il brasile nel pallone

Transcript

il brasile nel pallone
53/75
nostra patria è il mondo intero
IL BRASILE NEL PALLONE
MicroMega
UN BILANCIO DI DIECI ANNI
DI LULISMO
Schiacciato tra la sempre incombente presenza dei militari e il peso
sproporzionato degli oligarchi, il Brasile che oggi ospita i Mondiali
di calcio è un paese radicalmente diverso rispetto a vent’anni fa,
ma che allo stesso tempo continua a fare i conti con i fantasmi
del passato. E il lulismo, che lo ha dominato a partire dai primi
anni Duemila, ha sempre oscillato fra necessità del compromesso
e connivenza con i poteri forti.
MARCO D’ERAMO
«Domani i tank della marina entrano nella Maré», titola a tutta prima pagina il più diffuso quotidiano di Rio de Janeiro, O Globo, in
una bella mattina primaverile. Maré è la più grande favela di Rio
Norte, con circa 130 mila abitanti.
Il titolo del Globo genera un dubbio: è una costatazione, una minaccia o una preoccupazione? Il dubbio viene dissipato il giorno
dopo, quando lo stesso quotidiano titola, sempre a tutta prima pagina, «Maré è occupata senza resistenza del narcotraffico» con il sottotitolo «Il maggior complesso di favelas della città è preso dalle
forze di polizia senza sparare un colpo» (i corsivi sono miei), mentre la foto a colori ci mostra elmetti di soldati che sporgono da un
blindato puntando i mitra contro le case circostanti.
Quel «senza sparare un colpo» è insieme trionfante e sollevato, un:
5
3
5
4
«Vedete? Non c’era motivo di preoccuparsi», ma anche: «Operazione riuscita perfettamente». Oppure: «Questa volta la pacificazione
sembra funzionare».
Fatto sta che, quando ci vai, alla Maré la vita scorre come al solito,
malgrado i tuoi amici si siano preoccupati: «Vai alla Maré? Sta’ attento».
Ma, più di tutto, resti attonito di fronte alla normalità di un’operazione militare, con i carri armati, contro un quartiere della più famosa metropoli brasiliana. Si presenta come uno sbarco (i tank sono della fanteria di marina brasiliana, l’equivalente dei marines).
Come se a Parigi Le Figaro titolasse tranquillo: «I blindati entrano
a Sarcelles», o Chicago «I marines prendono il South Side». Ed è
davvero un’operazione da sbarco, e le favelas sono davvero terra
straniera, anzi territorio nemico. Assisti a un’occupazione militare
sì, ma un’occupazione interna. È una guerra civile, ma vissuta nel
tran-tran quotidiano: le vicende militari sono raccontate dai tg
mentre i pendolari tornano a casa e le impiegate all’uscita dal lavoro passano al supermercato per nutrire la famiglia.
Ti chiedi come possa funzionare una società in cui è pressappoco
normale che intere aree siano da anni pattugliate e occupate dai
militari (mentre sullo stesso giornale un generale assicura – o spera – che «Maré non deve vedere l’esercito come un nemico»).
Ti chiedi come è possibile questo clima di guerra civile strisciante,
routinière, dopo tutti i dati che tanti interlocutori ti hanno snocciolato sull’incredibile progresso registrato dal Brasile negli ultimi
venticinque anni: già, perché in alcuni casi, si deve ricorrere proprio a questa parola caduta in disuso, progresso, dato che è l’unica
appropriata.
Balzi in avanti
Nel piccolo, appartato giardino di casa sua, a San Paolo, l’economista Ladislau Dowbor ti fa consultare l’Atlante dello sviluppo umano
brasiliano: dal 1991 al 2010 il balzo è impressionante. Il reddito medio pro capite è passato da 447 reais 1 nel 1991 a 592 nel 2000 a 794
nel 2010. La scolarizzazione è cresciuta ancor più: la percentuale di
bambini di 5-6 anni che frequentano la scuola è passata dal 37, 3 per
cento (1991) al 71,5 per cento (2000) al 91,1 per cento (2010), quasi
1
Dal 1991 il Brasile ha avuto come monete prima il terzo cruzeiro, poi il cruzeiro real, e infine dal 1994 il real.
triplicando; mentre la percentuale dei ventenni che hanno terminato il ciclo di studi secondario è passata dal 13 per cento (1991) al 24,8
(2000) fino al 41 (2010), più che triplicata. E, forse il dato che meglio
esprime questo progresso, l’aspettativa di vita alla nascita è passata
da 64,7 anni nel 2001 a 68,6 nel 2000, a 73,8 nel 2010: i brasiliani
hanno guadagnato nove anni di vita in un ventennio 2.
Naturalmente queste cifre vanno commisurate all’eterogenea immensità del Brasile (con i suoi 8,5 milioni di kmq è più vasto degli
Stati Uniti, Alaska esclusa), ai suoi 200 milioni di abitanti, alle
enormi disparità tra l’industriale Stato paulista, il povero NordEst, la quasi disabitata Amazzonia. Ciononostante, il balzo compiuto dal 1990 lascia trasecolati.
Vi è un altro elemento che le cifre dell’Atlante dello sviluppo umano
offrono alla riflessione, ed è che il progresso è avvenuto quasi linearmente, e che cioè c’è stata non rottura, bensì continuità tra l’ultimo decennio del secolo scorso e il primo del nostro, nonostante
la gravissima crisi economica che il paese conobbe a cavallo del
millennio. È stupefacente, visto che gli anni Novanta furono l’epoca di Ferdinando Henrique Cardoso (chiamato familiarmente dai
brasiliani «Ferdinando Henrique», o «FHC» per abbreviare, presidente dal 1995 al 2002), mentre dal 2003 il Brasile vive all’ora del
lulismo, prima con Luiz Inácio Lula da Silva stesso, presidente dal
2003 al 2010, e poi con Dilma Roussef, attuale presidente (le prossime elezioni si terranno a ottobre di quest’anno). FHC era l’uomo
del Fondo monetario internazionale, del Piano Real, delle privatizzazioni a tappeto, mentre Lula è il sindacalista leader del Pt, Partido dos trabhadores.
Se i carri armati della marina devono intervenire a Maré, e se il
sindaco di Rio de Janeiro ha chiesto a Dilma Roussef di far stazionare l’esercito a Rio da aprile fino alla fine dell’anno (e non solo
nel periodo dei mondiali di calcio, come previsto all’inizio), vuol
dire che l’enorme azione di redistribuzione compiuta dal lulismo
non ha estirpato le radici della lacerazione civile. Anzi, il timore è
palpabile che lo scontro divampi durante i mondiali di calcio, e
non solo all’interno degli stadi tra i tifosi, ma anche all’esterno tra
i cittadini, per approfittare della visibilità che assicurano le centinaia di reti televisive accorse da tutto il mondo. Come mai la redistribuzione non ha lenito, non ha «diluito» la violenza?
Altlas do desenvolvimento humano no Brasil 2013: O Índice de desenvolvimento humano municipal brasileiro, publicado pelo Programa das Nações Unidas para o
Desenvolvimento (Pnud) 2013, consultabile online: www.ipea.gov.br/portal/images/stories/PDFs/130729_AtlasPNUD_2013.pdf
2
5
5
5
6
Perché redistribuzione c’è stata: l’aumento del reddito pro capite
non esaurisce la storia, in quanto ci offre una crescita «media» che
può essere composta da chi tutto ha e da chi nulla tiene. Non per
niente si parlò di «miracolo economico» durante la dittatura militare (1964-1984), quando il Brasile conobbe sì un rilevante aumento
del prodotto interno lordo (pil), ma anche uno spietato divaricarsi
delle disuguaglianze sociali. Invece sotto il lulismo, la geografia sociale del Brasile si è modificata (si potrebbe dire che si è «traslata»)
profondamente, anche se non proprio nella direzione strombazzata
dai mass-media di tutto il mondo e dal lulismo stesso, cioè nella
creazione di una «nuova classe media» che rimane elusiva.
