I miti di Gabriele D`Annunzio. Il dannunzianesimo e Guido Da

Transcript

I miti di Gabriele D`Annunzio. Il dannunzianesimo e Guido Da
Capitolo
19:
Società
e
cultura
nell'età
giolittiana
Paragrafo 3: I miti di Gabriele D'Annunzio. Il dannunzianesimo e Guido
Da Verona
Profondamente legato al decadentismo quale creatore di sovrastrutture che
mistificano la realtà, miti individuali e collettivi (l'eroe del piacere, della guerra,
l'artefice della forma letteraria, il «venturiero», il principe rinascimentale, l'esteta, il
rappresentante dell'antiplebe, dell'antisocialismo, delle rivendicazioni nazionali,
della «nazione eletta», del ribellismo fiumano etc.) fu Gabriele D'Annunzio1 (18631938) nato a Pescara.
Al decadentismo appartiene la volontà di vivere la vita come se fosse un'opera
d'arte, con tutte le implicazioni di sublimazione estetica dei fatti pratici e della
propria persona che ne derivano nonché della sostanziale indifferenza agli altri
uomini. Questa egolatria fa parte della gestione pubblicitaria abilmente orchestrata
del mito di se stesso personaggio eccezionale, fuori del comune, superiore agli altri,
carico di valori anche simbolici, assoluti, totali, dati in pasto come elementi del
modello da imitare al pubblico piccolo borghese spiritualmente e culturalmente
depauperato. Di volta in volta, nella varietà degli atteggiamenti, D'Annunzio si
propose come un divo, un esemplare da imitare da parte di larghi strati di lettori i
quali trovavano nell'imitazione (o nel desiderio di imitazione) il risarcimento ai loro
scompensi, ai loro vuoti, alle loro delusioni.
D'Annunzio e il fenomeno del dannunzianesimo si possono separare
difficilmente. Oggi è difficile immaginare ciò che D'Annunzio ha rappresentato nella
società dell'età umbertiniana, di quella giolittiana, di quella fascista e ciò che egli
indusse consapevolmente in quella società per fare prevalere sue ideologie, suoi
gusti.
Milioni di persone videro la realtà con occhi estatici per opera sua, diedero significati
sublimi al vuoto di pensiero, sentirono come cose salde le larve delle parole,
inseguirono fantasmi musicali scambiandoli per costruzioni concrete: «amai
stolidamente, come il Fabro, — le musiche composite e gl'inganni — di donne belle
solo
di
cinabro»,
scrive
Gozzano.
Altri milioni di persone trasferirono la loro immaginazione e i loro gusti nel
vagheggiare epoche di splendore principesco, di avventure d'armi e d'amore, nel
fingersi protagonisti di raffinati, ardenti, sovrumani amori («amò pel suo martirio
attrici e principesse» dice di sé Gozzano), altri ancora, con D'Annunzio,
disprezzarono la plebe, il volgo, la realtà, sognarono supremazie, imprese coloniali,
arricchimenti, guerre imperialistiche e soggezioni di popoli ritenuti imbelli o inferiori
agli eredi dei Romani. Queste evasioni romanzesche toccarono diverse generazioni e
costituirono alcuni aspetti del dannunzianesimo.
D'Annunzio giovane entrò come protagonista nella vita letteraria e mondana
(come collaboratore della Tribuna) della Roma umbertina col naturalismo pagano di
Canto novo (1882) (in cui oltre la «immensa gioia di vivere» c'è la capacità di cogliere
in modo essenziale il respiro della natura: «O falce di luna calante — che brilli su
l'acque deserte») e con il verismo abruzzese di Terra vergine (1882), con echi
carducciani
e
verghiani.
Fin dal decennio romano (1891-90) D'Annunzio si presenta con varietà di opere
letterarie chic si ispirano a modelli diversi (Zola, Leonardo, medioevo romanzo,
mondo classico, rinascimentale, Tolstoj, Nietzsche, mondo barocco) con
atteggiamenti spirituali vari, dal barbarico al raffinato, al sensuale, al sublime. Fin da
allora si manifesta la sua prodigiosa capacità di assimilare le forme delle più lontane
letterature, dei gusti più svariati, di impadronirsi delle strutture e dei rivestimenti
letterari. L'artista rivela una capacità di artefice senza paragoni che diventa motivo di
vanto e di superiorità,
1.
2.
3.
4.
5.
