Inpiù spettacoli 28.2.2017
Transcript
Inpiù spettacoli 28.2.2017
la Voce del popolo la Voce del popolo KSENIJA PROHASKA ARTISTA POLIEDRICA spettacoli www.edit.hr/lavoce Anno 3 • n. 14 martedì, 28 febbraio 2017 IL PROTAGONISTA ATTUALITà FESTIVAL NOVITà Il regista canadese Denis Villeneuve I diritti delle donne nel cinema contemporaneo In margine al 67º Festival di Sanremo Lo spassoso «Deadpool» avrà un sequel Una carrellata nei film che trattano la condizione femminile in diversi Paesi del mondo. Un breve storia del più famoso Festival canoro italiano, la cui qualità è in declino dagli Anni ‘70. Le riprese di «Deadpool 2» inizieranno a giugno, mentre il film dovrebbe uscire nelle sale nel 2018. 2 Il suo film «Arrival» è stato più o meno snobbato agli ultimi Oscar. Grande attesa per il sequel di «Blade Runner». 3 6|7 8 REUTERS/MARIO ANZUONI 2 spettacoli martedì, 28 febbraio 2017 IL PROTAGONISTA la Voce del popolo di Gianfranco Miksa IL REGISTA CANADESE DENIS VILLENEUVE STA VIVENDO UN INTENSO PERIODO CREATIVO PECCATOPER«ARRIVAL»,TANTA ATTESAPER«BLADE RUNNER2049» N el 2017, il regista canadese Denis Villeneuve, noto per le sue pellicole di cinema d’autore – il cui stile è un misto di genere e approccio intellettuale con un forte impatto emotivo –, come La donna che canta (Incendies, 2010), Prisoners ed Enemy, gli ultimi due entrambi del 2013 e interpretati da Jake Gyllenhaal, s’impone sulla scena cinematografica, soprattutto in quella del genere di film di fantascienza. Il suo Arrival, che si basa sul racconto “Storia della tua vita”, dell’omonima antologia di racconti (Stories of Your Life) dello scrittore statunitense Ted Chiang, e vede come protagonisti Amy Adams, Jeremy Renner e Forest Whitaker, è stato candidato all’Oscar in ben otto nomination, tra cui miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura. Ha trionfato però solamente nella categoria Miglior montaggio sonoro, dando così credito alla tradizione secondo la quale lo sci-fi movie non può vincere nelle principali sezioni degli Oscar. Ciò nonostante, pur essendo rimasto a secco di premi, il cineasta canadese suscita particolare interesse non solo per il suo Arrival, ma anche perché, nell’anno in cui compie 50 anni, realizzerà il sequel del classico di fantascienza Blade Runner, prodotto dal regista Ridley Scott, autore del primo capitolo realizzato nel 1982, e darà vita al reboot di Dune, tratto dall’omonimo romanzo di Frank Herbert. Ma andiamo per ordine, iniziando da Blade Runner 2049 la cui sceneggiatura, scritta da Hampton Fancher (co-autore della sceneggiatura dell’originale) e Michael Green, è basata sui personaggi del romanzo di Philip K. Dick, “Il cacciatore di androidi” (Do Androids Dream of Electric Sheep?). I due hanno preso come spunto un’idea di Fancher e Ridley Scott, che sarà produttore esecutivo del film. Roger Deakins, nominato a 13 premi Oscar, sarà, invece, il direttore della fotografia, mentre le colonna sonora sarà realizzata dal compositore islandese, Jóhann Jóhannsson, che già in passato ha lavorato con Villeneuve (Sicario e Arrival). Protagonista Ryan Gosling Da quanto trapelato finora, il film avrà come protagonista Ryan Gosling, che interpreta il ruolo dell’agente K, e un cast che comprende Dave Bautista, Jared Leto, Mackenzie Davis, Robin Wright, Sylvia Hoeks, Ana de Armas e Harrison Ford, che riprenderà il ruolo di Rick Deckard, interpretato nel film precedente. La trama si svolge trent’anni dopo gli eventi del primo film. Un nuovo blade runner, l’Agente K della Polizia di Los Angeles, scopre un segreto sepolto da tempo che ha il potenziale di far precipitare nel caos quello che è rimasto della società. La scoperta di K lo spinge verso la ricerca di Rick Deckard, un exblade runner della polizia di Los Angeles sparito nel nulla tre decenni fa. E come se non bastasse il suo apporto nel rivivere i celebri