Capitolo quarto - La città e la campagna, p.

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Capitolo quarto - La città e la campagna, p.
Capitolo quarto
LA CITTÀ E LA CAMPAGNA
La città
Nel regno d'Italia, vale a dire l'Italia settentrionale e la Toscana, durante l'Impero
c'erano stati alcune centinaia di municipia. Più di tre quarti di essi esistevano ancora
funzionanti nel 1000. Ben pochi di quelli che erano stati abbandonati sembra siano
stati sedi vescovili nel tardo Impero. Erano quindi probabilmente in un avanzato stato
di decadenza ancor prima dell'inizio del periodo in esame. Dal 400 al 1000 si può
notare una continuità urbana quasi completa, ininterrotta a tutt'oggi: di cinquanta
capoluoghi di provincia moderni nella stessa area, trentacinque erano città sotto
l'Impero. L'Italia settentrionale e centro-settentrionale nei due millenni passati è
rimasta una società urbana senza interruzioni. Per tutto quel periodo le città
predominavano politicamente, socialmente ed economicamente sui territori rurali.
Si potrebbe obiettare, ed è stato obiettato, che si tratta solo di un problema di
definizione. L'identità della città, sia nell'Impero sia nell'alto Medioevo, era definita
amministrativamente: la presenza di un consiglio municipale, di un duca, di un conte,
di un vescovo; la sola presenza di mura talvolta sembra abbia comportato la
definizione giuridica di città. Tali città avrebbero potuto essere vuoti agglomerati, o
piccoli insediamenti di contadini, come spesso furono (e talvolta sono ancora)
nell'Italia del Sud e in quella centro-meridionale. Ma c'era forse una densità urbana in
alcune zone meridionali quattro volte quella della pianura padana, in un contesto ben
più povero. Una base territoriale così limitata spesso significava che tali città non
erano che villaggi, con solo una cattedrale nel loro punto centrale. Offrivano poca
resistenza in caso di guerra o di invasione. Meno della metà delle città romane del Sud
continuarono ad esistere nei secoli VI e VII, anche come sedi vescovili (cfr. p. 192).
La persistenza geografica delle città del Nord contrasta chiaramente con tutto ciò.
Tuttavia ciò non indica solo una maggiore continuità amministrativa o ecclesiastica.
Nel Nord si può vedere una vera società urbana che funziona per tutto il periodo nelle
città delle quali si ha documentazione, come Ravenna, Lucca, o Milano, e si può
pensare sia altrettanto per la maggior parte delle altre. Ciò ovviamente presuppone
una chiara definizione economica di città. Suggerirei la seguente per il tipo di società
mediterranea pre-industriale che stiamo analizzando: un centro abitato relativamente
popolato, distinto funzionalmente dagli altri centri circostanti, con almeno tre delle
caratteristiche che seguono: maestri e artigiani (specialmente), una concentrazione di
proprietari terrieri, un ruolo amministrativo e religioso importante ed un mercato di
rilievo. Queste caratteristiche saranno esaminate a fondo più oltre.
Certamente, alcune città sono sparite. Talvolta furono distrutte in guerra e non più
occupate (Brescello sul Po, dopo essere stata bruciata nel 586 e nel 603, fu
probabilmente abbandonata per vari secoli ma ciò era insolito). Ben più tipico fu il
lento decadimento e l'abbandono di città in aree marginali. Ad esempio, sulla costa
ligure, quantunque capoluogo di contea e sede vescovile fino al X secolo ed oltre,
Luni sembra fosse già in fase di decadenza nel tardo Impero, quando il suo foro fu
spogliato dei marmi. Uno scavo recente ha dimostrato l'esistenza di capanne in legno
sul foro e nella zona monumentale circostante e sembra che nell'VIII secolo la
maggior parte delle attività fosse limitata alla zona circostante la cattedrale. Questo
declino colpisce ancor più se si pensa che Luni era per i romani il punto d'arrivo e di
smercio di quello che chiamiamo oggi marmo di Carrara. Ma nel tardo Impero si
smise di tagliare marmo quando si resero disponibili molti blocchi dei templi ormai in
disuso delle città romane. Luni era situata su una fascia costiera paludosa direttamente
comunicante con un territorio formato da valli isolate e da ripide colline, retroterra
troppo povero e scarsamente popolato per fungere da base adeguata per la vita della
città a meno che non vi fosse il supporto di qualche altra attività economica. Quando i
Longobardi, che non conquistarono Luni fino a circa il 640, occuparono la maggior
parte del suo retroterra e mutarono il sistema viario in modo da evitare la città, le
diedero il colpo di grazia. Alcune città decaddero come Luni. Altre cambiarono
ubicazione, come Ventimiglia o Altino, i cui abitanti si trasferirono a Torcello e poi a
Venezia. Ma furono casi atipici. La tipica città romana sopravvisse; e sopravvive
ancora 1.
L'aspetto fisico delle città del primo medioevo è in se stesso una prova della loro
continuità. Indubbiamente, non erano troppo appariscenti. La monumentalità e l'alto
livello tecnologico dell'architettura tardo-romana dopo il VI secolo non ebbe segruto.
I templi e gli edifici civici tardo-romani furono per lo più lasciati andare in rovina, o
usati come cave. Le chiese che furono costruite dopo il 600 erano piccole, anche le
opere di grande prestigio come S. Salvatore in Brescia o S. Maria in Cosmedin a
Roma, sebbene questo possa essere almeno parzialmente addebitato ad un
cambiamento nello stile architettonico, poiché esse erano di certo ricche negli interni.
Sembra che l'edilizia privata spesso sia stata realizzata in legno, arretrata rispetto alla
strada, con un cortile anteriore e un giardino posteriore, forse più simile ad una città
giardino in sfacelo che non agli isolati di Pompei. In molte città esistono tracce di
colture agricole interne alle mura (in particolare vigne). Alcuni storici hanno
riconosciuto in questo la 'ruralizzazione' della città. Tuttavia ciò è un'esagerazione.
Città e campagna non erano certamente del tutto differenziate, i contadini potevano`
vivere nella città e uscire per andare a coltivare la campagna, come ancora avviene
nell'Italia meridionale. Ma le città fungevano da punti focali della campagna, e la vita
urbana era in genere del tutto diversa dalla vita rurale, molto similmente a quanto
succedeva nell'antichità.
I1 primo elemento che definisce la città è la cinta muraria. Erano mura romane,
quantunque conservate dai re Longobardi e successivamente dalle stesse
amministrazioni cittadine. Nel 739 un autore anonimo scrisse un panegirico della città
di Milano, descrivendone le glorie. In primo luogo venivano le mura:
Attorno al perimetro ci sono torri con alte guglie, rifinite all'esterno con grande cura, e
all'interno abbellite da edifici. Le mura sono larghe dodici piedi; l'immensa
fondazione è fatta di blocchi squadrati, completati elegantemente nella parte superiore
da mattoni. Lungo le mura ci sono nove cancelli meravigliosi, ben protetti da
catenacci e chiavi, davanti ai quali si ergono le torri dei ponti levatoi.
Con simili difese, non sorprende molto che la gente abitasse nelle città durante le
guerre del VI secolo, né che i governi successivi le abbiano mantenute. Le mura
1
Per Luni: B. Ward-Perkins, Luni (A5-b); cir. G. Schmidt, Città scomparse e città di nuova formazione
in Italia, Sett., XXI (1973), pp. 503-617, per molti dati comparativi.
davano identità alla città sotto ogni aspetto. Le davano anche una configurazione
specifica. La disposizione romana delle strade era in genere ad angolo retto (e spesso
allineate con i campi squadrati della campagna); il quadrato formato dalle mura
cristallizzò quest'aspetto. Le due strade principali di queste città prevedevano due
cancelli alle estremità e si incrodavano al centro, in genere al foro. La semplice
conservazione delle mura romane rese questa disposizione planimetrica permanente.
Ma in molte città italiane è pervenuta fino ad oggi una disposizione planimetrica quasi
totalmente quadrata: Torino, Albenga, Piacenza, Milano, Cremona, Brescia, Verona,
Bologna, Firenze, Lucca sono solo alcune voci di un lungo elenco. E’ vero, ciò è
talora possibile in città con una popolazione abbastanza limitata (Aosta ne è un
esempio), specialmente se le strade, come in Italia, sono ritenute una proprietà
pubblica; ma da tanti esempi si possono trarre conclusioni più generali. A Lucca
nell'890 due contratti d'affitto ci mostrano una fila di cinque case, tutte che si
affacciano direttamente sulla strada, nel centro della città. Qui, almeno, la pianta
stradale mostra decisamente una continuità nella densità dell'insediamento2.
Milano non aveva soltanto le mura. « L'edificio nel foro è assai bello, e il sistema
viario ha pavimentazione solida; l'acqua per le terme scorre in un acquedotto ». Siamo
qui riportati al mondo tardo-romano. L'acquedotto deve essere stato oggetto di
particolare orgoglio, dato che ne erano rimasti pochi nell'VIII secolo (a Roma, Napoli,
forse Brescia, probabilmente a Pavia; e in pochi altri luoghi). D'altro canto il foro era
ancora presente nella maggior parte delle città. Nell'antichità era stato il centro
politico, ove si riuniva il consiglio della città, ed il punto focale dell'edilizia civica.
Nell'alto Medio Evo, aveva due antagonisti, il palazzo reale e la cattedrale, simboli
dei due maggiori poteri di ogni città, lo stato e il vescovo. I1 foro perse il suo molo
politico diretto con la scomparsa del consiglio cittadino nel VI secolo, quantunque sia
restato un centro economico, e ivi si svolgesse ancora il mercato. E’ ancora così oggi,
in molte città. Tuttavia solo raramente il foro rimane al centro della città. I1 palazzo o
residenza reale spesso fu costruito su di esso o nelle vicinanze, ma l'importanza del
palazzo diminuì col crollo dello stato italiano nel x secolo. D'altro canto la cattedrale
raramente era costruita nelle sue vicinanze: come ultimo edificio tardo-romano
importante essa era, in genere, posta al limite della città romana. L'influenza tel
vescovo nella città fece crescere sempre di più l'importanza del complesso della
cattedrale. A Milano, la cattedrale fu costruita nel IV secolo, nella vasta area aperta a
nord-est della città, compresa entro le mura da un ampliamento recente delle mura
stesse Nel IX secolo era già diventato un punto politico importante: il primo
testamento dell'arcivescovo Ansperto, nell'879, allude all'asemblatorio, punto
d'incontro dei cittadini, posto di fronte alla cattedrale, ove oggi è ubicato il centro
della città moderna, la Piazza del Duomo. I1 vecchio foro continuò ad esistere, e fu
noto sotto il termine di mercatum; dal 952 aveva bancarelle fisse (per la maggior parte
proprietà del principale monastero suburbano di S. Ambrogio). Nel X secolo e dopo,
il prezzo delle case attorno al mercato e vicino alla zecca era elevato3. Ma Milano,
come si vedrà in seguito, era un centro commerciale importante. Altrove, il foro
diventò meno importante in un tempo più breve. A Brescia il foro è oggi in una
tranquilla zona residenziale della città vecchia; perse la sua importanza prima che il
capitolium romano, che ancor oggi lo domina, fosse destinato ad usi diversi
2
Versum de Mediolano civitate, in MGH Poetae, I, pp. 22-66 per Lucca, Barsocchini 965-6 (890). Cfr.
P-A. Février, Permanence et héritages de l'antiquité dans la topographie des villes (Bs-b).
3
Porro, 287 (879); MGH Dipl. Ottonis, I, n. 145 (952); G Violante (B3-f), pp. 109-15 per i prezzi.
(quantunque sia rimasto certamente un mercato). I1 centro della città moderna e
medioevale è a cavallo dell'asse delle mura romane, a fianco e di fronte alla cattedrale.
Questi spostamenti del centro all'interno delle città dell'alto MedioEvo mostrano
chiaramente la stretta relazione fra potere politico, status sociale, ed edifici. Di per sé
era una tradizione romana. Cassiodoro scrisse, a proposito dello splendore dei palazzi
di Teodorico: « Sono i piaceri del nostro potere, l'immagine appropriata dell'Impero...
sono in mostra perché ricevano l'ammirazione degli ambasciatori, e dal loro aspetto si
giudica il loro signore ». Tre secoli più tardi, Lodovico II diceva più o meno la stessa
cosa: « Gli edifici pubblidci che in ogni città erano stati costruiti da molto tempo per
adornare il nostro stato, devono essere ricostruiti per i nostri scopi, decorosi e adatti
alle ambasciate straniere che vengono alla nostra presenza »4. Ben lo sapevano i
costruttori di chiese. L'edificio ecclesiastico fu il diretto successore della costruzione e
ricostruzione monumentale della città romana. Nel I secolo Agrippa pose il suo nome
sul portico del Pantheon a Roma. Così nel tardo Impero i donatori dei pavimenti
musivi nelle chiese avevano il loro nome posto nell'elenco all'interno della porta
assieme alla misura, espressa in piedi, del mosaico donato. Alcune chiese presero
persino nome dal loro fondatore, come S. Maria Theodota a Pavia e San Pietro
Somaldi da Sumuald, a Lucca. Agnello scrisse gran parte della sua storia di Ravenna
unicamente partendo dalle iscrizioni dei donatori presenti nelle chiese della città. I1
vescovo Giacomo di Lucca (m. 818) pensò che sul suo epitaffio bastasse ricordare
solo le fondazioni e donazioni di cui era autore; nessuna frase piamente retorica. I
vescovi facevano le donazioni maggiori, come era giusto, non solo per le loro
responsabilità religiose, ma poichè in genere erano, nella città, i proprietari terrieri più
ricchi. I1 numero delle chiese di nuova costruzione nelle città, nel periodo in esame, è
uno dei segni più chiari della prosperità degli abitanti e della loro disponibilità a spese
ingenti. A Pavia si sa dell'esistenza di circa quarantacinque chiese prima che fosse
saccheggiata nel 924 dagli Ungari. Prima del 900 a Lucca se ne sono ricordate
cinquantasette. Chiunque volesse affermare il proprio status sociale, lo faceva
costruendo una chiesa. L'Imperatore Giustiniano si lamentava nel contesto bizantino
che gli uomini erano così desiderosi di essere ricordati come fondatori di chiese che
spesso non provvedevano neppure agli addobbi o alla manutenzione delle chiese
stesse 5. Le uniche differenze rilevanti tra questo comportamento e la munificenza
civica tardo-romana risiedevano nel fatto che un campo sociale ben più vasto, non
solo le autorità civiche, poteva partecipare alla dotazione delle chiese nell'alto Medio
Evo, e che furono costruite più chiese allora che edifici civici nella tardaromanità. Ne
consegue che, anche per minor ricchezza degli aristocratici dell'alto Medio Evo, le
chiese erano piuttosto piccole e non appariscenti in paragone ai monumenti tardoromani.
