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commentary «Q Commentary, 27 dicembre 2016 IL RISIKO LIBICO NELL’ERA TRUMP ©ISPI2016 ARTURO VARVELLI ra le tante eredità di Obama, la nuova amministrazione statunitense dovrà fare i conti anche con la questione libica. Le nomine poco ortodosse di Donald Trump nei posti chiave della politica estera e di difesa dell’amministrazione non chiariscono se vi sarà, e quale sarà, la linea guida. T Per più di tre mesi dall’agosto scorso gli Usa sono stati impegnati nella Operation Odyssey Lightening con l’obiettivo di colpire i miliziani dello Stato Islamico a Sirte, una campagna militare passata sottotraccia e che ha favorito le forze filo-governo di unità nazionale di Fayez Serraj. Se ci saremmo aspettati una linea di impegno e di sostanziale continuità sulla Libia da parte di una eventuale amministrazione Clinton (fu proprio Hillary una delle maggiori sostenitrici dell’intervento del 2011 all’interno di una amministrazione Obama piuttosto riluttante), qualsiasi ipotesi sulla politica di Trump appare oggi una speculazione. Se ci dovessimo affidare alle parole pronunciate in campagna elettorale le cose non si chiarirebbero. Quando l’allora candidato repubblicano chiese pubblicamente ai russi di hackerare le mail sulla Libia della Clinton, la Libia era solamente uno sfondo strumentale della sua livida campagna elettorale. Trump ribadì più volte che era stato contrario agli interventi in Iraq e Libia, ma Hillary lo smentì prontamente ricordando che in realtà sostenne l’intervento contro il regime di Gheddafi. Nessuna ipotesi di nuova politica verso la crisi è stata delineata. Benché la sconfitta dell’ISIS appaia come una notizia positiva nello scenario libico, il paese non sembra tuttavia uscire ancora dalla perdurante crisi. L’occupazione delle infrastrutture portuali nella Libia centrale da parte delle forze militari del Generale Khalifa Belqasim Haftar avvenuta il mese scorso suggerisce il delinearsi di possibili nuovi scenari di incertezza. La Libia continua oggi ad essere divisa tra un parlamento (e un esecutivo) a Tobruk e un consiglio presidenziale (guidato da Fayez Serraj) a Tripoli, sostenuto dalle Nazioni Unite, primo nucleo di quello che dovrebbe essere il Governo di Unità nazionale (GNA). In realtà, entrambi non possiedono vera capacità di governo, ma sono piuttosto “ostaggio” delle milizie che li sostengono e che controllano il territorio: rispettivamente quelle del generale Haftar in Cirenaica Arturo Varvelli, ISPI Senior Research Fellow e Head del Programma Terrorismo 1 Le opinioni espresse sono strettamente personali e non necessariamente riflettono l’opinione dell’ISPI Anche le pubblicazioni online dell’ISPI sono pubblicate con il supporto della Fondazione Cariplo. commentary e quelle associate di Misurata e Tripoli nell’ovest del paese. diplomazie dei due paesi. Ciò che si può pronosticare è che nei prossimi mesi Roma potrebbe apparire più isolata in questi tentativi visto che la nuova amministrazione statunitense potrebbe non seguire la linea dell’amministrazione precedente. L’amministrazione Obama non è stata in grado di dare un contributo decisivo alla soluzione della crisi ma ha tenuto una posizione chiara. Ha continuato a spingere per una soluzione mediata da parte delle Nazioni Unite, ha cercato di compattare perlomeno il fronte occidentale e ha poi cercato di rilanciare l’azione del GNA rafforzandolo dal punto di vista politico, economico e militare. In ciò ha trovato, primo fra tutti, un alleato nell’Italia. Nel corso dell’anno più volte è stata prospettata la possibilità di negoziare con Haftar, a condizione che il generale accettasse un ruolo-parte nel governo Onu contenendo al contempo le proprie ambizioni egemoniche sull’intera Libia. Tuttavia, gli sviluppi degli ultimi mesi del 2016 rendono questa opzione sempre più remota, mentre le condizioni internazionali sembrano indebolire drasticamente le chance di successo di una mediazione. Difficile sperare che qualcuno degli uomini chiave della nuova amministrazione abbia a cuore la crisi libica. Rex Tillerson al dipartimento di Stato è un businessman, un uomo di relazioni forse pronto a fare concessioni a egiziani e russi se ciò può favorire la chiusura della crisi. Forse gli Usa potrebbero tornare a valutare positivamente la carta Haftar, l’apparente “uomo forte” emergente dall’est del paese. Michael Flynn, consigliere alla sicurezza di Trump non si è contraddistinto nel recente passato per capacità di analisi sul paese, tanto è vero che a seguito dell’attentato di Bengasi in cui trovò la morte l’ambasciatore americano Christopher Stevens cercò pretestuosamente di trovare responsabilità iraniane (!) in quell’attacco. Ciò di cui non sembra aver bisogno la crisi libica sono tesi precostituite, vie sbrigative o disimpegno. La crisi libica necessita pazienza e capacità di leadership nel dettare linee di compromesso. Allo stato attuale difficile è dire con certezza se l’amministrazione Trump sia interessata ad avere un ruolo di primo piano in questo scenario. ©ISPI2016 A limitare qualsiasi ambizione dell’asse Roma-Washington in questo campo vi sono le pessime relazioni che entrambi hanno con il Cairo (il maggior sponsor di Haftar) in questo momento. Ricucire l’est con l’ovest del paese senza un legame di fiducia con il governo di al-Sisi, è apparso sempre più difficile per le 2