L`Associazione Nazionale per la Progettazione e le Attività

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L`Associazione Nazionale per la Progettazione e le Attività
L’Associazione Nazionale per la Progettazione e le Attività Sociali
(A.N.P.E.A.S.)
e
Provincia di Campobasso
Presidenza
Regione Molise
Ministero dell’Istruzione
Direzione Generale
Ufficio Scolastico Molise
Università degli Studi
del Molise
Istituto di Istruzione Superiore
‘’Sandro Pertini’’ di Campobasso
Le Commissioni del "VI Concorso Regionale Letterario", esprimendo vivo apprezzamento per
l'elevata qualità di tutti i lavori presentati, hanno individuato i seguenti vincitori :
Giuseppe MENCO del Liceo Classico “M. Pagano” di Campobasso;
Ilenia MUCCITTO del Liceo Classico “G. Perrotta” di Termoli;
Marica BRUNETTI dell’ I.S.I.S.S. “A. Giordano” di Venafro;
Nico ALFIERI del Liceo Classico “M. Pagano” di Campobasso.
La data ed il luogo della cerimonia di premiazione, che avverrà nel mese di gennaio, saranno resi
noti con successiva nota. Di seguito, sono pubblicati gli elaborati dei vincitori.
Campobasso, 3 dicembre 2012
Il Presidente delle Giurie
Prof. Giorgio Patrizi
Il Responsabile
Manuele Martelli
Giurati : prof. Adriana Izzi; prof. I. Antonella Barone; dott.ssa Ramona Bozzacco; dott. Gianfranco
Mingione; dott. Michele F. Occhionero; Prof. Cinzia Dato; prof. Giorgio Patrizi.
Elaborato di Nico Alfieri.
Tace il sasso; gorgoglia placido il ruscello, sibila la spiga al tocco del vento. Friniscono le cicale tra
i rami ombrosi, gracchia garrula la cornacchia, ruggisce maestoso il leone e scuote la terra con la
sua voce profonda; mormorano le balene nei ciechi abissi dell’oceano. Ma non gioì mai l’Universo
come nel giorno in cui per la prima volta levò il suo canto dalle labbra di una donna.
Non solo per il suo canto la donna risplende, divina, sulle altre creature. È il suo pensiero, così
incantevolmente complesso e sfuggente, che ammalia da secoli una schiera attonita di uomini,
perennemente frustrati dall’inafferrabilità dell’animo femminile, di questo multiforme, mutevole
miraggio. Un miracolo continuo, il solo, forse, davanti al quale sempre si mantenne fervida la fede
degli uomini.
Sulla pergamena dei secoli, che si srotola senza fine sul tavolo del Tempo, è scritta la storia
dell’uomo e della donna: la storia del tortuoso cammino della specie umana verso la conquista della
dignità, verso l’acquisizione della coscienza e della consapevolezza del proprio ruolo nel ciclo
solenne della Vita, verso una sublimazione che risolleva l’animo umano dalle limacciose, putride
paludi della bestialità e lo staglia sul cielo limpido dei sentimenti più puri.
Tuttavia, l’assoluta ed indiscutibile necessità di un rapporto paritario tra i due sessi, così come la
strenua lotta per l’affermazione di questa necessità, non si è limitata a segnare profondamente il
volto della storia moderna, ma ha scavato cicatrici che si è tentato di occultare sotto la maschera di
un pensiero libertario e progressista, il quale ha spazzato via le rovine della primitiva cultura
sessista, muovendole una critica forse troppo impulsiva, gonfia di pregiudizio.
Parrebbe superfluo imprimere con lettere di fuoco un inoppugnabile principio, che fiammeggia con
viva fierezza: “l’uomo e la donna devono godere degli stessi diritti.” Ma il femminismo, inteso
come rivoluzione culturale più che politica, ha trascinato energicamente il mondo civilizzato di
fronte al baratro di un’estremizzazione del movimento di rivendicazione, una gola pericolosa le cui
profondità rischiano di ridestare tutto il vigore di un timore reazionario su quei campi di battaglia (il
mondo non del tutto civilizzato) in cui è ancora in corso la feroce lotta per i diritti femminili.