Lucca, la città alto-medievale italiana meglio documentata, mostra chiaramente queste
caratteristiche. La conservazione della sua pianta romana pressoché perfetta e le
facciate dei suoi edifici della fine del IX secolo, indicano che conservò almeno ad un
certo livello la densità di costruzione romana. Le sue chiese erano distribuite in modo
abbastanza uniforme nella città; non c'erano aree aperte evidenti; esistono
4
5
Variae, 7. 5; MGH Capitularia, II, 213 c. 7.
D.A. Bullough, Urban change in Early Mediaeval Italy (A5-h), pp. 99ss., 119-29; Barsocchini 1759
(818); Giustiniano, Novella 67 (Corprus Iuris Civilis, nı); cir. M. Mauss, The Gift (Londra, 1951), pp.
3145; T. Veblen, The Theory of the Leisurc Class (Londra, 1924) capitolo quarto.
testimonianze che le case fossero costruite in legno, mattoni e pietra; la pietra è il
materiale da costruzione più evidenziato. Tra il 700 e il 1100 le case a due piani
aumentano sempre più; e nel x secolo, persino la sporadica casa-torre. I1 palazzo reale
(curtis regia) e la zecca erano vicini al foro, nel centro; il complesso della cattedrale
era nell'angolo sud-est della città. A Lucca, tuttavia, la capitale della Toscana, il
palazzo del duca (curtis ducalis) fuori le mura diventò ben più splendido, sollevando
la gelosia di Lodovico III nel 905; quando re Ugo depose il marchese verso il 930,
pose li il palazzo reale. I1 palazzo ducale non era l'unico edificio di Lucca fuori dalle
mura. Oltre un terzo delle chiese e metà delle case citate nei documenti di Lucca
anteriori al 1000 risultavano essere all'esterno della cerchia muraria. Secondo i
documenti una fascia suburbana circondava Lucca fin dall'inizio dell'VIII secolo;
alcuni agglomerati, nel X secolo, avevano preso il nome di borgo (burgus). Un'elevata
percentuale della popolazione di Lucca viveva fuori mura e tali insediamenti
risalgono alle prime tracce storiche. Lucca era un centro importante, e cresciuto forse
troppo in fretta, ma molte altre città devono essersi espanse fuori dalle mura ben
prima della fine del periodo in esame6,
Elemento chiarificatore sono anche le attività degli abitanti di Lucca. Sempre dai
primi testi in nostro possesso rileviamo la presenza di una serie di mercanti ed
artigiani di generi di lusso, orefici, calderai, dottori, sarti, costruttori, monetieri. Tutti
sono citati come residenti nella città stessa e nelle sue immediate vicinanze. Alcuni
erano anche proprietari terrieri, come, ad esempio, Giusto l'orefice di porta S. Gervasi
nel 729, il quartiere della porta di S. Gervasio (molte città conoscevano suddivisioni
interne; i quartieri di Ravenna si scontravano persino in battaglie simboliche ogni
domenica pomeriggio. Un mastro costruttore dell'Italia settentrionale, Natale, acquistò
dei terreni a sud di Lucca nel 787-8, e nell'805 diventò cosi ricco da fondare una
chiesa urbana7. Tuttavia nella città non abitavano solo mercanti e artigiani, vi erano
anche aristocratici. Nell'VIII secolo oltre metà dei venti maggiori proprietari terrieri
presenti a Lucca e nel suo territorio sembra abitassero in città. E ciò esclude i terreni
delle chiese urbane, e soprattutto la cattedrale, che con tutta probabilità possedeva la
maggior parte dei terreni della zona. Anche le terre dello stato erano amministrate da
dentro la città. I terreni sotto il controllo di cittadini o di istituzioni dovevano già—o
ancora—costituire una parte rilevante dell'intera Lucchesia. In un contesto geografico
più limitato, la popolazione rurale forse si serviva del mercato di Lucca anche per lo
scambio delle sue eccedenze. Lucca predominava socialmente ed economicamente sul
suo territorio sotto qualsiasi aspetto, in modi sostanzialmente invariati rispetto a quelli
del mondo romano, e che in seguito non sarebbero cambiati granché.
Sottolineo qui la proprietà terriera urbana piuttosto che il commercio urbano, e lo
faccio deliberatamente. Le città romane non erano principalmente centri commerciali;
erano centri politico-amministrativi fondati sulla tassazione delle campagne, ed
avevano peso socio-economico in quanto i grossi proprietari terrieri dell'Impero
vivevano quasi tutti all'interno di esse. Solo così, col potere d'acquisto dello stato e
dell'aristocrazia, iniziarono ad essere presenti gli interessi commerciali. In pochissime
città occidentali, in genere grandi porti come Ostia, e forse in nessun'altro posto, il
commercio era cosi preponderante sotto ogni aspetto, e in linea di massima, questo
6
Cfr. H.E Schwarzmaier (83-f), pp. 14-70, I. Belli Bersali, La topografia di Lucca nei ss 8-11 (B5-b).
Lodovico III: Liutprando da cremona, Antapodosis (MGH S.S. der Germ., nuova edizione a cura di J.
secker), 2. 39.
7
Schiaparelli, 69 (739); Barsocchini, 216, 221, 322 per Natalis. Per Ravenna: Agnello, cc. 12-9.
valeva per l'Italia anche nei secoli XII e XIII. Genova e Venezia erano, ovviamente,
centri quasi esclusivamente commerciali, ma si trattava di eccezioni. Città più piccole
dell'interno, più tipiche dei comuni, come Mantova, Arezzo o Parma, erano sempre
controllate dai proprietari terrieri. E anche centri commerciali come Milano e
Cremona, con traffici fiorenti, erano città basate in egual misura sulla proprietà
fondiaria. Non dobbiamo di conseguenza identificare una rottura storica nella base
economica delle nostre città, ora proprietà fondiaria ora commercio (non
consideriamo qui l'industria (ora aristocrazia ora borghesia. Le città antiche (secondo
Weber) erano centri di consumo, non di produzione e gravavano sulla campagna; lo
stesso vale, entro limiti più ridotti, per le città dei secoli XII e XIII. Il commercio nel
periodo centrale del Medio Evo, quantunque avesse smesso di essere del tutto
dipendente dal potere d'acquisto dei proprietari terrieri italiani, era per lo più scambio
internazionale di generi di lusso. Di certo la maggior parte della popolazione
raramente acquistava tali merci, non vi fu mai grande commercializzazione
nell'agricoltura dell'Italia medievale, e la popolazione della campagna era coinvolta
nel commercio solo in quanto ultimo destinatario di pratiche monopolistiche e
relativarnente alla determinazione dei prezzi, che erano calcolati a scapito della
campagna per giovare ai mercati e alle botteghe urbani.
Si è già visto ampiamente come la struttura politica ed amministrativa del regno
longobardo e di quello carolingio che gli successe sia rimasta urbana, anche per
conseguenza della tradizione romana della pubblica amministrazione. La Chiesa pure
era nettamente urbana, con l'eccezione del sistema dei monasteri rurali, alcuni di
questi corredati di tenute estese, che cominciarono a sorgere nell'VIII secolo.
Anch'essi venivano volutamente fondati in zone remote al fine di evitare il contatto
con la società secolare, cioè, per eccellenza, la società urbana. I proprietari terrieri
rimasero, come abbiamo visto a Lucca, cittadini; è il caso di Taldo, il gasindio
(dipendente) del re, figlio di Teuderolfo, cittadino di Bergamo che fece testamento nel
774 (mentre Desiderio assediava Pavia). I1 suo essere cittadino (o quello di suo padre)
sembra sia stato un titolo, proprio come il suo status di gasindio. Distribuì una lunga
serie di proprietà a tredici chiese (le donazioni maggiori a due chiese urbane) e ordinò
al vescovo di vendere tutto il resto alla sua morte8.
Può non sembrare inevitabile che i proprietari terrieri dovessero abitare nelle città; i
vantaggi materiali dell'appartenenza istituzionale al corpo cittadino erano scomparsi
con la centralizzazione del sistema fiscale alla fine del III secolo. I1 sistema
longobardo di patrocinio statale su base urbana quantunque forte, non poteva
gareggiare con quello centralizzato, basato sulle tasse, del tardo Impero. E qualsiasi
studente dell'Europa dell'inizio del Medio Evo conosce bene la deurbanizzazione di
gran parte dell'occidente durante i regni germanici. Lellia Ruggini ha sostenuto che i
proprietari terrieri italiani lasciarono le città anche durante le dominazioni ostrogote,
tuttavia la sua documentazione, si riferisce solo al Bruzio (moderna Calabria), zona
marginale da sempre9. La deurbanizzazione della parte occidentale fu per lo più
limitata a quelle regioni, come la Britannia e la Gallia settentrionale, che meno
avevano subito l'influsso di Roma. La Gallia meridionale, almeno nelle sue parti
agricole fiorenti, rimase urbana; cosl fu per gran parte della Spagna; Le classi
superiori, romane e germaniche, della frangia mediterranea dell'Europa occidentale
8
9
Schiaparelli, 293.
Variae, 8. 31; Ruggini, Italia annonaria, pp. 301-11, 350-9.
continuarono a pensare che la vita urbana fosse il principale obiettivo sociale. Si è
visto che i Longobardi si erano insediati in città già nel VI secolo, senza dubbio sotto
l'influenza romana, che era meglio rappresentata dalla autorità ininterrotta
dell'episcopato. Continuità amministrativa significava che tutte le cariche importanti
rimanessero cittadine, quantunque non fossero diminuite dall'epoca del tardo Impero.
E l'attrattiva della vita cittadina era essa stessa una forza che si perpetuava da sé.
L'occasione per gli aristocratici di misurarsi con i loro pari era più facile in un
contesto urbano—se qualcuno costruiva una chiesa in città, altra gente poteva
materialmente vederla. Non vi erano più ragioni economiche determinanti per abitare
in città, ma il vivervi per tutta una serie di valori che continuavano a sussistere, aveva
un suo fascino. La preminenza ideologica della vita urbana in Italia nell'alto Medio
Evo e chiara, e il soprawivere di istituzioni dello stato e della chiesa nelle città
contribul a dare solidità all'attività economica, anche se questa aveva basi meno solide
che non sotto l'Impero. C'erano nobili di campagna, particolarmente negli Appennini,
che non erano mai stati del tutto romanizzati nell'antichità. Al decadere dello stato
italiano nel nord, anche alcune delle più forti famiglie aristocratiche si ruralizzarono
come si vedrà. In un certo senso l’XI secolo in Italia, malgrado il suo fiorire
economico e l'espansione urbana, vide al livello più basso la supremazia politica delle
città, ma di per sé ciò mostra l'importanza della persistenza delle città come centro
amministrativo dello stato fino ad almeno il x secolo. E anche nell'XI secolo, come
dimostra il sorgere dei comuni, il bilancio è a favore della città.
I1 sistema clientelare amministrativo, ecclesiastico e aristacratico, basato sulla
proprietà terriera, è sotteso a tutte le altre attività urbane. Anche i poveri della città ne
potevano usufruire: dar da mangiare ai poveri era, fin dal tempo dei Romani, una
prova di munificenza civica, e questo ruolo fu assunto in vasta misura dai vescovi.
Gregorio Magno e i suoi successori a Roma nell'VIII secolo, la consideravano una
delle destinazioni privilegiate delle rendite derivate dalle loro tenute10. Ma il
commercio e il lavoro artigianale, basati sulla domanda aristocratica, erano un
processo più vitale, e, nel suo sviluppo mercantile, l'Italia del primo Medio Evo era
ben più progredita di ogni altra parte dell'occidente cristiano eccetto il sud arabo della
Spagna.
I commerci presero l'avvio in modo deciso sotto la protezione e con la mediazione
dello stato—altra tradizione romana. Rotari pose i mercati stranieri sotto la propria
protezione. Liutprando (o Grimoaldo) sanci regole dettagliate, fissando i prezzi per la
corporazione dei costruttori, i magistri commacini, riguardo lavori specifici: copertura
dei tetti, costruzione di muri, dipintura a calce, costruzioni di tramezze e finestre,
scavo di pozzi. Ratchis e Astolfo imposero la licenza a tutti i mercanti— i mercanti
erano inaffidabili e privi di vere radici; potevano commerciare con i nemici e le loro
merci potevano essere rubate. I re indubbiamente consideravano fissi i valori dei beni,
quantunque la gente fosse spesso incline ad aumentarne i prezzi, specie in tempi di
carestia o al passaggio degli eserciti. I Carolingi emanarono leggi per salvaguardare il
giusto prezzo delle merci, in particolare delle derrate alimentari. Queste erano usanze
ben radicate nella società medievale, anche i comuni conservarono tali leggi. Di certo
i prezzi cambiarono, ed anche il prezzo del terreno aumentò enormemente alla fine del
10
Giovanni Diacono, Vita Gregorii, 2. 24-30 (Migne, PL 75); Liber Pont., I, p. 502; cfr. « Papers of the
British School at Rome », XLVI (1978), pp. 173-7.
x secolo, ma il concetto di prezzo di mercato 'liberamente determinato', non era
accettabile per la maggior parte degli italiani. Per prineipio i prezzi erano legati ai
bisogni sociali11.
