il brasile nel pallone
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53/75 nostra patria è il mondo intero IL BRASILE NEL PALLONE MicroMega UN BILANCIO DI DIECI ANNI DI LULISMO Schiacciato tra la sempre incombente presenza dei militari e il peso sproporzionato degli oligarchi, il Brasile che oggi ospita i Mondiali di calcio è un paese radicalmente diverso rispetto a vent’anni fa, ma che allo stesso tempo continua a fare i conti con i fantasmi del passato. E il lulismo, che lo ha dominato a partire dai primi anni Duemila, ha sempre oscillato fra necessità del compromesso e connivenza con i poteri forti. MARCO D’ERAMO «Domani i tank della marina entrano nella Maré», titola a tutta prima pagina il più diffuso quotidiano di Rio de Janeiro, O Globo, in una bella mattina primaverile. Maré è la più grande favela di Rio Norte, con circa 130 mila abitanti. Il titolo del Globo genera un dubbio: è una costatazione, una minaccia o una preoccupazione? Il dubbio viene dissipato il giorno dopo, quando lo stesso quotidiano titola, sempre a tutta prima pagina, «Maré è occupata senza resistenza del narcotraffico» con il sottotitolo «Il maggior complesso di favelas della città è preso dalle forze di polizia senza sparare un colpo» (i corsivi sono miei), mentre la foto a colori ci mostra elmetti di soldati che sporgono da un blindato puntando i mitra contro le case circostanti. Quel «senza sparare un colpo» è insieme trionfante e sollevato, un: 5 3 5 4 «Vedete? Non c’era motivo di preoccuparsi», ma anche: «Operazione riuscita perfettamente». Oppure: «Questa volta la pacificazione sembra funzionare». Fatto sta che, quando ci vai, alla Maré la vita scorre come al solito, malgrado i tuoi amici si siano preoccupati: «Vai alla Maré? Sta’ attento». Ma, più di tutto, resti attonito di fronte alla normalità di un’operazione militare, con i carri armati, contro un quartiere della più famosa metropoli brasiliana. Si presenta come uno sbarco (i tank sono della fanteria di marina brasiliana, l’equivalente dei marines). Come se a Parigi Le Figaro titolasse tranquillo: «I blindati entrano a Sarcelles», o Chicago «I marines prendono il South Side». Ed è davvero un’operazione da sbarco, e le favelas sono davvero terra straniera, anzi territorio nemico. Assisti a un’occupazione militare sì, ma un’occupazione interna. È una guerra civile, ma vissuta nel tran-tran quotidiano: le vicende militari sono raccontate dai tg mentre i pendolari tornano a casa e le impiegate all’uscita dal lavoro passano al supermercato per nutrire la famiglia. Ti chiedi come possa funzionare una società in cui è pressappoco normale che intere aree siano da anni pattugliate e occupate dai militari (mentre sullo stesso giornale un generale assicura – o spera – che «Maré non deve vedere l’esercito come un nemico»). Ti chiedi come è possibile questo clima di guerra civile strisciante, routinière, dopo tutti i dati che tanti interlocutori ti hanno snocciolato sull’incredibile progresso registrato dal Brasile negli ultimi venticinque anni: già, perché in alcuni casi, si deve ricorrere proprio a questa parola caduta in disuso, progresso, dato che è l’unica appropriata. Balzi in avanti Nel piccolo, appartato giardino di casa sua, a San Paolo, l’economista Ladislau Dowbor ti fa consultare l’Atlante dello sviluppo umano brasiliano: dal 1991 al 2010 il balzo è impressionante. Il reddito medio pro capite è passato da 447 reais 1 nel 1991 a 592 nel 2000 a 794 nel 2010. La scolarizzazione è cresciuta ancor più: la percentuale di bambini di 5-6 anni che frequentano la scuola è passata dal 37, 3 per cento (1991) al 71,5 per cento (2000) al 91,1 per cento (2010), quasi 1 Dal 1991 il Brasile ha avuto come monete prima il terzo cruzeiro, poi il cruzeiro real, e infine dal 1994 il real. triplicando; mentre la percentuale dei ventenni che hanno terminato il ciclo di studi secondario è passata dal 13 per cento (1991) al 24,8 (2000) fino al 41 (2010), più che triplicata. E, forse il dato che meglio esprime questo progresso, l’aspettativa di vita alla nascita è passata da 64,7 anni nel 2001 a 68,6 nel 2000, a 73,8 nel 2010: i brasiliani hanno guadagnato nove anni di vita in un ventennio 2. Naturalmente queste cifre vanno commisurate all’eterogenea immensità del Brasile (con i suoi 8,5 milioni di kmq è più vasto degli Stati Uniti, Alaska esclusa), ai suoi 200 milioni di abitanti, alle enormi disparità tra l’industriale Stato paulista, il povero NordEst, la quasi disabitata Amazzonia. Ciononostante, il balzo compiuto dal 1990 lascia trasecolati. Vi è un altro elemento che le cifre dell’Atlante dello sviluppo umano offrono alla riflessione, ed è che il progresso è avvenuto quasi linearmente, e che cioè c’è stata non rottura, bensì continuità tra l’ultimo decennio del secolo scorso e il primo del nostro, nonostante la gravissima crisi economica che il paese conobbe a cavallo del millennio. È stupefacente, visto che gli anni Novanta furono l’epoca di Ferdinando Henrique Cardoso (chiamato familiarmente dai brasiliani «Ferdinando Henrique», o «FHC» per abbreviare, presidente dal 1995 al 2002), mentre dal 2003 il Brasile vive all’ora del lulismo, prima con Luiz Inácio Lula da Silva stesso, presidente dal 2003 al 2010, e poi con Dilma Roussef, attuale presidente (le prossime elezioni si terranno a ottobre di quest’anno). FHC era l’uomo del Fondo monetario internazionale, del Piano Real, delle privatizzazioni a tappeto, mentre Lula è il sindacalista leader del Pt, Partido dos trabhadores. Se i carri armati della marina devono intervenire a Maré, e se il sindaco di Rio de Janeiro ha chiesto a Dilma Roussef di far stazionare l’esercito a Rio da aprile fino alla fine dell’anno (e non solo nel periodo dei mondiali di calcio, come previsto all’inizio), vuol dire che l’enorme azione di redistribuzione compiuta dal lulismo non ha estirpato le radici della lacerazione civile. Anzi, il timore è palpabile che lo scontro divampi durante i mondiali di calcio, e non solo all’interno degli stadi tra i tifosi, ma anche all’esterno tra i cittadini, per approfittare della visibilità che assicurano le centinaia di reti televisive accorse da tutto il mondo. Come mai la redistribuzione non ha lenito, non ha «diluito» la violenza? Altlas do desenvolvimento humano no Brasil 2013: O Índice de desenvolvimento humano municipal brasileiro, publicado pelo Programa das Nações Unidas para o Desenvolvimento (Pnud) 2013, consultabile online: www.ipea.gov.br/portal/images/stories/PDFs/130729_AtlasPNUD_2013.pdf 2 5 5 5 6 Perché redistribuzione c’è stata: l’aumento del reddito pro capite non esaurisce la storia, in quanto ci offre una crescita «media» che può essere composta da chi tutto ha e da chi nulla tiene. Non per niente si parlò di «miracolo economico» durante la dittatura militare (1964-1984), quando il Brasile conobbe sì un rilevante aumento del prodotto interno lordo (pil), ma anche uno spietato divaricarsi delle disuguaglianze sociali. Invece sotto il lulismo, la geografia sociale del Brasile si è modificata (si potrebbe dire che si è «traslata») profondamente, anche se non proprio nella direzione strombazzata dai mass-media di tutto il mondo e dal lulismo stesso, cioè nella creazione di una «nuova classe media» che rimane elusiva. L’azione più rilevante è consistita nel far emergere uno strato sommerso della popolazione