In altre parole, la legittima richiesta della parità dei diritti si è estesa anche al campo dei doveri,
facendo oscillare pericolosamente l’armoniosa architettura del nucleo familiare – e dunque della
fondamentale cellula della società - edificata nel tempo sulle fondamenta di un’evidenza, di una
verità difficilmente contestabile. Questa evidenza è la polarità creatrice e organizzatrice dei due
sessi, il fertile dualismo senza il quale l’assegnazione dei ruoli è un processo governato da una
confusione improduttiva, che mette a repentaglio la stabilità di un modello partorito dopo una
gestazione durata molti secoli.
La donna ha preteso che nulla potesse impedirle di svolgere le attività che, in maniera terribilmente
discriminatoria, sono rimaste a lungo un privilegio ed una prerogativa dell’uomo. Questa pretesa e
l’irrefrenabile forza che la animava hanno reso ancor più radiosa la luce che emana dall’animo
femminile, perché finalmente esso ha raccolto le risorse che gli hanno permesso di affermare la sua
mirabile grandezza, di gridare che la sua presunta inferiorità rispetto all’animo maschile non è altro
che un’iniqua menzogna, l’oscena invenzione di una cultura che ha tardato a rinnegare i suoi
pregiudizi nei confronti dell’intero mondo femminile.
È dunque giusto che alla donna non sia preclusa la possibilità di compiere i doveri che da sempre
sono stati svolti dall’uomo. Il rischio, però, risiede nella possibilità che ella abbandoni i compiti dei
quali da secoli, se non da millenni, si è fatta carico, svolgendoli in virtù della sua naturale
predisposizione, che nasce proprio da quella suggestiva complessità che caratterizza la sua struttura
mentale.
La donna possiede, senza ombra di dubbio, una sensibilità più profondamente sviluppata rispetto
all’uomo, laddove per sensibilità si intende un’innata capacità di intuizione dei sentimenti, una
sorprendente facilità di empatia, una più viva e intima percezione del mondo dei pensieri e delle
emozioni altrui. L’universo maschile, al contrario, si è sempre distinto per una altrettanto naturale
tendenza alla razionalizzazione di tutti gli aspetti del reale, utilizzando come strumento principale
della sua indagine la logica ed il raziocinio, rivestendo di una ben più magra autorità la componente
sentimentale all’interno dei processi decisionali e organizzativi.
L’evidente errore dell’Illuminismo, che in realtà non è altro se non il prevedibile risvolto negativo
delle sue intuizioni, è stato quello di innalzare are fumanti alla Ragione, divinizzandola sino
all’idolatria, facendo dei lumi un oggetto supremo di culto, additando allo stesso tempo, con
ieratica, minacciosa ebbrezza profetica, ogni forma di irrazionalità, riducendola alla stregua di un
esecrabile sedimento animalesco, la viscosa fanghiglia di cui ancora si macchiava la specie umana,
la quale avrebbe dovuto tendere, armata della ragione, alla sua purificazione da tutti i più vili
rimasugli lasciati dai precedenti secoli di Oscurantismo.
Non è corretto affermare che l’Illuminismo si sia scagliato con veemenza anche contro il mondo
dei sentimenti e delle emozioni: al contrario, l’inclinazione ad un’oggettiva analisi dei fenomeni
connessi alla sfera umana risvegliò una certa curiosità nei confronti del sentimento, che venne
tuttavia annoverato nella cerchia delle attività umane sub-razionali.
Il Secolo dei Lumi era ben consapevole (proprio a causa della sua evidenza) del prevalere, nella
donna, della sensibilità e dell’aspetto sentimentale, così come, specularmente, riconosceva nel sesso
maschile la più alta espressione e la più compiuta manifestazione dell’attività razionale nella specie
umana. L’idea di inferiorità, o per meglio dire di inadeguatezza della donna ad adempiere ai
compiti più delicati (la politica e la gestione della società) non è che una spontanea conseguenza,
nell’ottica illuminista, delle precedenti riflessioni.
La parola aspra ed affilata, tagliente e implacabile di Olympe de Gouges, testimonianza viva del
disagio che sorge dalla disparità dei diritti, che si scatena da un mancato riconoscimento di dignità e
di una distorta considerazione sulle differenze tra i sessi, è tra le principali forze motrici del
movimento femminista. È anche grazie ad essa che oggi alla diversità della donna viene
riconosciuta quella dignità necessaria ad un rapporto egualitario con l’uomo, almeno su un piano
teorico, almeno sulla superficie più esterna di quell’agglomerato di corpi ideologici che è la cultura
occidentale, riverberante di mille riflessi che spesso si limitano ad abbagliare, a stordire col loro
fasto accecante, senza illuminare con un fascio di luce propria, che sia irradiato dal cuore pulsante
di questo mutevole organismo culturale, la strada che conduce alla posterità.