personaggi di Philip K. Dick, il cineasta è stato incaricato pure di realizzare la regia di un’altra pietra miliare del cinema di fantascienza, quella del reboot di “Dune” dalla saga di Frank Herbert, che rimane ancora oggi il romanzo fantascientifico più venduto del mondo, con più di 12 milioni di copie vendute. Reboot di «Dune» dopo 33 anni Le vicende della Casata Atreides torneranno, dunque, sul grande schermo a distanza di 33 anni. L’ultimo ad aver adattato il ciclo di romanzi di fantascienza per il cinema (dopo il tentativo fallito di Alejandro Jodorowsky) era stato David Lynch nel 1984; nel frattempo la saga ha ispirato una miniserie su Syfy, dei fumetti e dei videogiochi. La casa di produzione Legendary Pictures non ha ancora fornito nessun tipo di indicazioni sul cast o sulla data d’uscita, ma almeno un paio d’anni d’attesa sono ampiamente ipotizzabili. Ritornando al film Arrival, ecco perché questa sua nuova pellicola appare estremamente interessante agli occhi degli amanti del genere fantascientifico, anche per capire come Blade Runner 2049 e Dune evolveranno. E in tale ottica d’analisi Arrival pone la fantascienza in una nuova prospettiva. Il primo incontro tra il regista canadese Denis Villeneuve e lo sci-fi prende infatti le distanze dai blockbuster che in passato hanno incrinato la credibilità del genere, ritenuto da molti registi un campo minato. Arrival si inserisce pienamente nel recente processo di mutamento della fantascienza al cinema. Questo genere ha subito una metamorfosi strutturale, assumendo, oltre al carattere avventuroso, pure quello filosofico, inteso alla comprensione dell’ignoto. E da questo recente connubio sono nate opere cinematografiche quali The Martian e Interstellar. «Arrival» Arrival segue la vicenda di Louise Banks (Amy Adams), linguista di fama mondiale e madre inconsolabile di una figlia scomparsa prematuramente. Ma quello che crede la fine è invece un inizio. L’inizio di una storia straordinaria. Dodici misteriose astronavi extraterrestri, soprannominate “gusci” dai militari degli Stati Uniti e simili a dei monoliti neri, appaiono in tutta la Terra. Sono navi aliene in attesa di contatto e non è chiaro il motivo per cui sono arrivate o se vi è una logica dietro la scelta dei luoghi dell’atterraggio. La linguista Louise Banks è stata scelta per partecipare a una squadra speciale creata per analizzare le specie aliene nel sito degli Stati Uniti in Montana, in quanto abile traduttrice. Fanno parte della squadra anche il fisico teorico Ian Donnelly (Jeremy Renner) e un colonnello dell’esercito americano di nome Weber (Forest Whitaker). La missione è quella di penetrare il monumentale monolite e “interrogare” gli extraterrestri sulle loro intenzioni. Ma l’incarico si rivela molto presto complesso e Louise dovrà trovare un alfabeto comune per costruire un dialogo con l’altro. Il mondo esterno intanto impazzisce e le potenze mondiali dichiarano guerra all’indecifrabile alieno. Il film è un maturo dramma fantascientifico che mantiene la paura e la tensione dando al tempo stesso risonanza ai temi dell’amore e della perdita. I punti di forza di Arrival sono una bella storia, misteriosa e romantica, capace di tenere lo spettatore sulla corda e allo stesso tempo commuoverlo. Al contempo è anche un film di fantascienza nella sua forma più bella e provocante, un magnifico dramma, una storia molto romantica e l’esito migliore del talento visionario di un fenomeno della macchina da presa come Denis Villeneuve. Infatti, le splendide immagini del film assieme a un raffinato montaggio (che alterna sogno e realtà e poi anche i piani temporali) fungono da guida. Sono immagini bellissime, sostenute da note enfatiche ma mai invadenti, sospese tra luce e buio, aiutano a mettere da parte l’angoscia per cedere definitivamente al fascino di ciò che stiamo guardando. In conclusione, realizzare