L’azione più rilevante è consistita nel far emergere uno strato sommerso della popolazione brasiliana, uno strato valutato intorno a
35 milioni, 45 milioni o 60 milioni a seconda delle fonti e delle
persone con cui parlo. Ladislau Dowbor mi racconta in termini
quasi epici: «Nei primi anni dovemmo organizzare l’accesso a 60
milioni di brasiliani fantasma che non avevano carta d’identità,
non avevano codice fiscale, non esistevano. Dovemmo fare ricorso
alle organizzazioni private, alle ong, alla cattolica Pastoral da Terra,
all’Mst (Movimento dos trabahadores sem terra). L’idea della Bolsa
família (assegni familiari) era ripresa da un programma, la Comunidade solidária, già lanciato dalla moglie di Cardoso, Ruth Correia Leite. Riuscimmo a raggiungere questi non-cittadini attraverso i
media elettronici e attraverso un bancomat rilasciato dalla Caixa
economica federal alle donne capofamiglia, alle madri single che
costituivano un buco nero nel tessuto sociale brasiliano. Procedemmo a un catasto unificato. Il pagamento della Bolsa era subordinato alla frequenza scolastica dei bambini e all’iscrizione al servizio sanitario (vaccinazioni). Nei primi due anni l’attacco contro la
Bolsa família fu violentissimo: obolo ai mendicanti, assistenzialismo, premio ai pigri. Ma al terzo anno cominciò a generare un impatto, perché per molte imprese si aprivano nuovi mercati, apparivano nuovi consumatori, così che le classi dominanti cominciarono a trovarvi un tornaconto e ridussero gli attacchi».
In realtà Bolsa família è ridicolmente modesta rispetto agli standard del welfare europeo: anche se ne beneficiano circa 45 milioni
di persone (dati del dicembre 2012), cioè il 23 per cento della popolazione brasiliana, è costata solo 21 miliardi di reais (7 miliardi
di euro al cambio attuale), lo 0,5 per cento del pil, e corrisponde a
poco meno di 13 euro al mese per beneficiario.
Quel che ha fatto perciò la Bolsa família è stato di funzionare da
volano per tutta un’altra serie di azioni: «Siccome gran parte del-
l’estrema povertà brasiliana si trova in campagna, abbiamo ampliato il programma di credito rurale Pronaf che era stato varato da
Cardoso ma il cui finanziamento è passato dai 2,5 miliardi di reais
nel 2002 ai 18 miliardi nel 2013. Il programma Luz para todos ha
portato l’elettricità a 1,5 milioni di famiglie. Nello stesso tempo il
programma ProUni ha fatto sì che un milione e mezzo di figli di famiglie povere si iscrivessero all’università», continua Dowbor:
«L’altro grande pilastro della redistribuzione è stato l’aumento del
salario minimo che è salito del 60 per cento in termini reali [ora è
di 724 reais al mese: 3 reais valgono oggi un euro] e che ha toccato
28 milioni di lavoratori e soprattutto 16 milioni di pensionati, la
cui pensione è ora indicizzata sul salario minimo, a sua volta indicizzato sul costo della vita».
Uno dei successi del lulismo, conferma il sociologo André Vitor
Singer, è stato di far emergere il lavoro sommerso per milioni di
lavoratori, di spostare questa forza lavoro marginale alla luce del
sole nel mercato del lavoro (anche se questo lavoro è emerso soprattutto in posizioni a bassissima retribuzione e alta precarietà) 3.
C’è di più: il livello di disoccupazione è il più basso a memoria
d’uomo, ed è a un livello che qui in Europa ci farebbe sognare, visto che il tasso è al 5 per cento (era a più del 12 per cento quando
Lula divenne presidente).
Le contraddizioni del ‘progresso’
Ma allora, dopo tanti progressi, come mai lo scontento serpeggia,
come si è visto dalle grandi manifestazioni che hanno scosso il
Brasile nel giugno 2013? In primo luogo, l’immagine che del Brasile odierno danno i media e, dunque, l’immagine che alla lunga i
brasiliani finiscono per avere del proprio presente, è condizionata
e distorta dall’ostilità di questi stessi media, sia nazionali sia internazionali. «L’America Latina è un’eccezione oggi nella geografia
mondiale», mi dice Gilberto Maringoni, professore di Relazioni
internazionali all’Università federale Abc di San Paolo: «Siamo
l’unico continente in cui quasi tutti i governi sono più o meno di
sinistra (Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Ecuador, Perú, Uruguay,
Venezuela). Ma la stampa internazionale è scatenata contro Kirchner in Argentina, contro il chavismo in Venezuela. Attaccano
«Os impasses do “lulismo”», entrevista com André Singer, Brasil de Fato, 3/1/2013,
www.brasildefato.com.br/node/11399.
3
5
7
5
8
anche il lulismo qui in Brasile, nonostante Lula abbia dichiarato
fin dall’inizio che non avrebbe toccato gli interessi dell’oligarchia». Questo è un paese che comunque, nonostante il rallentamento, cresce ancora al 2-3 per cento l’anno, ha un tasso di disoccupazione del 5 per cento, un tasso d’inflazione del 5-6 per cento
(basso rispetto alla storia brasiliana e dell’America Latina), ha registrato nel 2013 un surplus primario di bilancio (escluso cioè il
servizio del debito) pari a 1,9 per cento del pil, ha un debito pubblico pari a circa il 60 per cento del pil. Eppure viene dato costantemente sull’orlo dell’abisso. Già a settembre scorso l’Economist
faceva la copertina sull’implosione del Brasile («Has Brazil Blown
It?», 26 settembre 2013), mentre il Financial Times martella col disfattismo («Brazil: Loss of Faith», 24 febbraio 2014; «Brazil’s Economic Policies: More Nails for the Coffin»; 7 aprile; «Rousseff Faces Inflation Threat», 9 aprile 2014; «Brazil’s Growth Story: Not an
Happy One», 7 maggio 2014). E i maggiori giornali brasiliani non
sono da meno. I canali tv del gruppo Globo diffondono la stessa
ansia da vigilia di catastrofe. D’altronde tutta la stampa brasiliana
appartiene ancora a quattro grandi famiglie: i Marinho (gruppo
Globo), i Mesquita (O Estado de São Paulo), i Frias (Folha de São
Paulo), i Civita (gruppo Veja) e, come mi dice il filosofo politico
Wolfgang Leo Maar, «dopo undici anni di lulismo, in Brasile non
c’è nessun giornale non dico di sinistra, non dico di centro-sinistra, ma nemmeno di centro: sono tutti di destra». «L’assurdo»,
rincara Maringoni, «è che questi gruppi prosperano anche grazie
alla pubblicità che lo Stato e le industrie statali come Petrobras
pagano loro. Il gruppo Globo riceve quasi 50 milioni di reais di
pubblicità federale all’anno: insomma, i media privati sono finanziati dal governo per fare campagna contro il governo».
Ma non è solo una questione d’immagine: se in Brasile molto è stato conseguito, tantissimo resta da fare. Il coefficiente di Gini, che
misura il grado di diseguaglianza di una società 4, è sì sceso di sei
punti dal 2000 al 2010, ma è pur sempre a 54,7, un livello altissimo
(si pensi che in Europa si viaggia intorno al 30-36, negli Usa al 45,
e che in Argentina, Cile, Messico, Perú,Venezuela, Uruguay è tra 44
e 50). C’è di peggio: significa che solo nel 2010 il Brasile è tornato
al livello di diseguaglianza del 1964 quando i militari presero il po4 Il coefficiente di Gini in realtà varia da 0,00 a 1,00: vale 0,00 quando in un paese c’è perfetta uguaglianza di reddito tra tutti i cittadini, vale 1,00 quando tutto il
reddito disponibile di un paese è monopolizzato da una sola persona, cioè in situazione di perfetta diseguaglianza. Per comodità, il coefficiente viene moltiplicato per 100: così di un coefficiente di Gini di 0,54 si dice che è 54.
tere. A tutt’oggi, e dopo 11 anni di lulismo, il Brasile è la più disuguale tra le economie avanzate e anche tra quelle emergenti (comunque più di Cina, India, Indonesia, Russia, Turchia, meno solo
di Sudafrica e Colombia).