Non è difficile comprendere il motivo della mancata concretizzazione assoluta, nella realtà
quotidiana, dei principi di uguaglianza e parità tra i due sessi. Ciò che ostacola il pieno
riconoscimento della capacità femminile di affermarsi, e che non di rado ne ostacola l’affermazione
stessa, è una sorta di sessismo leggero, costretto ad essere subdolo ed ipocrita poiché privato
dell’impeto e della violenza condannati senza riserve dall’etica comune, da quel sostrato morale che
ogni cittadino si propone di rispettare, spesso, solo in quanto espresso da una legge (positiva o
naturale) faticosamente riconosciuta.
Questo sessismo leggero può essere soppresso da una valida formazione morale dell’individuo;
tuttavia è possibile ipotizzare che esso risponda al richiamo di un pensiero innato, quasi un gene
psicologico: quello stesso germe di idea che separa in maniera piuttosto netta, istintivamente, i
ruoli che i due sessi dovrebbero ricoprire per promuovere uno sviluppo più armonico della società
intera.
Nella Repubblica, Platone formulò l’ipotesi dello Stato ideale; se si spoglia la sua teoria di tutti i
caratteri accessori e secondari, si perviene ad una brillante conclusione: è necessario, per garantire il
più corretto funzionamento della complessa macchina della società, che ogni singolo meccanismo
svolga il compito per il quale è naturalmente predisposto, in modo da profondere interamente se
stesso in un’attività dalla quale possa trarre il rendimento maggiore, il beneficio più ampio e infine
quella gradevole soddisfazione che prende vita dalla consapevolezza della validità e
dell’importanza del proprio ruolo. L’irrealizzabilità del disegno platonico, oltre a risiedere nel
carattere ideale dell’intera costruzione, è segnata definitivamente dall’umana incapacità di accettare
i propri limiti.
La libertà di cui un uomo ha il diritto di godere aborrisce l’imposizione di un ruolo e l’assegnazione
di quei compiti che contrastano con la volontà dell’individuo. Ciascuno tende a dedicarsi alle
attività che vuole svolgere, piuttosto che a quelle che è in grado di svolgere. Questa tendenza è
forse la volgarizzazione di un principio che ha intenti ben più nobili, e cioè che l’uomo
perennemente si affanna per diventare ciò che vorrebbe essere, senza curarsi troppo di ciò che
potrebbe essere.
Ed in nessun modo, per nessun motivo è pensabile che ad un individuo possa essere negata questa
libertà. Così, pur non potendo negare alla donna di accostarsi e di penetrare, infine, nell’universo
dei doveri che l’uomo si era istintivamente assegnato, secondo un inconsapevole calcolo delle
proprie potenzialità, e pur riconoscendo che vi sono (e sempre vi saranno) donne in grado di
adempiere a quei doveri meglio di quanto molti uomini possano mai sperare di fare, è con una punta
di amarezza che assistiamo ad un singolare e curioso ribaltamento dei ruoli, che è nella maggior
parte dei casi l’origine delle lagnanze, delle insoddisfazioni, delle perplessità, dei drammi
dell’uomo contemporaneo. La cattiva educazione dei figli, il miserevole deperimento delle relazioni
interpersonali, l’assenza quasi totale di comunicazione attiva e di dialogo all’interno del nucleo
familiare, lo sviluppo ritardato della sensibilità nei giovani e la loro fin troppo deprecata
indifferenza, la mancata o alterata trasmissione di alcuni valori fondamentali: sono questi soltanto
alcuni tra i fenomeni imputabili, in parte, alla carenza di una solida figura femminile nella crescita
dei giovani virgulti che germogliano sul terreno della civiltà.
Sono sempre in minor numero le donne che si dedicano animatamente alla formazione e
all’educazione dei figli o alla gestione delle fondamentali attività domestiche, forse perché
un’esasperazione vicina al parossismo, un’inaccettabile stortura dell’idea di dignità della donna ha
creduto di incarnare nell’immagine della donna madre, educatrice e massaia l’emblema della
discriminazione sessista, che aveva relegato in quel ruolo, sotto l’oppressione insostenibile delle
anguste mura domestiche, l’intera stirpe delle sorelle di Alcesti, senza temere che queste potessero
rivelarsi, un giorno, degne figlie di Medea e Clitennestra.