brasiliana, uno strato valutato intorno a 35 milioni, 45 milioni o 60 milioni a seconda delle fonti e delle persone con cui parlo. Ladislau Dowbor mi racconta in termini quasi epici: «Nei primi anni dovemmo organizzare l’accesso a 60 milioni di brasiliani fantasma che non avevano carta d’identità, non avevano codice fiscale, non esistevano. Dovemmo fare ricorso alle organizzazioni private, alle ong, alla cattolica Pastoral da Terra, all’Mst (Movimento dos trabahadores sem terra). L’idea della Bolsa família (assegni familiari) era ripresa da un programma, la Comunidade solidária, già lanciato dalla moglie di Cardoso, Ruth Correia Leite. Riuscimmo a raggiungere questi non-cittadini attraverso i media elettronici e attraverso un bancomat rilasciato dalla Caixa economica federal alle donne capofamiglia, alle madri single che costituivano un buco nero nel tessuto sociale brasiliano. Procedemmo a un catasto unificato. Il pagamento della Bolsa era subordinato alla frequenza scolastica dei bambini e all’iscrizione al servizio sanitario (vaccinazioni). Nei primi due anni l’attacco contro la Bolsa família fu violentissimo: obolo ai mendicanti, assistenzialismo, premio ai pigri. Ma al terzo anno cominciò a generare un impatto, perché per molte imprese si aprivano nuovi mercati, apparivano nuovi consumatori, così che le classi dominanti cominciarono a trovarvi un tornaconto e ridussero gli attacchi». In realtà Bolsa família è ridicolmente modesta rispetto agli standard del welfare europeo: anche se ne beneficiano circa 45 milioni di persone (dati del dicembre 2012), cioè il 23 per cento della popolazione brasiliana, è costata solo 21 miliardi di reais (7 miliardi di euro al cambio attuale), lo 0,5 per cento del pil, e corrisponde a poco meno di 13 euro al mese per beneficiario. Quel che ha fatto perciò la Bolsa família è stato di funzionare da volano per tutta un’altra serie di azioni: «Siccome gran parte del- l’estrema povertà brasiliana si trova in campagna, abbiamo ampliato il programma di credito rurale Pronaf che era stato varato da Cardoso ma il cui finanziamento è passato dai 2,5 miliardi di reais nel 2002 ai 18 miliardi nel 2013. Il programma Luz para todos ha portato l’elettricità a 1,5 milioni di famiglie. Nello stesso tempo il programma ProUni ha fatto sì che un milione e mezzo di figli di famiglie povere si iscrivessero all’università», continua Dowbor: «L’altro grande pilastro della redistribuzione è stato l’aumento del salario minimo che è salito del 60 per cento in termini reali [ora è di 724 reais al mese: 3 reais valgono oggi un euro] e che ha toccato 28 milioni di lavoratori e soprattutto 16 milioni di pensionati, la cui pensione è ora indicizzata sul salario minimo, a sua volta indicizzato sul costo della vita». Uno dei successi del lulismo, conferma il sociologo André Vitor Singer, è stato di far emergere il lavoro sommerso per milioni di lavoratori, di spostare questa forza lavoro marginale alla luce del sole nel mercato del lavoro (anche se questo lavoro è emerso soprattutto in posizioni a bassissima retribuzione e alta precarietà) 3. C’è di più: il livello di disoccupazione è il più basso a memoria d’uomo, ed è a un livello che qui in Europa ci farebbe sognare, visto che il tasso è al 5 per cento (era a più del 12 per cento quando Lula divenne presidente). Le contraddizioni del ‘progresso’ Ma allora, dopo tanti progressi, come mai lo scontento serpeggia, come si è visto dalle grandi manifestazioni che hanno scosso il Brasile nel giugno 2013? In primo luogo, l’immagine che del Brasile odierno danno i media e, dunque, l’immagine che alla lunga i brasiliani finiscono per avere del proprio presente, è condizionata e distorta dall’ostilità di questi stessi media, sia nazionali sia internazionali. «L’America Latina è un’eccezione oggi nella geografia mondiale», mi dice Gilberto Maringoni, professore di Relazioni internazionali all’Università federale Abc di San Paolo: «Siamo l’unico continente in cui quasi tutti i governi sono più o meno di sinistra (Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Ecuador, Perú, Uruguay, Venezuela). Ma la stampa internazionale è scatenata contro Kirchner in Argentina, contro il chavismo in Venezuela. Attaccano «Os impasses do “lulismo”», entrevista com André Singer, Brasil de Fato, 3/1/2013, www.brasildefato.com.br/node/11399. 3 5 7 5 8 anche il lulismo qui in Brasile, nonostante Lula abbia dichiarato fin dall’inizio che non avrebbe toccato gli interessi dell’oligarchia». Questo è un paese che comunque, nonostante il rallentamento, cresce ancora al 2-3 per cento l’anno, ha un tasso di disoccupazione del 5 per cento, un tasso d’inflazione del 5-6 per cento (basso rispetto alla storia brasiliana e dell’America Latina), ha registrato nel 2013 un surplus primario di bilancio (escluso cioè il servizio del debito) pari a 1,9 per cento del pil, ha un debito pubblico pari a circa il 60 per cento del pil. Eppure viene dato costantemente sull’orlo dell’abisso. Già a settembre scorso l’Economist faceva la copertina sull’implosione del Brasile («Has Brazil Blown It?», 26 settembre 2013), mentre il Financial Times martella col disfattismo («Brazil: Loss of Faith», 24 febbraio 2014; «Brazil’s Economic Policies: More Nails for the Coffin»; 7 aprile; «Rousseff Faces Inflation Threat», 9 aprile 2014; «Brazil’s Growth Story: Not an Happy One», 7 maggio 2014). E i maggiori giornali brasiliani non sono da meno. I canali tv del gruppo Globo diffondono la stessa ansia da vigilia di catastrofe. D’altronde tutta la stampa brasiliana appartiene ancora a quattro grandi famiglie: i Marinho (gruppo Globo), i Mesquita (O Estado de São Paulo), i Frias (Folha de São Paulo), i Civita (gruppo Veja) e, come mi dice il filosofo politico Wolfgang Leo Maar, «dopo undici anni di lulismo, in Brasile non c’è nessun giornale non dico di sinistra, non dico di centro-sinistra, ma nemmeno di centro: sono tutti di destra». «L’assurdo», rincara Maringoni, «è che questi gruppi prosperano anche grazie alla pubblicità che lo Stato e le industrie statali come Petrobras pagano loro. Il gruppo Globo riceve quasi 50 milioni di reais di pubblicità federale all’anno: insomma, i media privati sono finanziati dal governo per fare campagna contro il governo». Ma non è solo una questione d’immagine: se in Brasile molto è stato conseguito, tantissimo resta da fare. Il coefficiente di Gini, che misura il grado di diseguaglianza di una società 4, è sì sceso di sei punti dal 2000 al 2010, ma è pur sempre a 54,7, un livello altissimo (si pensi che in Europa si viaggia intorno al 30-36, negli Usa al 45, e che in Argentina, Cile, Messico, Perú,Venezuela, Uruguay è tra 44 e 50). C’è di peggio: significa che solo nel 2010 il Brasile è tornato al livello di diseguaglianza del 1964 quando i militari presero il po4 Il coefficiente di Gini in realtà varia da 0,00 a 1,00: vale 0,00 quando in un paese c’è perfetta uguaglianza di reddito tra tutti i cittadini, vale 1,00 quando tutto il reddito disponibile di un paese è monopolizzato da una sola persona, cioè in situazione di perfetta diseguaglianza. Per comodità, il coefficiente viene moltiplicato per 100: così di un coefficiente di Gini di 0,54 si dice che è 54. tere. A tutt’oggi, e dopo 11 anni di lulismo, il Brasile è la più disuguale tra le economie avanzate e anche tra quelle emergenti (comunque più di Cina, India, Indonesia, Russia, Turchia, meno solo di Sudafrica e Colombia). Il problema è che le misure sociali del lulismo si muovono tutte all’interno dell’orizzonte economico stabilito dalla Scuola di Chicago e dalla teoria del «capitale umano» formulata dall’economista e premio Nobel Gary Becker. Forse questa consonanza deriva dal fatto che Lula si è formato alla scuola (e alla mentalità) del sindacalismo statunitense, dell’Afl-Cio, ma in realtà fa parte di una corrente politica che ha coinvolto tutto il continente. La Bolsa família è solo il più famoso dei programmi di trasferimento condizionato di denaro (Cct, Conditional Cash Transfer) che a partire dal Cile di Pinochet (con il Subsidio único familiar del 1981) si sono diffusi sotto vari nomi prima in America Latina, e poi in Africa e in Asia 5. I trasferimenti «condizionati» sono diretti a gruppi sociali mirati, non alla popolazione nel suo complesso: nel caso del Brasile mettono in mano un assegno a famiglie indigenti e povere, che dispongono cioè rispettivamente (gli indigenti) di un reddito pro capite inferiore a 70 reais (23 euro al cambio attuale) e (i poveri) di un reddito tra i 70 e i 140 reais. Quindi si tratta di misure ad hoc, non di realizzare diritti universali; non solo: con questo meccanismo, la spesa sociale si concentra sui cash transfers, piuttosto che espandere servizi demercificati, come educazione, sanità, igiene urbana e altre funzioni sociali di base. Per esempio il Brasile di Lula ha moltiplicato per tre la spesa sociale, ma scuola e sanità non hanno seguito lo stesso ritmo: la spesa per la scuola è raddoppiata e quella sanitaria è aumentata del 60 per cento (però la sua parte nel bilancio pubblico è scesa dal 13 per cento nel 2001 all’11 per cento nel 2010). Inoltre i Cct sono pensati per integrare le masse popolari e povere nei circuiti finanziari e bancari (per esempio attraverso i bancomat distribuiti dalla Caixa economica federal), in un meccanismo che in Brasile è chiamato bancarizaçaõ, che favorisce i consumi, in modo tale che l’iva sui beni comprati dai beneficiari dei trasferimenti permette di finanziare almeno in parte gli stessi tra5 Un’analisi lucida e documentata dell’impatto reale dei Cct in America Latina e in Brasile in particolare è fornita da L. Lavinas, «21st Century Welfare», New Left Review, n. 84, novembre-dicembre 2013, pp. 5-40. Lavinas elenca tutti i programmi tra cui, a titolo d’esempio: Progresa/Oportunidades (Messico, 1997), Familias en actión (Colombia 2001), Chile solidario (2003), Bono de desarollo umano (Ecuador, 2003), Juntos (Perú, 2005), Asignatión universal por Hijo (Argentina, 2008), Asignaciones familiares (Uruguay, 2008) e così via. 5 9 6 0 sferimenti, e nello stesso tempo rende le banche arbitri di ogni singola vita di decine di milioni di umani. Si capisce allora perché il Fondo monetario internazionale (Fmi), la Banca mondiale, e in genere gli istituti finanziari accolgono con tanto favore questi programmi. Il risultato è che mentre ormai il 97,8 per cento delle famiglie brasiliane possiede un televisore e l’86 per cento un telefono cellulare (proporzione triplicata in dieci anni), meno del 70 per cento degli alloggi fruisce di servizi sanitari adeguati. Così mentre è triplicata la densità dei computer (presenti ormai in quasi il 50 per cento delle case), quella di buona acqua potabile è rimasta stazionaria poco sopra il 50 per cento, così che oggi più brasiliani possiedono un computer di quanti possano bere dal rubinetto in tutta sicurezza. L’entusiasmo poi non conosce più limiti se si pensa che si è così innescato un boom del credito che negli anni di Lula è passato dal 23 per cento al 49 per cento del pil, con lauti margini di profitto per tutti. Chi si attarda nei grandi empori di elettrodomestici in cui la domenica mattina le giovani coppie delle favelas si aggirano ansiose, concentrate, tra schermi al plasma e megafrigoriferi, si accorge che la vendita a rate è assicurata a un «modico» interesse solo (sic!) del 4,5 per cento mensile (!) che – composto – corrisponde a un 78 per cento annuo, quel che da noi è considerato un tasso da usura, e che in 15 mesi (la rateazione più usuale) fa più che raddoppiare il prezzo dell’elettrodomestico. La fantomatica ‘classe media’ Scopriamo qui un altro aspetto per cui il riformismo brasiliano si muove all’interno delle coordinate concettuali del neoliberismo, non solo perché avanza nella linea tracciata da Ruth Cardoso, o perché agisce attraverso i cash transfers, ma perché tutta la sua azione è permeata dall’ideologia della «nuova classe media». Un giorno bisognerà pur smascherare la soperchieria perpetrata da questo termine di cui l’establishment abusa senza pudore. Per esempio, sono trent’anni e oltre che sento parlare delle meravigliose e progressive sorti della mitica «classe media indiana» che sempre dovrebbe sfondare il tetto dei 100 o 200 milioni di persone, ma che è smentita senza appello dalle statistiche dei redditi. Intanto, fedeli al detto «traduttore/traditore», i Soloni del mercato prendono il termine middle class coniato negli Stati Uniti, per usarlo invece nel significato europeo di «piccola e media borghesia». Negli Usa middle class copre ormai l’accezione della sola lower middle class (altrimenti ci si premura di specificare upper middle class), cioè quella che include la popolazione lavoratrice che va dagli operai ai maestri elementari, postini, poliziotti, impiegati di basso livello. Nel corrente linguaggio politico Usa, le misure a favore della middle class sono quelle che alleviano i redditi «medio-bassi». Da questo punto di vista, è vero che nel mondo c’è una nuova global middle class, nel senso che è cresciuto il proletariato mondiale. Ma di tutt’altro timbro è lo squillo di tromba con cui i vari Financial Times e araldi del liberismo annunciano l’avvento di una nuova geografia globale del pianeta. Anche Dilma Roussef, al Forum di Davos di quest’anno, ha affermato che il Brasile «sta diventando un paese di classe media», con 45 milioni di persone che vi sono entrate (Valor, 24 gennaio 2014). La differenza tra classe lavoratrice e middle class sta nel fatto che l’una è definita dalla produzione (i lavoratori in quanto componenti del processo di produzione), mentre l’altra è definita dal consumo (vi appartiene chi dispone di risorse necessarie a consumare). Tanto che la stessa Dilma (come è familiarmente chiamata) sempre a Davos continuava snocciolando che solo metà dei domicili avevano un computer e una lavatrice e che quindi erano «aperte enormi opportunità per gli investitori» perché si stava creando «un grande mercato interno di consumo di massa». Capacità di consumo come categoria centrale sociologica, l’unica per lo meno che può interessare gli «investitori». Il cittadino sussunto kantianamente dal consumatore. È appena uscito in Brasile O mito da grande classe média: capitalismo e estrutura social (Boitempo Editorial, São Paulo) in cui l’economista Márcio Pochmann, molto vicino al Pt (è presidente della Fundação Perseu Abramo), ribadisce: non è affatto vero che si è creata una nuova classe media: ad essersi ampliata è la classe lavoratrice. La grande azione del lulismo, secondo Pochmann, non è stata quella di creare una fantomatica classe media, ma di far entrare nel mercato del lavoro formalizzato persone