciato alla sua scopata-da-una-notte. Non riesco proprio a capire come faccia la gente a scopare in questo posto. Chiunque sembri anche solo vagamente attraente in un ambiente normale perde il proprio fascino non appena entra qui dentro. Gli occhi annebbiati dalla birra non vanno d’accordo con questa luce crudele. Mi appoggio alla parete del pianerottolo del primo piano e tiro fuori dalla tasca il telefonino. Il mio riflesso sul piccolo schermo nero conferma i miei sospetti: i riccioli già disordinati di natura sono sfuggiti dalla coda e ora formano una specie di aureola crespa intorno alla testa. E riesco persino a vedere le borse sotto agli occhi. Sembro una pazza. «Sembro una pazza!» strillo, accompagnata dall’eco delle mie parole strascicate. Ma forse sono sempre così? Non che me ne freghi più di tanto. In realtà non passo molto tempo davanti allo specchio o a preoccuparmi della mia immagine. Ho l’aspetto che ho, punto. Tutto sommato, non importa. Tanto non ci fa caso nessuno. Però sì, devo ammettere che stasera sembro davvero una pazza. Quando arrivo alla mia camera, apro con una spinta la porta che non avevo nemmeno chiuso a chiave. Per fortuna non ho una compagna di stanza che possa lamentarsi di tutto il rumore che faccio. Se n’è andata qualche giorno fa – penso per vivere con qualcuno meno catatonico – quindi ora ho questa doppia tutta per me. Come non capirla, poverina. Se ci si ritrova in trappola in un campus relativamente piccolo appena fuori Madison, nel Wisconsin, è meglio circondarsi di gente allegra. Attraverso la stanza buia, sbatto l’alluce contro un libro – quasi di certo quello di antropologia – e crollo sul futon. Già, il mio grande futon. L’ho sostituito al letto singolo fornito dal dormitorio, e vedendolo chiunque penserebbe che sono il tipo che si porta i ragazzi in camera. Ma in quel campo sono una frana totale. Aggiungi anche questo alla cazzo di lista. Ho perso il conto degli studenti che, imbottita di alcol, ho illuso e poi respinto prima che potesse succedere qualcosa. Il pensiero delle mani di qualcun altro addosso mi dà la nausea. Non è normale, lo so, ed è per questo che, quando bevo, fare del sano sesso occasionale mi sembra sempre un’ottima idea. Sarei come tutte le altre ventunenni che tornano a casa alle prime luci dell’alba. La camminata della vergogna, la chiamano. Ho sentito raccontare un milione di volte di queste presunte notti disonorevoli, tra risatine e dettagli sconci. Io, quando voglio, so attrarre un ragazzo. L’alcol mi dà questo potere. E i maschi rispondono, anche se non ho idea del perché. È naturale voler entrare in contatto con gli altri, credo. Solo che io non voglio. Non sul serio. Dev’essere per questo che non ho amici veri. Io bevo e recito la mia parte nella speranza che, volendo intensamente una cosa, questa succederà sul serio: se riuscissi a fingere abbastanza a lungo, magari potrei creare un legame e, forse, riuscire a sentirmi di nuovo completa. All’inizio la commedia è divertente, ma poi, quando a fine serata mi scontro con la realtà e vengo travolta dalla mia intollerabile solitudine, mi sento ancora peggio. Lo so che non è una mossa molto furba illudere i ragazzi e poi scappare via quando cercano di toccarmi. Ma io ho una mia strategia. Spesso confesso che sono vergine, la rivelazione perfetta per congelare le voglie di qualsiasi maschio. È stata una scoperta piuttosto buffa. Pensavo che a un ragazzo piacesse l’idea di essere il primo. Nessuna ansia da prestazione acrobatica o chissà che altro, dal momento che sono una sprovveduta. A quanto pare, però, gli intelligenti e bravi studenti di questo piccolo college nel bel mezzo della tundra innevata del Wisconsin non vogliono prendersi la responsabilità di deflorare una studentessa ubriaca. Chi l’avrebbe mai detto. Comunque, ogni volta mi assicuro che non ci sia mai nulla di fisico, mettendo da parte il mio grande desiderio di trovare una via di fuga, per quanto temporanea. Ma in fondo so benissimo che non mi divertirei, considerato che la mia eccitazione raggiunge livelli degni di un sasso. Ecco, aggiungiamo anche frigida alla lista. A quello stupido inventario mentale che mi sforzo così tanto di non fare. Un elenco sempre più lungo di tutti i miei difetti. Le mie inadeguatezze. I miei fallimenti. Dovrebbe esserci anche una lista dei miei successi, no? O almeno delle mie… adeguatezze? Cerco di concentrarmi. È difficile con tutto questo cazzo di alcol, ma ci provo. È importante. A scuola me la cavo. Mi faccio la doccia regolarmente. So un sacco di cose sulle maree. Mangio praticamente di tutto, tranne l’uvetta. Cristo. Mi concentro di nuovo. Sarò anche ubriaca, ma posso fare di meglio. Ho piena padronanza dell’arte della malinconia. Dubito che tutto ciò si possa anche solo vagamente considerare un «successo». Mi rimetto a pensare, determinata a trovare qualcosa che ho fatto e che meriti di essere citato. Ho vissuto. Dalle labbra mi scappa una risata orribile, un suono amaro che riecheggia nella stanza semivuota. «Sono proprio come Harry Potter!» strillo. «Cazzo!» Mi metto a sedere e mi tolgo le scarpe lanciandole via con un calcio. Ho ancora il telefono in mano e lo guardo confusa. Mi gira la testa. Non mi arrendo mai con mio fratello. Questo nella lista dovrebbe andare tra i «successi». Senza riflettere né pensare a cosa dire, lo chiamo. «Cristo, Blythe. Che cosa vuoi?» borbotta James. «Scusa. Ti ho svegliato, vero?» «Sì che mi hai svegliato. Sono le tre di notte.» «È così tardi lì? Be’, sei al college anche tu. Pensavo che stessi rientrando adesso.» Rimango in attesa, ma lui non dice niente. «Come vanno i corsi? E la gamba? Scommetto che diventi più forte ogni giorno che passa.» «I corsi vanno bene, e piantala di farmi domande sulla gamba, ok? La tiri in ballo ogni volta che ci sentiamo. Basta. Meglio di così non potrebbe andare, cioè va di merda. Piantala di chiedermelo.» Lo sento sbadigliare. «Sul serio, va’ a letto.» L’irritazione evidente e il disgusto nella sua voce mi bruciano dentro. «James, ti prego. Mi dispiace.» Dannazione. Dal mio tono si capisce che ho bevuto. «Non parliamo mai. Volevo sentire la tua voce. Volevo sapere se stavi bene.» Sospira. «Sì, sto bene. Tu invece sembri messa male.» «Come sei gentile.» «Be’, è vero.» Fa una pausa. «A mamma e a papà non piacerebbero queste stronzate. Lo sai. Non puoi… Non possiamo parlarne un’altra volta?» «Mi dispiace così tanto per tutto. Ho bisogno che tu lo sappia. Che tu lo sappia davvero. Le cose potrebbero andarti meglio. Voglio solo…» «No. Non ora, non di nuovo. Non faremo ancora questo discorso del cazzo.» «Ok.» Fisso l’oscurità fuori dalla finestra. Siamo alla fine di settembre, e so cosa accadrà. Nulla di buono. Come ogni anno. «Certo, James.» Al ridicolo tentativo di usare un tono allegro e disinvolto mi si incrina la voce. «Parleremo presto. Abbi cura di te, James.» È andata bene, penso. Non mi aspettavo di meglio. Se chiami qualcuno nel cuore della notte e sei ubriaco, è scontato che sarà un fallimento. Lo so perché mi è già capitato. La cosa tragica è che, dopo ogni stupida chiamata a mio fratello, mi riprometto che la prossima volta andrà meglio. La cosa schifosa è che quando poi gli telefono da sobria durante il giorno non va meglio; finisce sempre con una conversazione formale e imbarazzata. Con un profondo sospiro, accendo