È per mano che l’uomo e la donna devono tenersi, affinché l’intero genere umano possa calcare
serenamente il suolo malsicuro dei secoli che verranno. Senza il rispetto reciproco non sarà
possibile il progresso: come un sogno fatto all’alba svanirà la speranza di un’umanità migliore.
Col sorriso dei suoi occhi la donna insegnerà all’uomo il suo canto, gli mostrerà come leggere in
un’anima, come sentire il sussurro lento dei pensieri, come accogliere in sé il flusso continuo della
Natura, che parla al cuore delle sue creature e che non ha bisogno di nulla, per essere ascoltata, se
non di un altro cuore. E allora l’uomo risponderà a quel sorriso, con tenerezza svelerà alla donna
che non basta un cuore per avvicinarsi alla Verità, ma che c’è bisogno di una mente ardita che scosti
i veli di quella Natura così pudica e che nelle sua nudità possa contemplare il perché delle cose.
Nel sentire e nel pensare risiede la grandezza dell’Uomo.
Mai nessuna creatura sentì come sente una donna.
Elaborato di Giuseppe Menco
San Bartolomeo
Ispirato al “Martirio di San Bartolomeo” di Giambattista Tiepolo.
(Metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDD, CCD.)
Di rassegnazione furon suggello
livide man, ferme su pii stinchi:
a genziane da mirti, tra i giunchi,
a sant’orme rasenti, ora in stallo.
“Lontano d’inganni, di raro in fallo”
mal vicino, invero, a proclami monchi,
Egli lo conobbe. Su occhi com’ specchi
d’animo contò l’apostol novello.
Pure in volto tenebra celeste,
autorevol palmo alla beata
rada d’ascesa fu ambasciata.
Ne’ truci senni il lume d’infauste
lame fu, per savie idee caste
d’ingresso ferri a vita sperata.
Endimione
Ispirato a “Il risveglio di Endimione” di Anne-Louis Girodet-Trioson.
(Metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDC, DCD.)
Fosti, più che d’Elidi il gentil re,
dominatore dei divi cuori,
o Endimione, predilezion di cori.
Da raffronto non fu il tuo splendore!
Un dì che l’opere calco maggiore
sulle membra lasciarono, torpori
t’ebbero sul Latmo e ricci mori
crini d’erba fecer guancial d’odore.
Selene, che d’argento Gaia ammanta,
restò: di tutto vigile, or di te.
Dolce ammaliatrice per era tanta
sua carezzevol folgore per corte
s’arrese a cedere. Mai fu spenta
fiamma, che tue volle palpebre sporte.
Zenobia
Ispirato a “La regina Zenobia arringa i suoi soldati” di Giambattista Tiepolo.
(Metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDC, DCD.)
Non la colse altèra superbia, in vero
con par di uomo fiero onore visse.
Seppur vedovili pianto avesse
lacrime, meste non molto stettero:
vaballateo scettro ne fu il siero.
Regina d’Oriente, di mari e messe
fecondi, sagaci araldi spesse
volte l’osannarono. Assai nero
il volto d’Aurelio, qual ingorda
politica ritenne tal discendenza
di Cleopatra. Ella fu tanto sorda
ad accorti patti, or generale senza
infamia, dunque fatale stendarda
d’imperial romana belligeranza.
Lordi convivi
(Metro: endecasillabi sciolti.)
Odora d’immondo flagello dei
politici il fiato: infingarde,
lor promesse a preste convenienze
trovano appiglio. Durano poco.
Se tarda il fanciullesco spiro
a desolare di carte un fortino,
dispettose mani non errano;
come lesto dardo di catapulta
giustiziano insicure fondamenta.
Riman l’amarezza, un saporastro
d’inattesa fede! Turpi carogne,
di cui i fastosi proclami son tristi
posate di sudate leccornie,
coscienziosi istinti dimenticano.
Non di tutto un fascio: altri rimembrano
che il pollo è invito per mani.
Passione
(Metro: strofe di tre endecasillabi ed un quinario; in chiusura un endecasillabo. Tratto dalla
rivisitazione del Carducci della strofa saffica.)