Il problema è che le misure sociali del lulismo si muovono tutte all’interno dell’orizzonte economico stabilito dalla Scuola di Chicago e dalla teoria del «capitale umano» formulata dall’economista e
premio Nobel Gary Becker. Forse questa consonanza deriva dal
fatto che Lula si è formato alla scuola (e alla mentalità) del sindacalismo statunitense, dell’Afl-Cio, ma in realtà fa parte di una corrente politica che ha coinvolto tutto il continente. La Bolsa família
è solo il più famoso dei programmi di trasferimento condizionato
di denaro (Cct, Conditional Cash Transfer) che a partire dal Cile di
Pinochet (con il Subsidio único familiar del 1981) si sono diffusi
sotto vari nomi prima in America Latina, e poi in Africa e in Asia 5.
I trasferimenti «condizionati» sono diretti a gruppi sociali mirati,
non alla popolazione nel suo complesso: nel caso del Brasile mettono in mano un assegno a famiglie indigenti e povere, che dispongono cioè rispettivamente (gli indigenti) di un reddito pro capite inferiore a 70 reais (23 euro al cambio attuale) e (i poveri) di un
reddito tra i 70 e i 140 reais. Quindi si tratta di misure ad hoc, non
di realizzare diritti universali; non solo: con questo meccanismo, la
spesa sociale si concentra sui cash transfers, piuttosto che espandere servizi demercificati, come educazione, sanità, igiene urbana e
altre funzioni sociali di base. Per esempio il Brasile di Lula ha moltiplicato per tre la spesa sociale, ma scuola e sanità non hanno seguito lo stesso ritmo: la spesa per la scuola è raddoppiata e quella
sanitaria è aumentata del 60 per cento (però la sua parte nel bilancio pubblico è scesa dal 13 per cento nel 2001 all’11 per cento nel
2010). Inoltre i Cct sono pensati per integrare le masse popolari e
povere nei circuiti finanziari e bancari (per esempio attraverso i
bancomat distribuiti dalla Caixa economica federal), in un meccanismo che in Brasile è chiamato bancarizaçaõ, che favorisce i consumi, in modo tale che l’iva sui beni comprati dai beneficiari dei
trasferimenti permette di finanziare almeno in parte gli stessi tra5
Un’analisi lucida e documentata dell’impatto reale dei Cct in America Latina e
in Brasile in particolare è fornita da L. Lavinas, «21st Century Welfare», New Left
Review, n. 84, novembre-dicembre 2013, pp. 5-40. Lavinas elenca tutti i programmi tra cui, a titolo d’esempio: Progresa/Oportunidades (Messico, 1997), Familias en actión (Colombia 2001), Chile solidario (2003), Bono de desarollo umano (Ecuador, 2003), Juntos (Perú, 2005), Asignatión universal por Hijo (Argentina, 2008), Asignaciones familiares (Uruguay, 2008) e così via.
5
9
6
0
sferimenti, e nello stesso tempo rende le banche arbitri di ogni
singola vita di decine di milioni di umani.
Si capisce allora perché il Fondo monetario internazionale (Fmi),
la Banca mondiale, e in genere gli istituti finanziari accolgono con
tanto favore questi programmi. Il risultato è che mentre ormai il
97,8 per cento delle famiglie brasiliane possiede un televisore e
l’86 per cento un telefono cellulare (proporzione triplicata in dieci
anni), meno del 70 per cento degli alloggi fruisce di servizi sanitari adeguati. Così mentre è triplicata la densità dei computer (presenti ormai in quasi il 50 per cento delle case), quella di buona acqua potabile è rimasta stazionaria poco sopra il 50 per cento, così
che oggi più brasiliani possiedono un computer di quanti possano
bere dal rubinetto in tutta sicurezza.
L’entusiasmo poi non conosce più limiti se si pensa che si è così
innescato un boom del credito che negli anni di Lula è passato dal
23 per cento al 49 per cento del pil, con lauti margini di profitto
per tutti. Chi si attarda nei grandi empori di elettrodomestici in
cui la domenica mattina le giovani coppie delle favelas si aggirano
ansiose, concentrate, tra schermi al plasma e megafrigoriferi, si accorge che la vendita a rate è assicurata a un «modico» interesse solo (sic!) del 4,5 per cento mensile (!) che – composto – corrisponde
a un 78 per cento annuo, quel che da noi è considerato un tasso da
usura, e che in 15 mesi (la rateazione più usuale) fa più che raddoppiare il prezzo dell’elettrodomestico.
La fantomatica ‘classe media’
Scopriamo qui un altro aspetto per cui il riformismo brasiliano si
muove all’interno delle coordinate concettuali del neoliberismo,
non solo perché avanza nella linea tracciata da Ruth Cardoso, o
perché agisce attraverso i cash transfers, ma perché tutta la sua
azione è permeata dall’ideologia della «nuova classe media». Un
giorno bisognerà pur smascherare la soperchieria perpetrata da
questo termine di cui l’establishment abusa senza pudore. Per
esempio, sono trent’anni e oltre che sento parlare delle meravigliose e progressive sorti della mitica «classe media indiana» che
sempre dovrebbe sfondare il tetto dei 100 o 200 milioni di persone, ma che è smentita senza appello dalle statistiche dei redditi.
Intanto, fedeli al detto «traduttore/traditore», i Soloni del mercato
prendono il termine middle class coniato negli Stati Uniti, per usarlo invece nel significato europeo di «piccola e media borghesia».
Negli Usa middle class copre ormai l’accezione della sola lower middle class (altrimenti ci si premura di specificare upper middle class),
cioè quella che include la popolazione lavoratrice che va dagli
operai ai maestri elementari, postini, poliziotti, impiegati di basso
livello. Nel corrente linguaggio politico Usa, le misure a favore della middle class sono quelle che alleviano i redditi «medio-bassi».
Da questo punto di vista, è vero che nel mondo c’è una nuova global middle class, nel senso che è cresciuto il proletariato mondiale.
Ma di tutt’altro timbro è lo squillo di tromba con cui i vari Financial Times e araldi del liberismo annunciano l’avvento di una nuova
geografia globale del pianeta. Anche Dilma Roussef, al Forum di
Davos di quest’anno, ha affermato che il Brasile «sta diventando un
paese di classe media», con 45 milioni di persone che vi sono entrate (Valor, 24 gennaio 2014). La differenza tra classe lavoratrice e
middle class sta nel fatto che l’una è definita dalla produzione (i lavoratori in quanto componenti del processo di produzione), mentre l’altra è definita dal consumo (vi appartiene chi dispone di risorse necessarie a consumare). Tanto che la stessa Dilma (come è
familiarmente chiamata) sempre a Davos continuava snocciolando
che solo metà dei domicili avevano un computer e una lavatrice e
che quindi erano «aperte enormi opportunità per gli investitori»
perché si stava creando «un grande mercato interno di consumo di
massa». Capacità di consumo come categoria centrale sociologica,
l’unica per lo meno che può interessare gli «investitori». Il cittadino sussunto kantianamente dal consumatore.