la torcia dall’app sul cellulare. Adoro il fatto che non preveda solo una normale luce bianca, ma mi permetta di scegliere il cavolo di colore che voglio. Appoggio il telefono sul letto, e parte della stanza si illumina di un inquietante blu elettrico. Quando mi alzo e mi avvio verso il piccolo lavandino, tutta l’energia indotta dall’alcol è svanita. Mi ci vogliono diversi tentativi, ma alla fine lego i capelli lunghi e disordinati in uno chignon alto. Qualche ricciolo sfugge dall’elastico e mi ricade intorno al viso. Non ce la faccio a guardarmi perché non sopporterei di vedere una ragazza con così poche speranze. Di una debolezza imperdonabile. Mi sento umiliata dalla mia inettitudine. Giuro a me stessa di trascorrere almeno le prossime ventiquattro ore senza bere. Dal rubinetto esce acqua gelata. Me la getto sul viso. Non smetto fino a che non ho più lacrime calde da sciacquare via. 2 Gesti importanti LE sei di sabato mattina non sono esattamente l’orario ideale per svegliarmi. Fulmino l’orologio con lo sguardo. Be’, ormai non posso farci niente. Sono sveglia. Le cose sono due: o mi alzo e affronto la giornata, o resto a letto ancora per qualche ora, a farmi risucchiare nello spiacevole e familiare vortice di pensieri, panico, depressione e apatia che da quattro anni ormai domina la mia vita. Meglio alzarsi. Batto le palpebre al buio e, per l’ennesima volta, mi sento stanca, senza più voglia di combattere. Me n’ero accorta già ieri, quando ho incontrato il mio quinto, e spero ultimo, tutor, una tizia di nome Tracey. A sentire lei, non sarà difficile resuscitare la mia carriera universitaria. Ovviamente non sa con chi ha a che fare. O forse si è dimenticata che mi restano solo otto mesi prima della laurea. Faccio un bel respiro e muovo le dita dei piedi. Se non altro non devo fare i conti con i postumi di una sbronza, perché ho tenuto fede alla promessa di resistere per ventiquattro ore senza bere. È un cambiamento mica da poco. La disastrosa telefonata a mio fratello dell’altra notte mi ha reso cosciente di ciò che sono capace di fare da ubriaca e mi ha riempita di tristezza. Per non parlare di quanto sia stato orribile incontrare Tracey con quel doposbronza epocale. Sono abbastanza certa di aver lasciato sulla sedia del suo ufficio una pozza di sudore misto a residui di alcol. Accendo la lampada sul comodino e scosto il lenzuolo. Sono davvero fortunata a non avere una compagna di stanza che brontoli per i miei orari strani. La luce gialla mi illumina il corpo, e mi metto a sedere. Mi scappa una smorfia nel vedere le mie gambe, ancora coperte di lividi che mi sono fatta quando ero ubriaca fradicia due notti fa. Va bene che di solito non bado più di tanto al mio aspetto, ma oggi non posso non accorgermi di quanto sia terribile, e non solo per i lividi. Ho un urgente bisogno di depilarmi le gambe e l’inguine e, dopo un attento esame, giungo alla conclusione che potrei anche fare dello sport ogni tanto. Andare avanti con tanta birra e tequila e poco cibo non fa bene al corpo. Sai che novità. Batto i piedi uno contro l’altro e mi guardo le cosce, ossute e flosce. Un mix davvero attraente. Tiro con troppa forza la veneziana dell’unica ampia finestra della stanza e faccio un gran casino. Fuori è ancora buio, ma quando ci si sveglia si alzano le tende, o almeno così fa la gente normale. È un gesto importante e, per qualche strano motivo, penso che forse oggi sarà il giorno buono per fare dei gesti importanti, magari addirittura per creare un vero e proprio legame con il mondo reale. Ho già preso la decisione di alzarmi presto e di non bere per altre ventiquattro ore. È già meglio di quanto abbia fatto da molto tempo a questa parte. Mi infilo dei jeans e una felpa con il cappuccio, lego i capelli e mi lavo i denti, poi ficco qualche libro nello zaino e vado alla caffetteria del campus. Se ho intenzione di fare altri gesti importanti oggi, avrò bisogno di un caffè prima. A quest’ora la caffetteria, di solito affollata di studenti, è deserta, a eccezione della sfortunata vittima costretta a lavorare dietro al bancone. «Caffè?» mi chiede il ragazzo. «Due, grazie. Americani. Senza latte.» Lo vedo sbirciare alle mie spalle. «Sì, sono tutti e due per me.» Lo osservo mentre lavora tamburellando le dita sul bancone. «Ecco.» Chiude con un coperchio i bicchieri usa e getta e passa il mio badge nel lettore. Dopo averlo ringraziato, mi guardo intorno. Di solito mi metto vicino all’uscita di emergenza ma, visto che oggi non c’è nessuno, mi siedo al centro della sala e appoggio i piedi su una sedia. Al primo sorso, il caffè è così forte e amaro che faccio una smorfia, ma so che al quarto andrà giù senza problemi. Come gli shot! penso. Controllo il cellulare. Sono passati due giorni e non ho ancora ricevuto messaggi da James. Non che me lo aspetti, a essere sincera, ma la speranza è l’ultima a morire. Ah, ci risiamo. La speranza. Magari una sera mi chiamerà lui dopo una festa, ubriaco, per farmi quelle domande sconclusionate e incoerenti che ormai sono alla base del nostro rapporto irrimediabilmente rovinato. D’un tratto, mi sento un’idiota. Si può sperare una cosa più stupida? Dovrei augurarmi una conversazione sincera da sobri, per risolvere tutte le questioni di cui non abbiamo mai parlato e tornare a essere migliori amici. Come una volta. Faccio una smorfia. Come se fosse possibile. È un bene che lui vada al college in Colorado, lontano da me, così non deve temere che di punto in bianco mi presenti alla porta della sua stanza. Chiudo gli occhi e inspiro a fondo. Devi solo arrivare alla fine di questo giorno, Blythe. Puoi farcela, cazzo. Certo, sarebbe stato meglio se non mi fossi svegliata all’alba, allungando la giornata più del necessario. Ma ormai mi sono alzata, sono uscita, sto bevendo un caffè e ho persino infilato le cuffie per ascoltare la radio. Di solito non ascolto musica. Non più. Prima, quando tutto andava bene, trascorrevo ore a saltare da una stazione all’altra, scaricavo canzoni e ballavo in camera mia. Guidavo la Honda dei miei genitori e mi perdevo nella musica. Una musica che aveva un cuore. Che mi regalava emozioni. E mi divertivo a fantasticare sul futuro. Vado sul sito dell’emittente nazionale NPR e passo in rassegna diverse storie. Alla fine ne scelgo una che si preannuncia piuttosto disgustosa su un ex vegano che ha riscoperto la carne. Verso la fine, quando salta fuori che il piatto preferito dell’ex vegano sono i piedini di maiale, qualcuno si lascia cadere pesantemente sulla sedia davanti a me. «Ehi! Mi hai preso un caffè! Sei stata davvero gentile.» Alzo lo sguardo, stupita. Mi trovo di fronte un ragazzo dall’aspetto trasandato con una maglietta strappata e dei jeans. Si toglie un cappello da cowboy e vedo dei capelli neri tutti arruffati – ma adorabili, devo ammetterlo – e una barba di almeno tre giorni. Anche se arrossati, i suoi occhi sono di un azzurro penetrante. È grande e grosso. Non grasso, robusto. A giudicare dall’odore che emana, direi che la sua pancia è dovuta soprattutto alla birra. A colpirmi però è il sorrisone che ha stampato in faccia. Be’, oltre al fatto che si sta bevendo il secondo caffè che mi sono appena comprata. «Questo caffè non è poi così male», dice dopo averne assaggiato un sorso. «È vero che a tutti piace lamentarsi che il caffè del campus è un intruglio imbevibile, ma