Lo stato non s'interessava al commercio solo per via della pace sociale. I mercanti
potevano far la guerra; nel 750 Astolfo promulgò una Iegge per determinare quali tipi
di armi i mercanti più o meno importanti dovessero portare quando fossero chiamati a
servire nell'esercito. E i mercanti pagavano dazi al governo, che poteva ricavarne un
gettito notevole. Liutprando e i re che gli successero stipularono trattati con le genti
dei territori bizantini lungo l'Adriatico, prima con quelli di Comacchio, poi con
Venezia, determinando quanto dovessero pagare ad ogni porto lungo il Po ed ai suoi
affluenti: a Mantova, alla bocca del Mincio, ai porti di Brescia, Parma, Cremona, alla
conduenza dell'Adda, Piacenza, e a quella del Lambro12. Anche i luoghi di mercato
dovevano pagare dazi. Infatti quasi tutto ciò che si sa dei mercati nel periodo in esame
deriva da donazioni dei dazi sui mercati fatte alle chiese sotto gli ultimi Carolingi e i
loro successori. Prima dei Carolingi dobbiamo ipotizzarne l'esistenza. I1 resoconto
più dettagliato di tali entrate è in un testo dell'inizio dell'XI secolo noto col titolo di
Honorantiae Civitatis Papiae, in cui si descrive una situazione dell'inizio del X secolo,
quantunque alcuni dettagli debbano essere successivi. Elenca le tasse dovute dai
mercanti venuti in Italia attraverso le Alpi; le regalie particolari dovute alle autorità e
al palazzo di Pavia dal re d'Inghilterra e dal doge di Venezia per compensarle con i
dazi dovuti dai loro mercanti; le percentuali da pagare ai monetieri pavesi e milanesi
in cambio delle operazioni di conio, e le quote che essi dovevano al palazzo; le tasse
dovute dai cercatori d'oro dei fiumi dell'Italia settentrionale, dai pescatori, cuoiai, dai
fabbricanti di sapone di Pavia, e così di seguito13. Queste professioni sono tutte
organizzate in ministeria che a molti storici sono sembrati discendere dalle
corporazioni dell'Impero o dalle schelae dell'Italia bizantina. Ciò non è mai stato
dimostrato e non v'è continuità nel contesto sociale di tali organizzazioni: lo stato
controllava tutta la struttura amministrativa delle corporazioni sotto l'Impero, ed è
molto opinabile lo abbia fatto anche dopo il 568. Ci deve essere stata almeno la
continuità dell'addestramento sistematico e della qualificazione dell'artigianato nel
periodo che analizziamo, e già nell'VIII secolo si trova documentazione sui magistri,
maestri artigiani, in diversi settori-costruzioni, ferro, notariato. Ciò che sappiamo
dell'artigianato proviene da fonti disparate, sempre in via indiretta: cessione di diritti
da parte dello stato, acquisizione di terreni da parte di artigiani affermati, liste di
testimoni. Tuttavia abbiamo testimonianza di una vasta gamma di commerci già nei
secoli VIII-IX: artigiani dell'oro, argento, rame, ferro; fabbricanti di pellami, sapone,
stoffe, costruttorì civili e navali. C'erano anche estrazioni minerarie: sale, oro (come si
è già visto) e argento al vescovo di Volterra furono dati nell'896 dal marchese di
Toscana i proventi fiscali derivanti dalle miniere di Montieri14.
11
Rotari 367, Grimoaldo/Liutprando, Memoratorium de mercedibus magistri Commacinorum, Ratchis
13, Astolfo 4-6; MGH Capitularia, I, 28 c. 4, 88, II, 217 c. 10 Cfr. G. Duby (B5-a), pp. 48-70; K.
Polanyi, CM. Arensberg, H.W. Pearson, Trade and Market in the Early Empires (Glencoe, Illinois,
1957), pp. 243-70
12
Astolfo 3; L.M. Hartmann (B5-b), pp. 1234; MGH Dipl. Karol., I, n. 132 Capitularia, II, 233-41.
13
Honorantiae, MGH S.S., 30. 2, pp. 1450-9; per i meseieri, U. Monneret de Villard, L'organizzazione
industriale nell'Italia longobarda (B5-6) rimane ancora un classico; per i mercati: F. Carli (B5-a).
14
l testo è andato perduto; cfr. F. Schneider (B3-b), p. 268 n., e ibid., Bistum und Geldwirtschalt, QF,
VIII ( 1905), pp. 81-2.
Le linee fondamentali dell'attività commerciale italiana erano probabilmente state
delineate in vista del commercio del sale poiché il sale è la merce più antica. E’
sempre stata un bene necessario, specie nei climi caldi. I1 sale italiano veniva dalla
costa: le lagune adriatiche, le piane di Vada a sud di Pisa, la foce del Tevere. I1
traffico da Vada a Lucca e Pisa può essere ricostruito hn dal 760 (esistono anche
testimonianze nel v secolo) e fu all'origine dell'attività marittima di Pisa. Ma il
commercio del sale adriatico, ben più visibilmente, era la base di tutto il commercio
dell'alto Medio Evo nel Nord. La gente di Comacchio alla foce del Po, nell'VIII
secolo, portava sale nel Nord. All'inizio del IX secolo i cremonesi cominciarono a
prendere parte a tale attività, e presto comprarono barche per commerciare in proprio.
Lo si sa in quanto nell'852 reclamarono senza successo l'esenzione dei dazi a favore
del vescovo nel porto di Cremona, esordio di due secoli di dispute sempre più accese
fra il vescovo e i cittadini di Cremona15. Altre città hanno forse avuto uguale sviluppo.
Comacchio, piccola città dipendente dal suo monopolio, forse ne risentì. I1 centro che
ne beneficiò fu Venezia, l'isola di Rialto, ove il duca bizantino della costa adriatica
aveva trasferito di recente la propria residenza. All'inizio del IX secolo i veneziani
cominciarono ad assumere il controllo del tratto terminale della rotta commerciale
bizantina, assicurandoselo nell'889 quando assediarono e diedero alle fiamme
Comacchio. Ma Venezia, ultimo collegamento del Nord Italia con Bisanzio, era in
posizione favorevole per far entrare in Italià ben numerose merci oltre il sale. Presto
queste aumentarono di volume ed importanza. I mercanti veneziani a Pavia al tempo
delle Honorantiae presentavano doni ufficiali al ciambellano del re, doni che
rispecchiavano la varietà delle loro mercanzie: una libbra di pepe, cannella, galanga
(una radice aromatica) e zenzero; e un pettine d'avorio, uno specchio o accessori di
bellezza per la sua sposa. Importavano anche oggetti d'arte e stoffe bizantine; la
controparte comperava schiavi, grano e tessuti italiani. Gran parte di questi scambi
avevano base a Pavia. Metà dei vescovi del regno vi avevano casa, e questa
funzionava come deposito delle merci oltre che come base per accedere a corte.
I Veneziani, anche la più alta aristocrazia, privi di entroterra agricolo, erano
praticamente forzati ad esercitare il commercio. Già nell'829 il doge di Venezia,
Justinianus (Giustiniano Partecipazio) quantunque proprietario terriero in terraferma
nel regno d'Italia, fece riferimento nel suo testamento ad un investimento di 1.200
libbre di solidi « liquidi, se non vanno perduti lungo il viaggio per mare », primo
riferimento nella storia medievale all'investimento di capitali. Su di esso i Veneziani
si basarono nei secoli successivi. Nel 992 avevano occupato la maggior parte della
costa dell'Adriatico ed avevano ottenuto privilegi commerciali immensi
dall'imperatore d'oriente. Dal 995 erano in posizione da poter bloccare gli sbocchi
sull'Adriatico delle altre città d'Italia. I1 loro futuro aveva solide basi16.
I porti principali del regno d'Italia, Pisa e Genova, divennero tali nell'XI secolo,
quantunque almeno Pisa vantasse una ininterrotta tradizione marinara a partire dal VII
secolo e anche da prima. Le città dell'interno offrono indici migliori dello sviluppo
commerciale ed urbano dei secoli IX e X, in particolare Milano. Milano non è
particolarmente ben documentata prima dell'ottocento, ma di lì in poi, in gran parte
15
16
Manaresi, 56.
Honorantiae c. 5; Colice diplomatico Padovano, a cura di A. Gloria (Venezia, 1877), n. 7 (829); cfr.
G. Luzzatto (Bs-b), pp. 4-16.
attraverso gli archivi del monastero di S. Ambrogio, la documentazione inízia ad
aumentare velocemente. Nel IX secolo osserviamo all'opera lo stesso modello di
sviluppo di Lucca, con artigiani benestanti e mercanti che acquistano terreni. Alcuni
mercanti erano protetti dal monastero di S. Ambrogio e citati come tali nei documenti
(anche S. Giulia di Brescia aveva simili protetti, ed aveva anche ottenuto da Lodovico
II l'esenzione fiscale per uno di loro, Januarius, nell'861). Dalla fine del IX secolo in
poi tali menzioni crescono di numero. Nel 900, il commercio a Milano fioriva; dopo
la metà del X secolo i prezzi degli immobili aumentarono vertiginosamente. Accade
ora che famiglie rurali si trasferiscano in città: due famiglie da Cologno, ad est della
città, nella prima metà del X secolo; una di Trivulzio, a sud, i discendenti di Ingo, dal
970 in poi. Gli 'Ingonidi' persero il controllo della maggior parte delle loro terre a
favore di mercanti e monetieri della città, non appena vi si stabilirono. Tale
mutamento di situazione venne perfezionato attraverso i matrimoni, essi infatti si
sposarono all'interno di quei gruppi sociali: ancora mercanti, giudici, le classi
professionali17. Il mescolarsi di attività professionali e commerciali—possiamo
aggiungere anche ecclesiastichc era caratteristica di tutto lo strato medio nella
popolazione della città, fascia che divenne capace di azione autonoma nel secolo
successivo associandosi con la classe ben più potente dell'aristocrazia terriera. I1
commercio non era la base principale del cambiamento sociale di Milano, ma di certo
aveva maggior peso che a Lucca. Era per lo meno un elemento nella crescita dello
status della città, che sottendeva un'espansione abbastanza rapida della popolazione di
Milano. La nuova importanza sociale dei mercanti indicava tuttavia meno il
riconoscimento dell'esistenza di un benessere commmerciale come fonte di status
sociale, che non l'abilità e il desiderio di mercanti affermati di acquistare terreni. La
terra era ancora la base del potere politico.
In questa discussione, in un certo senso siamo andati troppo in là. La Milano della
fine del x secolo era situata in un contesto assai diverso da quello di un secolo prima:
l'intera struttura politica era mutata. Gli interessi del nuovo strato sociale, quello dei
mercanti (non si poteva ancora parlare di classe) potevano in alcune città,
specialmente Cremona, inddere sull'equilibrio fra vescovi e aristocrazia laica nel
mondo carolingio e post-carolingio, ma lo si capirà meglio nell'ultimo capitolo,
quando le vicende saranno esaminate in un contesto politico. Ciò è importante in
quanto fra gli storici c'è una forte tendenza ad isolare la crescita commerciale e le
attività dei mercanti dalla società che li circonda; a considerare, per così dire, la pula
anziché il grano. Ma l'attività dei membri di un gruppo marginale, a prescindere da
quanto abbiano in mano il mondo futuro, è incomprensibile al di fuori del contesto
sociale globale. Artigiani e mercanti erano strettamente inseriti nella società e ne
subivano il controllo, dal momento che essa comperava i loro prodotti. E, ancora alla
fìne del x secolo, avevano stretti legami con lo stato. I monetieri, ad esempio, la cui
attività era uno dei ministeria delle Honorantiae, non erano artigiani indipendenti:
rappresentavano lo stato, battendo moneta per esso sotto licenza, soggetti a regole
rigide in merito al peso e all'autenticità delle loro coniazioni. La concentrazione
dell'attività commerciale a Pavia, in particolare nel secolo a cavallo dell'anno 900, era
solo il risultato degli interessi e delle necessità dell'apparato amministrativo statale, e
dopo che il palazzo venne incendiato nel 1024 la città perse velocemente terreno
rispetto a Milano, che forse era rimasta la più grande città del Nord sin dall'antichità, e
17
Violante (B3-f), pp. 115-34; G. Rossetti, Società e istituzioni nel contado Lombardo (B3-t), pp. 17282; Porro, 211 per Brescia.
che pertanto era un nodo commerciale più ricco. Forse il commercio sarebbe potuto
esistere in forma abbastanza fiorente senza che lo stato vi partecipasse, specie agli
inizi del commercio internazionale che prese awio nel x secolo con il diminuire delle
scorrerie arabe; ma era ancora per la maggior parte, dipendente dal potere d'acquisto e
quindi dal rango sociale dell'aristocrazia. Non vi è alcun vantaggio nel trattare l'Italia
del x secolo come precursore della « rivoluzione commerciale » avulsa da ogni
contesto sociale ed economico.. Non è neanche detto che aiuti la comprensione
definire l'Italia una « economia del denaro », anche se il denaro era, almeno nel 700,
facilmente ottenibile, ed usato per la maggior parte delle transazioni di cui esiste
traccia. A1 di fuori del mercato urbano, la maggior parte dei commerci avveniva in
contesti sociali entro i quali non era determinante l'uso del denaro come mezzo di
scambio, sia in mercati locali, sia, addirittura, al di fuori dei mercati. La maggior parte
della popolazione era al di fuori di questo commercio internazionale; come i signori
terrieri, viveva esclusivamente della terra.
Agricoltura e mutamenti sociali nella campagna
La campagna era tanto primitiva quanto la città era sofisticata. Gli aratri appaiono
solo occasionalmente nelle nostre fonti, ma zappe, vanghe, sarchie sembra siano stati
gli unici attrezzi accessibili alla maggior parte dei contadini. Buona parte dell'Italia
era ancora coperta da foreste o paludi e, sebbene il periodo fra l’VIII e l'XI secolo sia
stato il periodo del disboscamento medievale in Italia, non portò a variazioni delle
tecniche. Non ci furono grandi sviluppi tecnologici nell'agricoltura italiana altomedievale, a parte il rapido affermarsi del muIino ad acqua, caratteristica tipica di
ogni villaggio dal 1100. L'unica eccezione di rilievo fu costituita dalla Sicilia araba, al
di fuori del campo di studio di questo libro, ove fra il IX e il XII secolo fu iniziata
tutta una serie di nuove colture ed introdotta una sofisticata rete d'irrigazione.