Deviata mira, di grazia manchevol,
ch’al cuor sincero cela degni umori,
è l’effluvio d’atti procaci cui
fonte è l’amore.
Come aere tiepido gemellare
ingegno leva, esaltante motore è
condivisa passione, che sublima
gl’animi agli astri.
Muliebre talento ne dà l’annuncio:
ebbre son membra al piacer giacenti.
contorno è nebbia, di nulle memorie
orgasmi portal.
Per costante segue giovale tregua.
Socievoli antenati
(Metro: endecasillabi sciolti.)
Esplose, ampliò, condensò. Nacquero.
Pur taciuta primordiale era, rombò
il nativo cosmo a significar
celesti. Or solenne li detenne
forza una e d’impotenti parole.
Gran consiglio di lì provenne agli
umani di solidali principi:
lattee scie, spirali d’avorio,
adamantine croci, attorno a
spente divoratrici di albore,
di comunità ideali furono
segni. Ma tardivo di siderale
ingegno, l’uomo tal’unione ancor
ripugna, ingordo del van potere,
ch’ei superbo s’addice ignorante.
Pigro prigioniero
(Metro: settenari sciolti.)
Vincol assai tenace
il mio proposito
immoto rende, come
le ferree catene
da prigionier sofferte.
Me condanno, infausta
anfora di idee
quali tanto di rado
ratte s’esaudiscono,
e non la insolente
tentatrice, c’ha sui
trofei del mio nom
l’iscrizione. Pigrizia,
non t’aggrada qualcuno
che di me meno vale?
Elaborato di Marica Brunetti
Ogni romanzo nasce da un’idea originaria, un’intuizione, che appare chiara e trasparente. L’idea
è fragile, deve essere raccolta e coltivata prima che scompaia, che sprofondi tra le incertezze e le
insicurezze dell’artista. Essa, che è perfetta e incompleta allo stesso tempo, trova la sua
realizzazione solo entrando in contatto con l’anima di chi l’ha generata. L’idea non ha sesso: non
è maschile e non è femminile; la mente creativa è uomo e donna nello stesso momento, è
“androgina”. Solo una mente androgina può intessere adeguatamente la trama di un romanzo.
Esso fonde insieme la realtà e la finzione, è verosimile, racchiude vita e fantasia, suscitando
emozioni contrastanti nel lettore, che perde di vista se stesso ed entra in un universo immaginario
in cui dominano l’emozione e il pathos. La mente dello scrittore, dunque, è superiore ad ogni
distinzione sessuale. Eppure, la letteratura e la cultura in generale sono state, per secoli,
prerogativa dell’universo maschile. Gli uomini hanno formulato filosofie, narrato la storia,
condizionato i movimenti artistici e culturali; hanno descritto la donna, l’hanno amata, odiata e
intrappolata nell’ignoranza. Virginia Woolf scrive: «Per secoli le donne sono state gli specchi
magici e deliziosi in cui si rifletteva la figura dell’uomo, raddoppiata1». La donna era
condizionata irrimediabilmente dall’uomo, non poteva esprimere se stessa, era il pretesto
dell’uomo per sentirsi superiore. Nonostante ciò le protagoniste della letteratura non mancano di
personalità e carattere: si pensi a Clitennestra, Antigone, Cleopatra, Lady Macbeth, Desdemona e
poi Millamant, Clarissa, Becky Sharp, Anne Karenina, Emma Bovary, Madame De Guermantes.
«Immaginativamente, la sua importanza è estrema: praticamente la sua insignificanza è totale1».
Gli unici ruoli che interpretava nella realtà erano quello di madre e “angelo del focolare” o
quello di cortigiana. Solo nell’Ottocento la donna rivendicò il diritto alla lettura, cominciando a
proiettarsi al di fuori della sfera familiare. Ella dovette scontrarsi con i duri attacchi e i pregiudizi
consolidati del mondo maschile; questi per molto tempo le impedirono di raggiungere la
tranquillità necessaria per scrivere un romanzo. Le critiche giunsero anche dall’universo
femminile, il quale era ostile ai cambiamenti e la incolpava di presunzione. Sono proprio questi i
motivi per cui le sorelle Brontë, Mary Anne Evans e Aurore Dupin si nascosero dietro uno
pseudonimo maschile. La letteratura avrebbe perso un grosso contributo se queste donne
avessero rinunciato a comporre capolavori come Jane Eyre, Villette, Cime tempestose e
Middlemarch. Ma chissà di quante artiste e scrittrici si è privata.