è solo una scusa per farsi dare dei soldi da mamma e papà e andare in quel posto con dei prezzi esagerati appena qua fuori. Com’è che si chiama? Chicchi, Chicchi, vero? Che nome stupido. Non per lo spettacolo teatrale a cui sto lavorando però, che si chiama proprio Chicchi, Chicchi: il Musical. Visto che sei stata così generosa da offrirmi questo caffè, ti ringrazierò con dei posti in prima fila. E dei pass per andare dietro le quinte! Aspetta di conoscere il tizio che interpreta il Macinatore Cattivo Numero Tre. Sul palco fa una paura d’inferno, ma in fondo è proprio una brava persona.» Si interrompe per bere un lungo sorso, poi batte un pugno sul tavolo e sorride. «Cazzo se scotta, eh? Proprio come piace a me.» Lo guardo stupita, aspetto che la pianti con questa sceneggiata. Lui però continua a fissarmi, con la testa inclinata di lato, mentre io cerco di capire che fare. Si sporge verso di me. «È troppo?» Sì, svitato che non sei altro, direi proprio che è troppo. Ma non rispondo. Allunga una mano. «Sono Sabin.» «Blythe.» Gliela stringo. Anche se di solito il contatto fisico mi innervosisce, mi sento stranamente a mio agio mentre la sua grande mano avvolge la mia. Chissà perché, il suo tocco mi calma. «Blythe, è un vero onore conoscerti.» Mette l’altra mano sopra la mia, prima che riesca a ritrarla. «Ora dimmi, cosa ci fai in piedi così presto?» «Io… non lo so.» Sono confusa. Chi è questo ragazzo? «Non riuscivo a dormire. E tu cosa ci fai in piedi così presto?» «Mi hai beccato! Anche se, nel mio caso, la domanda dovrebbe essere: cosa ci fai ancora in piedi?» Gli rivolgo un sorriso timido. «Oh, capisco.» Restiamo seduti in silenzio per qualche istante. Lui stringe ancora la mia mano tra le sue e mi guarda, in attesa. Dovrei tirarla via, ma non ci riesco. Questo ragazzo è troppo strano e tenero. «Non mi chiedi come mai non sono ancora andato a letto? Visto che siamo amici intimi, i miei spostamenti dovrebbero essere una questione di una certa importanza. Dovresti impazzire per la curiosità ormai. Sabin ha passato la notte al karaoke di un parco divertimenti? È stato rapito da capre aliene vestite da cowboy?» Indica il cappello sul tavolo e inarca un sopracciglio. «E sottoposto a un’umiliante, anche se eccitante, perquisizione corporale? Oppure un tatuatore benintenzionato ma inetto e strafatto ha sbagliato a scrivere DIO, CREDO IN TE e l’ha marchiato per sempre con BIO, CREDO IN TE?» «Oh.» Nonostante questo strano discorso, non mi sento a disagio come spesso mi capita quando parlo con qualcuno che non conosco, sono semplicemente un po’ smarrita. «Avrei dovuto chiedertelo subito. Scusa.» Cerco di riprendere il controllo della situazione e mi domando se questo tipo non stia flirtando con me. Non mi pare. «Allora», dico, «perché no?» «Perché no cosa?» Oh Signore. «Perché non sei ancora andato a letto?» «Oh! Già!» Non allenta la stretta, ma si alza costringendomi a imitarlo e si preme la mia mano sul petto. «Ho conosciuto una donna, quindi tecnicamente sono già andato a letto. Solo che non ho dormito. Si chiama Chrystle ed è eterea. Bella da togliere il fiato. E», aggiunge con un occhiolino, «angelica nel modo meno angelico possibile. Mi sono innamorato.» Non riesco a trattenere una risata. Soprattutto perché adesso sono certa che non ci sta provando con me. È già innamorato. O almeno arrapato. «Sei stato salvato da una brava ragazza?» gli chiedo. «Per ora.» Altro occhiolino. Mi lascia andare la mano, torna a sedersi e si rimette il cappello da cowboy. «Bene, ora sai tutto ciò che c’è da sapere su di me. Parlami di te, adesso, signorina Blythe. Sei al primo anno?» «Che cosa?» ribatto, troppo sulla difensiva. «No, sono all’ultimo.» «Scusami. Hai quell’aria da agnellino sperduto. Sei dolce. Te ne stai seduta qui da sola, con uno zaino probabilmente pieno di libri costosi… conosco il tipo. E poi, io sono al terzo e non ti ho mai vista in giro, o almeno non mi sembra. E a quanto pare tu non sai chi sono.» «Capisco, credo, ma in realtà il mio zaino non è così pieno di libri. E non me ne vado ‘in giro’ più di tanto. Diciamo piuttosto che ormai sto contando i giorni che mancano alla laurea.» Alzo le spalle. Non che sia del tutto vero, s’intende, visto che non ho dei programmi particolari per dopo, ma è un modo come un altro per spiegare come mai non partecipo alla vita del campus. «Dovrei conoscerti, per caso?» «Se non sei un’amante del teatro, probabilmente no. Quando non faccio la corte alla popolazione femminile, sono in scena. Quindi non mi hai visto nello Zoo di vetro? Ho fatto un’esibizione niente male, se permetti. E l’inverno scorso ho diretto Casa di bambola.» Attende, ansioso, una mia reazione. «No? Nulla?» Lo fisso perplessa. «Mi spiace.» «Mi sento offeso. Tanto. Considerando che adesso siamo amici intimi, d’ora in avanti mi aspetto che tu venga a ogni mio spettacolo. Affare fatto?» «…‘adesso siamo amici intimi’?» Questa scenetta è al tempo stesso disarmante e divertente. «Sì. Non pensi? Mi sembra giusto.» «Certo», annuisco. In effetti, qualcosa fra di noi c’è. E l’atmosfera nella sala è cambiata. Perlomeno per me. «Allora verrai a vedermi nell’Importanza di chiamarsi Ernesto? La prima è tra quattro settimane.» «Ok, verrò.» È più facile dire di sì che cercare di spiegargli la mia avversione per gli eventi mondani. Almeno per quelli dove non si beve. «E, in cambio, io verrò a qualsiasi cosa mi inviterai.» «È… bello da parte tua. Non mi viene in mente nessuna occasione da proporre nell’immediato futuro, ma ti terrò presente.» Giocherello con il coperchio del bicchiere per evitare di guardare Sabin. Dev’essersi accorto anche lui di quanto siamo diversi. Sono mortificata ma sento che, se fossi onesta con lui sulla totale inconsistenza della mia vita sociale, potrebbe interpretarla come una richiesta di aiuto. E questa è l’ultima cosa che voglio. «Ehi… aspetta un attimo!» esclama lui tutt’a un tratto. «Io ti ho già visto! Tu tracanni più birra di ogni ragazza che abbia mai incontrato!» «Oddio.» Mi prendo la testa tra le mani. «Sono amico di una vera e propria campionessa. È fantastico.» Incrocia le braccia sul petto, raggiante. «Fantastico, ecco. È davvero, davvero fantastico», mormoro. «Senti, nuova amica Blythe, ti ringrazio tanto per il caffè ma devo tornare in camera mia e dormire un po’.» Prende il mio cellulare e si mette a scrivere qualcosa, poi tira fuori il suo e mi costringe a dirgli il mio numero. «Ecco. Adesso ognuno ha il numero dell’altro. In che dormitorio sei? Io sto a Leonard Hall, stanza 402, se ti va di fare un salto.» «Ok. Io sto a Reber, stanza 314.» «Su col morale.» Si china e mi dà un bacio sulla guancia. «Sei bella quando sorridi.» E poi esce dalla caffetteria come un tornado, e si avvia verso destra. Scuoto la testa. È stato… è stato… Diciamo che è stato carino. In realtà, sono visibilmente commossa. E un attimo dopo mi sento schiacciata, completamente sopraffatta dalla tristezza. Questo breve scambio di battute è la cosa migliore che mi sia capitata da un sacco di tempo a questa parte. Non è una cosa maledettamente orrenda? Certo, questo ragazzo non ha idea di quanto io sia incasinata e, se avesse saputo quanto sono stupida e demoralizzata, probabilmente non si sarebbe mai avvicinato a me. Sospiro. Prima o poi lo scoprirà. Probabilmente non appena smaltirà la sbronza. In realtà dopo questo incontro mi sento piena di energie, quindi prendo quel che resta del mio primo caffè – Sabin si è portato via il secondo – e mi dirigo verso il lago. Oggi potrò dire di aver fatto qualcosa di inaspettato. Questa passeggiata sarà il mio gesto importante. 