(Anche a me l'oro, come a Benvenuto,
è servo. Chiedi! Sien divini o umani
i tuoi sogni, di sotto a le mie mani
invincibili il vaso esce compiuto),
di vittoria sulla materia informe, anche se altre volte esalterà l'istinto come sua guida
(«ho sentito, in me artista peritissimo, in me tecnico infallibile, tesaurizzatore assiduo
di modi antichi e navi, quante volte ho sentito che il mio istinto supera la ma abilità
mentale, precede tutte le sottigliezze del mio mestiere»): invincibile, infallibile,
comincia la tipica aggettivazione del dominatore e del superatore.
Nell'Isotteo (1890, che comprende le precedenti liriche di Isaotta Guttadauro) è un
tuffo linguistico nell'Intelligenza ed estetico nell'esaltazione della riminese Isotta
amata da Sigismondo Malatesti e sono anche la sublimazione della gioia, della Parola
e della Bellezza:
1. O poeta, divina è la Parola;
2. ne la pura Bellezza il ciel ripose
3. ogni nostra letizia; e il Verso è tutto.
Tutti i modelli sono svuotati dei loro veri motivi dall'assimilatore di forme e
ridotti
a
strumenti
di
bellezza
e
di
sensibilità.
Eroe della bellezza è Andrea Sperelli, aristocratico protagonista del romanzo Il
Piacere (1889), esteta in cui D'Annunzio riflesse un momento della sua vita romana (il
biografo Antongini c'informa anche del guardaroba di D'Annunzio, che non era
come quello di Pascoli: «I soprabiti e le pellicce, d'ogni sorta e foggia, si aggirano
sulla cinquantina. Almeno trecento camicie di seta […] altrettante bianche, per sera;
una cinquantina di cappelli, tra flosci e duri; almeno duecento paia di scarpe e stivali;
trecento paia di calze […] una cinquantina di vesti da camere fratesche e altrettanti
pigiama»).
Dopo i romanzi Giovanni Episcopo (1891) e L'innocente (1891) in cui si risentono
Tolstoj e Dostoevskij, compone il Poema paradisiaco (1893), un importante libro di
versi liberty-crepuscolari in cui il poeta si ripiega sulla bontà in funzione estetica;
D'Annunzio crea arcane atmosfere per mezzo di oggetti-simboli: «Chi scenderà da
l'alta scala ai cigni aspettanti?»,
1.
2.
3.
4.
5.
Una statua, memore d'assenti
numi, grandeggia fra i cipressi insigni.
Qual mistero dal gesto d'una grande
statua solitaria in un giardino
silenzioso al vespero si spande!
L'atmosfera dilatata e rallentata, silenziosa («Tutto è silenzio, lugubre infinito |
silenzio»), autunnale è quella di un infinito parco con fontane, l'amore è inespresso
rimpianto
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
(Il nostro amor sia come
un pomeriggio lento […]
Per l'amor che rimane
e a la vita resiste
nulla è più dolce e triste
de le cose lontane
),
la donna è simbolo di un mistero, chiusa in un mondo segreto:
1.
2.
3.
4.
5.
Voi che passate, voi siete l'Eccelsa […]
Quasi alata, verrà senza calzari
sopra gli incensi […]
Per la sua guancia è pronto un origliere
tutto vermiglio.
Il repertorio dell'arcano, della stanchezza, della convalescenza, della bontà,
delle musiche di acque (in una cornice di mitteleuropea Marienbad: palazzi, chioschi,
chalet, fontane, giardini, terme, teatri assaliti dal floreale) diventa uno dei temi della
nuova retorica dannunziana («Ma l'anima nel cor si fa più buona | come il frutto
maturo ») a cui attingeranno i crepuscolari.
Era un travestimento estetico. D'Annunzio sviluppa proprio allora il mito del
superuomo derivandolo dall'opera di Nietzsche. Il superuomo non obbedisce alla
morale comune, si impone come dominatore con la forza, è esteta, aristocratico,
disprezzatore della massa, del sistema parlamentare, le sue concezioni hanno come
base
la
stirpe,
il
sangue,
la
nazione.
Questo mito è l'ideologia di alcuni romanzi e drammi: nel Trionfo della morte (1894) il
suicidio dell'eroe e dell'eroina indica il superamento della realtà mediocre, nelle
Vergini delle rocce (1896) Claudio Cantelmo esprime le sue idee contro lo Stato
borghese e contro il popolo in nome di una «classe privilegiata» educata dall'arte
(«l'arroganza delle plebi non era tanto grande quanto la viltà di coloro che la
tolleravano», «le plebi restano sempre schiave, avendo un nativo bisogno di tendere i
polsi ai vincoli») in Più che l'amore (1907) Corrado Brando uccide e rapina per potere
preparare una spedizione in Africa.