Nel primo capitolo ho dato risalto alla diversità geografica dell'Italia romana. L'Italia
alto-medievale non era meno differenziata, e, dall'VIII secolo in poi la relativa
precisione dei documenti ne fa risaltare ai nostri occhi il contrasto. L'uso della terra,
l'alimentazione, l'insediamento, il sopravvivere di contadini liberi, la condizione dei
possessori, il cambiamento della struttura delle grandi aziende possono variare
totalmente fra i territori delle diverse città, fra zone montane e zone pianeggianti, fra
valli vicine. Anche all'interno di un territorio le differenze sono enorrni—fra le
pianure coltivate più elevate e le colline della provincia di Parma e le foreste di
quercia delle paludi del Po a nord, o i pascoli di argilla e le foreste di faggio degli alti
Appenníni a sud. Talvolta si hanno prove sufficienti per collegare a tali contrasti le
differenze di struttura sociale. Gli storici e, ancor più, gli archeologi italiani hanno
lavorato parecchio su queste differenze, in particolare nell'ultimo decennio. Un breve
studio come questo non esaurirà l'argomento; voglio solo delineare il problema nclle
sue linee fondamentali e nella sua evoluzione. Ma le eccezioni sono presenti, ad ogni
istante. Alcune di queste analisi generali si applicano anche all'Italia meridionale, ma
nel capitolo sesto verranno esaminate proprio le caratteristiche tipiche del sud.
L' effettivamente possibile che i contadini fossero la classe che meno risenti della fine
dell'Impero e delle guerre del VI secolo. L'aristocrazia romana dei proprietari terrieri
fu parzialmente sostituita da quella longobarda; i Longobardi di livello inferiore
(compresi gli schiavi) s'insediarono sui terreni a fianco di schiavi romani e di coloni.
Tuttavia essi erano relativamente pochi rispetto alle dassi agrarie romane; e, di fronte
alla realtà della vita economica in Italia, gli agricoltori longobardi persero la propria
identità. Si è visto che i Longobardi avevano adottato le leggi romane sulla proprietà
terriera; con 1'VIII secolo non v'è più modo di distinguere i Longobardi dai Romani in
base alle loro azioni. Queste realtà economiche furono semplicemente le reazioni
tradizionali dei contadini romani verso il loro ambiente. I contadini non si dedicano ad
esperimenti agricoli—hanno troppo da perdere. E anche la devastazione della guerra
non sembra far gran differenza sul modo col quale i sopravvissuti coltivano la terra,
una volta ricostruite le loro scorte di grano da semina o ripiantate le vigne distrutte.
Guerre e catastrofi possono sminuire lo status di indipendenza dei contadini, se questi
si pongono sotto la protezione dei signori (volontariamente o no) per avere da loro i
mezzi di sostentamento; ma essi continueranno a coltivare la terra nello stesso modo.
E nel VI secolo, come si è visto, i proprietari terrieri erano anch'essi molto vulnerabili.
it anche possibile che alcuni contadini siano sfuggiti al loro controllo. Le
testimonianze dell'VIII secolo rivelano con certezza la presenza di piccoli proprietari
terrieri in numero superiore a quanti in genere si pensi esistessero nel tardo Impero.
Ovviamente alcune cose cambiarono. La tassa sul terreno, che aveva provocato
l'abbandono delle campagne, cessò d'essere applicata nella maggior parte d'Italia, e
quei pochi progetti economici su vasta scala cui lo stato partecipava, scomparvero
definitivamente. I1 sistema di bonifica delle valli del Po e dell'Arno cessò; la
ceramica africana che domina nei siti archeologici tardo-romani, comprese le
masserie e i villaggi agricoli, non fu più disponibile in Italia subito dopo la fine del VI
secolo (con grande svantaggio per i nostri studi sugli insediamenti alto-medievali;
finora abbiamo ben pochi tipi di ceramica come guida per i due secoli che seguono).
Ma senza un calo improvviso e massiccio della popolazione, del quale non v'è prova o
spiegazione possibile, non ci si possono aspettare grandi cambiamenti nell'agricoltura
contadina del prisno periodo medievale18.
L'agricoltura contadina consisteva, almeno nelle pianure italiane, nella triade
fondamentale mediterranea formata da grano, vino e olio integrato da fagioli e frutta
che in genere crescevano nei piccoli orti cintati che ogni contadino alto-medievale
coltivava. Questa struttura non era cambiata molto dai tempi romani; Cesare non si
era preoccupato di dare carne alle sue truppe fino a quando, nel 52 a.C., esse non
stavano per morire di fame nella Gallia centrale. Da allora le cose non erano cambiate
tanto. Che gli Italiani dell'alto medioevo vivessero in questo modo si vede bene da
testi dell'VIII secolo scritti in luoghi diversi del Lazio, della Toscana e della pianura
Padana, che elencano le razioni giornaliere date ai poveri da associazioni benefiche
collegate a chiese di fondazione privata. Tali scritti possono considerarsi esempi di
una specie di « norma» nelle diete dei contadini, almeno com'era idealizzata dai
proprietari terrieri; l'inventario dei cibi è probabilmente accurato, quantunoue le diete
vere abbiano potuto avere grandi variazioni nella quantità. A Lucca nel 764 Rixsolfo
indicò come razione giornaliera per una persona un pane di frumento, un quarto
d'anfora di vino, e la stessa quantità di un miscuglio di fagioli e farina di panico « ben
pressata e condita con grasso o con olio ». Altre erano molto simili, sebbene spesso si
preferisse il lardo all'olio e il miscuglio (chiamato pulmentario) talvolta comprendesse
anche un po' di carne. Questa alimentazione assunta per anni e anni, doveva risultare
noiosissima. Fra i poveri, l'uso della carne era limitato ad occasioni particolari, e per
questo scopo ogni famiglia contadina aveva qualche animale, forse un maiale, una
18
Guide generali si possono trovare nelle opere di P.J. Jones elencate nelle sezioni bibliografiche A5-a,
Bs-c; più di recente, La storia economica (Bl), pp. 1555-1681.
vacca e una gallina; ciò bastava anche per i regali annuali di animali vecchi di un anno
che si solevano fare assieme ai canoni in natura o denaro nei contratti dei secoli VIII e
IX19.
Queste diete sono l'unica testimonianza di ciò che la gente mangiava; ma abbiamo una
documentazione maggiore riguardo la distribuzione dell'uso agricolo del suolo in
Italia, e questa distribuzione come si vedrà era diretta principalmente a soddisfare le
necessità di una economia contadina. La struttura si perpetua: una preponderanza
assoluta di terreno arabile (specie nelle zone pianeggianti) e di vigne (specie nelle
colline). I prodotti dei terreni arabili, come si può vedere nei canoni, erano per lo più
diversi tipi di cereali. In Toscana predomiriava il frumento; nella pianura Padana, la
segale era più comune. I cereali inferiori erano molto meno diffusi, quantunque sia
possibile che i signori si prendessero i migliori tipi di cereali, lasciando ai loro
affittuari quantità maggiori di avena e miglio. In genere gli Italiani seguivano il
sistema dell'alternanza delle colture, ma possono talora aver coltivato legumi (piselli e
fagioli) nell'anno del maggese. Se è così, è un uso abbastanza sofisticato del terreno,
ma è in contrasto con i raccolti scarsi che si possono calcolare in base ad alcuni
archivi del x secolo dell'Italia settentrionale, specie da quelli di S. Tommaso di
Reggio, che non sempre raggiunsero il rapporto 3 ad 120.
Gli uliveti e la cultura specializzata dell'olivo in paragone erano rari, sebbene parecchi
monasteri dell'Italia settentrionale avessero terreni sui laghi italiani dove hanno
coltivato ulivi forse anche per la vendita sui fianchi delle colline rivolti a sud (in
quantità forse maggiore che non oggi). Più comune, particolarmente in Toscana, era la
« coltivazione promiscua »; la coltivazione di olive e cereali sullo stesso terreno,
pratica che fino a poco tempo fa, per tutta una serie di motivi, veniva considerata un
segno distintivo della sofisticazione agricola. Anche le viti spesso devono essere state
fatte crescere in modo promiscuo. L'e spressione terra vitata o terra cum vineis
superposita, terra arabile con vigneti, è comune, specialmente in Toscana e nel sud.
La vite, tuttavia, era fatta crescere sola in tutta l'Italia, e dopo il x secolo, specie
nell'Italia centrale, si trovano contratti di pastinatio con gli affittuari che provocano un
cambiamento nello sfruttamento agricolo, da terreno da cereali (o terra incolta) a
vigneti. In questi casi i proprietari terrieri devono aver considerato le viti come
raccolto commerciale. Tali contratti sono solo una piccola parte delle locazioni giunte
fino a noi. Generalmente sembra che i proprietari si siano accontentati di avere una
percentuale dei tipi di prodotto che i contadini coltivavano per sé, base della loro
alimentazione, e ciò significa che cereali e vino erano richiesti in quantità non
trascurabili.
I Longobardi, con l'esperienza di vita nelle foreste dell'Europa centrale, valutavano
l'allevamento più della maggior parte dei contadini romani. I1 codice delle leggi di
Rotari, pur trattando anche i reati agricoli (furto di frutta, danneggiamento o taglio di
viti, coltivazione di terreno altrui), tratta estesamente i problemi legali dell'economia
agricola mista e di quella puramente pastorale. Si trovano pene per ferite ad animali
19
Schiaparelli, 194; cfr. 218, 2g3; Barsocchini, 231, 273; Mem. de Mac. Com. S; Liber. Pont., I, pp.
501-2; Cesare, Guerra Gallica, 7. 17.
20
M. Montanari, Cereali e legumi nell'alto medioevo (Bs-c); V. Fumagalli, Rapporto tra grano
seminato e grano raccolto nel polittico del monastero di S. Tommaso di Reggio, R.S.A., vl (l966), pp.
360-2.
provocate da rami di siepi sporgenti, per furto di una cavezza, per morti provocate da
cavalli, uccisione di vacca gravida, danni provocati da animali su terreno altrui o nelle
strade del paese, furto di verro (con provvedimento speciale nel caso di sonorpair, il
capobranco di un insieme di oltre trenta animali) e così via21. Da ciò si è spesso
concluso che il periodo longobardo fu l'epoca d'oro dell'allevamento e dell'economia
silvo-pastorale, e che il ritorno all'agricoltura si ebbe solo con i grandi riassetti dei
suoli del IX secolo. Ciò è improbabile. Rotari legiferava per il suo popolo; ma pochi
erano i contadini longobardi, e questa parte del codice forse aveva poca importanza
nel contesto generale dell'Italia. La maggior parte della pianura italiana continuava ad
essere coltivata allo stesso modo di prima, e ciò significava per i suoi abitanti una
alimentazione fondamentalmente vegetariana.
Tuttavia al di fuori delle zone coltivate d'Italia, nelle paludi del Po o negli alti
Appennini, prevaleva un regime più pastorale. All'epoca romana le montagne e le
paludi erano collegate da transumanza sistematica fra i pascoli in quota estivi e quelli
invernali nella pianura. Ciò è meno evidente nel nostro periodo ma certamente
esisteva ancora il contrasto fra l'agricolutra e pastorizia. Nel 772 Desiderio donò a S.
Salvatore in Brescia 4.000 iugera (1050 ettari) di foresta nella bassa emiliana,
chiaramente delimitati da alberi contrassegnati; quale terreno incolto poteva avere
poco valore se non per l'allevamento di porci. S. Salvatore, sotto il nuovo nome di S.
Giulia, lasciò una documentazione sistematica delle rendite delle sue proprietà, un «
polittico », che risale circa al 900. Calcoli recenti delle risorse agricole degli aílittuari
di S. GiuIia, assieme a quelli del monastero appenninico di Bobbio (i cui polittici
risalgono all'862 e all'883) indicano rendite così basse che sembra probabile siano
stati aiutati dalla pastorizia. La maggior parte degli affittuari pare esser vissuta con
una media di 100 chilogrammi di cereali all'anno—in alcuni casi meno di 64
chilogrammi, ben al di sotto del minimo vitale. Questi dati possono essere visti come
indicativi di una minore importanza dei cereali nelle zone marginali, in montagna e
nella bassa pianura, ove la terra era per lo più proprietà di monasteri; ma ciò non può
spiegare tutti i risultati che ancora oggi non sono chiariti. Gli schiavi domestici di S.
Giulia, tuttavia, il più delle volte insediati nella zona centrale coltivata della
Lombardia, venivano nutriti esclusivamente con cereali in quantità fino a sei volte
quella degli aífittuari, se i dati del polittico son esatti22.
Non si può dire quanta parte d'Italia per esempio nell'800 fosse tenuta a pascolo,
boscaglia, palude o bosco non coltivato; forse la maggior parte del terreno che si trova
a quota superiore ai 500 metri eccetto la maggior parte delle valli di montagna; al di
sotto di questa quota soltanto i terreni vicini ai grandi fiumi, e alcuni dei terreni più
sterili in collina, come nella Toscana centrale o nelle Murge in Puglia, sebbene ci
fossero certamente anche fasce di terra boschiva sulle zone di maggior insediamento
delle pianure particolarmente del nord. Tuttavia nel IX secolo, forse anche nell'VIII, si
cominciano a vedere segni di dissodamento sistematico, per lo più ad opera dei
monasteri, sebbene questa preminenza sia forse imputabile al miglior stato di
conservazione dei loro archivi. Ad esempio Nonantola disboscò la foresta di Ostiglia
21
22
Rotari 284-358.
Per le foreste: Bruhl, 41 (cfr. anche Brahl 24). Per i polittici: Inventari (B21. Cfr. M. Montanari,
L'alimentazione contadina nell'alto medioevo (Bs-c) per le cifre. L'archeologia aiuterà presto a
risolvere questo problema; cfr., per esempio, G.A.M. Barker, Dry Bones, Papers in Italian
Archaeology, I (A5-c), pp. 35-49.
sul Po a partire dall'inizio del IX secolo; a metà del secolo la gente tornava nei
dintorni della città di Brescello, e a partire dalla fine del x secolo troviamo ancora
traccia di una famiglia laica di proprietari terrieri, il casato di Canossa, che organizzò
il disboscamento nella stessa area. Nell'Appennino centrale, a nord di Roma, anche
Farfa è impegnata nel disboscamento, forse in gran parte basato sul lavoro di
contadini pionieri indipendenti dei secoli VIIl e IX23. E' questa attività, diretta verso le
grandi foreste o verso i boschi delle zone da tempo oggetto di insediamenti (ove la
documentazione è pet lo più costituita da casuali riferimenti e occasionali toponimi),
che segna il vero dinamismo economico dell'Italia alto medievale più che l'aumento
del commercio internazionale di lusso. Sembra che esso vada collegato con una
crescita demografica; per lo meno la suddivisione dei poderi in affitto, e l'aumento dei
prezzi dei terreni comuni alla fine del X secolo hanno portato gli storici a concludere
che la popolazione aumentava. E’ oggi impossibile dire se i contratti d'aíffitto
favorevoli concessi ai coltivatori pionieri da parte dei monasteri—assieme ad un
leggero sgravio dei gravami impo sti ai servi concessionari di quasi tutta
l'Italia—fossero la causa di una maggiore prosperità e quindi di famiglie più
numerose, e se la pressione della popolazione fosse essa stessa la spinta al
disboscamento che si rese visibile solo al suo diminuire (se fu così) dopo il 950.