È appena uscito in Brasile O mito da grande classe média: capitalismo
e estrutura social (Boitempo Editorial, São Paulo) in cui l’economista
Márcio Pochmann, molto vicino al Pt (è presidente della Fundação
Perseu Abramo), ribadisce: non è affatto vero che si è creata una
nuova classe media: ad essersi ampliata è la classe lavoratrice. La
grande azione del lulismo, secondo Pochmann, non è stata quella di
creare una fantomatica classe media, ma di far entrare nel mercato
del lavoro formalizzato persone che prima operavano nel sommerso
o erano disoccupate. Si tratta di 22 milioni di posti di lavoro. Ma di
questi posti creati tra il 2004 e il 2010, il 94 per cento è retribuito con
salari bassissimi, cioè fino a una volta e mezzo il salario minimo
(che, è bene ricordare, oggi è di 724 reais al mese, cioè 242 euro).
Sono evidenti le implicazioni politiche e ideologiche della distinzione tra classe media e classe lavoratrice: quando ad aprile il Financial Times ha lanciato una serie di articoli sulla «fragile global
middle class», in realtà si preoccupava della tenuta nella sua capacità di consumo e cioè del restringersi degli sbocchi di mercato:
6
1
appena i flussi di capitale si riorientano e si ritraggono dai paesi
emergenti, appena la domanda di materie prime si raffredda, ecco
che la capacità di consumo si affloscia e la nuova global middle class
si rivela fragile. Senza contare che le sinistre latinoamericane hanno usufruito di 13 anni di distrazione statunitense: gli Usa erano
impelagati altrove dal ginepraio mediorientale, da due guerre sostanzialmente perse, dall’ascesa della Cina. Ma è possibile che gli
Usa tornino a occuparsi di quella che dalla dottrina Monroe in poi
è la loro riserva di caccia. Già un po’ lo stanno facendo. Allora altro
che fragilità della middle class.
Il peso del denaro
6
2
Ma ancor prima di quel giorno, quel che i brasiliani temono si dimostri precaria e, soprattutto, reversibile, è non tanto la fantomatica classe media, quanto la redistribuzione del reddito. Non dimentichiamo che almeno fino al 2007 i corsi delle materie prime hanno
avuto un boom dovuto in particolare all’esplosione della Cina come fabbrica del pianeta e affamato importatore di quel che il Brasile aveva da offrire, dalla soia alla carne ai minerali di ferro. Questi
corsi elevati hanno rimpinguato il commercio estero brasiliano e di
riflesso le casse dell’erario, fornendo a Lula (tra parentesi, «lula»,
diminuitivo di Luiz o Luis, in portoghese significa calamaro) il tesoretto con cui finanziare la redistribuzione. Quando a cena chiedo
ad André Singer se il successo dell’azione di Lula è attribuibile, per
usare i termini di Machiavelli, a «virtù» o a «fortuna» (di trovarsi al
posto giusto al momento giusto), mi risponde: «Ambedue». Ma ora
la locomotiva cinese rallenta, i corsi delle materie prime scendono
o almeno stagnano e il gruzzolo a disposizione dello Stato federale
diminuisce. Il riformismo puramente redistributivo, legato alla crescita economica, diventa problematico senza, appunto, quelle che
una volta venivano chiamate riforme di struttura.
È quel che João Pedro Stédile chiama il «neosviluppismo» (neodesenvolvimentismo) in un’intervista del 16 aprile al maggior (e più interessante) sito brasiliano di sinistra, Carta Maior, che ha più di
700 mila abbonati 6. Per Stédile, 61 anni, uno dei fondatori e leader
del Movimento dos trabalhadores rurais sem terra (Mst), il «neosviluppismo» ha toccato il suo tetto.
6
www.cartamaior.com.br/?/Editoria/Politica/Stedile-o-neodesenvolvimentismochegou-ao-seu-limite-/4/30740.
Paradossalmente, uno dei limiti di questo «neosviluppismo» rientra nella categoria delle conseguenze non volute: per assicurarsi la
neutralità dei mercati, Lula ha perseguito una politica monetaria
ultraortodossa, con interessi alti (anche oggi il tasso di sconto è
all’11 per cento quando l’inflazione non raggiunge il 6 per cento,
offrendo quindi un tasso reale del 5 per cento, spropositato per gli
standard europei e superiore persino a quello turco) che però ha
mantenuto alto il valore del real sfavorendo le industrie nazionali:
il risultato è che, nonostante lo sviluppo dell’ultimo decennio, oggi il paese si sta deindustrializzando.
Il peso dell’industria nella formazione del pil brasiliano è sceso al
14 per cento nel 2012 (aveva toccato il 27 per cento a metà degli
anni Ottanta) ed è tornato al livello che aveva nel 1956 sotto il governo di Juscelino Kubitschek (allora era del 13,8 per cento) 7. Per
il Brasile si è parlato anche di «malattia olandese», termine coniato
nel 1977 dall’Economist che aveva notato come l’Olanda si fosse
deindustrializzata dopo la scoperta di giacimenti di gas nel 1959.
In realtà la deindustrializzazione è dovuta al prevalere degli interessi finanziari, e quindi a un relativo disinteresse della borghesia
brasiliana a dotarsi di un’industria nazionale: tutto il settore automobilistico è in mano straniera e in genere le uniche industrie rimaste sotto il controllo brasiliano sono quelle a partecipazione
statale, come Petrobras: «La borghesia brasiliana non ha mai voluto essere una borghesia nazionale, non gliene importa nulla», è il
ritornello che mi sento ripetere da tutti.
Ma non si tratta solo di deindustrializzazione. Il leader dei lavoratori senza terra ha ragione quando dice che senza riforme di struttura più in là di così non si può andare. Intanto per cominciare il
lulismo non si è mai azzardato a proporre una vera riforma agraria. Con qualche ragione, perché come ricorda lo stesso Stédile,
nel 1964 il presidente João Goulart presentò una riforma agraria il
13 marzo, e il primo aprile i militari avevano già fatto il golpe e
preso il potere; nel 1985 l’Instituto Nacional de Colonização e Reforma Agrária (Incra) presentò il 4 ottobre un piano di riforma
agraria al presidente José Sarney e il 13 ottobre il capo dell’Incra
era destituito.
La riforma agraria è un terreno particolarmente interessante perché mostra come le nostre categorie mentali non si adeguano alle
trasformazioni dei modi di dominio. La deprecazione ha sempre
7
www.academia.edu/1481178/THE_THREAT_OF_BRAZIL_DEINDUSTRIALIZATION.
6
3
6
4
circondato i latifondisti, termine che non solo designa l’estensione
della proprietà (la latitudine del fondo), ma evoca soprattutto arretramento, struttura feudale, paternalismo quasi schiavista e genera
esecrazione. Obbrobrio che invece non si riversa sull’asettico
«agroalimentare», cioè sulla gestione multinazionale e tecnologica
avanzata di estensioni di terreno ancora più grandi, in cui si accoppia capitalismo sofisticato e sfruttamento bracciantile, in un
amalgama feudal-finanziario. Si pensi che oggi, come ci informa
Stédile, l’80 per cento dello sterminato suolo coltivabile brasiliano
è destinato solo a quattro colture: soia, canna da zucchero, eucalipto e pascolo: l’allevamento è diventato una delle grandi voci di
esportazione del Brasile, che è ora il maggiore esportatore al mondo non solo di caffè, zucchero, succo d’arancia, tabacco, ma anche
di bue e pollo, e la seconda maggior fonte di soia 8. Jbs Friboi è la
più grande multinazionale brasiliana dell’agroalimentare e la più
grande al mondo per il trattamento della carne (meat processing).
L’astratta ubiquità della nozione di «multinazionale» nulla toglie alla violenza e materialità del dominio che essa esercita: «Una legge
del 1997 permette alle corporazioni di finanziare le elezioni», mi dice Ladislau Dowbor. «E nelle ultime elezioni, una sola corporation,
Jsb Friboi, ha fatto eleggere ben 41 deputati (su 513) al parlamento
federale. Di questi 41, quando la Camera ha discusso una legge per
combattere la deforestazione in Brasile, 40 hanno votato contro. Se
una sola corporation ha questo potere, immagina il combinato disposto delle multinazionali dell’agrolimentare, dei banchieri, delle
imprese di costruzione, di quelle automobilistiche. Alla fine, come
dicono gli americani, noi abbiamo il miglior parlamento che il denaro possa comprare (the best Congress money can buy)».