che prima operavano nel sommerso o erano disoccupate. Si tratta di 22 milioni di posti di lavoro. Ma di questi posti creati tra il 2004 e il 2010, il 94 per cento è retribuito con salari bassissimi, cioè fino a una volta e mezzo il salario minimo (che, è bene ricordare, oggi è di 724 reais al mese, cioè 242 euro). Sono evidenti le implicazioni politiche e ideologiche della distinzione tra classe media e classe lavoratrice: quando ad aprile il Financial Times ha lanciato una serie di articoli sulla «fragile global middle class», in realtà si preoccupava della tenuta nella sua capacità di consumo e cioè del restringersi degli sbocchi di mercato: 6 1 appena i flussi di capitale si riorientano e si ritraggono dai paesi emergenti, appena la domanda di materie prime si raffredda, ecco che la capacità di consumo si affloscia e la nuova global middle class si rivela fragile. Senza contare che le sinistre latinoamericane hanno usufruito di 13 anni di distrazione statunitense: gli Usa erano impelagati altrove dal ginepraio mediorientale, da due guerre sostanzialmente perse, dall’ascesa della Cina. Ma è possibile che gli Usa tornino a occuparsi di quella che dalla dottrina Monroe in poi è la loro riserva di caccia. Già un po’ lo stanno facendo. Allora altro che fragilità della middle class. Il peso del denaro 6 2 Ma ancor prima di quel giorno, quel che i brasiliani temono si dimostri precaria e, soprattutto, reversibile, è non tanto la fantomatica classe media, quanto la redistribuzione del reddito. Non dimentichiamo che almeno fino al 2007 i corsi delle materie prime hanno avuto un boom dovuto in particolare all’esplosione della Cina come fabbrica del pianeta e affamato importatore di quel che il Brasile aveva da offrire, dalla soia alla carne ai minerali di ferro. Questi corsi elevati hanno rimpinguato il commercio estero brasiliano e di riflesso le casse dell’erario, fornendo a Lula (tra parentesi, «lula», diminuitivo di Luiz o Luis, in portoghese significa calamaro) il tesoretto con cui finanziare la redistribuzione. Quando a cena chiedo ad André Singer se il successo dell’azione di Lula è attribuibile, per usare i termini di Machiavelli, a «virtù» o a «fortuna» (di trovarsi al posto giusto al momento giusto), mi risponde: «Ambedue». Ma ora la locomotiva cinese rallenta, i corsi delle materie prime scendono o almeno stagnano e il gruzzolo a disposizione dello Stato federale diminuisce. Il riformismo puramente redistributivo, legato alla crescita economica, diventa problematico senza, appunto, quelle che una volta venivano chiamate riforme di struttura. È quel che João Pedro Stédile chiama il «neosviluppismo» (neodesenvolvimentismo) in un’intervista del 16 aprile al maggior (e più interessante) sito brasiliano di sinistra, Carta Maior, che ha più di 700 mila abbonati 6. Per Stédile, 61 anni, uno dei fondatori e leader del Movimento dos trabalhadores rurais sem terra (Mst), il «neosviluppismo» ha toccato il suo tetto. 6 www.cartamaior.com.br/?/Editoria/Politica/Stedile-o-neodesenvolvimentismochegou-ao-seu-limite-/4/30740. Paradossalmente, uno dei limiti di questo «neosviluppismo» rientra nella categoria delle conseguenze non volute: per assicurarsi la neutralità dei mercati, Lula ha perseguito una politica monetaria ultraortodossa, con interessi alti (anche oggi il tasso di sconto è all’11 per cento quando l’inflazione non raggiunge il 6 per cento, offrendo quindi un tasso reale del 5 per cento, spropositato per gli standard europei e superiore persino a quello turco) che però ha mantenuto alto il valore del real sfavorendo le industrie nazionali: il risultato è che, nonostante lo sviluppo dell’ultimo decennio, oggi il paese si sta deindustrializzando. Il peso dell’industria nella formazione del pil brasiliano è sceso al 14 per cento nel 2012 (aveva toccato il 27 per cento a metà degli anni Ottanta) ed è tornato al livello che aveva nel 1956 sotto il governo di Juscelino Kubitschek (allora era del 13,8 per cento) 7. Per il Brasile si è parlato anche di «malattia olandese», termine coniato nel 1977 dall’Economist che aveva notato come l’Olanda si fosse deindustrializzata dopo la scoperta di giacimenti di gas nel 1959. In realtà la deindustrializzazione è dovuta al prevalere degli interessi finanziari, e quindi a un relativo disinteresse della borghesia brasiliana a dotarsi di un’industria nazionale: tutto il settore automobilistico è in mano straniera e in genere le uniche industrie rimaste sotto il controllo brasiliano sono quelle a partecipazione statale, come Petrobras: «La borghesia brasiliana non ha mai voluto essere una borghesia nazionale, non gliene importa nulla», è il ritornello che mi sento ripetere da tutti. Ma non si tratta solo di deindustrializzazione. Il leader dei lavoratori senza terra ha ragione quando dice che senza riforme di struttura più in là di così non si può andare. Intanto per cominciare il lulismo non si è mai azzardato a proporre una vera riforma agraria. Con qualche ragione, perché come ricorda lo stesso Stédile, nel 1964 il presidente João Goulart presentò una riforma agraria il 13 marzo, e il primo aprile i militari avevano già fatto il golpe e preso il potere; nel 1985 l’Instituto Nacional de Colonização e Reforma Agrária (Incra) presentò il 4 ottobre un piano di riforma agraria al presidente José Sarney e il 13 ottobre il capo dell’Incra era destituito. La riforma agraria è un terreno particolarmente interessante perché mostra come le nostre categorie mentali non si adeguano alle trasformazioni dei modi di dominio. La deprecazione ha sempre 7 www.academia.edu/1481178/THE_THREAT_OF_BRAZIL_DEINDUSTRIALIZATION. 6 3 6 4 circondato i latifondisti, termine che non solo designa l’estensione della proprietà (la latitudine del fondo), ma evoca soprattutto arretramento, struttura feudale, paternalismo quasi schiavista e genera esecrazione. Obbrobrio che invece non si riversa sull’asettico «agroalimentare», cioè sulla gestione multinazionale e tecnologica avanzata di estensioni di terreno ancora più grandi, in cui si accoppia capitalismo sofisticato e sfruttamento bracciantile, in un amalgama feudal-finanziario. Si pensi che oggi, come ci informa Stédile, l’80 per cento dello sterminato suolo coltivabile brasiliano è destinato solo a quattro colture: soia, canna da zucchero, eucalipto e pascolo: l’allevamento è diventato una delle grandi voci di esportazione del Brasile, che è ora il maggiore esportatore al mondo non solo di caffè, zucchero, succo d’arancia, tabacco, ma anche di bue e pollo, e la seconda maggior fonte di soia 8. Jbs Friboi è la più grande multinazionale brasiliana dell’agroalimentare e la più grande al mondo per il trattamento della carne (meat processing). L’astratta ubiquità della nozione di «multinazionale» nulla toglie alla violenza e materialità del dominio che essa esercita: «Una legge del 1997 permette alle corporazioni di finanziare le elezioni», mi dice Ladislau Dowbor. «E nelle ultime elezioni, una sola corporation, Jsb Friboi, ha fatto eleggere ben 41 deputati (su 513) al parlamento federale. Di questi 41, quando la Camera ha discusso una legge per combattere la deforestazione in Brasile, 40 hanno votato contro. Se una sola corporation ha questo potere, immagina il combinato disposto delle multinazionali dell’agrolimentare, dei banchieri, delle imprese di costruzione, di