L'archeologia in futuro forse potrà darci indizi circa la pressione sulle risorse, ma
attualmente vi sono troppo pochi reperti per avere una risposta.
L'archeologia tuttavia ci è più utile ed è in grado di fornirci notizie sugli insediamenti
altoınedievali, prima dei cambiamenti nell'habitat che presero l'avvio all'inizio del x
secolo, noti generalmente col termine incastellamento e che portarono alla
preponderanza di insediamenti compatti in alcune parti d'Italia, e ad una
concentrazione parziale di insediamenti entro e attorno centri fortificati, in altri
luoghi. Si pensa che l'habitat dell'Italia romana sia stato sparso e ciò è avvalorato sia
da ricerche archeologiche, che riscoprono ville e masserie sparse, sia da ricerche
storiche, che descrivono la campagna romana come formata non da villaggi, ma da
unità fondiarie, massae e fundi, insiemi frammentari di proprietà che in genere
prendevano il nome da qualche precedente proprietario, come massa Firmidiana o
fundus Domitianus. Non è chiaro come ciò funzionasse sotto l'aspetto
sociologico—ad esempio è difficile dire come i contadini inserissero le loro proprietà
in questo contesto, a meno che i fundi non fossero molto piccoli. I1 latino classico ha
una parola per villaggio, vicus, e nei nostri testi si possono trovare vici che mal si
adattano a questa struttura, ma non è certo se fossero modi alternativi di organizzare il
territorio o solo nuclei insediativi isolati (uno o due sono stati scoperti dagli
archeologi).
Sotto i Longobardi troviamo un quadro chiaro di villaggi in Italia, chiamati
indifferentemente vici, loci, casalia, villae e con altri nomi locali più tipici. Essi si
sostituirono a massae e fundi come unità dell'organizzazione territoriale (quantunque
queste ultime abbiano continuato ad essere usate fino ai secoli X e XI nelle zone che
prima erano state bizantine nel centro e nel nord); i territori dei villaggi essendo
definiti geograficamente, furono certamente più flessibili e permanenti rispetto alle
unità fondiarie. E' tuttavia assolutamente poco chiaro cosa significasse questo
23
Cfr. Ie opere di V. Fumagalli nella sezione bibliografica B5-c; P. Toubert (B3-f), pp. 339-48 e note
citate.
cambiamento per i contadini. I villaggi potevano essere ad un capo o all'altro del più
ampio spettro dei tipi di insediamento, da nuclei accentrati, anche fortificati, a case
così sparse che i confini tra i territori dei villaggi erano diflicili da conservare; sembra
che talvolta non si potessero neanche distinguere gli abitanti dei diversi villaggi.
L'agricoltura mediterranea non richiede grande cooperazione, dato che sono
relativamente pochi gli animali da far pascolare liberi su terreno, fondamento usuale
della cooperazione, ma un informale aiuto ad hoc era senza dubbio dato dagli abitanti
del villaggio. Cesario d'Arles, negli anni attorno al 510, descrisse l'aiuto dato dai
vicini e dai congiunti ad un uomo che ripristinava un vigneto, in una parte della Gallia
molto simile all'Italia. Tuttavia, in zone da pascolo l'azione comunitaria era più
importante, e nel IX secolo si vedono diversi villaggi situati in tali zone agire in modo
collettivo nelle cause.
Come questi villaggi si siano sviluppati dal periodo romano, o, anche, se siano
realmente sempre esistiti, è un problema che solo gli scavi archeologici ci potranno
aiutare a definire nell'immediato futuro24.
Possiamo essere sicuri sulle alterne fortune di diversi strati di contadini, e dei loro
rapporti con i proprietari terrieri, in quanto su tali argomenti la documentazione è
ricca: lo schema generale è abbastanza noto. Nel tardo Impero la produzione
schiavistica dei secoli I e II era già sparita, e sono documentati rapporti fra
proprietario terriero e concessionario che diverranno caratteristici dei secoli
successivi, assieme alla permanenza di coltivatori proprietari. I1 meccanismo di
equilibrio fra le due forme è di didicile comprensione. Spesso si è pensato che i
coltivatori proprietari siano stati assorbiti da grandi aziende, ma di certo alcuni
sopravvissero, particolarmente in montagna. I1 termine tardoromano colonus poteva
significare sia libero concessionario sia coltivatore proprietario, e spesso c'è ambiguità
fra le due accezioni. Lo stato tassava ambedue ed esigeva anche dai proprietari
indipendenti che abitassero sul fondo. Tuttavia non vi era motivo che i coloni
abitassero sempre sul fondo. La legislazione tardo-romana è piena di lamentele
riguardo alla partenza di coloni (ma per dove?) e il conseguente abbandono dei terreni
(agri deserti) che erano un'alta percentuale della terra agricola che andava perduta alla
fine dell'Impero. Talora s'impiegavano ancora schiavi per coltivare direttamente i
fondi dei loro padroni, ma erano allora casati, alloggiati nelle case coloniche come
concessionari servili.
Sarebbe impossibile generalizzare in merito al modo di coltivazione dei fondi del
periodo tardo-romano. Nel territorio di Padova attorno al 550 gli affittuari (coloni)
della Chiesa di Ravenna erano già obbligati ad eseguire pesanti lavori manuali sui
dominici dei loro padroni, da uno a tre giorni alla settimana (e pagavano un canone di
denaro, e regalie di miele, lardo e pollame). Questa è la prima testimonianza che si
conosca in qualsiasi luogo, e l'ultima per due secoli, del sistema bipartito, noto in
Inghilterra col termine « manorial system » e in Italia come sistema curtense:
dominico coltivato col lavoro diretto degli affittuari e una serie di terreni coltivati da
affittuari tenuti a prestare opera oltre che a pagare il canone. Certo nell'Italia del VI
secolo non era un sistema universale. Gli amministratori dei beni pontifici in Sicilia al
24
C Klapisch-Zuber, Villaggi abbandonati... (Bs-c), pp. 317-26; « Archeologia Medievale», v (1978),
pp. 495-503; Pap. Brit. Sch. Rome, XLVII (1979). Caesarius Arles, Sermones, I, 67, a cura di G. Morin
(Corp. Christ. Ser. Lat., CIII, 1953).
tempo di Gregorio Magno (590-604) non richiedevano prestazioni d'opera dai loro
rustici, quantunque pretendessero molte altre cose. Nei primi anni di pontificato
Gregorio mandò parecchie lettere ai suoi rappresentanti onde correggerne gli abusi.
Sembra che in Sicilia ai contadini venisse in genere richiesto di pagare come canone
l'equivalente in cereali di una cifra fissa, che variava col prezzo dei cereali stessi. Gli
amministratori erano disposti a mantenere artificiosamente bassi questi prezzi, e a
richiedere misure esagerate di cereali in cambio del loro denaro, oltre a diritti
supplettivi e regali di nozze. Arrivavano fino ad espropriare i propri vicini. Tuttavia la
prestazione obbligatoria di mano d'opera è totalmente assente; gli affittuari pagavano
solo canoni. Per parecchi secoli successivi questa sarebbe rimasta una caratteristica
del sud. Si deve qui infine valutare un altro aspetto connesso ai possedimenti di
Gregorio: gli affittuari dei fondi di Gregorio erano sia uomini liberi che schiavi, ma
sembra che tutti fossero legati alle terre avute in concessione, ed avessero canoni
fissati da consuetudini. Già attorno al 590 anche all'esterno delle aree « curtensi »
d'Italia, si riscontra la fusione fra liberi e non liberi, che viene generalmente
considerata la base dello strato di concessionari nella società contadina medievale25
I Longobardi, come si vede nell'editto di Rotari, avevano una triplice classificazione
della società: l'uomo libero, l'aldius, e lo schiavo. L’aldius in genere tradotto con vago
termine di « semi-liberò », era per sempre sotto la protezione del suo padrone, ed era
vincolato a servirlo; lo schiavo era, almeno all'inizio, soltanto un bene. Questa
classificazione, come quella romana, cominciò a perdere vigore di fronte alla
relazione economica fra proprietario terriero e affittuario. In particolare, gli aldii
cominciarono a sparire. Vengono citati occasionalmente nei testi del IX secolo, come
dipendenti privilegiati, specialmente come corrieri. Talora gli affittuari rivendicarono
l'appartenenza alla categoria degli aldii di fronte alla giustizia (la miglior condizione
dei non liberi) per salvaguardare la natura consuetudinaria del loro diritto. I liberi e gli
schiavi longobardi divennero molto simili a quelli romani, quantunque il libero
longobardo fosse molto più indipendente del colonas romano: non era legato al fondo,
aveva la responsabilità di prestare servizio militare e di comparire in tribunale, e
almeno al tempo di Rotari era ancora, in teoria, su un piano di legale parità con
l'aristocrazia. I1 termine colonus quindi significava solo affittuario.
Nel 727 gli sviluppi futuri già si palesano in una legge di Liutprando che esordisce:
Se un libero, che vive da libellarius (titolare di documento d'affitto) su un terreno
altrui, si rende responsabile di omicidio e fugge, il proprietario del fondo sul quale
vive l'omicida ha un mese di tempo per trovarlo; (se non lo trova deve pagare metà
del valore dei beni mobili dell'omicida)26.
I liberi longobardi si stavano trasformando in locatari, e ciò non aveva solo effetti
economici; era anche una diminuzione del loro status. I contratti dell'VIII secolo
spesso contenevano clausole che stabilivano che i locatari erano legati alla terra e, con
questa legge, i loro padroni gia si assumevano notevoli responsabilità nei loro
riguardi. I1 loro status cominciava ad avvicinarsi a quello dei concessionari non liberi.
25
Tjader, Papyri Italiens, n. 3; Gregorio, Epp., 1. 39a, 42; 2. 38. J.C. Percival, Seigneurial aspects of
Late Roman estate management, « English Historical Review », LXXXIV (1969), pp. 449-73, propone
una suggestiva analisi di tutto il materiale riguardante il periodo iniziale.
26
Liutprando 92; cfr. Rotari 41-137 per la triplice divisione sociale.
Questo declino della posizione di molti liberi fu, come si vedrà, uno degli aspetti
cruciali dello sviluppo della società italiana dall'VIII secolo in poi. Al di fuori del
contesto delle leggi longobarde, ancora una volta, è impossibile dire se questa gente
fosse longobarda o romana e la questione non sembra rilevante. Le suddivisioni
sociali dei Longobardi si amalgamarono completamente con quelle romane.
Nell'VIII secolo, quindi, ritroviamo le caratteristiche che esistevano nel tardo impero,
quantunque esse siano ora meglio documentate. Troviamo, in gran quantità liberi
coltivatori proprietari. Sopra di loro troviamo proprietari terrieri di diverse
dimensioni, dal coltivatore con qualche appezzamento dato in affitto a terzi, fino al
latifondista. Anche i più grandi, come Gisolfo strator di Lodi con una tenuta ad
Alfiano (in provincia di Cremona) del valore di qualche cosa come 9.000 solidi, non
erano paragonabili alle principali famiglie senatoriali del tardo impero27. Sotto di loro
c'erano affittuari liberi a vari livelli di dipendenza: alcuni che avevano terreni in
proprietà e anche in affitto; alcuni con obbligo di prestazione d'opera, altri senza;
alcuni (almeno dopo l'800) soggetti alla giustizia privata del loro padrone. A1 livello
ancora inferiore c'erano coloni non liberi con obblighi (nella maggior parte dei casi)
più pesanti, quantunque fissati da consuetudini. Alla base della società alcuni schiavi,
intesi come beni (servi praebendarii) che lavoravano sul dominico del padrone o in
incarichi domestici, sebbene il loro numero andasse diminuendo. Conduttori e schiavi
formavano la grande maggioranza della società italiana del periodo in esame. Tuttavia
sono relativamente poco menzionati e per lo più presentati dal punto di vista dei loro
padroni, esito inevitabile ma sfortunato delle lacune nella documentazione alto
medievale.
Con i secoli VIII e IX la divisione in due parti delle curtes era diventata comune nella
maggior parte dell'Italia del Nord e del Centro (come si è fatto notare non fu mai
caratteristica del sud ove gli affittuari si limitavano a pagare canoni). Alcune di queste
curtes, in particolare quelle monastiche, godevano di una notevole organizzazione. La
struttura interna della coltivazione in affitto (con o senza apporto di lavoro manuale)
era la base di tutte le relazioni socio-economiche in quella che si può chiamare società
'feudale'. Queste strutture erano diventate dominanti nell'intera società, eccetto in
qualche parte dell'Appennino, ove la signoria terriera non era ancora del tutto
insediata, e nell'Italia bizantina ove il sistema fiscale dello stato bizantino forniva
modi alternativi di assorbire le eccedenze agricole con vantaggio dei ricchi. Tuttavia
come funzionasse in realtà il sistema si vede meglio attraverso alcuni esempi concreti.
Si può cogliere la vera complessità di questi schemi analizzando le differenze locali.