L’incontrollabile desiderio di scrivere e comunicare ha vinto la paura dell’emarginazione e della
derisione nelle romanziere dell’Ottocento. Una protagonista indiscussa della letteratura
femminile è Jane Austen, che scrisse Orgoglio e pregiudizio. La realtà cominciò ad essere
raccontata così come appariva agli occhi della donna; le ipocrisie dell’Inghilterra vittoriana
vengono indagate dallo sguardo acuto della scrittrice e affrontate con una sottile ironia.
L’argomento ricorrente è l’amore, ostacolato o forzato dalla necessità di “trovarsi un buon
partito”. È, quindi, l’educazione sessuale il tema principale che coinvolge le protagoniste
femminili. Effie Briest di Fontane affronta l’argomento attraverso la storia di un adulterio punito
sotto lo sfondo di una società tirannica, che disprezza chi non rispetta le sue leggi basate
sull’onore, la buona reputazione e l’immagine pubblica. Le speranze di un’innocente fanciulla si
scontrano con il cinismo di chi, come i genitori, è già disilluso dalla vita matrimoniale. Effie
viene strappata alla propria adolescenza e poi abbandonata ed emarginata. La sua colpa non è
l’avere ceduto ai propri sentimenti, ma è la ricerca dell’amore; ella è stata sedotta dal desiderio di
conoscere le emozioni, il brivido del corteggiamento e della complicità sentimentale. Il romanzo
si conclude con una denuncia: «… non era forse troppo giovane?2», tuttavia l’ipocrisia e
l’apparenza, che sono a fondamento della società del tempo, si svelano attraverso le parole del
padre: «… lascia andare … questo è un campo troppo vasto2». Quante volte questa denuncia
deve essere stata messa a tacere. La vera Effie Briest era la baronessa Elsa von Ardenne nata von
Plotho, ma quante giovani Effie hanno dovuto rinunciare a se stesse per una vita all’insegna
della rassegnazione e dell’aridità!. Una vita vissuta passivamente è solida quanto un castello di
sabbia, basta un’onda per buttarlo giù. Le donne si sono rassegnate a quella vita, hanno smesso
di commiserarsi e hanno cercato di colmare i loro vuoti interiori occupandosi dei figli e di futilità
come la moda e l’arredamento. Come avrebbe potuto ribellarsi una madre alla sua condizione?
Avrebbe perso il marito, i figli e la sua rispettabilità. Le donne non avevano un’indipendenza
economica, non potevano amministrare il loro patrimonio; infatti, la dote assegnata all’atto
nuziale veniva gestita dal marito. Eppure qualche eccezione c’è stata, si pensi ad Aurore Dupin
che ha sempre cercato indipendenza e avventure sentimentali per non vivere in solitudine. È
proprio la paura della solitudine , o meglio dell’emarginazione, che ha indotto le donne a non
ribellarsi, la paura di far la fine di Effie Briest e di Madame Bovary. Se le donne avessero tentato
di coalizzarsi, forse, avrebbero conquistato prima i propri diritti. Ma per i movimenti femministi
bisognerà aspettare l’Ottocento e gli inizi del Novecento, quando si consolidarono gli ideali di
correnti come l’Illuminismo e il Romanticismo. Tuttavia in Italia le donne assunsero il proprio
peso nella società solo dopo la seconda guerra mondiale, quando ottennero il diritto al voto. Sino
ad allora le donne avevano sempre lavorato senza che venisse riconosciuto loro alcun ruolo
significativo. Spesso lavoravano nei campi, come descritto nelle novelle di Verga. È solo questo
aspetto che accomuna protagoniste femminili come Nedda e la Lupa; infatti, la prima è docile e
arrendevole mentre la seconda è una donna vorace e insaziabile, è un personaggio diabolico e
tragico, che viene condannato all’esclusione dalla comunità.
Oggi, finalmente, le scrittrici contemporanee si dedicano alla letteratura senza timore e non
devono più fingersi uomini. Possono descrivere la realtà, che fa da sfondo alle loro storie; possono
contemplare il mondo attraverso la propria scrittura ed assaporarlo fino in fondo con tutta la loro
anima. La forma fisica non è più una gabbia che imprigiona le loro idee, esse possono liberarsi,
prendere vita e far vibrare i suoni del proprio essere.