Il ‘riformismo debole’ di Lula
Questo formidabile peso del denaro spiega perché il lulismo non
abbia mai affrontato il tema della riforma fiscale, continuando a ricorrere alla tassazione indiretta ed evitando di gravare sui redditi
abbienti: mentre nel 2010 nei paesi Ocse il peso medio delle tasse
dirette (cioè sui redditi) era del 33 per cento e di quelle indirette
del 34 per cento, in Brasile il peso delle tasse sui redditi era del 19
per cento nel 2011, quello sulle proprietà del 4 per cento mentre il
8
«It’s only natural. Commodities alone are not enough to sustain flourishing
economies», The Economist, 9/9/2010.
peso delle tasse indirette era del 49 per cento. Queste proporzioni
dicono che le classi dominanti di fatto non pagano tasse, mentre il
sistema fiscale è regressivo, cioè pesa di più sulle classi più povere
attraverso le imposte sui consumi.
Anche due settori nevralgici come l’istruzione e la sanità non sono
stati oggetto di vere e proprie riforme strutturali. Il livello dell’istruzione pubblica resta deplorevole (tranne che in alcune università statali frequentate da rampolli delle classi dominanti che fino al liceo hanno frequentato scuole private). Per quanto riguarda
la sanità, la Costituzione del 1988 stabilisce il diritto alla salute e
un Servizio sanitario nazionale è stato creato nel 1990 sulla base di
quelli francese e inglese: «In teoria il ruolo del settore privato dovrebbe essere complementare e regolato strettamente dall’Agenzia
nazionale per la salute. In pratica la privatizzazione del sistema sanitario si è espansa in assenza di risorse pubbliche (che quando
esistono sono dirottate per altri scopi). […] Nel 2009 la spesa privata in salute ammontava al 5,3 per cento del pil brasiliano, mentre
le spese pubbliche arrivavano solo al 3,5 per cento» 9.
L’unica misura di grande impatto è stata quella d’importare 7.400
medici da Cuba per destinarli alle aree meno servite dai dottori
brasiliani (il governo è stato accusato di finanziare così il comunismo cubano) 10. Ma anche qui non è una riforma strutturale, quanto una soluzione d’emergenza (ma con un risultato inatteso: «Per la
prima volta dei brasiliani poveri hanno visto un medico nero in
Brasile», mi viene fatto osservare).
Sono molte le riforme che incontrano l’infausto destino della legge
sulla salvaguardia delle foreste. Infatti dal punto di vista parlamentare sia Lula sia Dilma hanno governato e governano con coalizioni
eterogenee, visto che il loro partito, il Pt, ha solo 88 deputati su 513 e
15 senatori su 81 11. Ogni riforma è quindi il risultato di un’estenuanL. Lavnas, op. cit., p. 34.
Il programma Mais médicos comprende 9.425 medici, di cui 7.400 cubani,
1.125 brasiliani e 900 di altri paesi.
11 Oltre al Pt, ecco i partiti che entrano nella coalizione: il Pmdb (Partido movimento democrático brasileiro), di centro-destra: 76 deputati e 20 senatori; il Pp
(Partido progressista), di centro-destra: 39 deputati e 5 senatori; il Pdt (Partido
democrático trabahista), di centro-sinistra: 25 deputati, 5 senatori; il Pcdob (Partido comunista do Brasil): 15 deputati e 2 senatori; il Ptb (Partido trabalhista brasileiro) di centro-destra: 21 deputati e 6 senatori; Prb (Partido republicano brasileiro), portavoce dei pentacostali (Igreja universal do reino de Deus): 9 deputati
e un senatore. Il Psb (Partido socialista brasileiro, 32 deputati e 4 senatori) fa
storicamente parte della coalizione, ma adesso ne è fuori perché presenta un
candidato (Eduardo Campos, ex governatore dello Stato di Pernambuco) alle
presidenziali del prossimo autunno.
9
10
6
5
6
6
te contrattazione, non solo all’interno del parlamento, ma con i formidabili poteri dell’economia. Su questo punto, l’ammirazione per le
sconfinate capacità negoziali di Lula è unanime in Brasile: «Lula è un
genio nel contrattare da posizioni di debolezza», dice Dowbor.
Il problema è quanto questo modo di procedere sia il massimo che
un governo riformista può ottenere, o quanto invece sia un compromesso al ribasso. Quanto a incisività: è vero che il salario minimo è cresciuto del 60 per cento in termini reali, ma ancora oggi è
abissalmente lontano da quel che il Departamento Intersindical
de Estatística e Estudos Socioeconômicos (Dieese) definisce il salario minimo necessario (a usufruire dei diritti sanciti dalla Costituzione brasiliana): nell’aprile 2014 il salario minimo nominale è
di 724 reais, mentre quello necessario è di 3.019 reais, più del quadruplo 12. C’è di più: al ritmo attuale di miglioramento, ci vorranno
più di due decenni perché il salario minimo nominale raggiunga
quello necessario, sempre che la congiuntura internazionale non
cambi e che la crescita del pil non rallenti.
Questo dato ci invita a leggere con cautela i bollettini di vittoria
del Pt: se è vero che secondo le definizioni ufficiali, la percentuale
di brasiliani che vive sotto la soglia di povertà è scesa dal 48 al 26
per cento (un progresso strabiliante), è anche vero che molto dipende dalla definizione. Se si applicasse al Brasile la definizione
europea (la soglia in Europa è posta al 50 per cento del reddito
mediano, non medio), allora sarebbe tuttora povero il 40 per cento
dei brasiliani: vuol dire che ancora oggi due brasiliani su cinque
vivono con meno di 90 euro al mese. Dopo 11 anni di lulismo in
Brasile la disuguaglianza è ancora «oscena», per riprendere l’aggettivo usato dal sociologo Chico (Francisco) de Oliveira.
Si capisce perché le voci più critiche non risparmiano il sarcasmo.
Suona un po’ eccessivo il paragone che mi butta là a casa sua Milton Temer, ex dirigente del Pt, ex deputato, fuoriuscito a sinistra e
fondatore del Psol (Partido socialismo e liberdade), nato da una
scissione a sinistra del Pt e che oggi ha 3 deputati e un senatore
(«Noi siamo un po’ come Sel in Italia»): «Lula è l’Hollande brasiliano». Gli obietto che Hollande non è sicuro nemmeno di portare a
termine il primo mandato, mentre Lula mantiene al potere il Pt
per quattro mandati e passa (è quasi certo che la sua delfina Dilma
sarà riconfermata presidente nel voto autunnale). Lula ha redistribuito denaro, diminuito la povertà, ridotto la disoccupazione; finora Hollande ha fatto tutto il contrario. Temer si riferisce però al12
www.dieese.org.br/analisecestabasica/salarioMinimo.html.
la politica macroeconomica: il primo atto di Lula al potere era stato di scegliere come governatore del Banco Central do Brasil Henrique Meirelles, sfornato dalla Harvard Business School, esponente del Psdb di Ferdinando Henrique, ma soprattutto ex amministratore delegato della statunitense Bank of Boston e guardiano
dell’ortodossia Fmi, e che per di più nel 2002 si era candidato proprio contro il Pt.