Per cominciare, si osservi il villaggio di Varsi nell'Appennino Parmense, non troppo
distante dalla città (circa quaranta chilometri da Parma), ma posto in collina, in
posizione sicura. E’al centro di una serie di documenti fra loro collegati della metà
dell'VIII secolo, conservatisi in quanto sono tutti transazioni riferite alla chiesa di
Varsi, S. Pietro, e ai suoi rettori. Nel 735 sette persone donarono o vendettero piccoli
appezzamenti a S. Pietro in casale Cavalloniano. I1 terreno più grande era circa di
duemila metri quadrati, il più piccolo settanta metri quadrati. Due anni dopo, uno di
questi sette, Munari Eglio di Gemmolo, con due suoi fratelli, vendette altri due campi
27
Schiaparelli, 137, 155, 226.
nella stessa località alla Chiesa. In modo simile la Chiesa accumulò per sé terreno
nella stessa Varsi. Nel 736 Ansoaldo e sua moglie Teotconda vendettero tre
appezzamenti di terra arabile vicini al lago di Varsi, confinanti coi terreni di altri
quattro gruppi di persone. Nel 737 i due figli di Godilani vendettero quattro
appezzamenti 'con alberi' lungo la strada che conduceva al lago, anch'essi confinanti
col terreno di altre cinque persone, alcune delle quali legate da parentela. Esistono
documenti simili che risalgono al 742, 758 e 774; ogni volta S. Pietro o laici del luogo
ricevevano o acquistavano piccoli appezzamenti. Nel 753 Ambrogio, figlio di
Marioni, confermò con un documento la libertà di Domoaldo, precedentemente
schiavo, che era stato ricevuto in S. Pietro. Nel 762, Ansoaldo, zio di Lopoaldo rettore
di S. Pietro, riconobbe di aver occupato illegalmente alcune terre di Lopoaldo, ma
Lopoaldo, « considerata la liberalità che si deve ai congiunti », non gli fece pagare la
multa di venti solidi. Ansoaldo gli diede due tremisses, ed un appezzamento con vigne
in regalo28.
Varsi non era una società particolarmente ricca. L'entità delle sue transazioni, come si
può vedere, era modesta. Molti degli uomini citati nei documenti erano exercitales,
longobardi liberi, ma sembra che siano stati tutti contadini proprietari; neanche
casualmente sono citati gli affittuari Come testimoni si presentano uomini dei villaggi
limitrofi, ma nessuno di zone cosl lontane come la pianura. Fra i testimoni compaiono
un artigiano, un costruttore e un notaio e la maggior parte dei documenti sono scritti
da un chierico locale, Maurace. Era una società stabile. Molti villaggi simili a Varsi
divennero maggiormente dipendenti dalla Chiesa nello spazio di una generazione, più
o meno, ma S. Pietro di Varsi, sebbene aumentasse in modo consistente i propri
terreni, non ottenne mai più di uno o due appezzamenti alla volta. Questi terreni erano
in alcuni casi confinanti, segno chiaro di un certo tipo di accumulazione, ma spesso
non lo erano. Nessuna famiglia cedeva tutte le sue terre alla Chiesa; molte famiglie
appaiono discontinuamente in questi testi; non vi è traccia di alcuna che sia andata in
rovina.
Varsi era una società degli Appennini; in contrasto ad essa si vede Gnignano nella
pianura longobarda, a metà strada fra Milano e Pavia. Qui abbiamo una serie di
documenti interessanti che si estendono dal 798 all'856, conservati nell'archivio di S.
Ambrogio di Milano. Nei documenti più antichi del 798 e 824, Walperto di Gnignano
e suo figlio Leone di Siziano (un villaggio vicino) cedettero alcuni appezzamenti al
loro amico (o creditore), l'orefice Arifus di Pavia. Nell'833 queste praprietà, passate a
Vigilinda, moglie di Arifus come dono di nozze, furono vendute per quaranta denarii
ad un importante ecclesiastico milanese, Guntzo, che le cedette ad un cittadino suo
amico, l'aristocratico alemanno Hunger, figlio di Hunoarch. Entrambi, Guntzo e
Hunger, si davano da fare per procurarsi terreni a Gnignano. In un documento
del1'836 Hunger elencò le case coloniche di Gnignano che aveva acquistato da
persone diverse, ed una vasta proprietà che Paolo, un notaio di Pavia, gli aveva
venduto l'anno prima per diciassette libbre di argento coniato. La maggior parte di
questi terreni era destinata, dopo la morte dei parenti diretti di Hunger, a diventare
proprietà del monastero di S. Ambrogio. Nell'840 ciò era in gran parte già avvenuto,
malgrado le proteste di un abitante del luogo, Rodeperto, forse un protetto di Hunger,
che in quell'anno riconobbe i diritti del monastero sulla terra. Verso l'850 Guntzo
28
Schiaparelli, 52, 54, 59, 60, 64, 79, 109, 129, 159, 291.
possedeva ancora terreni a Gnignano, ma nell'856, dopo la sua morte, il monastero di
S. Ambrogio (per conto del quale Guntzo aveva agito in qualità di patrocinatore) ne
aveva anch'esso riunito una notevole quantità.
A quel punto il monastero di S. Ambrogio era indubbiamente diventato il principale
proprietario a Gnignano. I documenti antichi che non menzionano Guntzo e Hunger si
riferiscono a terreni che S. Ambrogio ottenne da altre famiglie, come quelli che
Rachinfrit di Gnignano e suo fratello affittarono ad un ecclesiastico nell'832, e quelli
che Teutpaldo di Gnignano, che non aveva figli, vendette nell'839. La terra di S.
Ambrogio per la prima volta è documentata confinante con terreni di altri proprietari
nell'832; in precedenza i confini portavano i nomi di piccoli proprietari terrieri laici
citati nei contratti precedenti. Verso 1'850, invece, sembra che la terra di S. Ambrogio
sia stata onnipresente nel centro abitato, assieme alle terre di altre due chiese, S.
Vittore in Meda e S. Stefano in Decimo. L'unico proprietario laico che ancora
rimaneva nell'850 e del quale si abbia notizia era un certo Bavo, figlio di Rotari,
affittuario di S. Vittore nell'856, ma anche proprietario terriero indipendente (con suoi
propri affittuari) menzionato in tre atti dell'851-ó, forse l'ultimo che sia vissuto a
Gnignano29.
Le caratteristiche sociali di Gnignano ovviamente stavano mutando velocemente in
questo mezzo secolo tanto quanto quelle di Varsi erano state fisse. I possessi delle
quattro o cinque famiglie proprietarie locali note erano dapprima mescolati con le
terre di artigiani cittadini di Pavia, e nell'arco di una generazione, attraverso i buoni
offici di due importanti aristocratici milanesi, queste quattro o cinque famiglie locali
si ridussero ad una; il resto andò alle chiese. Ciò può non essere tipico di altri paesi
attorno a Milano, in quanto la mole di documenti di Gnignano è insolita, e S.
Ambrogio potrebbe non aver ottenuto altrettanti successi in paesi privi di
documentazione archivistica. Chiaramente, però, all'inizio del IX secolo, c'era la
tendenza alla costituzione di una notevole proprietà fondiaria ecclesiastica. Altro
chiaro elemento di contrasto con Varsi è l'esistenza di affittuari. Non è chiara l'entità e
l'importanza sociale dei proprietari terrieri di Gnignano, sebbene, almeno alcuni,
fossero collegati ad artigiani importanti. Bavo, l'ultimo che sopravvisse, appare in un
ruolo decisamente minore come conduttore-coltivatore di alcune sue terre. Ma questi
proprietari locali, persino Bavo, avevano i propri conduttori, sia affittuari liberi che
avevano in affitto singoli terreni, sia (forse) conduttori servi nelle case coloniche
(casae massariciae). Probabilmente la maggior parte della popolazione del villaggio fu
sempre formata da conduttori, frammisti a proprietari locali. Alcuni di loro
dipendevano da questi proprietari, ed altri, in numero sempre crescente, da chiese
esterne. E’ quindi realistico dire che dall'inizio del IX secolo in Gnignano i conduttori,
invece di pagare canoni localmente, dovevano corrisponderli a proprietari esterni,
quanto dire che i proprietari terrieri locali perdevano le loro terre a favore della
Chiesa.
Nel caso di Gnignano sono invece assenti i contratti di fitto fatti dai conduttori; della
Lombardia ne sono rimasti ben pochi di questo periodo. E’ soprattutto dai polittici che
si può vedere il tipo di canone che i conduttori pagavano in questa parte d'Italia. Ad
29
Porro, 66, 105, 114, 117, 120, 127, 128, 133, 135, 137, 172, 191, 197, 199. 137
esempio cito di segruto parte di qucllo di Bobbio dell'862-883, canone della tenuta
posta a Travo, trenta chilometri a sud-ovest di Piacenza.
(In dominico) 60 media di cereali possono essere seminati ogni anno, 18 anforas di
vino possono essere raccolte in una buona annata, ed 11 carri di fieno. C'è un bosco
per 40 porci, ed un mulino... Ci sono 11 1ibellarii (conduttori per contratto) e 19
massarii (affittuari per consuetudine); danno un terzo del loro grano, per un totale di
223 modia, un terzo del loro vino (80 anforas), 7 solidi, 74 galline e uova. I libellarii
fanno 24 giornate lavorative obbligatorie all'anno; i massarii tutte quelle che vengono
loro ordinate.
Non si sa di alcun abitante di Travo che non fosse conduttore di terreni di Bobbio, e
forse il paese era più omogeneo di Gnignano, ma non tutti i conduttori vivevano a
Travo, poiché nell'835 i possedimenti venivano descritti come ‘Travo e i suoi territori
dipendenti'. Le case coloniche erano probabilmente sparse attorno ai villaggi vicini. I
canoni sono certamente abbastanza tipici per fornire indicazioni di ciò che era
normale in Lombardia. Questi tre esempi mostranc la gamma di testimonianze che gli
atti ci possono dare, ed evidenziano i contrasti che si possono trovare in zone diverse,
ma anche nella stessa zona, in Italia. Comunque c'è una uniformità importante, ed è
norma quasi ovunque in Italia: la frammentazione della proprietà. Sia a Varsi che a
Gnignano, la proprietà era sparsa in vaste zone. Anche a Travo, un territorio
apparentemente coerente, i conduttori abitavano anche in altri paesi. Per lo più i
proprietari terrieri non avevano tenute poste in un unico lotto di terreno, che
costituisse un unico villaggio o anche parte di esso. Invece tendevano ad avere, nel
migliore dei casi, il centro dei loro possedimenti in un villaggio, e le case dei
conduttori sparpagliate in vari altri villaggi. I conduttori stessi, come i coltivatori
diretti di Varsi, avevano poderi- formati da diversi appezzamenti sparsi in uno stesso
villaggio, o spesso in più d'uno, e molti di quest; campi solevano essere molto piccoli.
Teuprando e sua moglie Gumpranda fondarono una chiesa urbana a Lucca nel 764 e
le lasciarono una serie di proprietà che avrebbero dovuto essere una base fondiaria
sufficiente al suo mantenimento. Queste proprietà erano formate da una casa colonica
con terre annesse a Sesto, dieci chilometri a nord di Lucca, un'altra sulla costa, venti
chilometri a nord-ovest, un'altra a circa settanta chilometri più in giù lungo la costa
con un quarto delle terre (ci si domanda se i tre fratelli di Teuprando abbiano
conservato il resto), un quarto di un'azienda a circa cinque chilometri a nord-ovest di
Lucca, un quarto di un bosco di ulivi sulle colline vicino a Sesto, ed altri tre campi
sparsi nelle pianure a nord e ad est della città. E’ una proprietà di questo tipo che i
campi apparentemente sparsi di Varsi e Gnignano suggeriscono; e questa
distribuzione casuale è il prodotto di molte generazioni di spartizioni ereditarie30.
La frammentazione ebbe molte conseguenze, la più ovvia che i contadini dovevano
spostarsi maggiormente per coltivare i loro terreni. La terra veniva spartita
scrupolosamente fra eredi dello stesso asse, fino al più piccolo campo. Ciò aveva delle
implicazioni sulla cooperazione economica all'interno della famiglia, come si vedrà.
L'indebolirsi del controllo sugli affittuari se vivevano in case isolate a distanza di
parecchi chilometri è un elemento che si ripresenta. La conseguenza che qui voglio
evidenziare è la grande difficoltà insita in qualsiasi pianificazione economica. I
30
Per Travo: Inventari, pp. 136, 157-8, Codice diplomatico di S. Colombano di Bobbio, a cura di C.
Cipolla (Roma 1918), n. 36. Per Teuprando: Schiapareli, 178.
proprietari terrieri secolari non potevano tener unite le loro aziende per più di due
generazioni al massimo, dato che ogni azienda era divisibile. Chiese e monasteri
videro aumentare le proprie tenute come prodotto di donazioni estemporanee e di
vendite, e anche a Gnignano, ove il monastero di S. Ambrogio raggiunse una certa
supremazia, le sue terre erano frammiste ad altre di altri proprietari. I1
consolidamento fu vana speranza, eccetto che nei casi poco frequenti in cui una chiesa
era venuta in possesso della quasi totalità di una zona. I proprietari, per la maggior
parte, non potevano controllare ciò che i loro conduttori coltivavano sui lotti di
terreno, in quanto non sempre questi lotti erano facilmente separabili dalle terre di
altre proprietà. E in una società eome quella di Gnignano, ove i singoli campi e
conduttori venivano trasferiti da un proprietario all'altro come merci, la rigida
struttura dell'azienda bipartita deve essere stata molto diflicile da conservare. Né fu
sempre facile reperire mano d'opera da conduttori che vivevano a distanze dell'ordine
di venti chilometri dal centro del fondo. il possibile che un piccolo proprietario
terriero con solo alcuni conduttori abbia coltivato il suo dominico da sé (o con
schiavi), oppure si sia basato unicamente sui canoni, affittando il dominico in lotti.
Travo, in paragone, era chiaramente molto più organizzato; e invero sembra che
l'eccezione ad un sistema cosl frammentato fosse la società dei polittici di Bobbio e S.