Elaborato di Ilenia Muccitto
Elogio alla Follia
Se il mortale fuggisse la saggezza
la vecchiaia non gli apparterrebbe,
vivrebbe un'eterna giovinezza
d'allegria e di dissolutezza.
La Madre del genere umano
sparge più passione
che ragione in ogni uomo,
e questi è sopraffatto dalla malattia:
la vita umana non è altro
un gioco della Follia.
Ordunque vi canto lieta
le gesta dei più pazzi,
dai cavalieri senza meta,
ai voluttuosi, tormentati dai vizi:
<< Con l'ingenuità di un bambino,
non so s'era giorno o s'era notte,
contro le pale di un mulino
combatteva Don Chisciotte,
che spendeva denaro e tempo
per essere idealista
e, testardo, rincorreva il vento
coi troppi sogni in testa:
e tutto per una donna appena conosciuta
in una locanda dove faceva la prostituta. >>
Piacciatevi di restare ancora
per conoscer un tizio stolto alquanto
ed ascoltare la sua storia:
<< Orlando io vi canto
che perse il senno per amore
di una donna che non voleva
cedere a lui il fiore:
Angelica era il suo nome
bella e dai capelli d'oro,
il suo fiore, sì, lo concesse
ma al nemico di guerra, Medoro. >>
Quanta pena per coloro
che non sanno del loro agire
lasciandosi degli eventi in balia:
ve li canto tutti qui,
nell'Inno alla Follia.
Il lussurioso
Gettatemi all'Inferno
nel fuoco e nella disperazione,
lasciatemi peccare in eterno,
che arda il corpo di passione.
Tra le gambe d'avorio,
nella paura di un volto,
lasciate che strappi ancora
un fiore non colto.
Gettatemi pure nel Purgatorio
dove le schiere si baciano e avanzano
per il tempo prestabilito
dalla onnipotenza di un dito.
Mandatemi pure in Paradiso
che dalla luce venga accecato,
che dagli angeli venga deriso;
in eterno alla vita sarò grato
d'avermi fatto schiavo del peccato.
Il dannato compianto
tra un urlo e un lamento
del suo vizio più grande, ne fa vanto
e ruba intanto l'amore
a chi glielo concede,
a chi gli ha dato il cuore,
a chi ha avuto fede.
Il purgante a volte ride
sotto il cielo stellato,
guardandolo sbiadire
in un cobalto sfocato.
L'angelo si ritiene beato e felice,
sa di virtù, di bene e d'amore
ma non da quale orizzonte sfuma la luce.
Se mai nulla avessi provato,
al posto dell'amaro miele
avrei ancora assaporato
il dolce fiele del peccato.
Il matto
Quando le visioni oniriche della pazzia
si mischiano all'agonia della morte,
rimane un cuore inquieto
in balia della notte,
nel silenzio di un segreto.
Gli occhi di un matto
vedono senza meraviglia
l'aspetto abbietto
di ogni umana voglia
e non fingono di fronte al piacere
di un sorriso o di una carezza,
inebriati dal fervore
di una perenne ebrezza.
Un matto, talvolta, parla di nostalgie,
rievoca pensieri, racconta bugie,
ma non mente dicendo:
"La vita mi fiacca ed io sto morendo".
Piangi pure un matto
all'ombra di un cipresso,
e davanti la ferrea croce
lascia la tua rosa
e poche parole, a bassa voce:
"La pazzia t'ha portato via,
possa tu riposare in pace".
Se il matto potesse,
risponderebbe vivace:
"Nella pazzia ho vissuto e vivrei ancora
non ti dispiaccia quel che mi piace."
Il pagliaccio
Vieni con me,
l'uomo dal fato avverso
con la maschera di cera
e un filo di trucco addosso,
che regala sorrisi falsi
per riceverne di veri,
che di sera
scioglie il volto, l'animo, i pensieri.
Vieni con me,
l'uomo dalle vesti colorate,
che non ha sogni in seno
e fissa incredulo l'arcobaleno;
nella stoffa marcia del suo buffo costume
vede la luce fioca, un barlume.
Vieni con me,
l'uomo del destino,
che ha tolto il cappello e la parrucca,
si è spogliato dei suoi colori
per mostrarsi vero agli occhi
dei suoi ascoltatori.