Durante la dimora nella villa (la Capponcina) di Settignano di Desiderio (19281910), dove conduce una vita principesca, D'Annunzio compone la tragedia Francesca
da Rimini (1902), La figlia di Iorio (1904), La fiaccola sotto il moggio (1905), La nave (1908),
Fedra (1909), estetizzante la prima e ambientata in un Abruzzo selvaggio la seconda,
il romanzo Forse che sì forse che no (1910) e Le laudi (1903-04) in tre libri che derivano il
nome delle Pleiadi (Maia, Elettra, Alcyone). In Maia D'Annunzio rende mitico un suo
viaggio di superuomo, navigatore ulissiade, in Grecia, in Elettra sono la Canzone di
Caprera e le Città del silenzio nelle quali riversa in modo estetizzante storia e leggenda,
sacro e profano, arte e letteratura nonché il gusto onomastico come segno del valore
della Parola (Mona Amorrorisca, Meretto Lutorcrena etc.).
Il D'Annunzio maggiore è in Alcyone, memoria poetica di un'estate vissuta tra
Marina di Pisa, le Apuane e la Versilia e in cui il primitivismo dell'istinto è filtrato
dalla contemplazione della natura panica parlante attraverso acque, alberi, animali e
simboli. La tecnica più perfetta e raffinata esprime il riposo dei sensi, l'ascoltazione
sommessa della natura e il libro apre la strada, insieme con le Myricae di Pascoli, alla
poesia antiretorica del Novecento, al linguaggio di un mondo interiore che ha
abbandonato l'impasto di sensualità e ferocia di: «Volontà, Voluttà, | Orgoglio,
Istinto, quadriga | imperiale» di Maia. Le immagini nascono dal paesaggio estivo
quasi musicale e trasparente: «Se t'è l'acqua visibile negli occhi»; «Nascente Luna, in
cielo esigua come | il sopracciglio de la giovinetta»;
1.
2.
3.
4.
Tra il Serchio e la Magra, su l'ozio
del mare deserto di vele,
sospeso è l'incanto. Equinozio
d'autunno, già sento il tuo miele.
Qui non citiamo D'Annunzio soltanto come «Imaginifico» (quale egli si chiamò)
ma per l'atmosfera fantastica diversa da quella superumana.
Nel 1910 il poeta, inseguito dai creditori, si trasferisce in Francia, in «volontario
esilio» ad Arcachon. Nel 1911 pubblica Merope, quarto e ultimo libro delle Laudi,
contenente le Canzoni delle gesta d'oltremare ispirate all'impresa di Libia, cariche di
ideologia imperialistica retorica. Nel 1915 ritorna in Italia per partecipare alla guerra
contro l'Austria: vola su Trieste, Trento, perde l'occhio destro in un atterraggio,
bombarda Pola, Cattaro, partecipa alla «beffa di Buccari», al volo su Vienna. Dopo la
fine della guerra occupa Fiume con legionari e arditi, proclama la Reggenza del
Carnaro. In questo periodo il Comandante prosegue la sua oratoria mistica e torbida
sperimentata durante la guerra, della quale dirà egli stesso:
1. Il popolo tumultuava e urlava chiamandomi […] certe clausole mi
balenavano dentro come quei baleni che appariscono a fior del metallo
strutto, ai margini della fossa fusoria […] credo mi soffiasse non so che
fluorescenza e fosforescenza tra i denti e le labbra. Gettavo un grido. I miei
ufficiali accorrevano, spalancavano la porta, facevano ala. Con un passo
violento come lo scatto della balestra andavo alla ringhiera. Andavo ad
bestias? Ad animos? sì, al popolo.
Nel 1920 Francesco Saverio Nitti, Presidente del consiglio, lo costringeva a
uscire da Fiume, nel 1921 si stabiliva nel Vittoriale a Gardone, nel 1924 era nominato
principe di Montenevoso. Mussolini, conosciuto nel 1919 (e che nel 1920 gli aveva
proposto di «marciare su Trieste. Dichiarare decaduta la Monarchia. Nominare un
direttorio di governo che potrebbe essere composto da Giardino, Caviglia, Rizzo e
del quale Direttorio voi sareste Presidente […] aiutare la sollevazione
repubblicana…»), ne asseconda le manie principesche e lo isola nel Vittoriale.