Giulia, e di altri monasteri i cui polittici si conservarono solo in parte, o sparirono del
tutto31, Qui, almeno, abbiamo notizie sistematiche del volume dei canoni, dei servizi
di lavoro pesante, ed anche di raccolti destinati alla vendita; per non parlare della
vendita sistematica delle eccedenze. Bobbio da cinquantasei tenute ricavava 5679
modia (forse 9.600 stai) di cereali, 1.640 anfore di vino, 2.886 libbre di olio, 1.590
carri di fieno, 5.500 maiali ed una varietà di prodotti diversi come ferro, nocciole,
pollame e canoni in denaro. Questi sono redditi di un certo livello, prodotti di tenute
organizzate come Travo, con una curtis, centro della tenuta (in linguaggio monastico
cella), punto focale del dominico nel quale i conduttori prestavano la loro opera, che
variava da parecchi giorni alla settimana ad alcune settimane all'anno. Gli unici
esempi reperibili di interi villaggi sotto un unico signore provengono da tali proprietà
monastiche (e più raramente episcopali). Questi paesi erano quasi certamente, per la
maggior parte, terre fiscali date alla Chiesa dal re, talvolta in zone boscose o
sottopopolate, che i monasteri del IX secolo cominciavano a dissodare. Tuttavia
sarebbe eccessivo pretendere che questi monasteri avessero una visione d'insieme
dell'organizzazione delle loro proprietà. I canoni di Bobbio variavano da paese a
paese per tipo ed entità; e cosl le prestazioni d'opera. Esso aveva due tipi diversi di
conduttori, libellarii e massarii, ognuno con obblighi diversi pur all'interno dello
stesso fondo o villaggio. I tipi di canone, sebbene fossero un ammontare enorme per
ogni tipo di prodotto, sono chiaramente in ogni caso quelli tipici dell'agricoltura della
sussistenza della zona di provenienza. Anche i grandi monasteri si trovavano di fronte
ad un compito quasi impossibile se volevano sistematizzare le loro proprietà, a meno
che non avessero organizzato essi stessi il dissodamento della terra, situazione che
tende sempre a produrre maggiore uniformità. E i grandi monasteri erano pochi. La
maggior parte dei terreni era proprietà di istituzioni ben più piccole, o di nobili laici,
che in genere avevano una proprietà terriera estremamente frammentata. Ne segue che
è più utile analizzare le strutture economiche di base della società come costituite non
da aziende, ma da unità di coltivazione contadina, case coloniche o casae massariciae,
31
Cfr. Hartmann (B5-b), pp. 42-73; G. Luzzatto, I servi delle grandi proprietà ecelesiastiche (B5-c),
particolarmente pp. 47ss., 70-4.
e da piccole proprietà di proprietari terrieri contadini. I canoni e gli obblighi dei
conduttori, quantunque, fossero spesso pesanti, erano ben più estranei alla vita del
conduttore di quanto non fossero in altre zone dell'Europa del Nord, ove intere
collettività contadine avevano obblighi nei riguardi di un solo proprietario. In Italia, il
centro amministrativo di un fondo poteva distare chilometri dai casali periferici.
Anche se esisteva un diritto di esigere prestazioni d'opera all'interno del paese, spesso
il diritto si riferiva a terreni tanto frazionati quanto quelli del conduttore stesso, e
spesso tali conduttori erano gli unici nel paese ad essere dipendenti dai loro padroni
terrieri. La maggior parte dei paesi, come Gnignano all'inizio della serie dei suoi atti,
era un miscuglio di proprietari contadini, piccoli proprietari fondiari, ed affittuari di
tutta una serie di signori. Il paese stesso, e ancor più la famiglia erano punti focali ben
più importanti della maggior parte delle aziende. Di rado i proprietari terrieri
riuscivano ad influire sui processi di produzione; i canoni erano in genere fissati per
tradizione, e rari i raccolti commerciali. Con alcune importanti eccezioni, quali ad
esempio l'organizzazione del dissodamento, l'agricoltura era attività dei soli contadini.
I1 periodo dalla fine dell'VIII alla fine del X secolo vide due processi contraddittori:
l'indebolimento della posizione sociale e politica dei contadini liberi e l'indebolimento
delle strutture economiche delle aziende, e quindi della base economica della classe
dei proprietari terrieri. A conclusione del capitolo questi due fatti verranno esaminati
separatamente.
Si è visto che i re dei secoli VIII o IX erano propensi a promulgare leggi contro
l'oppressione dei poveri. Lo stato era occupato principalmente a conservare la
posizione pubblica del libero, il suo accesso alla giustizia e (in particolare) il suo
servizio nell'esercito. Questi diritti stavano già indebolendosi per i conduttori liberi
che diventavano sempre più legati ai loro signori. Si è visto l'inizio di questo sviluppo
nella legge di Liutprando sui libellarii. Nell'813 un capitolare diede ai proprietari
terrieri la responsabilità di fare in modo che i loro dipendenti prestassero servizio allo
stato, schiavi, aldii, e libellarii, « che fossero sempre stati o fossero da poco diventati
conduttori », tutti allo stesso modo. Non tutti i libellarii erano ex-proprietari; la parola
significava soltanto « conduttore, colui che ha diritto per contratto scritto », ed è solo
dopo 1'800 che diventa comune. Nell'Italia alto-medievale c’erano sempre stati
conduttori liberi, ma solo col nono secolo diventò normale la conferma dei loro
contratti con i proprietari terrieri per mezzo di accordi scritti. I1 termine tradizionale
di conduttore nell'Italia longobarda, libero o no che fosse, era massarius, e questo
vocabolo continuò ad essere usato per tutto il periodo in esame (e dopo il 774,
assieme al termine franco manens). I libellarii dovevano essere liberi, in quanto chi
non era libero non poteva fare contratti; talvolta, come a Bobbio, erano contrapposti ai
massarii debitori di maggior lavoro servile e, in qualche fondo, di canoni inferiori. In
altre zone non si può distinguere fra i due: i massarii spesso appaiono come autori dei
contratti, e i libellarii spesso dovevano canoni e obblighi pesanti pari ai massarii. I1
contratto scritto dava forse ai conduttori garanzia maggiore dei diritti per
consuetudine, ma non necessariamente dava loro uno status superiore32,
Ma se non tutti i libellarii erano per nascita liberi, molti lo erano certamente. Anche i
polittici che in generale non si occupano dell'origine dei conduttori, fanno riferimenti
casuali ad essi; cosi a Porzano a sud di Brescia, nelle tenute di S. Giulia, quattordici
32
MGH Capitularia, I, 93 c. 5 (813); P.S. Leicht, Livellario nomine (B5-c).
uomini liberi avevano ceduto le loro proprietà alla curtis per riaverle in cambio di una
giornata lavorativa alla settimana. Anche i contratti, talvolta, lo dicono espressamente.
Nel 765 nel territorio di Chiusi, Bonulus vendette tutte le sue proprietà a Guntefrido;
le riprese in aílitto in cambio di dodici giornate lavorative all'anno in qualità di
conduttore vincolato. I contratti del monastero toscano medievale di Monte Amiata
erano quasi tutti di questo tipo, dall'804 in poi. Perché i proprietari liberi abbiano
agito così non è mai chiaro; talvolta, certamente, a causa di dissesti economici,
quando il cibo e la protezione di un signore sembrava valere la cessione delle loro
terre; spesso, certamente, come risultato della violenza o della coercizione del signore
in questione: Monte Amiata era di gran lunga il proprietario più potente nel raggio di
molte miglia di campagna intorno33.
La Chiesa ottenne anche terreni per motivi meno direttamente economici, per mezzo
di pii lasciti. Re ed aristocratici fondavano chiese e monasteri, o donavano terreni a
quelli già esistenti, per carità e col desiderio di salire in prestigio. Anche i meno ricchi
e perfino i poveri facevano elargizioni. Non è facile distinguere i motivi: carità,
prestigio, disperazione, coercizione, ma si può tentarlo quando, come è comune, i
donatori davano alla Chiesa una parte del loro terreno equivalente, sembra, alla quota
che sarebbe spettata ad un ulteriore figlio. Quando i donatori davano tutta la loro terra
spesso si può vedere dal testo che non avevano discendenti diretti, come nel caso di
Guinifredo da Pistoia e dei suoi figli che, nel 767, lasciarono tutti i loro averi alla
Chiesa che avevano fondato « non avendo figli o figlie o parenti cui si possa lasciare
la nostra proprietà o i nostri diritti ». Talora sbagliarono, come Goderisio di Rieti, che
fu citato in tribunale nel 791 per aver occupato i terreni dei monaci di Farfa che egli
stesso aveva loro donato. Egli spiegò: « E’ vero che ho donato questa proprietà al
monastero, ma dopo ebbi figli ed ora né io né i miei figli possiamo vivere, l'indigenza
mi opprime ». L'VIII secolo fu l'epoca d'oro di queste donazioni, apparentemente
autorizzate dalla legge di Liutprando che legalizzava le donazioni alla Chiesa nel
71334. Dopo i primi decenni del IX secolo (in modo diverso da luogo a luogo) esse
diventarono molto meno comuni. Le ragioni non sono chiare, e alcuni storici
concludono che ciò avvenne in quanto non c'erano più proprietari terrieri piccoli o
medi; erano diven. tati tutti conduttori. Si tratta di una visione un po' pessimistica, in
quanto gli autori delle donazioni più cospicue erano privi di prole, ed è difficile
vedere come i loro eredi sarebbero diventati dei libellarii; è invece più probabile che
le chiese d'Italia siano diventate così ricche, sommerse da queste donazioni, da non
venire più considerate oggetto di lasciti. L'obbligo della corresponsione delle decime
alla Chiesa, istituito da Carlomagno, può anche aver diminuito la popolarità della
Chiesa fra i poveri. Solo in alcune zone piuttosto remote, come Monte Amiata e nei
dintorni di Farfa, le donazioni continuarono. Qui, come è stato detto, si può pensare
ad una coercizione, e col 900 i due monasteri erano praticamente gli unici proprietari
nelle vaste zone di campagna che li circondava.
La Chiesa accrebbe le sue proprietà come conseguenza fortuita di pie donazioni e
tramite deliberate espansioni; dal IX secolo poteva anche avválersi del diritto delle
decime per indebolire l'indipendenza contadina. Anche gli aristocratici laici
33
Inventari, p. 63 per Porzano; Schiaparelli, 192; W. Kurze, Codex Diplomaticus Amiatinus (Tubinga,
1974) e la recensione di B. Andreolli, R.S.A. XVII
(1977), pp. 139-40.
34
Schiaparelli, 206; Manaresi, 8; Liutprando 6.
estorcevano la terra ai più deboli o la accettavano da coloro che soffrivano la fame, in
cambio di protezione. I piccoli proprietari divennero sempre più dipendenti dai loro
vicini benestanti per tutto il IX secolo, e ancor più nel X, quando i signori si
arrogarono alcune prerogative dello stato. Tuttavia non tutti vennero assorbiti senza
colpo ferire come accadde con i contadini dell'Amiata; alcuni si difesero, alcuni anche
passarono all'attacco. Infatti la resistenza contadina è vecchia quanto l'editto di Rotari,
ove la cospirazione e la sedizione di 'gente rustica' e di schiavi è punita con condanne
pesanti35. Nel periodo carolingio, tuttavia, sono documentati una serie di casi
giudiziari nei quali i contadini affermano i loro diritti, in genere senza successo.
Questi casi furono molto vari. A Milano nel 900, undici uomini di Cusago (dieci
chilometri ad ovest della città) reclamano di essere arimanni liberi, e non aldii, anche
se prestavano opere per la curtis di Palazzolo, proprietà del conte di Milano; infatti
avevano piccole proprietà a Bestazzo oltre a quelle per le quali prestavano lavoro
manuale obbligatorio. I1 legale del conte chiamò tredici « uomini nobili e timorati di
Dio » per dimostrare che gli uomini di Cusago erano aldii, ma tutti giurarono che gli
uomini di Cusago avevano ragione. Questo caso mostra chiaramente quanto
vuluerabili fossero i piccoli proprietari di fronte alle pretese dei loro vicini infiuenti e
dei signori terrieri; questo è uno dei pochissimi casi in cui vinsero. Nell'845, il
monastero veronese di S. Maria in Organo portò in tribunale i suoi presunti schiavi
nella contea di Trento, che rifiutavano di pagare il canone e di lavorare, ed
affermavano di essere liberi. Quando Lupus Suplaiopunio ed altri sette dissero di
essere proprietari liberi secondo la legge e che prestavano opera tramite un accordo di
commendazione (protezione), S. Maria concesse loro la libertà ma con successo si
appropriò della loro terra in base al fatto che i loro servizi venivano prestati per la
terra stessa. In questo caso S. Maria aveva rinunciato ad ottenere lavoro manuale in
cambio di protezione, avvenimento assolutamente inconsueto, per ottenere la
proprietà dei terreni dei suoi protetti, e per affermare (senza successo) che essi erano
suoi schiavi. A Pavia nell'880, due uomini di Oulx nelle Alpi piemontesi tentarono di
riaprire un processo precedentemente abbandonato, che riguardava la loro libertà
personale, affermando di « essere stati sottomessi con la forza », e non è da
sorprendersi che anch'essi persero. Porse gli uomini di Oulx erano già affittuari del
monastero di Novalesa, e stavano tentando di porre un confine fra conduzione libera e
servile, confine importante per quei conduttori che desideravano evitare imposizioni e
punizioni arbitrarie. Ci sono parecchi casi giudiziari simili riguardanti Milano e Pisa36.
Questi rappresentano, ovviamente, un diverso livello di resistenza rispetto a quello dei
proprietari liberi di Cusago, o anche di Trento, ma i due gruppi hanno somiglianze
evidenti. È interessante che molti di questi casi provengano da zone montane, e
parecchi vengano da zone ove i monasteri avevano di recente ottenuto terre da altri
proprietari, specialmente dal fisco, e in un momento in cui pare tentassero di porre le
loro terre in modo più deciso sotto un controllo centrale.
Quest'ultimo punto è chiarissimo nel caso della gente della Valle Trita, una zona
molto remota dell'Appennino abruzzese, dove alcuni valligiani furono rivendicati
come schiavi dal monasteto di S. Vincenzo al Volturno dopo la cessione ad esso di
terreni fiscali da parte del re Desiderio. Gli uomini ribadirono il loro status,
35
Rotari 279-80
Manaresi, 110, 112 (per cusago), 49 (per Trento), 89 (per Oulx), 9, 34; cfr. ariche i dati forniti da B.
Andreolli, Contratti agrari e patti colonici nella Lucchesia (B5-c), pp. 12s-7. Per Limonea, cfr. n. 38.