Vieni con me,
l'uomo dai toni floreali
che ha il cuore bianco e nero,
triste nel suo impero
di finzione,
e dice appena sussurrando:
"La mia bocca
è larga di riso
e la mia gola profonda di canto...
Non vedi quant'è triste
il mio segreto pianto?"
Il suicida paroliere
Volano i pensieri
distinti e ad ali spiegate
verso un luogo di meraviglia
che non esiste nè in cielo nè in terra.
La spuma di mare
colora e traspare
e i gabbiani non vedono dove scompare:
così i pensieri
che tornano alla mente
non puoi toccare,
solo guardarli infrangere su scogli,
è tutto quello che puoi fare,
è tutto quello che puoi fare.
Volano leggeri
pezzi strappati di fogli
su cui ho scritto i miei pensieri,
arsi nel fuoco ieri,
su cui ho scritto una ballata
non ancora musicata,
su cui ho scritto la mia vita,
la stessa che ieri è finita.
Ecco lo spiro di un poeta
che lascia la terra ed il cielo
per vivere nei pensieri,
che non sono morti ieri,
che non sono morti ieri.
La cortigiana
Col viso coperto da velo
e nastri di seta preziosa,
la donna dagli occhi di cielo
si muove con grazia radiosa.
La bocca profuma di rosa,
il corpo è un bocciolo in fiore,
le spine non sfiorano la pelle,
chi osa toccarla è un folle:
in una notte profana
nel suo letto di primule e gigli,
dona le labbra la cortigiana
tra lievi gemiti e bisbigli.
Donna dai mille volti
con un'anima sola,
quanti baci vuole ancora,
quale bocca la consola?
Prima di ascoltare il suo canto,
o musa dai capelli d'oro,
spezza questo insidioso incanto
di cui ogni giorno mi innamoro.
Intona melodie divine
con la cetra che l'accompagna
e traccia la linea di confine
tra il dio che l'ha creata e l'uomo che la sogna.
L'amore cos'è
Questo fuoco brucia la mente
e diventa passione
e scoppia nelle vene:
bramo di un amore senza leggi,
senza regole e catene.
Le mie labbra sono il fuoco
e ti devono bruciare:
sentiranno il calore,
sazieranno la sete,
saggeranno il sapore.
Quando si accende
l'amore è una pazzia temporanea,
scoppia come un terremoto,
fa cadere nel vuoto
quando la terra si apre sotto i piedi,
si placa...
L'amore lascia tempo alla ragione
tanto quanto la neve resiste al sole;
non fa parlare le parole,
non fa pensare i pensieri,
s'avvicina verso ciò che vuole,
senza timori.
Non il volere,
non il godere, non il piacere
fanno l'amore:
chiunque può convincersi di essere innamorato
facilmente, con gaudio,
ma l'amore è ciò che rimane del fuoco
quando l'innamoramento si è consumato.
Luce
Esplode,
ormai deviata,
la luce di un mattino che non puoi guardare,
scintilla con forza tale da oscurare
quella di chi al tramonto non può restare;
riempie i vuoti del presente,
buio al solo respirare...
O luce,
che incanta con la sua musica,
che rende ogni alba unica,
sussurra pensieri al vento,
ricorda ogni singolo momento
di quando il suo sapore
era uno solo con il mare.
Non so quale sia la natura
di ciò che mi avvolge
o quale ruolo svolge
nel rendere l'animo mio
avvezzo a questo fio.
Il mondo mi ha reso mendicante
seppure meritassi miglior giorno,
mostra a me solo un miraggio...
O luce, tendimi il tuo raggio,
tu, che non hai paura
di assaporare l'alba,
fammi uscire dalle tenebre.
Nuova vita
Stesse facce, stesse storie,
stessi luoghi per giorni che non conti,
senza lodi e senza glorie,
vedere la gente camminare a vuoto,
senza espressione in volto,
coi sogni che muoiono
prima ancora di nascere.
Coi sassi in tasca
e la polvere in mano
guardare il divenire
e lasciarsi soffocare
dall'aria greve:
e passo dopo passo
più greve è il peso di ogni sasso.
Guardarsi intorno:
addio alle facce, addio alle storie,
ai luoghi che da giorni
hai iniziato a contare,
l'aria riacquista
il suo placido peso
e nelle tasche non ci sono più sassi:
tanto più agili e sciolti sono i nuovi passi.