Milton Temer è troppo polemico, ma una voce non certo ostile, come quella di André Singer, definisce il lulismo come «riformismo
debole» 13. Prima che universitario, Singer è stato portavoce della
presidenza della Repubblica brasiliana durante il primo mandato
di Lula. Suo padre, Paul Israel Singer, ebreo viennese trapiantato
in Brasile nel 1940, è stato un attivista della sinistra marxista e poi
tra i fondatori del Partito dos trabalhadores. Secondo André Singer, rispetto alle posizioni di sinistra radicale che aveva il Pt alla
sua fondazione, nell’ultimo decennio la strategia del lulismo si è
invece basata su un doppio binario, da un lato un gradualismo nelle riforme e dall’altro un conservatorismo nell’assetto sociale, redistribuzione dei redditi e mantenimento dello status quo e dell’ordine. Secondo Singer, è grazie anche a questo suo essere «partito
dell’ordine» che (a differenza di quel che era successo nel 1989 e
nel 1994), nelle elezioni del 2002 il Pt avrebbe potuto sfondare nel
sottoproletariato tradizionalmente impermeabile alla sinistra e aggregarlo a una «coalizione di classe».
Compromesso storico o compromessi al ribasso?
Il mantenimento dello status quo in Brasile significa in soldoni accettare che l’oligarchia continui a fare i propri comodi, cercando di
strapparle più concessioni possibile. O, se si vuole usare un linguaggio più nobile, vuol dire firmare un «compromesso storico» con le
classi dominanti, per gli stessi timori per cui l’allora segretario del
Partito comunista italiano, Enrico Berlinguer, aveva formulato questa strategia all’indomani del golpe di Pinochet in Cile (1973).
Già, perché la «lunga durata», di braudeliana memoria, fa valere i
suoi diritti anche in Brasile: a ogni passo inciampi nel passato. Nelle vie delle città costellate da nomi di baroni, marchesi, principi,
puoi percepire quanto sia stata introiettata la gerarchia feudale: a
A. Singer. Os sentidos do lulismo: reforma gradual e pacto conservador, Cia. das
Letras, São Paulo 2012.
13
6
7
6
8
nessuno in Italia verrebbe in mente di chiamare via Conte di Cavour una via Cavour. Proprio come non ti viene mai permesso di
scordare che questo è stato l’ultimo paese al mondo ad avere abolito la schiavitù nel 1888.
E la lunga durata si fa sentire nel peso sotterraneo, indicibile che
le Forze armate continuano ad avere: non si può dimenticare che
per quasi un secolo (dal 1891 al 1985), tranne brevi intervalli, il
Brasile è stato o direttamente governato o indirettamente dominato dai militari.
L’arroganza delle Forze armate è tale che perfino ora i libri di testo
delle accademie militari designano il golpe del 31 marzo 1964 come
una «rivoluzione». Quest’anno cade il cinquantenario di quel golpe
e generali – che a suo tempo torturarono e uccisero – si permettono di scrivere ancora oggi sui giornali che loro abbatterono il governo civile perché «João Goulart promuoveva l’indisciplina. Fu la
goccia che fece traboccare il calice di fiele accumulato con tanta indignazione» 14. E un ex presidente della Camera dei deputati dei generali dice che «il regime del 1964 non fu una dittatura» 15.
In Brasile la sindrome cilena di Berlinguer è infinitamente più
profonda, intensa e paralizzante che in Italia. Anche perché, come
ovunque, l’esercito non agisce di testa propria, ma i regimi militari sono sempre stati sponsorizzati, appoggiati e sollecitati dall’oligarchia brasiliana: nel mondo contemporaneo solo per il Brasile i
manuali di storia definiscono «Repubblica degli oligarchi» (18941930) una fase della sua storia. Quando Dowbor parla dell’abilità
di Lula nel contrattare «da una posizione di debolezza», forse si riferisce anche al serpeggiante senso d’impotenza di fronte al coacervo mai districato di potere militare e dominio dell’oligarchia civile. Come nel Sud d’Italia si dice che la jella porta sfortuna anche
a chi non ci crede, così in Brasile nessuno crede a un nuovo intervento dei militari nella vita pubblica, ma è meglio non stuzzicarli.
È comprensibile perciò la cautela del Pt, la «debolezza del suo riformismo». Un cambiamento più deciso richiederebbe forse un
prezzo troppo alto da pagare. D’altra parte è sempre lo stesso dilemma: se non ora, quando?
14 Il generale Armando Luiz Malan de Paiva Chavez su Folha de São Paulo,
27/3/2014. Paiva Chavez è inserito nella lista dei torturatori (www.documentosrevelados.com.br/nome-dos-torturadores-e-dos-militares-que-aprenderam-atorturar-na-escola-das-americas/lista-dos-torturadores).
15 Folha de São Paulo, 25/3/2014.
La struttura delle città, specchio della società
È questo secolo di dominio militare alle spalle (si spera per sempre) a far apparire così normale un titolo come «i tank della marina entrano alla Maré» e a introiettare mentalmente lo strapotere e
l’arbitrio degli apparati di sicurezza: secondo Amnesty International ogni anno la polizia è responsabile di più di 2 mila uccisioni 16.
Come lo storico Eric Hobsbawm ha per primo scritto nel suo libro
I banditi (1969), l’antagonismo sociale assume spesso le forme della criminalità e viene descritto e represso come tale. Il Brasile è
uno dei paesi più violenti al mondo. Nel 2012 ci sono stati più di 50
mila omicidi 17: con poco meno del 3 per cento della popolazione
globale, il Brasile conta circa il 12 per cento degli omicidi dell’intero pianeta. Quando le Nazioni Unite ci dicono che tra il 2002 e il
2006 la polizia di Rio de Janeiro e di San Paolo è stata implicata in
almeno 11 mila «resistance killings» – in cui le vittime sono state
sparate dopo aver aperto il fuoco sulla polizia – non può fare a meno di tornare alla memoria il brigantaggio meridionale dopo l’unità d’Italia: in quella che fu presentata come una lotta contro la criminalità, perirono più soldati «che in tutte le altre guerre del Risorgimento messe insieme» 18.
Perciò non è un caso se la favela Pavão-Pavãozinho, che è appollaiata a strapiombo su Copacabana, viene chiamata «Vietnam», mi
dice Julia Michaels, giornalista statunitense che tiene il blog bilingue (portoghese/inglese) più accurato su Rio (riorealblog.com).
Parliamo nel salotto di casa sua su cui incombe il morro Cantagalo
a cui è abbarbicata la favela (morro vuol dire colle, poggio, ma a Rio
questi colli sono cocuzzoli ripidissimi, impervi, per lo più simili al
celebre Pan di Zucchero). Le favelas proliferano in tutte le città
brasiliane, ma a Rio hanno di particolare che, come isole sopraelevate, sorgono anche in mezzo ad aree ricche, faraglioni di miseria
in un lago di benessere. A differenza di molte altre grandi città dove i ricchi risiedono in alto e i poveri in basso (a San Francisco il li16
www.amnesty.org/en/news/brazil-police-still-have-blood-their-hands-20-years-massacre-2013-07-24.
17 Rapporto Onu: www.onu.org.br/onu-50-mil-pessoas-foram-assinadas-no-brasil-em-2012-isto-equivale-a-10-dos-homicidios-no-mundo.
18 D. Mack Smith, Storia d’Italia 1861-1958 (1959), trad. it. Laterza, Bari 1965, 2.
voll., vol. I, p. 124. I dati sui «resistence killings» sono stati forniti nel 2010 dall’Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights (Ohchr):
www.ohchr.org/en/NewsEvents/Pages/DisplayNews.aspx?NewsID=10089&LangID=E.
6
9
7
0
vello sociale è proporzionale al livello sul mare e i più ricchi abitano in cima ad altrettanto vertiginose colline), a Rio i ricchi stanno
in basso, nei lussuosi condomini vicino al mare e i poveri li guardano dalle loro baracche in alto 19.
Perciò il senso dell’espressione «classi pericolose» assume qui una
nuova materialità: «I privilegiati vivono nel terrore che i barbari
calino a valle, irrompano giù dal morro», dice Julia Michaels.
Questa peculiare geografia urbana ha radici lontane, anche se la
grande esplosione si ebbe con la massiccia migrazione interna degli anni Sessanta e Settanta: all’inizio degli anni Sessanta solo il 45
per cento dei brasiliani era urbanizzata, negli anni Ottanta il 75
per cento 20.