3 Il ragazzo che fa rimbalzare i sassi sull’acqua TIRO fuori gli occhiali da sole dallo zaino e mi incammino. Sarà una lunga passeggiata. Per quanto sconcertante, l’incontro con Sabin mi ha lasciato un insolito buonumore e mi ha fatto venire voglia di avvicinarmi per la prima volta a questo specchio d’acqua. È davvero stupido che non mi sia mai venuta prima, soprattutto dopo aver fatto domanda solo in college vicini all’acqua. Per quattro anni non mi sono mai avventurata fino al lago, è vero, però ho sempre saputo che c’era. E forse è questo che conta. Nonostante il mio umore altalenante, la vicinanza dell’acqua mi dà una certa stabilità. Chiudo la zip della felpa perché l’aria del mattino è fresca, anche se il sole la sta già scaldando; tra qualche ora ci saranno una ventina di gradi. È bello stare all’aperto. Dopotutto, si dice che la luce del sole aiuti contro la depressione. Non che io mi consideri depressa. Ok, presento diversi sintomi, ma penso di avere dei buoni motivi. Chiunque nella mia situazione sarebbe depresso, no? E poi il concetto stesso di depressione è… be’, deprimente. Non tiene conto del fatto che io possa essere più che giustificata a sentirmi così. Sono spesso apatica e passo metà del mio tempo a bere fino a non capire più niente, e allora? Non me ne sto mica sempre a piangere. Ripenso al manuale di psicologia e, con una smorfia, mi rendo conto che i miei sintomi combaciano alla perfezione con la definizione clinica. Ok, ok. Sono depressa. Ecco, adesso l’ho detto. La cosa interessante però, almeno da un punto di vista umano, è che sono dolorosamente consapevole delle mie sensazioni e dei miei sintomi, ma non riesco comunque a scrollarmeli di dosso e ad andare avanti. Sono bloccata, direi. Il che ha senso, visto che «bloccata» è praticamente un sinonimo di «depressa». Lascio perdere questo misero tentativo di autoanalisi, mi infilo le cuffie nelle orecchie e per il resto del tragitto ascolto il podcast delle ultime notizie. Arrivata al lago, trovo un sentiero che attraversa un fitto sottobosco e sbuca su una spiaggetta di ciottoli costeggiata da prati. È incantevole, soprattutto a quest’ora. Mi tolgo le cuffie. C’è un silenzio totale, rotto solo dallo sciabordio dell’acqua. A quanto pare sono sulla riva meno frequentata, perché su quella opposta vedo una spiaggia più grande e alcune barche ormeggiate. Mi siedo nel terreno sabbioso, fino a trovare una posizione comoda. L’aria fresca mi rinvigorisce. Finalmente riesco a respirare. Perché non sono mai venuta qui? Be’, lo so il perché. C’entra il rapporto di amore e odio che ho con l’acqua. Be’, soprattutto di amore. Anche se mi ricorda un passato a cui mi aggrappo e da cui al tempo stesso vorrei scappare. Da quando studio al Matthews non sono mai stata su questa spiaggia. L’importante era sapere che c’era. Volevo venirci solo quando mi fossi sentita pronta. E a quanto pare oggi sono pronta, perché stare qui è magnifico. La luce è straordinaria. Foto e quadri non rendono mai giustizia alla luce del mattino, dal vero è molto meglio, proprio come in questo momento. Non sempre la realtà mi è amica – d’altra parte, neppure i sogni possono esserlo sempre – ma questo istante, questa realtà, sono bellissimi. Per una volta, davanti all’acqua e al sole che inizia a solcare il cielo azzurro terso, sono da sola eppure non mi sento sola. Poi però scruto la riva, e mi accorgo che non è vero. Non sono sola. C’è un ragazzo a una ventina di metri da me, proprio vicino all’acqua. Indossa solo dei vecchi jeans e delle scarpe da tennis blu ed è a torso nudo. Sta fissando il lago e il suo profilo si staglia contro la luce sempre più forte. I capelli neri gli ricadono fin quasi alle spalle in piccole onde. Dev’essere alto almeno un metro e ottanta, con un fisico bello e slanciato. Non è grosso come chi solleva pesi, ma sembra incredibilmente forte. Lo osservo con tale intensità che mi rendo conto di trattenere il fiato, e allora mi costringo a inspirare ed espirare a fondo. D’un tratto, vengo colta da una certezza cristallina: questo ragazzo è sicuro di sé, è fiducioso e concentrato. Non riesco a distogliere lo sguardo. Lui studia il terreno, lo smuove con i piedi e poi si piega per raccogliere qualcosa. Chissà come, capisco ciò che sta per fare prima ancora che lo faccia e, quando allunga il braccio dietro di sé e poi scaglia un sasso verso l’acqua, non riesco a trattenere un sorriso. Cerco di contare i rimbalzi. Uno, due, tre, quattro, cinque… È difficile vedere bene dalla mia posizione. Lui si sposta di qualche passo e setaccia il terreno in cerca di altri sassi. Ne lancia un altro. E poi un altro ancora. I suoi movimenti sono fluidi. Lo fa spesso; si capisce dai gesti puliti, abili e dal ritmo. Mi colpisce quanto sembri libero, più libero di quanto io sia o potrò mai essere. Lo guardo di nuovo trattenendo il respiro. Non so come mai mi sento così attratta da questo sconosciuto, ma è così, una sensazione nitida. Riprende a scrutare il suolo, poi si infila una mano nella tasca davanti dei jeans e lancia un altro sasso. Furbo il ragazzo. Si è portato la sua scorta. Per creare lo spettacolo degli anelli sulla superficie dell’acqua, i sassi devono essere perfetti. Lo so perché da piccola li cercavo anch’io. Nonostante i miei continui sforzi per imparare, però, non sono mai stata brava. Questo ragazzo invece è un vero maestro. Inspiro ed espiro di nuovo. Sono sconvolta, e mi chiedo perché: in fondo lo sto solo guardando. Un pensiero che non capisco mi attraversa la mente. Lui è il passato, il presente e il futuro. Scuoto la testa con forza. Cosa diavolo mi prende? È perché ieri sera non ho bevuto? Forse ho una strana crisi d’astinenza da alcol. Forse dovrei tornare nella mia stanza e mettermi a letto. Ma sono troppo attratta da questo ragazzo e non riesco a decidermi ad andarmene. Ignoro l’impulso di correre via, mi sdraio appoggiandomi sui gomiti e mi godo lo spettacolo. Dopo venti minuti, lui è ancora lì. Mi piace che si prenda del tempo prima di lanciare, che valuti l’acqua e accarezzi il sasso che ha in mano per qualche istante, per saggiarne la forma, la consistenza e il peso. Dopo ogni lancio fa una pausa e aspetta che le increspature create dal sasso scompaiano, lascia il tempo all’intero processo di compiersi, dall’inizio alla fine. Senza sapere bene come mai, mi alzo e gli vado incontro. Lui deve avermi vista con la coda dell’occhio, perché si gira appena verso di me e sorride. Dal punto in cui mi trovavo sulla spiaggia era difficile ignorare i suoi muscoli, ma non mi aspettavo che avesse un viso tanto stupendo. A mano a mano che mi avvicino, rimpiango di non essermi tenuta a distanza. Per poco non mi scappa una smorfia nel vedere l’angolo perfetto della sua mascella… Brutto segno. Di solito, chiunque sia così bello è anche odioso. Non mi importa del mio corpo e di rado faccio attenzione a quello degli altri, ma è difficile non notare addominali come i suoi. «Ciao», mi saluta. Ops. Lo sto fissando. E non negli occhi. Ha le braccia più belle e definite che io abbia mai visto. «Scusa. Ehm… Ciao», farfuglio