quelle automobilistiche. Alla fine, come dicono gli americani, noi abbiamo il miglior parlamento che il denaro possa comprare (the best Congress money can buy)». Il ‘riformismo debole’ di Lula Questo formidabile peso del denaro spiega perché il lulismo non abbia mai affrontato il tema della riforma fiscale, continuando a ricorrere alla tassazione indiretta ed evitando di gravare sui redditi abbienti: mentre nel 2010 nei paesi Ocse il peso medio delle tasse dirette (cioè sui redditi) era del 33 per cento e di quelle indirette del 34 per cento, in Brasile il peso delle tasse sui redditi era del 19 per cento nel 2011, quello sulle proprietà del 4 per cento mentre il 8 «It’s only natural. Commodities alone are not enough to sustain flourishing economies», The Economist, 9/9/2010. peso delle tasse indirette era del 49 per cento. Queste proporzioni dicono che le classi dominanti di fatto non pagano tasse, mentre il sistema fiscale è regressivo, cioè pesa di più sulle classi più povere attraverso le imposte sui consumi. Anche due settori nevralgici come l’istruzione e la sanità non sono stati oggetto di vere e proprie riforme strutturali. Il livello dell’istruzione pubblica resta deplorevole (tranne che in alcune università statali frequentate da rampolli delle classi dominanti che fino al liceo hanno frequentato scuole private). Per quanto riguarda la sanità, la Costituzione del 1988 stabilisce il diritto alla salute e un Servizio sanitario nazionale è stato creato nel 1990 sulla base di quelli francese e inglese: «In teoria il ruolo del settore privato dovrebbe essere complementare e regolato strettamente dall’Agenzia nazionale per la salute. In pratica la privatizzazione del sistema sanitario si è espansa in assenza di risorse pubbliche (che quando esistono sono dirottate per altri scopi). […] Nel 2009 la spesa privata in salute ammontava al 5,3 per cento del pil brasiliano, mentre le spese pubbliche arrivavano solo al 3,5 per cento» 9. L’unica misura di grande impatto è stata quella d’importare 7.400 medici da Cuba per destinarli alle aree meno servite dai dottori brasiliani (il governo è stato accusato di finanziare così il comunismo cubano) 10. Ma anche qui non è una riforma strutturale, quanto una soluzione d’emergenza (ma con un risultato inatteso: «Per la prima volta dei brasiliani poveri hanno visto un medico nero in Brasile», mi viene fatto osservare). Sono molte le riforme che incontrano l’infausto destino della legge sulla salvaguardia delle foreste. Infatti dal punto di vista parlamentare sia Lula sia Dilma hanno governato e governano con coalizioni eterogenee, visto che il loro partito, il Pt, ha solo 88 deputati su 513 e 15 senatori su 81 11. Ogni riforma è quindi il risultato di un’estenuanL. Lavnas, op. cit., p. 34. Il programma Mais médicos comprende 9.425 medici, di cui 7.400 cubani, 1.125 brasiliani e 900 di altri paesi. 11 Oltre al Pt, ecco i partiti che entrano nella coalizione: il Pmdb (Partido movimento democrático brasileiro), di centro-destra: 76 deputati e 20 senatori; il Pp (Partido progressista), di centro-destra: 39 deputati e 5 senatori; il Pdt (Partido democrático trabahista), di centro-sinistra: 25 deputati, 5 senatori; il Pcdob (Partido comunista do Brasil): 15 deputati e 2 senatori; il Ptb (Partido trabalhista brasileiro) di centro-destra: 21 deputati e 6 senatori; Prb (Partido republicano brasileiro), portavoce dei pentacostali (Igreja universal do reino de Deus): 9 deputati e un senatore. Il Psb (Partido socialista brasileiro, 32 deputati e 4 senatori) fa storicamente parte della coalizione, ma adesso ne è fuori perché presenta un candidato (Eduardo Campos, ex governatore dello Stato di Pernambuco) alle presidenziali del prossimo autunno. 9 10 6 5 6 6 te contrattazione, non solo all’interno del parlamento, ma con i formidabili poteri dell’economia. Su questo punto, l’ammirazione per le sconfinate capacità negoziali di Lula è unanime in Brasile: «Lula è un genio nel contrattare da posizioni di debolezza», dice Dowbor. Il problema è quanto questo modo di procedere sia il massimo che un governo riformista può ottenere, o quanto invece sia un compromesso al ribasso. Quanto a incisività: è vero che il salario minimo è cresciuto del 60 per cento in termini reali, ma ancora oggi è abissalmente lontano da quel che il Departamento Intersindical de Estatística e Estudos Socioeconômicos (Dieese) definisce il salario minimo necessario (a usufruire dei diritti sanciti dalla Costituzione brasiliana): nell’aprile 2014 il salario minimo nominale è di 724 reais, mentre quello necessario è di 3.019 reais, più del quadruplo 12. C’è di più: al ritmo attuale di miglioramento, ci vorranno più di due decenni perché il salario minimo nominale raggiunga quello necessario, sempre che la congiuntura internazionale non cambi e che la crescita del pil non rallenti. Questo dato ci invita a leggere con cautela i bollettini di vittoria del Pt: se è vero che secondo le definizioni ufficiali, la percentuale di brasiliani che vive sotto la soglia di povertà è scesa dal 48 al 26 per cento (un progresso strabiliante), è anche vero che molto dipende dalla definizione. Se si applicasse al Brasile la definizione europea (la soglia in Europa è posta al 50 per cento del reddito mediano, non medio), allora sarebbe tuttora povero il 40 per cento dei brasiliani: vuol dire che ancora oggi due brasiliani su cinque vivono con meno di 90 euro al mese. Dopo 11 anni di lulismo in Brasile la disuguaglianza è ancora «oscena», per riprendere l’aggettivo usato dal sociologo Chico (Francisco) de Oliveira. Si capisce perché le voci più critiche non risparmiano il sarcasmo. Suona un po’ eccessivo il paragone che mi butta là a casa sua Milton Temer, ex dirigente del Pt, ex deputato, fuoriuscito a sinistra e fondatore del Psol (Partido socialismo e liberdade), nato da una scissione a sinistra del Pt e che oggi ha 3 deputati e un senatore («Noi siamo un po’ come Sel in Italia»): «Lula è l’Hollande brasiliano». Gli obietto che Hollande non è sicuro nemmeno di portare a termine il primo mandato, mentre Lula mantiene al potere il Pt per quattro mandati e passa (è quasi certo che la sua delfina Dilma sarà riconfermata presidente nel voto autunnale). Lula ha redistribuito denaro, diminuito la povertà, ridotto la disoccupazione; finora Hollande ha fatto tutto il contrario. Temer si riferisce però al12 www.dieese.org.br/analisecestabasica/salarioMinimo.html. la politica macroeconomica: il primo atto di Lula al potere era stato di scegliere come governatore del Banco Central do Brasil Henrique Meirelles, sfornato dalla Harvard Business School, esponente del Psdb di Ferdinando Henrique, ma soprattutto ex amministratore delegato della statunitense Bank of Boston e guardiano dell’ortodossia Fmi, e che per di più nel 2002 si era candidato proprio contro il Pt. Milton Temer è troppo polemico, ma una voce non certo ostile, come quella di André Singer, definisce il lulismo come «riformismo debole» 13. Prima che universitario, Singer è stato portavoce della presidenza della Repubblica brasiliana durante il primo mandato di Lula. Suo padre, Paul Israel Singer, ebreo viennese trapiantato in Brasile nel 1940, è stato un attivista della sinistra marxista e poi tra i fondatori del Partito dos trabalhadores. Secondo André Singer, rispetto alle posizioni di sinistra