Dell'ultimo D'Annunzio, oltre le Faville del maglio (1924-28), bisogna ricordare il
Notturno (1921), scritto durante la guerra su cartigli dal poeta bendato, in cui lo
scrittore si ripiega su se stesso, riprende aspetti umbratili e alcionei della vita e delle
cose, conferma che i migliori momenti dell'artista sono quelli nei quali, caduti i miti,
l'uomo ha coscienza di limiti, delusioni, sconfitte.
L'irreparabile caduta di D'Annunzio dalla coscienza odierna (si assiste, però, a
recuperi letterari destoricizzati) non deve farci dimenticare che lo scrittore ha
esercitato una funzione importante incarnando i miti storici della società umbertina e
giolittiana, tramutando in stile, in letteratura le ideologie di quella parte aggressiva
ed espansionistica dell'alta borghesia e dell'aristocrazia che egli rappresentava:
superuomo, sensualità, nazionalismo, antirealismo hanno questa origine né è
possibile perciò, al di fuori di questo rapporto, recuperare crepuscoli, notturni,
convalescenze come momenti preziosi poiché essi sono sempre in funzione delle
ragioni e del modo di essere di D'Annunzio in quella società. Sia nell'Invernizio che
in Da Verona la letteratura ha come oggetto le classi alte (aristocrazia, alta borghesia),
vien fatta discendere per i consumi popolari, quei modelli sono arricchiti di carica
melodrammatica, sadica, violenta per narcotizzare i lettori e farli sognare.
Guido Da Verona2 (1881-1939) di Saliceto di Modena liricizzò, a fine di
addormentare le capacità razionali (lo studio dei problemi è, nella polemica
antintellettualistica daveroniana, destinato a creare confusione), il destino, la fatalità.
Sotto il segno del destino lo scrittore fa nascere delitti, intrighi, incesti, suicidi che
vengono presentati sotto la luce fosca dell'ineluttabilità. L'amore è prospettato in
combinazioni tragiche, con intrighi polizieschi, edipici, politici, familiari.
Ecco qualche esemplificazione: amore per la sorella con omicidio-suicidio,
amore per la moglie dell'amico e uccisione dell'amico, amore per zia, per vichinga,
per schiava circassa figlia di atamano, amore per cognata vitalizzato dall'attesa di
morte della moglie in seguito a consenso a operazione chirurgica letale, amore che
inventa il tradimento per distruggere l'amore, amore eterno che svanisce di fronte
alla certezza del matrimonio, amore per la figlia dell'amante sospettabile come
propria figlia etc.
Da Verona nei primi romanzi seguì modi realistici ed estetizzanti, quindi si
adeguò al lirismo novecentesco con i romanzi musicali e cantanti, proponendo
sempre come modelli eroi ed eroine di classi superiori occidentali e orientali (pascià,
visir, atamano); ambienti esotici del «magnifico impero coloniale» francese o inglese
per un pubblico di ceti medi inferiori (impiegati, sartine, dattilografe, soldati etc.).
Da Verona rappresenta in modo kitsch, cioè con compiaciuto cattivo gusto, i
motivi della voglia di vivere, del lusso, dell'erotismo, dell'esotismo, degli istinti
torbidi («C'è, nella voluttà, il bisogno del tradimento»; «Ora dorme, con la sua gola
pugnalata, con la sua tempia perforata, in un lungo e sottile feretro, dove altre mani
pie hanno versato l'ultima boccetta di profumo»; «gli dava da bere il suo fiato, lo
soffocava ne' suoi capelli»; «Non c'è che un amore, vero e splendente, l'amore che si
perde»). Tabarin, ritrovi, varietà, caffè concerto, balli, casinò, gli elementi del
gaudentismo piccolo-borghese, canzoni esaltanti bajadere, donne creole, lusitane,
siberiane, sivigliane, gitane (Juna, Amapola, Hula, Macariolita, Maruska, Rosetera),
luoghi esotici (Trinidad, la Pampa, Andalusia, Arizona, Avana) cantanti (Anna
Fougez), danzatrici (Mata Hari) sono riversati nei romanzi Colei che non si deve amare,
Mimi Bluette, Sarah dagli occhi di smeraldo, Sciogli la treccia, Maria Maddalena, Il pazzo di
Candalaòr, Un'avventura d'amore a Teheran.