Le prime favelas, Saúde e Providência, nacquero all’inizio del Novecento quando i popolani della Rio vecchia furono scacciati dal
centro per gli sventramenti operati dal sindaco (e ingegnere) Francisco Pereira Passos per le stesse ragioni igieniche e di controllo
dei tumulti popolari che avevano motivato il prefetto Haussmann a
Parigi. Sventramenti che furono copiati in tutte le città del Terzo
Mondo e che perciò Mike Davis ha definito «Haussmann ai Tropici» 21. D’altronde l’esiliato Stefan Zweig nel 1941 era pieno di ammirazione per «una città rilucente di pulizia», dall’«esemplare servizio igienico» (di cui le favelas «rappresentano indubbiamente
una macchia dal punto di vista igienico e sociale») 22.
«Non solo le favelas sono state create dalla razionalità igienista, ma
il discorso igienista è stato essenziale per costruire la favela come
male, come classi pericolose», mi dice Mário Pires Simão, direttore
dell’Observatório de Favelas do Rio de Janeiro nel suo ufficio che
si trova appunto alla Maré: «È un nuovo colonialismo interno, con
scopi elettorali. Questa “pacificazione” è una strategia di guerra.
Quando tu dai alla polizia il permesso di entrare nelle case in piena notte senza mandato, trasmetti il messaggio che voi siete tutti
colpevoli, tutti conniventi con il narcotraffico: bisogna instaurare
un altro rapporto tra Stato e cittadini».
19
L’unica altra metropoli (a mia conoscenza) con quest’inversione socio-spaziale
era Istanbul dove i gezekondu (l’equivalente turco delle favelas) erano appollaiati
in alto anche in zone molto centrali, prima che l’attuale gentrificazione li espellesse verso l’estrema periferia.
20 D. Saunders, Arrival City. How the Largest Migration in History Is Reshaping Our
World, Alfred Knopf, Toronto 2010, p. 74. Saunders è un cantore della nuova
classe media che fiorisce nelle favelas e nei gezeckondu.
21 M. Davis, Il pianeta degli slum, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 91 e ss..
22 St. Zweig, Brasilien. Ein Land der Zukunft,1941, trad. it. Brasile. Terra del futuro,
Elliot Edizioni, Roma 2013, p. 171.
Il problema è che la struttura delle città riflette e magnifica la struttura della società che queste città edifica («le città sono macchine
che producono diseguaglianza», dice Simão). Da questo punto di
vista la politica urbanistica è un concentrato del lulismo, del suo riformismo graduale, e nello stesso tempo «debole». «Stiamo lavorando perché lo Stato sia presente nella vita quotidiana della gente.
[…] In passato c’era solo una polizia che interveniva con brutalità
[ora] stiamo varando il più grande programma di investimento per
urbanizzare le favelas, per dotarle di servizi igienici e per la costruzione di alloggi che il Brasile abbia mai avuto», disse Lula visitando
la favela di Santa Marta nel 2009 23. Stava parlando del piano Minha
casa minha vida (Mia casa, mia vita). Un intervento come quello indicato da Lula per Santa Marta andava bene come fiore all’occhiello, ma sarebbe stato troppo costoso da applicare a tutte le favelas di
Rio, in cui abita un quinto degli abitanti della città.
Senza contare che non ci sono solo le favelas: se arrivi a Rio in autobus da San Paolo ed entri in città dalla porta di servizio, devi fare un bagno di realtà rispetto alla Rio sognata da Zweig, farti largo
in una povertà che somiglia molto a quella mediorientale dei quartieri popolari del Cairo, per l’affollata cenciosità degli umani, la
slabbrata fatiscenza degli edifici, lo sciamare frettoloso d’indaffarata miseria che corre sui cavalcavia sopra le rodovias urbane.
Dal compromesso alla connivenza?
In realtà il risultato della «pacificazione» delle favelas e del piano
Minha casa minha vida «sta producendo paradossalmente gli stessi effetti per cui era stato criticato il Banco Nacional da Habitação
(simile all’Istituto per le case popolari) istituito nel 1964 dai militari», mi dice Helena Galiza che per trent’anni ha lavorato come funzionaria del governo alla riabilitazione dei centri storici, «perché si
concepisce la casa come semplice abitazione, e allora non è importante dove si trovi l’alloggio. Si prendono persone che vivono nelle favelas al centro e le si spostano a 40 km, a 60 km di distanza in
casermoni di estrema periferia, sapendo che queste persone dovranno poi venire sempre a lavorare in centro. In Brasile ci sono 6
milioni di alloggi vacanti, che quindi sarebbero più che sufficienti
ad alloggiare tutti. Invece si procede a operazioni immobiliari per
«Brazil’s Battle for Shanty Town Residents», Bbc News, 4/2/2009, news.bbc.co.uk/2/hi/americas/7870395.stm.
23
7
1
7
2
rendere signorili (gentrify) le vecchie favelas ed espellere gli abitanti pericolosi».
Qui siamo oltre il mantenimento del vecchio ordine. Qui il lulismo
sta facendo quel che non era riuscito neanche ai generali, cioè
estromettere i proletari e sottoproletari dal tessuto urbano. Forse
fuori tempo massimo il Pt risponderà affermativamente alla domanda che 73 anni fa aveva formulato l’austriaco Stefan Zweig nel
suo libro sul Brasile: «Alcune cose singolari che rendono Rio così
colorita e pittoresca sono purtroppo già minacciate. Innanzitutto
le favelas, i villaggi neri nell’interno della città. Le vedremo ancora
fra un paio d’anni?» 24.
Neanche il fatto che l’esule scrittore si sarebbe suicidato l’anno dopo (nel 1942) insieme alla sua giovanissima moglie Lotte Altmann
redime il mieloso paternalismo con cui Zweig rimpiange già una
scomparsa futura: «Con queste favelas sparirà un frammento singolare e impareggiabile di Rio e io stento a pensare le colline di Gavea
e il vecchio Morro senza i piccoli villaggi arditamente appiccicati alle rocce che nella loro primitività ci ricordano quante cose superflue possediamo e pretendiamo: almeno una di queste tessere di
mosaico dovrebbe venir conservata nel quadro della città, in quanto
rappresenta l’umanità naturale nel mezzo della civiltà» 25.
Le favelas di Zweig sono ancora «innocenti» e innocue, quasi zoo
umani, dove visitare il primitivo in grandezza naturale. Su di loro
non è ancora stato costruito l’immaginario solforoso, delinquenziale e irrecuperabile che oggi le stigmatizza.
Da quest’immagine «irrecuperabile» delle favelas può dipendere la
logica da città dormitorio che sembra presiedere al programma
Minha casa minha vida, per cui, a parte qualche caso da mostrare
ai turisti, come Santa Marta con la sua teleferica (e la statua di Michael Jackson), gli abitanti vanno sistemati in quartieri dormitorio
lontani dai loro luoghi di lavoro. Gli abitanti delle favelas costituiscono infatti il nerbo del battaglione di lavoratori dei servizi che
assicurano una vita confortevole ai brasiliani agiati. Fino a ora erano indispensabili e incombenti. Sempre indispensabili restano,
ma sempre meno incombenti saranno, sul modello che – grazie ai
trasporti pubblici – nelle città europee già da un secolo ha disaccoppiato servitù e signori per costituire le banlieues rouges.
St. Zweig, op. cit., p. 171.
Ivi, p. 173 e 172 (corsivo mio). È significativo che l’altra tessera del mosaico
che Zweig vuole preservare è «la mangue, il grande mercato dell’amore», cioè il
quartiere dei bordelli e delle puttane.