radicale che aveva il Pt alla sua fondazione, nell’ultimo decennio la strategia del lulismo si è invece basata su un doppio binario, da un lato un gradualismo nelle riforme e dall’altro un conservatorismo nell’assetto sociale, redistribuzione dei redditi e mantenimento dello status quo e dell’ordine. Secondo Singer, è grazie anche a questo suo essere «partito dell’ordine» che (a differenza di quel che era successo nel 1989 e nel 1994), nelle elezioni del 2002 il Pt avrebbe potuto sfondare nel sottoproletariato tradizionalmente impermeabile alla sinistra e aggregarlo a una «coalizione di classe». Compromesso storico o compromessi al ribasso? Il mantenimento dello status quo in Brasile significa in soldoni accettare che l’oligarchia continui a fare i propri comodi, cercando di strapparle più concessioni possibile. O, se si vuole usare un linguaggio più nobile, vuol dire firmare un «compromesso storico» con le classi dominanti, per gli stessi timori per cui l’allora segretario del Partito comunista italiano, Enrico Berlinguer, aveva formulato questa strategia all’indomani del golpe di Pinochet in Cile (1973). Già, perché la «lunga durata», di braudeliana memoria, fa valere i suoi diritti anche in Brasile: a ogni passo inciampi nel passato. Nelle vie delle città costellate da nomi di baroni, marchesi, principi, puoi percepire quanto sia stata introiettata la gerarchia feudale: a A. Singer. Os sentidos do lulismo: reforma gradual e pacto conservador, Cia. das Letras, São Paulo 2012. 13 6 7 6 8 nessuno in Italia verrebbe in mente di chiamare via Conte di Cavour una via Cavour. Proprio come non ti viene mai permesso di scordare che questo è stato l’ultimo paese al mondo ad avere abolito la schiavitù nel 1888. E la lunga durata si fa sentire nel peso sotterraneo, indicibile che le Forze armate continuano ad avere: non si può dimenticare che per quasi un secolo (dal 1891 al 1985), tranne brevi intervalli, il Brasile è stato o direttamente governato o indirettamente dominato dai militari. L’arroganza delle Forze armate è tale che perfino ora i libri di testo delle accademie militari designano il golpe del 31 marzo 1964 come una «rivoluzione». Quest’anno cade il cinquantenario di quel golpe e generali – che a suo tempo torturarono e uccisero – si permettono di scrivere ancora oggi sui giornali che loro abbatterono il governo civile perché «João Goulart promuoveva l’indisciplina. Fu la goccia che fece traboccare il calice di fiele accumulato con tanta indignazione» 14. E un ex presidente della Camera dei deputati dei generali dice che «il regime del 1964 non fu una dittatura» 15. In Brasile la sindrome cilena di Berlinguer è infinitamente più profonda, intensa e paralizzante che in Italia. Anche perché, come ovunque, l’esercito non agisce di testa propria, ma i regimi militari sono sempre stati sponsorizzati, appoggiati e sollecitati dall’oligarchia brasiliana: nel mondo contemporaneo solo per il Brasile i manuali di storia definiscono «Repubblica degli oligarchi» (18941930) una fase della sua storia. Quando Dowbor parla dell’abilità di Lula nel contrattare «da una posizione di debolezza», forse si riferisce anche al serpeggiante senso d’impotenza di fronte al coacervo mai districato di potere militare e dominio dell’oligarchia civile. Come nel Sud d’Italia si dice che la jella porta sfortuna anche a chi non ci crede, così in Brasile nessuno crede a un nuovo intervento dei militari nella vita pubblica, ma è meglio non stuzzicarli. È comprensibile perciò la cautela del Pt, la «debolezza del suo riformismo». Un cambiamento più deciso richiederebbe forse un prezzo troppo alto da pagare. D’altra parte è sempre lo stesso dilemma: se non ora, quando? 14 Il generale Armando Luiz Malan de Paiva Chavez su Folha de São Paulo, 27/3/2014. Paiva Chavez è inserito nella lista dei torturatori (www.documentosrevelados.com.br/nome-dos-torturadores-e-dos-militares-que-aprenderam-atorturar-na-escola-das-americas/lista-dos-torturadores). 15 Folha de São Paulo, 25/3/2014. La struttura delle città, specchio della società È questo secolo di dominio militare alle spalle (si spera per sempre) a far apparire così normale un titolo come «i tank della marina entrano alla Maré» e a introiettare mentalmente lo strapotere e l’arbitrio degli apparati di sicurezza: secondo Amnesty International ogni anno la polizia è responsabile di più di 2 mila uccisioni 16. Come lo storico Eric Hobsbawm ha per primo scritto nel suo libro I banditi (1969), l’antagonismo sociale assume spesso le forme della criminalità e viene descritto e represso come tale. Il Brasile è uno dei paesi più violenti al mondo. Nel 2012 ci sono stati più di 50 mila omicidi 17: con poco meno del 3 per cento della popolazione globale, il Brasile conta circa il 12 per cento degli omicidi dell’intero pianeta. Quando le Nazioni Unite ci dicono che tra il 2002 e il 2006 la polizia di Rio de Janeiro e di San Paolo è stata implicata in almeno 11 mila «resistance killings» – in cui le vittime sono state sparate dopo aver aperto il fuoco sulla polizia – non può fare a meno di tornare alla memoria il brigantaggio meridionale dopo l’unità d’Italia: in quella che fu presentata come una lotta contro la criminalità, perirono più soldati «che in tutte le altre guerre del Risorgimento messe insieme» 18. Perciò non è un caso se la favela Pavão-Pavãozinho, che è appollaiata a strapiombo su Copacabana, viene chiamata «Vietnam», mi dice Julia Michaels, giornalista statunitense che tiene il blog bilingue (portoghese/inglese) più accurato su Rio (riorealblog.com). Parliamo nel salotto di casa sua su cui incombe il morro Cantagalo a cui è abbarbicata la favela (morro vuol dire colle, poggio, ma a Rio questi colli sono cocuzzoli ripidissimi, impervi, per lo più simili al celebre Pan di Zucchero). Le favelas proliferano in tutte le città brasiliane, ma a Rio hanno di particolare che, come isole sopraelevate, sorgono anche in mezzo ad aree ricche, faraglioni di miseria in un lago di benessere. A differenza di molte altre grandi città dove i ricchi risiedono in alto e i poveri in basso (a San Francisco il li16 www.amnesty.org/en/news/brazil-police-still-have-blood-their-hands-20-years-massacre-2013-07-24. 17 Rapporto Onu: www.onu.org.br/onu-50-mil-pessoas-foram-assinadas-no-brasil-em-2012-isto-equivale-a-10-dos-homicidios-no-mundo. 