Nessuno scrittore italiano ebbe allora un pubblico più numeroso e fedele di
quello di Da Verona il quale proponeva come evasione i temi del lusso e della
lussuria e la sostituzione della vecchia letteratura con i miti dell'industria, del
futurismo. Avversario polemico di tutta la iperletteratura accademica e aulica (Dante
è un «teologo versaiolo» e «arrabbiato assessore municipale di Firenze», Alfieri è
«maniscalco della tragedia», il Cinque maggio è una «celebre sanguisuga» e i Promessi
sposi un capolavoro «grottesco» etc.), Da Verona scrisse i Promessi sposi, parodia
dell'opera di Manzoni (Lucia amante dell'Innominato, Perpetua che si precipita dal
Resegone per la morte di Rodolfo Valentino) in cui l'autore, già nazionalista e
fascista, satireggia gli aspetti comici del fascismo.
Ma Da Verona scrisse anche Il libro del mio sogno errante (1919), versi e prose
liriche che rompono le chiuse misure della tradizione e che vivono per felici e
memorabili frammenti. I romanzi di Da Verona raggiunsero un pubblico minuto di
ceti medi inferiori ai quali sarebbe riuscita non intelligibile la tematica di
D'Annunzio, quei ceti medi frustrati o frustrabili che pongono le loro speranze
nell'avventurismo fascista come in un fenomeno di riscatto e di compensazione.
1
Gabriele D'Annunzio
Di famiglia benestante, GABRIELE D'ANNUNZIO frequentò (1874-81) il collegio
Cicognini di Prato e pubblicò nel 1879 una prima raccolta di versi, Primo vere, che
mescola l'influenza carducciana a un'ispirazione sensuale e naturalistica.
Trasferitosi nel 1881 a Roma e iscrittosi alla facoltà di lettere (non conseguì mai la
laurea), frequentò ambienti mondani e letterari, collaborando a giornali e vivendo
vita di esteta alla ricerca di piaceri raffinati e di avventure culturali ed erotiche. Nelle
opere di questo periodo — in cui si ha l'affermazione del mito di D'Annunzio — la
sensualità non è esuberante e gioiosa come in quelle più giovanili ma diventa stanca
e viziata, ansiosa di emozioni sottili e inusitate (come quelle derivanti dalla
contaminazione di immagini religiose ed erotiche, dal sovrapporre a una donna
l'immagine di un'altra, dalla voluttà della voce, dal colore della veste, dal possesso
della carne non più giovane etc.).
Al 1894 (D'Annunzio si era separato nel '91 dalla moglie Maria Hardouin di Gallese)
risale l'incontro con Eleonora Duse e al '95 il viaggio in Grecia con Edoardo
Scarfoglio (è di questi stessi anni l'adesione al mito del superuomo).
Eletto deputato per il collegio di Ortona (1897), D'Annunzio si collocò alla destra
dello schieramento parlamentare, ma nel 1900, durante le polemiche contro il
governo Pelloux, passò con un gesto clamoroso all'estrema sinistra, dichiarando di
volere andare «verso la vita». A causa della vita principesca condotta nella villa «La
Capponcina» presso Firenze (dal 1899) e per la costosa ambizione di tener vivo il
mito della sua personalità eccezionale, si caricò di debiti e fu costretto nel 1910 a
fuggire in Francia.
La partecipazione alla prima guerra mondiale (intesa come scenario di irripetibili
esperienze e occasione di nuove stimolanti emozioni), l'impresa di Fiume, la
composizione delle opere «notturne» (verso cui si è orientata l'attenzione della critica
più recente), il soggiorno nella villa-museo «Il Vittoriale» di Gardone e i rapporti con
il fascismo sono gli eventi fondamentali degli ultimi anni della sua vita. Nel 1937 fu
nominato presidente dell'Accademia d'Italia.
2
Guido Da Verona
Il modello dannunziano fu tenuto presente da GUIDO VERONA, che assunse lo
pseudonimo di «Da Verona» e mirò a offrire di sé un'immagine estetizzata,
avvolgendo la propria vita di elementi romanzeschi ed esotici e proponendo una sua
identificazione con i personaggi dei romanzi.
Amante della vita dispendiosa e teatrale (corse automobilistiche, cavalli, cani di
lusso, donne affascinanti e sensuali), Da Verona visse prevalentemente a Milano, ma
compì frequenti viaggi soprattutto a Parigi, capitale della mondanità internazionale.
Amico di Antonio Beltramelli e Italo Balbo, aderì al fascismo.
Nei suoi romanzi — che ebbero straordinario successo di pubblico e furono stroncati
dalla critica ufficiale — sono rappresentati i miti della belle époque. La trasformazione
del fascismo in regime, i patti lateranensi e i provvedimenti razziali segnarono la fine
di Da Verona che apparve un decadente sorpassato, osteggiato per il suo
anticlericalismo, per l'antimanzonismo e per l'atteggiamento cosmopolitico e
contrario al matrimonio.