alla patetica ricerca di qualcosa da dire e, quando alzo lo sguardo, è ancora peggio. Lui si scosta i capelli dal viso. Davanti a quegli occhi verdi, incastonati da folte sopracciglia scure, mi tremano quasi le ginocchia. È ridicolo. È solo un essere umano. Inspiro ancora e cerco di giudicarlo con occhio critico. Dopo qualche secondo, arrivo con sollievo alla conclusione che probabilmente non incarna l’ideale di perfezione di ogni ragazza. È un po’ troppo magro, forse, e ha il naso leggermente storto. Ovviamente a me piace proprio per quello. Ciò che è imperfetto per gli altri è spesso perfetto per me. «Ciao», ripete lui. Pare divertito. «Ho visto che giochi a rimbalzello», dico d’impulso. «Sei proprio bravo.» «Anni di pratica.» Imbarazzata, contraggo le dita dei piedi nelle scarpe. Quanto vorrei essermi tenuta a distanza. Non so cosa ci faccio qui. «Io… io non sono mai stata capace. Da piccola ci ho provato, ma i miei sassi andavano a fondo come mattoni.» «È successo anche a me un sacco di volte. Devi lanciare con una certa forza, ma anche con attenzione.» Annuisco. «Be’, scusa se ti ho disturbato. Volevo solo dirti che è stato bello da vedere.» Dopo una breve pausa, riformulo la frase, sentendomi quasi sfacciata. «Cioè, te. È stato bello vedere te.» Mi giro per andarmene, stupita da quello che ho appena detto. «Ehi», mi ferma. «Vuoi che ti aiuti? Se vuoi posso darti qualche consiglio.» Mi volto. Cercare di resistere sarebbe del tutto inutile, lo so. «Se non ti dispiace, sarebbe… figo.» Al momento «figo» è la parola migliore che mi venga, perché lui mi ha resa più matta del solito e non so come mai. «Sono Christopher Shepherd, comunque. Chris. Come preferisci.» «Tu cosa preferisci?» «Quello che preferisci tu.» Sorride. «E tu sei?…» «Blythe McGuire.» «È un piacere conoscere un’altra appassionata di rimbalzello.» Mi incanto nell’osservare che un angolo della sua bocca, quando sorride, è leggermente più in alto rispetto all’altro. Mi rende nervosa e mi tremano le gambe. «Penso di aver esaurito i sassi buoni in questa zona, ma se ci spostiamo un po’ dovremmo riuscire a trovarne altri.» «Ok.» Fa un cenno verso sinistra. «Proviamo da questa parte?» «Sì, se vuoi.» «Prendo la maglietta e ti raggiungo.» Fingendo di cercare i sassi, inizio a incamminarmi con gli occhi fissi a terra, perché altrimenti lo seguirei con lo sguardo. Lui mi sembra… non saprei. Qualcosa. Non so di preciso cosa, ma so che mi piacerebbe non avere addosso questa felpa di merda, anche se non credo che avrei potuto trovare di meglio nel mio armadio. Avverto la sua presenza al mio fianco. «Cosa ci fai qui così presto?» mi chiede. «Non riuscivo a dormire. E tu?» «Chi vorrebbe perdersi tutto questo?» Con la mano indica il lago che brilla alla luce del sole. «È un vero spettacolo.» Gli getto un’occhiata. Si è messo una maglietta nera sbiadita. «Non hai freddo?» «Mi piace. Mi sveglia. Prima che arrivassi tu, stavo pensando di spogliarmi e fare una nuotata.» «Non ci credo.» Alzo lo sguardo. Svetta sopra al mio metro e sessanta. «Assolutamente sì.» Sta sorridendo. «Ora stai correndo il rischio di farti prendere per un esibizionista.» Lui si inginocchia, raccoglie un sasso e se lo infila in tasca. «Cos’è un piccolo rischio di tanto in tanto?» Mi supera con uno scatto, si gira e si mette a camminare all’indietro, guardandomi mentre parla. «I rischi ti fanno sentire vivo. Ti fanno schiantare contro il presente. Ti tengono all’erta e con i piedi per terra.» «Faccio già abbastanza fatica a gestire il presente così, grazie, anche senza fare il bagno nuda.» «Tecnicamente non sarei stato nudo, avrei tenuto addosso qualcosa.» Nella mia testa balena l’immagine di questo ragazzo in boxer e mi ci vuole un attimo per riprendermi. Mi sforzo di continuare a camminare facendo finta di nulla, seguendolo mentre prosegue all’indietro. «Studi?» mi chiede. Annuisco. «Dove?» «Sono all’ultimo anno al Matthews.» Lui si blocca e per poco non gli vado a sbattere contro. «Anch’io. Perché non ti conosco?» È già abbastanza brutto dover affrontare questa conversazione per la seconda volta nella stessa mattina, ma affrontarla con lui è ancora peggio. «Io mi sono trasferito qui al terzo anno», continua, «ma non mi sembra di averti mai incontrato. Cos’è, dai gli esami solo da non frequentante e non esci mai dalla tua stanza?» Non rispondo. «Oddio, non è davvero così, vero? Scusa. Che stupido che sono. Stavo solo scherzando.» «Cosa? No! Certo che frequento dei corsi.» Lui si scansa, ma io non mi fermo e lo supero. È così imbarazzante. Sono davvero invisibile quando non sto tracannando birra a una festa? Sì, deve essere così. Ma è abbastanza facile passare inosservati, se si vuole. Forse però non lo voglio più. Chris si affretta a tornare davanti a me. «Mi dispiace. A volte vado alla velocità della luce e mi perdo delle cose. O delle persone.» «Magari ci sono dei sassi buoni là vicino all’erba.» Risalgo un lieve pendio. «Vado a vedere.» «Oh, ok.» Lo so che mi sta fissando. «Io cerco nell’acqua bassa.» Per qualche minuto raccogliamo i sassi in silenzio, mentre io cerco di farmi venire in mente una scusa per andarmene. Ho appena mandato all’aria il nostro incontro. Un incontro che non avrei mai dovuto cominciare, visto che quando si tratta di vita sociale sono sempre indietro anni luce. Provo a farmi un discorsetto di incoraggiamento. Forse sarà come con la proverbiale bicicletta? Se non mi arrendo, potrei ricordare di nuovo come si comporta una persona normale? Una volta mi veniva bene. «Ehi, Blythe», mi chiama. «Ne ho trovati un sacco buoni qui. Scendi che ne prendiamo un po’ e poi mi fai vedere cosa sai fare.» Ha una voce profonda, maschile, eppure ogni parola che dice trasuda comprensione e umanità. Sentirla mi rilassa e fa svanire il mio disagio come niente altro è riuscito a fare da quella notte di quattro anni fa. Quattro anni. Cazzo, sono quattro anni che sto così? Comincio a chiedermi cosa mi sono persa. Chi mi sono persa. Per un attimo, provo una gran rabbia. Ma poi guardo l’acqua e Chris, che mi rivolge un sorriso contagioso. È come se questo ragazzo mi impedisse di lasciarmi trascinare a fondo. Gli rivolgo anch’io un sorriso sincero. «Ah sì? Ok.» Facendo attenzione alle pietre che spuntano dall’erba incolta, lo raggiungo. «Togliti le scarpe!» mi ordina. «Cosa?» «Togliti le scarpe e fai il risvolto ai pantaloni! Devi essere in sintonia con il lago. La buona riuscita del rimbalzello non è solo una questione di sassi. Contate anche tu e l’acqua. Quindi, via le scarpe!» «Ma fa freddo!» protesto. «Che bambina che sei», mi prende in giro e intanto si leva le scarpe. «Non faccio la bambina. Sto solo mostrando un po’ di buonsenso.» Che detto da me suona davvero ironico. «Il buonsenso non è mai un bene. È noioso. Vivi un po’. Forza.» Inarca le sopracciglia scure con fare scherzoso, e devo sforzarmi per trattenere un sorriso. «E va bene», dico, mi tolgo le scarpe e arrotolo l’orlo dei jeans. «Ti dimostro che non sono una bambina.» «Entriamo.» Chris avanza di qualche passo nell’acqua e si volta verso di me. «Non è tanto fredda. Giuro.» Mi porge una mano. «Davvero.» Entro anch’io e sento i grossi granelli di sabbia sotto le piante dei piedi. È una sensazione straordinaria, come quelle che negli ultimi quattro anni ho tenuto di proposito a distanza. Senza pensarci, gli do la mano. Chiudo gli occhi e sento le sue dita stringersi intorno alle mie. Il mondo di tenebre nella mia mente va in frantumi e a sprazzi riaffiorano dei ricordi vecchi e dimenticati. Il mio respiro accelera. Basta. Basta! mi dico. Mi concentro sulla mia mano nella sua e su quella stretta salda. Apro gli occhi e i ricordi si interrompono. Mi affretto a parlare, nella speranza di riprendermi da quel momento, di nascondere quell’attimo di debolezza. «Hai ragione. Non è così male.» Chris inclina la testa di lato. «Stai bene?» Mi stringe la mano. «Sì, adesso sì.» Mi osserva, con espressione più seria. «Ma noi ci?