36
affermando che le terre erano di loro proprietà, in cinque cause fra il 779 e 1'872;
talvolta fu necessaria tutta la forza dello stato carolingio per farli comparire al
processo37. Non si può affermare che il monastero abbia sempre vinto; le decisioni del
tribunale venivano chiaramente disattese in modo sistematico e la fine della serie di
dispute coincide con un secolo di debolezza del controllo su tutte le proprietà del
monastero. Qui, poi fallì un tentativo da parte del monastero di S. Vincenzo di
sottomettere contatini di zone remote, che erano debitori al re di una dipendenza forse
solo molto formale, alla struttura fondiaria della proprietà terriera monastica. Nel
Nord questi monasteri ebbero maggior súccesso: S. Maria in Organo a Trento; S.
Ambrogio nelle vertenze in Valtellina e a Limonta sul lago di Como; Novalesa in Val
di Susa. Queste cause sono parallele a quella di Cusago in quanto mostrano
opposizioni precostituite all'aumentO del potere dei latifondisti e della organizzazione
del fondo. Può darsi che riguardino per lo più casi di zone montane in quanto i
contadini di zone marginali hanno relazioni economiche più strette e quindi sono in
grado di opporre maggior resistenza. Ma persero, eccetto il caso di Cusago e forse
quello di Valle Trita: i monasteri aumentarono i loro terreni, i proprietari liberi
divennero conduttori, i conduttori liberi persero la libertà. E nel x secolo, anche i
proprietari liberi ancora esistenti spesso divennero soggetti alla giurisdizione dei loro
vicini ricchi, come si vedrà.
Mentre questi processi un po' alla volta diminuivano i diritti dei liberi, la struttura
interna delle grandi aziende in espansione stava anch'essa mutando. Come altrove in
Europa, alla posizione dell'uomo libero che andava indebolendosi corrispondeva un
miglioramento della posizione dei servi. Nelle cause di Limonta dell'882-957, gli
schiavi pretesero dal monastero di S. Ambrogio la libertà, o almeno lo status di aldii,
come gli uomini di Oulx avevano già richiesto. Concesso lo status, si lamentarono che
il monastero di S. Ambrogio aveva aumentato i doveri fissati dalle consuetudini,
aggiungendo, in particolare, l'obbligo di raccogliere e frangere le olive. I1 monastero
di S. Ambrogio, significativamente, non affermò di avere il diritto di aumentare gli
oneri che gli dovevano gli schiavi; portò invece come testimoni i notabili locali per
dimostrare che gli obblighi erano sempre esistiti. Le consuetudini, almeno in teoria,
erano fisse, anche per gli schiavi. La schiavitù stessa stava sparendo. La fusione di
liberi e schiavi nella vasta gamma della classe dei conduttori portò alla fine ad un
prevalere di uomini liberi, diversamente che in altre zone d'Europa, ove i conduttori
persero la loro libertà. Molti dei contratti del IX secolo sembra siano fatti con
conduttori schiavi che erano stati liberati. Le manomissioni diventarono più frequenti;
sempre più spesso gli schiavi comperarono la loro libertà. Alla fine degli anni 990,
Ottone III tentò di limitare questi cambiamenti con un capitolare speciale « sugli
schiavi che agognano la libertà », ma ciò ha certo esercitato scarsa influenza.
Dall'inizio dell'XI secolo la schiavitù divenne sempre meno comune38.
I1 motivo per il quale i conduttori come classe divennero liberi, e non restarono
schiavi, era senza dubbio dovuto al fatto che i proprietari terrieri cominciarono ad
affittare le loro proprietà senza richiedere lavoro manuale; sparirono i legami
37
In Manaresi, ma con maggiore completezza in « Chronicon Valturnense », a cura di v. Federici
(Rorna, 1925-38), n. 23, 24, 25, 26, 55, 71, 72.
38
Per Limonta: Porro, 314, 417, 427 (Manaresi, 117, 122), 625; cfr. A. Casta gnetti, Dominico e
massaricio a Limonta (B5-c); per il contesto europeo: RH. Hilton, Bondmen Made Free (Londra,
1973), pp. 66ss. Per Ottone MGH Constitutiones, I, n. 21.
personali diretti che rafforzavano la posizione di servitù. Lo sviluppo è già visibile in
Toscana alla fine del IX secolo, e anche in alcune tenute di Bobbio e S. Giulia. Col X
secolo, la corvée servile fu ovunque rara. Nelle grandi tenute monastiche esso poteva
continuare, causa la volontà dei monasteri che volevano impie gare concessionari per
il dissodamento. Altrove, era la conclusione lo gica dell'incoerenza
dell'organizzazione di territori molto frammentari proprietà di laici e di vescovi.
Quando i modelli esistenti venivano tra sformati incessantemente dalle divisioni
ereditarie fra l'aristocrazia laica: e dalle donazioni casuali che ancora venivano fatte
alle chiese, e co gli inizi di cessioni di fondi della Chiesa su vasta scala a piccoli
nobili i legami necessari per il lavoro dei domini signorili non poterono più essere
mantenuti. Le aziende divennero ora gruppi di case di conduttori, e nulla di più. I
contratti con conduttori liberi per la durata di una vita, tre generazioni, o perpetui,
comuni nell'VIII secolo, divennero meno frequenti, e sempre più vennero stipulati per
periodi fissi in particolare per ventinove anni. Ciò anche evidenziava e aiutava l'in
dipendenza sempre maggiore dei conduttori. E sempre più i proprietari terrieri
volevano canoni in denaro. Nell'VIII secolo già molti canoni erano in denaro, assieme
a canoni in natura (cereali, vino, olio, uova, animali) e lavoro—quantunque i canoni
in denaro, che rappresentavano uno status superiore per i conduttori, venissero
richiesti meno frequentemente assieme alle prestazioni d'opera. Nel IX secolo, e
ancora più nel X, i canoni erano sempre più in denaro, spesso assieme a un canone
parziario in vino e olio, ma quasi mai in altre merci39.
I canoni in denaro, ovviamente, erano generati da necessità specifiche dei proprietari
terrieri, dato che il commercio con zone lontane diventava sempre più comune, ma
indicano anche altri due fatti: l'abilità dei contadini che vivevano dei prodotti della
terra di ottenere denaro in cambio delle eccedenze, e l'esclusione totale dei proprietari
terrieri da qualsiasi controllo su ciò che veniva fatto sulle campagne. I1 contadino,
fino a che riusciva ad ottenere tre, o otto, o dodici denari all'anno, li Lero o no che
fosse, poteva da allora sfruttare la sua terra senza chieder nulla al padrone. Con la fine
del X secolo, c'è qualche testimonianza per cui egli poteva vendere terreni già affittati
ad altri conduttori. A questo punto, il 'sistema curtense' era evidentemente spezzato.
Anche se i coltivatori liberi erano ancora costretti e assorbiti in grandi aziende, queste
riguardo al territorio erano diventate soltanto organizzazioni sparse ad ombrello per la
riscossione dei canoni. Sembra che alla fine del X secolo nell'Italia centrale e
settentrionale i proprietari terrieri avessero perso il controllo economico reale sulla
campagna, a livello del suolo.
L'attività dei contadini nello scambio delle eccedenze è difficile da documentare, ma
in qualche modo deve essere esistita a lungo. Si è visto che l'unità economica
fondamentale in Italia era la piccola proprietà. Ogni famiglia contadina coltivava, per
quanto poteva, un'ampia gamma di prodotti base nell'ambito di quanto riusciva a fare
da sola. Ma geograficamente l'Italia non è omogenea e raccolti diversi meglio
crescevano in zone diverse, in particolare le vigne in collina e i cereali in pianura.
Malgrado l'esistenza di una agricoltura promiscua si possono già notare queste
differenze nel periodo alto medievale. Gli squilibri dovevano essere compensati con
lo scambio. Alcuni prodotti dell'artigianato, come la ceramica e il cuoio, venivano
Violante (B3-f), pp. 76ss., 91ss.; Andreolli, art. cit.; G. Rossetti, Società e istituzioni
Pisa, Volterra, Populonia, 5° Congresso cit., pp. 259-72, P.J. Jones in Italian Estate
(A5-c) G. Cherubini, Qualche considerazione... (B5-c), pp. 55-63.
39
quasi certamente acquistati, sebbene se ne abbiano scarse prove; cosi, avveniva,
naturalmente, anche per il sale. E’ per questi motivi che i proprietari terrieri trovano
conveniente nel x secolo farsi pagare diritti per piccoli mercati locali, che il
commercio di lusso difficilmente avrebbe raggiunto. Non sempre si usava denaro in
queste operazioni. I Longobardi per la maggior parte coniarono un solo tipo di moneta
d'oro, il tremissis (la terza parte del solidus) che certamente valeva troppo rispetto al
valore delle merci oggetto della maggior parte degli scambi locali. Alla fine dell'VIII
secolo, i Carolingi lo sostituiscono col denarius d'argento (un dodicesimo del solidus)
in teoria più adeguato a scambi su piccola scala (in Lucchesia nel IX secolo sembra
che un maiale valesse dodici denarii, e un montone sei denarii; in Francia nel 794, se
il paragone è utile, il prezzo del pane era fissato ad un denarius per dodici pagnotte di
frumento da due libbre, o quindici di segale, venti di orzo, o venticinque di avena).
Anche così, un'unica moneta di tale taglio è troppo scomoda per le transazioni in
denaro corrente, quali possiamo figurarceli. Le transazioni economiche devono essersi
svolte facendo riferimento al denaro piuttosto che servendosene come mezzo di
scambio. In una società tradizionale ove le relazioni sociali ed economiche sono
molto strette, all'interno delle quali gli scam bi avvengono fra persone che si
conoscono, ciò non è difficile come sembra40. I1 denaro era facilmente accessibile alle
popolazioni italiche di tutti i livelli sociali; non era però poi tanto utile. Forse i
contadini consideravano le monete merce ottenuta vendendo prodotti che
probabilmente sarebbero finiti sui mercati cittadini; le monete sarebbero poi state
usate per pagare i canoni. D'altro canto i proprietari terrieri, operando sui mercati
cittadini su scala ben più ampia, senza dubbio si sarebbero serviti del denaro in modo
più chiaramente 'commerciale'.
Tutto ciò è assolutamente teorico. Ma si può riconoscere come la società
consuetudinaria basata su rapporti economici tradizionali, all'interno della quale era
inserito lo scambio locale, esercitasse il suo controllo sui valori. Si è visto che i re
volevano mantenere 'prezzi equi'. In alcuni casi erano anche pronti ad intervenire ed
eliminare vendite 'inique', come dopo la carestia italiana del 776. I valori potevano
diventar molto stabili, con considerevoli divari da regione a regione. Lo si vide, ad
esempio, nell'813, nell'imbarazzo dei periti che stavano trattando uno scambio di
terreni fra i monasteri di Nonantola e S. Salvatore di Brescia; il costume di Brescia era
di valutare la terra meno di otto denarii per iugum, ma quella di Nonantola la valutava
almeno tre solidi per iugum. Si dovette chiamare Adalardo di Corbie per raggiungere
un compromesso. Nessuno pensò che le forze di mercato potessero venir usate, o che
esistessero quanto meno forze di mercato riguardo alla valutazione della terra,
malgrado le vendite dei terreni fossero frequenti41. In Italia lo scambio era
strettamente connesso al contesto sociale nel quale avveniva. Simili legami socioeconomici fra contadini a livello di scambi, sono anch'essi un altro elemento della
separazione fra proprieri terrieri e società contadina.
40
Per i prezzi: Andreolli, art. cit., p. 118, MGH Capitularia, I, 28 c. 4. Cfr. K. Polanyi, Primitive,
archaic and modern economics (New York, 1968), pp. 175203; M. Godelier, Rationality and
irrationality in economics (Londra, 1972), pp. 252-303; W.A. Christian, Person and God in a Spanish
Valley (Londra, 1972), Pp. 168-171; P. Grierson, Problemi monetari nell'alto medioevo, «Boll. della
societa pavese di stor. pat. », LIV (1954), pp. 67-82.
41
MGH Capitularia, T, 88; Porro, 88.
Questa separazione raggiunse il massimo attorno al 1000, quando le prestazioni
d'opera erano in pratica sparite, lasciando per lo più una classe di conduttori che
dovevano quasi ovunque canoni solo in denaro, e a volte in natura. L'azienda bipartita
era pressoché scomparsa. I grandi proprietari terrieri non erano capaci di stabilizzare e
di concentrare, e ancor meno di razionalizzare, le loro proprietà. Infatti con la crescita
di una nuova classe di piccoli nobili basata sull'affitto di vasti terreni, spesso ad un
canone nominale, i proprietari maggiori (specie le chiese) avevano meno controllo di
prima sulle proprie terre. Nella campagna iniziò la violenza, non appena i più piccoli
fra questi signori tentarono d'imporre i loro poteri sui contadini. I contadini, come i
signori, talora furono capaci di utilizzare diritti giurisdizionali secondari e di usare
nuove unità territoriali fortificate dei secoli X e XI, i castelli, per rafforzare il proprio
potere e fondare dei 'comuni rurali' a fianco di quelli urbani. Ma di nuovo andiamo
oltre ciò che ci eravamo prefissati; questi sono sviluppi che sarebbero potuti avvenire
solo alla caduta dello stato, come si vedrà nel capitolo settimo. Solo a metà dell'XI
secolo, nel contesto del movimento di riforma, le chiese sarebbero riuscite a ristabilire
il controllo sulle proprietà rurali, e col sorgere dei comuni urbani esse ed altri
proprietari cittadini cominciarono a farsi strada si stematicamente nella campagna,
agendo da mediatori fra i contadini e il mercato cittadino, e servendosi di quelle
posizioni per riguadagnare il controllo sui contadini. Dai secoli XII e XIII i contadini
pagarono nuovamente i canoni in natura, cosicché il guadagno derivante
dall'espansione dei mercati urbani andava ai proprietari terrieri. Le città non avevano
bisogno di relazioni commerciali con la campagna; solo di cibo. Lo sviluppo dei
progressi commerciali dei secoli XII e XIII, infatti, significherà il capovolgimento
anche della più modesta penetrazione degli scambi commerciali nella società rurale42.
42
Cfr. C. Violante, Stadi sulla cristianità medioevale (Milano, 1975), pp. 328-39; L.A.
Kotel'nikova, Mondo contadino e civiltà in Italia (Bologna, 1975), pp. l9ss.