18 D. Mack Smith, Storia d’Italia 1861-1958 (1959), trad. it. Laterza, Bari 1965, 2. voll., vol. I, p. 124. I dati sui «resistence killings» sono stati forniti nel 2010 dall’Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights (Ohchr): www.ohchr.org/en/NewsEvents/Pages/DisplayNews.aspx?NewsID=10089&LangID=E. 6 9 7 0 vello sociale è proporzionale al livello sul mare e i più ricchi abitano in cima ad altrettanto vertiginose colline), a Rio i ricchi stanno in basso, nei lussuosi condomini vicino al mare e i poveri li guardano dalle loro baracche in alto 19. Perciò il senso dell’espressione «classi pericolose» assume qui una nuova materialità: «I privilegiati vivono nel terrore che i barbari calino a valle, irrompano giù dal morro», dice Julia Michaels. Questa peculiare geografia urbana ha radici lontane, anche se la grande esplosione si ebbe con la massiccia migrazione interna degli anni Sessanta e Settanta: all’inizio degli anni Sessanta solo il 45 per cento dei brasiliani era urbanizzata, negli anni Ottanta il 75 per cento 20. Le prime favelas, Saúde e Providência, nacquero all’inizio del Novecento quando i popolani della Rio vecchia furono scacciati dal centro per gli sventramenti operati dal sindaco (e ingegnere) Francisco Pereira Passos per le stesse ragioni igieniche e di controllo dei tumulti popolari che avevano motivato il prefetto Haussmann a Parigi. Sventramenti che furono copiati in tutte le città del Terzo Mondo e che perciò Mike Davis ha definito «Haussmann ai Tropici» 21. D’altronde l’esiliato Stefan Zweig nel 1941 era pieno di ammirazione per «una città rilucente di pulizia», dall’«esemplare servizio igienico» (di cui le favelas «rappresentano indubbiamente una macchia dal punto di vista igienico e sociale») 22. «Non solo le favelas sono state create dalla razionalità igienista, ma il discorso igienista è stato essenziale per costruire la favela come male, come classi pericolose», mi dice Mário Pires Simão, direttore dell’Observatório de Favelas do Rio de Janeiro nel suo ufficio che si trova appunto alla Maré: «È un nuovo colonialismo interno, con scopi elettorali. Questa “pacificazione” è una strategia di guerra. Quando tu dai alla polizia il permesso di entrare nelle case in piena notte senza mandato, trasmetti il messaggio che voi siete tutti colpevoli, tutti conniventi con il narcotraffico: bisogna instaurare un altro rapporto tra Stato e cittadini». 19 L’unica altra metropoli (a mia conoscenza) con quest’inversione socio-spaziale era Istanbul dove i gezekondu (l’equivalente turco delle favelas) erano appollaiati in alto anche in zone molto centrali, prima che l’attuale gentrificazione li espellesse verso l’estrema periferia. 20 D. Saunders, Arrival City. How the Largest Migration in History Is Reshaping Our World, Alfred Knopf, Toronto 2010, p. 74. Saunders è un cantore della nuova classe media che fiorisce nelle favelas e nei gezeckondu. 21 M. Davis, Il pianeta degli slum, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 91 e ss.. 22 St. Zweig, Brasilien. Ein Land der Zukunft,1941, trad. it. Brasile. Terra del futuro, Elliot Edizioni, Roma 2013, p. 171. Il problema è che la struttura delle città riflette e magnifica la struttura della società che queste città edifica («le città sono macchine che producono diseguaglianza», dice Simão). Da questo punto di vista la politica urbanistica è un concentrato del lulismo, del suo riformismo graduale, e nello stesso tempo «debole». «Stiamo lavorando perché lo Stato sia presente nella vita quotidiana della gente. […] In passato c’era solo una polizia che interveniva con brutalità [ora] stiamo varando il più grande programma di investimento per urbanizzare le favelas, per dotarle di servizi igienici e per la costruzione di alloggi che il Brasile abbia mai avuto», disse Lula visitando la favela di Santa Marta nel 2009 23. Stava parlando del piano Minha casa minha vida (Mia casa, mia vita). Un intervento come quello indicato da Lula per Santa Marta andava bene come fiore all’occhiello, ma sarebbe stato troppo costoso da applicare a tutte le favelas di Rio, in cui abita un quinto degli abitanti della città. Senza contare che non ci sono solo le favelas: se arrivi a Rio in autobus da San Paolo ed entri in città dalla porta di servizio, devi fare un bagno di realtà rispetto alla Rio sognata da Zweig, farti largo in una povertà che somiglia molto a quella mediorientale dei quartieri popolari del Cairo, per l’affollata cenciosità degli umani, la slabbrata fatiscenza degli edifici, lo sciamare frettoloso d’indaffarata miseria che corre sui cavalcavia sopra le rodovias urbane. Dal compromesso alla connivenza? In realtà il risultato della «pacificazione» delle favelas e del piano Minha casa minha vida «sta producendo paradossalmente gli stessi effetti per cui era stato criticato il Banco Nacional da Habitação (simile all’Istituto per le case popolari) istituito nel 1964 dai militari», mi dice Helena Galiza che per trent’anni ha lavorato come funzionaria del governo alla riabilitazione dei centri storici, «perché si concepisce la casa come semplice abitazione, e allora non è importante dove si trovi l’alloggio. Si prendono persone che vivono nelle favelas al centro e le si spostano a 40 km, a 60 km di distanza in casermoni di estrema periferia, sapendo che queste persone dovranno poi venire sempre a lavorare in centro. In Brasile ci sono 6 milioni di alloggi vacanti, che quindi sarebbero più che sufficienti ad alloggiare tutti. Invece si procede a operazioni immobiliari per «Brazil’s Battle for Shanty Town Residents», Bbc News, 4/2/2009, news.bbc.co.uk/2/hi/americas/7870395.stm. 23 7 1 7 2 rendere signorili (gentrify) le vecchie favelas ed espellere gli abitanti pericolosi». Qui siamo oltre il mantenimento del vecchio ordine. Qui il lulismo sta facendo quel che non era riuscito neanche ai generali, cioè estromettere i proletari e sottoproletari dal tessuto urbano. Forse fuori tempo massimo il Pt risponderà affermativamente alla domanda che 73 anni fa aveva formulato l’austriaco Stefan Zweig nel suo libro sul Brasile: «Alcune cose singolari che rendono Rio così colorita e pittoresca sono purtroppo già minacciate. Innanzitutto le favelas, i villaggi neri nell’interno della città. Le vedremo ancora fra un paio d’anni?» 24. Neanche il fatto che l’esule scrittore si sarebbe suicidato l’anno dopo (nel 1942) insieme alla sua giovanissima moglie Lotte Altmann redime il mieloso paternalismo con cui Zweig rimpiange già una scomparsa futura: «Con queste favelas sparirà un frammento singolare e impareggiabile di Rio e io stento a pensare le colline di Gavea e il vecchio Morro senza i piccoli villaggi arditamente appiccicati alle rocce che nella loro primitività ci ricordano quante cose superflue possediamo e pretendiamo: almeno una di queste tessere di mosaico dovrebbe venir conservata nel quadro della città, in quanto rappresenta l’umanità naturale nel mezzo della civiltà» 25. Le favelas di Zweig sono ancora «innocenti» e innocue, quasi zoo umani, dove visitare il primitivo in grandezza naturale. Su di loro non è ancora stato costruito l’immaginario solforoso, delinquenziale e irrecuperabile che oggi le stigmatizza. Da quest’immagine «irrecuperabile» delle favelas può dipendere la logica da città dormitorio che sembra presiedere al programma Minha casa minha vida, per cui, a parte qualche caso da mostrare ai turisti, come Santa Marta con la sua teleferica (e la statua di Michael Jackson), gli abitanti vanno sistemati in quartieri dormitorio lontani dai loro luoghi di lavoro. Gli abitanti delle favelas costituiscono infatti il nerbo del battaglione di lavoratori dei servizi che assicurano una vita confortevole ai brasiliani agiati. Fino a ora erano indispensabili e incombenti. Sempre indispensabili restano, ma sempre meno incombenti saranno, sul modello che – grazie ai trasporti pubblici – nelle città europee già da un secolo ha disaccoppiato servitù e signori per costituire le banlieues rouges. St. Zweig, op. cit., p. 171. Ivi, p. 173 e 172 (corsivo mio). È significativo che l’altra tessera del mosaico che Zweig vuole preservare è «la mangue, il grande mercato dell’amore», cioè il quartiere dei bordelli e delle puttane. 