il seguito di Blade Runner e il reboot di Dune è una grande sfida per il cineasta canadese. Una sfida che per certi versi ricorda quella di J. J. Abrams, noto al grande pubblico per aver diretto il rilancio della serie cinematografica di Star Trek, e anche l’Episodio VII di Star Wars – Il risveglio della forza. Cosa che all’epoca non è stata accolta con entusiasmo, ma poi i critici più aspri si sono dovuti ricredere davanti ai risultati delle pellicole. Il timore maggiore dei fan, era legato alla paura, essendo lo stesso regista a realizzare i film, di una contaminazione involontaria dei due mondi. Un po’ la situazione che intercorre tra Blade Runner e Dune. L’unica cosa certa è che, alimentando la curiosità dei fan, Denis Villeneuve sta facendo un ottimo lavoro per dare una nuova dimensione cinematografica al genere di fantascienza. spettacoli la Voce del popolo ATTUALITÀ martedì, 28 febbraio 2017 3 di Dragan Rubeša UNA CARRELLATA NEI FILM CONTEMPORANEI CHE TRATTANO LA CONDIZIONE FEMMINILE IN DIVERSI PAESI DEL MONDO || Much Loved I DIRITTI DELLE DONNE NEL MIRINO DELLE SOCIETÀ PATRIARCALI “N oi non siamo contro la legge! Noi vogliamo creare la legge!“. È questo il grido rivoluzionario in un contesto politico e sociale corrotto e maschilista che troviamo in un film importantissimo che racconta la conquista del suffraggio femminile nel Regno Unito nel 1928. È intitolato Suffragette ed è stato girato da Sarah Gavron, figlia della laburista Nicky Gavron, vicesindaca di Londra. La pellicola è stata proiettata nelle sale italiane in occasione del 70º anniversario del primo voto delle donne in Italia. Le dichiarazioni di Meryl Streep nel ruolo dell’attivista Emmeline Pankhurst, però, non si differenziano molto da quelle che l’attrice ha pronunciato di recente ai Golden Globes. Intenso processo di clericalizzazione Il clima nel quale è ambientato il film di Gavron non si differenzia molto dalla nostra quotidianità nella quale siamo testimoni di un intenso processo di clericalizzazione della società, con l’avvento di associazioni ultraconservatrici quali “Vigilare” e “Nel nome della famiglia” (U ime obitelji), nonché di comunità di preghiera che manifestano dinanzi agli ospedali la forma peggiore del fanatismo religioso, cercando di imporre alle donne le loro opinioni talebane e vietare loro il diritto all’aborto. Il loro scopo è umiliare le donne che hanno deciso di avvalersi del diritto garantito loro dalla legge di decidere sul loro corpo e nel loro interesse. Basta ricordarsi come questo funzioni nel rigido comunismo romeno, quando gli aborti venivano effettuati nelle stanze sudicie degli alberghi, come ciò viene descritto nel film 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, un’opera pesante diretta da Christian Mungiu. In Romania, infatti, nel 1966 venne approvata una legge che impediva l’aborto. Questa venne abolita dopo la caduta del regime nel 1989. L’ipocrisia della nuova Europa Una Romania completamente diversa viene ritratta da Maren Ade nel bellissimo Toni Erdmann. A incarnarla è il personaggio della figlia della consulente di una compagnia petrolifera romena, che ricorda il tipo della donna d’affari tedesca in tailleur e camicia bianca, la cui vita è eternamente divisa tra i lounge bar, gli uffici asettici e appartamenti di gusto minimalista in fortezze di vetro costruite a pochi passi dalle catapecchie post-comuniste. Suo padre è qui ritratto come un pagliaccio con parrucca e dentiera, il quale cerca di riavvicinarsi alla figlia rompendo le convenzioni, le regole del comportamento e l’ipocrisia della nuova Europa, come pure la vacuità della macroeconomia internazionale e della sua cultura d’affari che si basa su dei calcoli egoistici. Ma nel gioco della vita, il banale, il distaccato e il coerente sconfiggono ciò che è speciale e magico. I diritti della donna nel mondo arabo Tuttavia, il