24
25
È possibile perciò che la miopia delle politiche urbane del Pt dipenda dagli stessi fattori culturali per cui il welfare europeo del secondo dopoguerra ha disastrato la geografia urbana con le città dormitorio. Ma la miopia del Pt non è del tutto innocente. Perché le costruzioni di interi quartieri di edilizia popolare nella periferia estrema sono finanziate col denaro pubblico ma vengono affidate ai
grandi operatori immobiliari cui nel contempo sono cedute le aree
centrali sgombrate dei residenti poveri, per edificarvi complessi di
edilizia di lusso. Sono sempre gli stessi giganti dell’edilizia e dei lavori pubblici: Odebrecht (41miliardi di dollari di fatturato nel 2012),
Carvalho Hosken, Carioca, Oas, Andrade Gutierrez ricevono gli appalti e guarda caso finanziano generosamente le campagne del Pt o
del Pmdb (cui appartiene il sindaco di Rio Edoardo Paes).
E forse qui giungiamo al limite politico del lulismo. Quello di essere caduto mani e piedi nella trappola dei grandi eventi. Di scivolare dal compromesso alla connivenza con le élite dominanti.
Perché se è vero che i lavori pubblici sono necessari per stimolare la
piena occupazione, bisogna poi vedere quali opere pubbliche un governo vuole privilegiare. Vi sono imprese essenziali, vitali, che però
non sono appariscenti (tutto ciò è vero anche per l’Italia): ricostruire
e risanare i sistemi fognari produce imponenti effetti economici, non
fosse altro che attraverso i risparmi sulla spesa per la salute pubblica,
però ha un difetto agli occhi della politica-spettacolo: quello di non
portare grande lustro ai governi e non procurare turismo (ma a fine
Ottocento i turisti visitavano su barche le appena costruite fogne di
Parigi, «miracolo» della tecnica). Sarebbe possibile riabilitare il patrimonio edilizio esistente nei centri urbani per renderlo abitabile agli
strati proletari della popolazione senza deportarla, come suggerisce
Helena Galiza, ma quest’operazione procurerebbe meno profitti ai
grandi immobiliaristi e, a cascata, alle banche che li finanziano.
La politica dei grandi eventi
Ecco perché la politica dei grandi eventi è un pendio facile da imboccare, anche se scivoloso e alla fine autodistruttivo. E su questo
pendio Lula e Dilma si sono avviati con grande entusiasmo, coadiuvati dai poteri locali, dai comuni e dai singoli Stati: non gli bastavano i Campionati mondiali di calcio di quest’anno. Ci hanno
aggiunto anche le Olimpiadi del 2016. C’è da incrociare le dita e
toccare ferro, vista come è andata a finire con la Spagna che aveva
organizzato le Olimpiadi di Barcellona del 1992 e la Grecia con
7
3
7
4
quelle di Atene del 2004. Ormai le spese faraoniche per le Olimpiadi costituiscono la nuova forma di saccheggio con cui il capitale privato ripulisce le casse degli Stati.
Non solo. Come ricorda Mike Davis, «la storia delle Olimpiadi moderne ha un suo lato particolarmente sgradevole e poco noto»: per
i Giochi del 1936 i nazisti purgarono dai senza tetto e dagli abitanti
degli slums le zone di Berlino che sarebbero state visitate dai visitatori internazionali. Le Olimpiadi di Città del Messico (1968), Atene
e Barcellona sono state accompagnate da ristrutturazioni urbane e
sgomberi; a Seoul (1988) furono sloggiate ben 720 mila persone,
mentre a Pechino (2008) sono state demolite migliaia di case 26.
Il Brasile non sfugge alla regola. Le Olimpiadi sono occasioni di
grandi affari che passano attraverso sgomberi di massa. Secondo il
Dossiê do Comitê Popular da Copa e Olimpíadas do Rio de Janeiro, «la maggioranza degli sgomberi è localizzata in aree di estrema
valorizzazione immobiliare, come Barra da Tijuca, Recreio, Jacarepaguá e Vargem Grande. Gli investimenti pubblici realizzati in trasporti (Brts) privilegiano le stesse aree, moltiplicando opportunità
di investimento e rientro finanziario nell’edilizia per la classe medio-alta e commerciale» 27. Il dossier stimava nel maggio 2013 a
1.860 le famiglie già rimosse, a 5.325 quelle minacciate, per un totale di 7.385 famiglie, ma pochi mesi dopo il Guardian parlava di 19
mila famiglie rimosse (più di 100 mila persone) 28.
Non si tratta solo delle Olimpiadi di Rio, il cui preventivo è salito
già a 36 miliardi di reais (16 miliardi di dollari, dispaccio Reuters
del 17 aprile 2014), in cui però ancora non sono conteggiati più
della metà dei 52 progetti che saranno usati esclusivamente per i
Giochi e che ancora devono essere approvati. Già ora ci sono i
Campionati del mondo di calcio, con la costruzione o ammodernamento di 12 stadi in dodici città diverse, rifacimento di aeroporti,
autostrade eccetera per un totale stimato di 14 miliardi di dollari.
È facile prevedere che queste cifre saranno tutte sforate e che il
costo complessivo dei due appuntamenti «sportivi» supererà di parecchio i 40 miliardi di dollari.
Il problema (o il vantaggio, dipende dai punti di vista) delle opere
per i megaeventi è che se ci sono sovrapprezzi o infrazioni contratM. Davis, op. cit., pp. 100-101.
«Megaeventos e Violações dos Direitos Humanos no Rio de Janeiro», www.apublica.org/wp-content/uploads/2012/09/dossic3aa-megaeventos-e-violac3a7c3b5esdos-direitos-humanos-no-rio-de-janeiro.pdf.
28 «World Cup: Rio favelas being “socially cleansed” in runup to sporting events»,
5/12/2013.
26
27
tuali, non si può cambiare appalto e indire una nuova gara: il tempo incombe, la scadenza è improrogabile e tutte le richieste vanno
ingoiate. Lo spazio per la corruzione si moltiplica a dismisura, favorendo la mutazione antropologia del personale politico dei partiti di governo, secondo un copione già recitato in molti altri paesi.
Si capisce perciò perché questa politica abbia suscitato una protesta così accesa, a prima vista incomprensibile: il paese più fanatico
del calcio che protesta contro il calcio? Un campanello d’allarme
era già suonato. Come in Italia, il calcio sarà in Brasile la religione
nazionale, ma i templi di questa religione – cioè gli stadi – sono
anche qui desolantemente vuoti. Come da noi, anche in Brasile i
tifosi disertano gli spalti per tante ragioni, ma soprattutto per il
prezzo salato dei biglietti. Se sono cari i biglietti dei campionati
brasiliani (ogni Stato ha il suo), immaginiamo quelli del Campionato del mondo.
Ecco perché Dilma, Lula, il Pt e tutto l’establishment sono da un
anno col fiato sospeso e fanno gli scongiuri perché la squadra brasiliana vinca i Campionati del mondo ed eviti un’esplosione popolare (sulla falsariga di Gino Bartali che vinse il Tour de France
quando ci fu l’attentato a Palmiro Togliatti nel 1948). Ma queste
proteste ci dicono anche che la società civile brasiliana non è anestetizzata come quella italiana, ha ancora la forza di mobilitarsi e di
farsi sentire. È questa folla che dà speranza nel futuro. Magari non
nel senso del titolo di Zweig (Brasile.Una terra del futuro), che, fuggendo da un continente in rovina, messo a ferro e fuoco in nome
della purezza della razza, dipingeva un’immagine idilliaca e poco
realistica di questa terra. Ma in quello più modesto per cui, agli occhi ammirati di docenti africani in visita, il Brasile appare come
«un’Africa possibile».*
*Mi sia consentito ringraziare i miei amici Lamia Oulalou, Livio Sansone, Marc
Saint-Upéry e Giancarlo Summa per la profusione di informazioni e di contatti
che mi hanno dato; André Singer e Bernardo Ricupero dell’Università di San
Paolo, Ana Claudia Pecchi della Ebert Stiftung a San Paolo e Marie Naudascher
di Rtl a Rio de Janeiro per l’aiuto e l’ospitalità.
7
5
7
6