…» Non riesce a terminare la frase. «Cosa?» Scuote la testa. «No, non ci conosciamo. È solo che… Niente.» Mi infila un sasso liscio nel palmo e mi chiude le dita. «Fammi vedere come te la cavi.» Fa un passo indietro. Con l’acqua calma che mi lambisce le caviglie, mi metto perpendicolare alla superficie del lago. «Non ridere di me però. È da un po’ che non lo faccio.» «Non c’è niente da ridere quando si gioca a rimbalzello», dice, in tono volutamente teatrale. «Si tratta di un’attività assolutamente seria. Procedi pure con il primo tentativo.» Mi sforzo di non sorridere per il suo tono finto formale, tendo il braccio e scaglio il sasso. Vira di circa cinque metri alla mia destra e poi si inabissa come un proiettile. «Be’», commenta Chris, «quel che ti manca in abilità lo compensi con la forza.» Scoppio a ridere. «Non è andata come speravo, ma apprezzo il tatto che hai avuto.» «Prova ancora qualche volta. Posso sempre scappare più indietro se tiri storto.» «Ah ah, molto divertente. Anche se non è una cattiva idea…» Sotto il suo sguardo attento, faccio altri tre lanci. Solo con un sasso riesco a fare un rimbalzo piuttosto approssimativo. «Sono senza speranza.» «No invece. Ma perché li lanci come se fossi una bambina con un frisbee?» Scoppio di nuovo a ridere. «È così che sembro?» «Be’, butti il braccio in avanti in questo modo.» Sorride e ne agita uno come un pazzo. «Vedi? Non va bene.» «Oh, non me n’ero accorta.» Rifletto un secondo. Ha ragione. Anche se prima l’ho osservato con attenzione, non mi ero resa conto che lui non lo fa. «Ecco, prova in modo diverso.» Chris mi si avvicina e si mette alle mie spalle. «Usi il braccio destro, quindi girati nell’altro senso, tenendo la mano con cui lanci più lontana dall’acqua.» Appoggia le dita appena sotto le mie spalle e mi fa girare lentamente. È così vicino che le nostre ombre diventano una sola. Quando si allontana, vedo la sua ombra staccarsi dalla mia e stagliarsi sulla sabbia. Mi giro, mi concentro e lancio il sasso liscio. «È strano», confesso. «All’inizio sì. Stiamo cercando di farti perdere una brutta abitudine. Riprova. Va’ più avanti. È un po’ sdolcinato da dire, ma in un certo senso devi congiungerti con l’acqua.» Sospiro. Dubito di riuscirci, ma faccio qualche passo di lato fino ad avere l’acqua quasi all’altezza dell’orlo dei jeans. Provo di nuovo. «Meglio!» commenta Chris. «Due rimbalzi, riprova!» Prendo un sasso dalla tasca e ubbidisco. Questa volta si libra verso sinistra, senza alcun rimbalzo. «Uffa. Ci rinuncio.» «Neanche per idea.» Torna dietro di me e con il petto mi sfiora la schiena. Mi mette le mani sulle spalle come per tenermi ferma e rabbrividisco. Non per il freddo, né per il desiderio. O almeno, non è solo per questo che sto tremando. «Guarda l’acqua. Concentrati sull’orizzonte. Non pensare al punto in cui vuoi colpire la superficie.» Con una mano scende fino al mio polso e mi solleva il braccio. Inspiro ed espiro con calma. «Poi», prosegue, «lancia il sasso dove l’acqua incontra il cielo.» Mi fa avvicinare la mano al corpo, con il braccio piegato davanti al mio petto e, muovendosi al rallentatore, mi fa vedere come fare. «Devi essere decisa e sicura. Ricorda che non sei tu il capo. Tu e il sasso siete complici.» «Siamo complici. Ok.» Chris resta a pochi centimetri da me, mentre io seguo i suoi consigli. Tre rimbalzi. «Bello», sussurra. «Riprova. Sta’ a sentire il tuo complice.» Quattro rimbalzi. Mi fa sollevare la mano di qualche altro centimetro e mette la bocca accanto al mio orecchio. «Respira.» Sette rimbalzi. Cazzo! «Hai visto?» Riesco a malapena a parlare. Ho solo lanciato un sasso; non dovrei essere tanto sbalordita, ma non posso farne a meno. «È stato fantastico! Davvero fantastico!» Chris mi stringe le spalle. «Stupendo. Ehi, scommetto che se continui a provarci, in men che non si dica riuscirai a fare rimbalzi fino all’altra riva. È bellissimo quando ne fai così tanti che non riesci nemmeno a contarli, con i cerchi che vanno più in là, e ancora più in là…» Chris non la smette di parlare, ma io lo sto appena a sentire. Ho lo sguardo fisso sul punto in cui il sasso ha sfiorato la superficie per l’ultima volta, per poi affondare. «Chris?» «…una volta ho provato a insegnare a un’altra persona, ma faceva davvero schifo. Tu sei molto più brava…» «Chris.» Senza pensarci, reclino la testa e la appoggio contro il suo petto, appena sotto la spalla. Lui è così alto e… per certi versi familiare. Giro il viso di lato e mi godo la luce del sole, ormai forte, che colpisce le piccole increspature dell’acqua e le rende bianche. Rispetto ad appena un’ora fa, ho l’impressione di vederci meglio, di pensare meglio. Inspiegabilmente, questo sconosciuto mi trasmette più sicurezza di chiunque altro. «Sì?» Non c’è nessun motivo apparente, eppure mi sembra impensabile non dirglielo. «I miei genitori sono morti.» Lui resta immobile. Alle mie parole, non si irrigidisce neppure. È la prima volta che lo dico a voce alta da… be’, da sempre. È possibile che sia riuscita a non farlo mai finora? Sì, è così. A casa nessuno aveva avuto bisogno di sentirselo dire da me. Lo sapevano tutti. Notizie del genere si diffondono in fretta. E al college non c’è stato bisogno di dirlo a nessuno. Adesso lo ripeto. «I miei genitori sono morti. Quattro anni fa in un incendio.» Faccio un passo avanti, all’improvviso scioccata dal mio comportamento. «Oddio. Mi dispiace. Non so perché te l’ho detto. Scusa. Non è… Non avrei dovuto…» Mi aspetto che faccia come hanno fatto tutti gli altri dopo la morte dei miei: blaterare qualche parola di circostanza del tipo «Mi dispiace così tanto», «Che cosa terribile», «Povera ragazza», «È così triste…» e poi scappare via. La gente fa sempre così. Dopo le prime parole di conforto, nessuno sa mai cosa dire. La morte e il lutto fanno sparire tutti quelli che sono attorno a te, perché la morte e il lutto sono intollerabili. Ma Chris non scappa. Invece mi cinge la vita con un braccio e mi tira a sé, fino a premere forte il petto contro la mia schiena. «È tutto a posto. Respira.» «Ho un fratello. James. Mi odia per questo. Io stessa mi odio per questo. Sono così stanca.» Chiudo gli occhi e premo la guancia contro la maglietta di Chris. Lui ha incrociato le braccia davanti a me e mi tiene stretta mentre nella mente vedo balenare sprazzi di quella notte. Sono tutto quello che mi rimane. Ricordo diversi flash, ma non li ho mai messi insieme. Forse perché non ci riesco, o forse perché non voglio un ricordo completo. Posso a malapena sopportarlo a pezzi. Anche i giorni immediatamente prima e immediatamente dopo non esistono per me. Sono vuoti, e preferisco che le cose restino così. Rabbrividisco tra le braccia di Chris. Per quanto lo desideri, in questo