mondo arabo è pur sempre l’ambiente più indicativo per sondare il problema dei diritti della donna. Come gli scaffali delle nostre librerie vengono bombardati da libri che parlano della vita infelice delle donne arabe, prodotti quasi a livelli industriali nello stile del femminismo McDonald’s, così effettivamente non c’è festival al quale non venga proiettato un film su questo tema. Così, ad esempio, il Cairo Film Festival è stato inaugurato con la parabola femminista Il giorno per le donne, diretto dalla regista egiziana Kamla Abou Zekri, nel quale la protagonista acquista un costume da bagno dopo che è stato deciso che la domenica nella sua piscina sarà riservata esclusivamente per le donne. Però, a provocare le lacrime qui non è soltanto il cloro, bensì pure i destini personali delle sue amiche, tanto che la loro comune della piscina diventa un luogo pulsante di catarsi collettiva e di auto-realizzazione. Dopo che l’Europa è stata travolta dall’isteria legata al “burkini”, non ci poteva essere un timing migliore per questo film. Nonostante le loro piccole vendette, come la brillante sequenza nella quale le donne rubano i vestiti degli uomini all’ingresso nel hammam e li spruzzano con l’acqua mentre questi corrono in strada in presa al panico nella loro biancheria intima, ciascuna capirà alla fine di non poter vivere senza il suo amato uomo. || 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni Lo scandalo al Festival Al medesimo festival è stato proiettato anche il film Il rossetto sotto il mio burqa della regista indiana Alankrita Shrivastava, nel quale la sua protagonista sogna sotto il burqa di diventare una famosa stella del pop, mentre a suscitare uno scandalo è stata la pellicola egiziana Tracce del peccato, di Khaled El Hagar, durante la cui proiezione un gruppo di studentesse del Cairo coperte dal velo è uscito dalla sala perché l’intimità maschile presentata esplicitamente nel film urtava le loro convinzioni religiose. Ancora più in là si è spinto l’autore marocchino Nabil Ayouch nel film Much Loved, che racconta la storia di un gruppo di prostitute che ricevono i clienti ricchi dagli Emirati che giungono a Marrakech nell’ambito di arrangiamenti di turismo sessuale, dal momento che la legge Sharia vieta simili avventure nei loro Paesi, mentre la prostituzione è un tabù. Paradossalmente, la prostituzione non è soltanto l’unico modo di sopravvivenza delle protagoniste di Ayouch, bensì questo è l’unico modo di raggiungere una specie di autonomia nell’ambiente religioso, patriarcale e conservatore in cui vivono. I momenti in cui eseguono la danza del ventre, le risate e le tenerezze sono l’unico contrappunto all’ipocrisia della loro infelice quotidianità nella quale la sessualità viene percepita come strumento di divisioni e di dominazione economica. Per questo motivo, dopo una notte trascorsa con un amante francese, Noha si metterà il velo. “Chi vuole fare sesso?” chiede la paffuta Alima a tre uomini che ha scorto in strada. Minacce per una frase Questa frase bastava per far sì che Ayouch cominciasse a ricevere minacce via internet, il che lo ha portato a chiedere l’asilo in Francia, mentre la sua attrice principale Loubna Abidar è stata attaccata in una strada a Casablanca in pieno giorno e chiamata “sgualdrina”. Per questo motivo il lungometraggio di Ayouch è forse la più esplicita rappresentazione dell’eros femminile arabo nella genesi del cinema magrebino, con una quantità sorprendente di scene di sessualità frontale, solidarietà femminile, travestitismo e una serie di maschi alfa eccitati. Alcuni di loro amano recitare poesie, ma non ce la fanno a ottenere l’erezione in un rapporto eterosessuale, celando il loro piccolo segreto. 