24 25 È possibile perciò che la miopia delle politiche urbane del Pt dipenda dagli stessi fattori culturali per cui il welfare europeo del secondo dopoguerra ha disastrato la geografia urbana con le città dormitorio. Ma la miopia del Pt non è del tutto innocente. Perché le costruzioni di interi quartieri di edilizia popolare nella periferia estrema sono finanziate col denaro pubblico ma vengono affidate ai grandi operatori immobiliari cui nel contempo sono cedute le aree centrali sgombrate dei residenti poveri, per edificarvi complessi di edilizia di lusso. Sono sempre gli stessi giganti dell’edilizia e dei lavori pubblici: Odebrecht (41miliardi di dollari di fatturato nel 2012), Carvalho Hosken, Carioca, Oas, Andrade Gutierrez ricevono gli appalti e guarda caso finanziano generosamente le campagne del Pt o del Pmdb (cui appartiene il sindaco di Rio Edoardo Paes). E forse qui giungiamo al limite politico del lulismo. Quello di essere caduto mani e piedi nella trappola dei grandi eventi. Di scivolare dal compromesso alla connivenza con le élite dominanti. Perché se è vero che i lavori pubblici sono necessari per stimolare la piena occupazione, bisogna poi vedere quali opere pubbliche un governo vuole privilegiare. Vi sono imprese essenziali, vitali, che però non sono appariscenti (tutto ciò è vero anche per l’Italia): ricostruire e risanare i sistemi fognari produce imponenti effetti economici, non fosse altro che attraverso i risparmi sulla spesa per la salute pubblica, però ha un difetto agli occhi della politica-spettacolo: quello di non portare grande lustro ai governi e non procurare turismo (ma a fine Ottocento i turisti visitavano su barche le appena costruite fogne di Parigi, «miracolo» della tecnica). Sarebbe possibile riabilitare il patrimonio edilizio esistente nei centri urbani per renderlo abitabile agli strati proletari della popolazione senza deportarla, come suggerisce Helena Galiza, ma quest’operazione procurerebbe meno profitti ai grandi immobiliaristi e, a cascata, alle banche che li finanziano. La politica dei grandi eventi Ecco perché la politica dei grandi eventi è un pendio facile da imboccare, anche se scivoloso e alla fine autodistruttivo. E su questo pendio Lula e Dilma si sono avviati con grande entusiasmo, coadiuvati dai poteri locali, dai comuni e dai singoli Stati: non gli bastavano i Campionati mondiali di calcio di quest’anno. Ci hanno aggiunto anche le Olimpiadi del 2016. C’è da incrociare le dita e toccare ferro, vista come è andata a finire con la Spagna che aveva organizzato le Olimpiadi di Barcellona del 1992 e la Grecia con 7 3 7 4 quelle di Atene del 2004. Ormai le spese faraoniche per le Olimpiadi costituiscono la nuova forma di saccheggio con cui il capitale privato ripulisce le casse degli Stati. Non solo. Come ricorda Mike Davis, «la storia delle Olimpiadi moderne ha un suo lato particolarmente sgradevole e poco noto»: per i Giochi del 1936 i nazisti purgarono dai senza tetto e dagli abitanti degli slums le zone di Berlino che sarebbero state visitate dai visitatori internazionali. Le Olimpiadi di Città del Messico (1968), Atene e Barcellona sono state accompagnate da ristrutturazioni urbane e sgomberi; a Seoul (1988) furono sloggiate ben 720 mila persone, mentre a Pechino (2008) sono state demolite migliaia di case 26. Il Brasile non sfugge alla regola. Le Olimpiadi sono occasioni di grandi affari che passano attraverso sgomberi di massa. Secondo il Dossiê do Comitê Popular da Copa e Olimpíadas do Rio de Janeiro, «la maggioranza degli sgomberi è localizzata in aree di estrema valorizzazione immobiliare, come Barra da Tijuca, Recreio, Jacarepaguá e Vargem Grande. Gli investimenti pubblici realizzati in trasporti (Brts) privilegiano le stesse aree, moltiplicando opportunità di investimento e rientro finanziario nell’edilizia per la classe medio-alta e commerciale» 27. Il dossier stimava nel maggio 2013 a 1.860 le famiglie già rimosse, a 5.325 quelle minacciate, per un totale di 7.385 famiglie, ma pochi mesi dopo il Guardian parlava di 19 mila famiglie rimosse (più di 100 mila persone) 28. Non si tratta solo delle Olimpiadi di Rio, il cui preventivo è salito già a 36 miliardi di reais (16 miliardi di dollari, dispaccio Reuters del 17 aprile 2014), in cui però ancora non sono conteggiati più della metà dei 52 progetti che saranno usati esclusivamente per i Giochi e che ancora devono essere approvati. Già ora ci sono i Campionati del mondo di calcio, con la costruzione o ammodernamento di 12 stadi in dodici città diverse, rifacimento di aeroporti, autostrade eccetera per un totale stimato di 14 miliardi di dollari. È facile prevedere che queste cifre saranno tutte sforate e che il costo complessivo dei due appuntamenti «sportivi» supererà di parecchio i 40 miliardi di dollari. Il problema (o il vantaggio, dipende dai punti di vista) delle opere per i megaeventi è che se ci sono sovrapprezzi o infrazioni contratM. Davis, op. cit., pp. 100-101. «Megaeventos e Violações dos Direitos Humanos no Rio de Janeiro», www.apublica.org/wp-content/uploads/2012/09/dossic3aa-megaeventos-e-violac3a7c3b5esdos-direitos-humanos-no-rio-de-janeiro.pdf. 28 «World Cup: Rio favelas being “socially cleansed” in runup to sporting events», 5/12/2013. 26 27 tuali, non si può cambiare appalto e indire una nuova gara: il tempo incombe, la scadenza è improrogabile e tutte le richieste vanno ingoiate. Lo spazio per la corruzione si moltiplica a dismisura, favorendo la mutazione antropologia del personale politico dei partiti di governo, secondo un copione già recitato in molti altri paesi. Si capisce perciò perché questa politica abbia suscitato una protesta così accesa, a prima vista incomprensibile: il paese più fanatico del calcio che protesta contro il calcio? Un campanello d’allarme era già suonato. Come in Italia, il calcio sarà in Brasile la religione nazionale, ma i templi di questa religione – cioè gli stadi – sono anche qui desolantemente vuoti. Come da noi, anche in Brasile i tifosi disertano gli spalti per tante ragioni, ma soprattutto per il prezzo salato dei biglietti. Se sono cari i biglietti dei campionati brasiliani (ogni Stato ha il suo), immaginiamo quelli del Campionato del mondo. Ecco perché Dilma, Lula, il Pt e tutto l’establishment sono da un anno col fiato sospeso e fanno gli scongiuri perché la squadra brasiliana vinca i Campionati del mondo ed eviti un’esplosione popolare (sulla falsariga di Gino Bartali che vinse il Tour de France quando ci fu l’attentato a Palmiro Togliatti nel 1948). Ma queste proteste ci dicono anche che la società civile brasiliana non è anestetizzata come quella italiana, ha ancora la forza di mobilitarsi e di farsi sentire. È questa folla che dà speranza nel futuro. Magari non nel senso del titolo di Zweig (Brasile.Una terra del futuro), che, fuggendo da un continente in rovina, messo a ferro e fuoco in nome della purezza della razza, dipingeva un’immagine idilliaca e poco realistica di questa terra. Ma in quello più modesto per cui, agli occhi ammirati di docenti africani in visita, il Brasile appare come «un’Africa possibile».* *Mi sia consentito ringraziare i miei amici Lamia Oulalou, Livio Sansone, Marc Saint-Upéry e Giancarlo Summa per la profusione di informazioni e di contatti che mi hanno dato; André Singer e Bernardo Ricupero dell’Università di San Paolo, Ana Claudia Pecchi della Ebert Stiftung a San Paolo e Marie Naudascher di Rtl a Rio de Janeiro per l’aiuto e l’ospitalità. 7 5 7 6