momento non riesco a controllare le immagini nella mia mente. I ricordi non sono mai stati così vividi e intensi. Non mi è mai capitato prima di ricordare in questo modo. Calore. Acqua. Vetro. Fango. Il molo. Le bracciate fino al molo. I colori della trapunta patchwork. Mi sento soffocare. Perché mi sta succedendo adesso? Perché, proprio ora che comincio ad avere una mattina vagamente tollerabile, il passato torna a tormentarmi? Sento aumentare la pressione delle sue dita sulle mie braccia. «Respira», ripete Chris. La sua voce mi aiuta; il suo tocco mi aiuta. «Non opporti. Ci sono qui io.» L’odore. I disegni sulla trapunta. Rosso. Rosso. Rosso. Alberi. La scala a pioli, il rumore, l’eroe. L’eroe. Il mio eroe. Basta. Non ce la faccio più. Pensa al molo, mi dico, sempre con gli occhi chiusi. Pensa al molo. Mi calma ogni volta. Non so perché, ma quando me lo immagino riesco in qualche modo a bloccare questa spirale. Mi immagino mentre remo per raggiungerlo, all’infinito. Sul molo sono al sicuro, mi trasmette stabilità e sicurezza, anche se non ho idea del perché. Riapro gli occhi e respiro con più calma. «Abbiamo finito i sassi», dico piano. «Ce ne sono altri. Vuoi continuare a lanciare?» «Sì.» «Allora continuiamo.» 4 Infrangere le regole CON una luce così forte, gli occhiali da sole servono a poco e allora chiudo gli occhi. Una parte di me ha paura di farlo perché è convinta che, quando li riaprirò, lui se ne sarà andato. Per verificare la mia teoria, giro la testa di lato e do una sbirciatina. Chris è ancora qui. Siamo sdraiati uno di fianco all’altra sulla sabbia e parliamo. O meglio, Chris parla. Lascio che sia lui a portare avanti la conversazione, perché io non sono più abituata. Per fortuna stamattina ho fatto un po’ di riscaldamento con Sabin. Ci vuole tutta la mia forza di volontà per distogliere di nuovo lo sguardo, non voglio che mi scopra a fissarlo. Adoro il suo naso imperfetto, le labbra piene e il modo in cui di tanto in tanto si passa la mano tra i capelli neri mossi, per scompigliarli. Ogni volta che lo fa, i muscoli del suo braccio si flettono lievemente e mi sento disarmata. Ciò che non riesco a spiegarmi non è tanto l’innegabile attrazione fisica che sento per Chris, quanto il fatto che provo anche qualcos’altro per lui. Sono davvero confusa. Ho letto un sacco di testi che analizzano nel dettaglio il desiderio e lo struggimento dei personaggi per il loro amato e, nel corso del tempo, ho sviluppato la convinzione che si tratti di cazzate poetiche, per accalappiare i lettori. Oggi però ho capito che non lo sono. Ho lo stomaco e il petto contratti, sono nervosa, ed è stranissimo. La sua presenza è magnetica. È una sensazione decisamente meravigliosa, ma allo stesso tempo terribile perché so che sono la sola ad avvertirla: non è possibile che a Chris stia accadendo lo stesso. Accantono il pensiero perché, anche se lui fosse interessato, non sono di certo nella posizione di buttarmi in una storia seria. E in ogni caso lui non lo è. Si capisce dal modo in cui mi sta sdraiato accanto, a chiacchierare. E allora mi godo semplicemente questi momenti insieme. Una parte della vecchia me si è risvegliata, e per oggi non mi opporrò. Chris non mi chiede nulla dei miei genitori né della mia infanzia e gliene sono grata. Nemmeno io gli faccio domande. Mi ha già raccontato che ha vissuto in «troppi posti per dirli tutti» e che studia economia ma segue anche dei corsi di letteratura inglese. Abbiamo anche passato una ventina di minuti a parlare del caffè che preferiamo, e ho avuto la conferma di quanto sia incredibilmente figo. Quanti studenti ci sono al college che hanno in camera una caffettiera francese e un montalatte? Uno, ecco quanti. «Mia sorella ha cercato diverse volte di rubarmi la caffettiera. Gliene ho pure comprato una, ma lei dice che il caffè della mia è più buono.» «Hai una sorella?» «Una sorella e due fratelli.» «Quanti anni hanno?» «Siamo tutti qui al college insieme. Estelle ed Eric sono gemelli e sono al secondo anno, mentre mio fratello Sabin è al terzo.» «Aspetta. Sabin?» Non possono esserci tanti Sabin in un campus di queste dimensioni. «Alto, moro, un po’… pazzo?» Chris scoppia a ridere. «Lo conosci?» «L’ho conosciuto stamattina. Mi ha rubato il caffè. A quanto pare i furti di caffeina sono un’abitudine per la tua famiglia.» «È un terremoto. Il miglior fratello che si possa avere. Be’, oltre a Eric.» «È buffo che studiate tutti nello stesso college», commento. Ora fa molto più caldo e inizio a togliermi la felpa. All’ultimo però mi ricordo che sotto indosso solo una T-shirt, che lascerebbe in bella vista il mio braccio sinistro. Mi accontento di aprire la cerniera. Chris alza le spalle. «Siamo piuttosto uniti, direi. Il pensiero di sparpagliarci per tutto il Paese in college diversi non ci piaceva per niente e quindi eccoci qui.» «Come siete finiti al Matthews?» «Una volta ho letto il nome su una maglietta. Mi è parsa una buona idea.» D’impulso gli do un pugno sul braccio e, nel farlo, mi accorgo di essere davvero a mio agio. Non mi sento strana per il mio bizzarro comportamento di prima, per niente, e la cosa mi stupisce. A quanto pare Chris sa sopportare le mie stranezze. «Dicevo sul serio!» «Anch’io.» «Uno strano modo di scegliere il college.» Sorride. «Noi siamo strani.» «I tuoi devono soffrire come pazzi per la sindrome del nido vuoto ora che voi quattro siete tutti qui, no?» «A casa c’è solo mio padre. Mia madre è morta quando eravamo piccoli. Un aneurisma cerebrale. Una casualità. Non c’era modo di prevederlo.» Si mette a sedere e la sua ombra mi copre la pancia. «Dunque io e te abbiamo qualcosa in comune.» «La mamma morta.» «Già. La mamma morta.» Per questo ha capito quello che mi stava succedendo quando eravamo in acqua. Ecco cos’era la vicinanza che ho sentito. «Sono contenta che non abbiamo anche il papà morto in comune», aggiungo. «Se non altro tu hai ancora lui.» Non risponde. Mi giro su un lato e tiro le ginocchia contro il petto. Chris mi imita e così siamo uno di fronte all’altra. Questa volta non mi vergogno e lascio vagare lo sguardo sul suo corpo. Mi sento rilassata, completamente. E anche esausta. Mentre mi si chiudono gli occhi, gli chiedo la prima cosa che mi viene in mente, perché voglio che continui a parlare. La sua voce è rassicurante e bellissima e l’ultima cosa che vedo è il suo viso. Sprofondo in un sonno senza sogni e, quando mi sveglio, Chris è ancora accanto a me, appoggiato sui gomiti a guardare il lago. Mi metto a sedere con calma e lui mi sorride. «Ciao.» «Ciao.» Mi tolgo la sabbia dai jeans e rifaccio lo chignon ai capelli, per mascherare l’imbarazzo. Crollare in questo modo mi ha lasciata stordita. «Per quanto ho dormito?» «Qualche ora.» «Cosa?» Oddio. «Mi dispiace. Non dovevi restare qui. Avrai delle cose da fare.» Chris scuote la testa. «Perché dovrei andarmene? È una bella giornata, sono con una ragazza che sonnecchia tranquilla… Hai dormito bene?» «Sì.» Non mi capita praticamente mai e sono convinta che sia successo grazie a Chris. Sarebbe assurdo chiedergli di sedersi di fianco a me ogni notte per poter dormire senza incubi… «Sai una cosa?» «Cosa?» Balza in piedi e si piega verso di me. «Sto morendo di fame, cazzo.» «Oh, ok.» Lo guardo strizzando gli occhi. Piace pure a lui dire le parolacce. «Dovrei andare anch’io.» Mi porge una mano. «Andiamo a pranzo. Conosco un posto super. In realtà non è vero. Non è super, ma diciamo che è interessante.» Prende il mio zaino e con un unico movimento mi tira in piedi. «Avrai fame anche tu. L’ora di pranzo è passata da un pezzo e scommetto che non hai fatto colazione.» Ha ragione e ho davvero una fame pazzesca, ma non so se voglio che questa giornata prosegua. Se ce ne andiamo, la sicurezza che provo con lui qui al lago sparirà. «Non so. Devo studiare e…» «Cavolate. Forza.» Mi spinge avanti, poi mi lascia la mano e riprende a camminare all’indietro. Durante il tragitto verso il campus non diciamo una parola, ma non è un silenzio impacciato. È raro stare con qualcuno e non sentirsi in obbligo di riempire ogni secondo di chiacchiere. Chris si infila le mani in tasca e cammina con la testa rivolta verso il sole. Alla fine scorgiamo i primi negozi e lui mi indica una bandiera blu che sventola al soffio della brezza leggera. «Hai mai mangiato qui? Certo che sì, immagino. Ci vengono tutti.» Alzo lo sguardo. Artemis Piccola. Scuoto la testa. «Che strano nome per un ristorante. No, non ci sono mai stata.» In realtà, esco di rado dal campus. La mia vita segue un percorso lineare, da un posto all’altro, praticamente senza deviazioni, a eccezione delle notti in cui mi ubriaco abbastanza da cercare una seconda festa per tracannare ancora più alcol. Dal dormitorio all’aula, dall’aula alla caffetteria, poi di nuovo al dormitorio, una capatina in biblioteca quando è assolutamente necessario, una sosta ancora alla caffetteria. Se non c’è di mezzo un fusto di birra, non sono il tipo che si attarda o che ciondola. Be’, fino a oggi. Oggi sto infrangendo tutte le regole. «Cosa? Non ci sei mai stata?» Chris rimane a bocca aperta. «Oddio, dobbiamo provvedere subito. Questo è un rito di passaggio. Non puoi laurearti senza aver mangiato qui. Forza. Ti offro il pranzo.» Apre la porta e mi fa segno di entrare. Chris prende il menu da uno scaffale e mi fa strada nel labirinto di tavoli. Si muove in modo fluido, quasi furtivo, e in men che non si dica mi ritrovo seduta a un tavolo nascosto in fondo al ristorante. La sala è tutta in legno e mattoni, senza finestre e, nonostante la giornata luminosa, è incredibilmente buia. Dalla panca dura su cui siedo ho una bella visuale ma, siccome do le spalle a una parete, Christopher può guardare solo me. Quanto vorrei che invertissimo i posti. Per un minuto buono non riesco a pensare ad altro. Lui tiene il menu in grembo e mi sorride, con fare scherzoso. «Allora, signorina Blythe, quale parte del mondo vorresti visitare oggi?» «Ehm… Che cosa?» Che domanda è? Di sicuro mi sono persa una battuta che alla maggior parte della gente avrebbe strappato una risata. «Non… non capisco cosa vuoi dire.» Che imbarazzo. «Scegli uno Stato. Dove vorresti andare?» Oh Gesù, è già tanto se esco dalla mia stanza, l’idea di un viaggio all’estero non è proprio in cima ai miei desideri. «In Grecia?» «Non mi sembri molto sicura.» Giocherello con la cerniera della felpa. «In Grecia», ripeto, in tono più deciso. «A Santorini.» «Scegline un altro.» Ho la cerniera conficcata nella mano e non smetto di tirarla su e giù. «In Brasile.» «Ah. Per il carnevale.» «Già. Per il carnevale.» Apre il menu. «Non so se troveremo qualcosa di tipico di Santorini, ma non si sa mai con questi pazzi dell’Artemis Piccola.» Scruta la pagina che ha davanti. «Ecco! In base ai posti che hai scelto, mangerai un gyros seguito da una feijoada.» Allungo una mano e prendo il menu. Ma che razza di posto è questo? Servono una spaventosa accozzaglia di piatti che non c’entrano assolutamente nulla l’uno con l’altro. Accanto al maki piccante di tonno ci sono le lasagne vegane, mentre come specialità del giorno ci sono curry africano (con carne a scelta!) e hamburger di bisonte con bacon e funghi. Mi schiarisco la voce. «E tu dove vuoi andare oggi?» «Da nessuna parte.» Lo guardo, confusa. «Perché? Il cibo fa così schifo?» Christopher si appoggia allo schienale della sedia. «No. È che preferisco stare qui con te.» «Oh.» Mi sento arrossire, anche se non saprei definire questa sensazione. Eccitazione? Imbarazzo? Qualsiasi cosa sia, non la provavo da molto tempo. Le emozioni tanto intense mi rendono innegabilmente nervosa. Chissà se in questo posto servono alcolici. Un bicchierino di ouzo insieme al gyros potrebbe aiutarmi. O magari cinque. Abbasso lo sguardo. «Allora qualcosa di tradizionale. Un’omelette al formaggio e… che altro? Una mucca intera? Fa abbastanza Wisconsin per te?» «Perfetto!» Afferra il menu e comincia a schioccare rumorosamente le dita, gridando: «Cameriera! Cameriera!» Poi si sporge verso di me con fare cospiratorio. «Il servizio è terribile qui.» Sconvolta, lo vedo battere la forchetta contro il bicchiere. Proprio quando cominciavo a pensare che fosse perfetto. «Devi per forza fare così ogni cazzo di volta che vieni?» Al nostro tavolo arriva una ragazza magra con i capelli neri cortissimi. Parla con voce calma, ma dalla parolaccia è ovvio quanto sia irritata. «Sì, devo proprio. Altrimenti tu mi ignoreresti e mi lasceresti svenire di fame sul tavolo.» Lei storce la bocca in un ghigno. «Se non facessi tutto questo chiasso, sarei più che felice di lasciarti svenire, cazzo. Cosa vuoi?» «Non voglio sentire la mia sorellina che dice ‘cazzo’, prima di tutto. E poi vorrei presentarti qualcuno. Estelle, questa è Blythe McGuire. Blythe, Estelle. La mia sorellina che dice parolacce in continuazione.» Estelle sposta il blocchetto per le ordinazioni nella stessa mano con cui regge una penna e mi porge l’altra. «È un piacere conoscerti. Devi avere una bella forza di carattere per andare a pranzo con Christopher.» «Piacere mio», dico, fin troppo cosciente dei miei capelli arruffati e della felpa sformata che indosso. Soprattutto di fronte a lei, che è a dir poco stupenda. Qualsiasi donna con i capelli così corti deve essere così, con gli zigomi alti e lo sguardo intenso, altrimenti starebbe malissimo. Anche struccata, Estelle ha dei lineamenti perfetti. È magra, forse troppo, e ha un fisico da modella. Al collo porta una croce piuttosto grossa, ma non indossa altri gioielli. Ha un’aria semplice e bella, che io non riuscirò mai ad avere. «Avete fame?» Chris fa per ordinare, ma viene interrotto da una voce tonante che ci giunge dall’ingresso. «Christopher Shepherd! Mi hai già rubato la ragazza?» Chris chiude gli occhi e scoppia a ridere. «Oh no… Vattene! Vattene!» Come una furia, Sabin si fa strada fino al nostro tavolo, con l’espressione arrabbiata più finta che io abbia mai visto. «Non riesco a credere che tu mi abbia tradito così, fratello mio. Ci batteremo a duello per questa principessa, e io ne uscirò vittorioso.» Chris alza gli occhi al cielo. «Ciao, Sabin. Come stai?» «Come sto? Come pensi che stia? Sono devastato, ecco come sto!» Dà una pacca sulla schiena a Estelle, poi scivola sulla panca accanto a me e mi cinge con un braccio, fulminando il fratello con lo sguardo. Appoggia la testa sulla mia spalla ed emette un sospiro esagerato. «E così hai messo le tue brutte grinfie addosso alla mia ragazza? Non mi aspettavo di subire un torto simile da mio fratello e allo stesso tempo dalla mia amata. Cercherò di… anzi, riuscirò a riconquistarla, furfante che non sei altro!» Fine dell'estratto Kindle. Ti è piaciuto? Scarica la versione completa di questo libri