4 lalaVoce Voce del popolo del popolo martedì, 28 febbraio 2017 INTERVISTA «OGNIPERSONAÈILRIFLESSODE M arlene Dietrich, Billie Holiday, Edith Piaf e Filumena Marturano sono soltanto alcuni dei grandi personaggi femminili che ha magistralmente interpretato nel corso della sua carriera teatrale, rendendoli suoi fino all’inverosimile. La sua invidiabile preparazione artistica (recita, canta e balla perfettamente), l’intensità interpretativa, il suo entrare nelle parti con la grinta di una leonessa, la rende una delle attrici croate più brave e richieste. Una donna forte, che sembra aver vissuto dieci volte, che ha raggiunto il successo “relativamente tardi” (lo afferma lei stessa) e che oggi, dopo trent’anni di venerato cammino artistico, trascorso in gran parte sulle tavole teatrali, si definisce grata per quanto la vita le ha regalato. “Ora posso dire di godermela fino in fondo”. È così che inizia la nostra lunga chiacchierata. L’attrice Ksenija Prohaska ed io siamo sedute comodamente al tavolino di un bar in Cittavecchia a Fiume, in una mattinata piena di sole, e parliamo come se ci conoscessimo da anni anche se effettivamente ci siamo viste per la prima volta soltanto poche ore fa. Questa splendida donna, piena di energia e verve, trasmette a pelle un piacevole senso di tranquillità e dopo un po’ dimentico che mi trovo lì per lavoro e che quella che le sto facendo è un’intervista. Prima neanche di riuscire a porle la prima domanda, esordisce lei per prima parlandomi delle sue adorate nipotine, Caroline e Clare, di rispettivamente 5 e 2 anni, regalatele da sua figlia Ana (avuta dall’ex marito, l’attore americano John Byner), che vive in Vermont negli Stati Uniti. “Le adoro! Sono pazza di loro. Mi chiamano Nana e sono la mia luce. Corro da loro quando posso e non è facile perché vivono dall’altra parte del pianeta. Fortuna che oggi la tecnologia è andata così avanti: sono una nonna-Skype e uso questo mezzo tantissimo”, racconta con un’espressione malinconica. “L’altro giorno sono impazzita di gioia quando Caroline mi ha detto che da grande vuole fare l’attrice e la ballerina. Avevo la stessa età quando l’ho detto anch’io. Mi trovavo in via Dežman a Fiume, la stessa dove abita Sandro (Damiani, l’uomo che ama e con cui vive da oltre un decennio, nda), quando si dicono i casi della vita, in casa della migliore amica di mia madre. Ricordo di essere salita su un tavolo, di avere allargato le mani, e di aver esclamato: un giorno farò l’attrice e la ballerina! Ed eccomi qua. La tenacia è stata più forte di tutto, ma soprattutto quest’immenso amore verso l’arte. Per tanti anni ero affamata di teatro, di pubblico, di applausi, di successo. Avevo questo fortissimo desiderio di sentirmi affermata. Alla fine ne è valsa la pena, anche se l’affermazione professionale vera e propria è arrivata nel mio caso piuttosto tardi, non a vent’anni né a trenta, bensì a quaranta“, ricorda. Ksenija Prohaska è diventata primattrice nazionale del TNC di Spalato nel 2015, dopo quattordici anni di… servizio presso lo stesso ente teatrale. “È stato uno dei momenti più perfetti della mia vita. Questo titolo mi ha portato una gioia incredibile e ha fatto sparire tutte le insicurezze che sentivo per anni. È stata l’affermazione, dopo anni di lavoro svolto con incredibile passione. La mia e, avendo alle spalle due matrimoni relativamente brevi, mi sono ritrovata ad essere una ragazza madre. Per anni sono stata quello che io definisco un ‘survivor’, una sopravvissuta. Dovevo pensare a mia figlia, a come crescerla nel migliore dei modi e questo non mi dava quella libertà di poter mettere a fuoco le cose, di poter essere concentrata e focalizzata su ciò che avrei voluto fare dal punto di vista professionale, artistico. Sì, posso dire di aver fatto cose importanti, progetti di una certa portata, di aver recitato in film di produzione americana al fianco di attori quali Warren Beatty, Ben Kingsley, ma io volevo fare teatro. Come ho già detto prima, ero affamata A COLLOQUIO CON KSENIJA PROHASKA, ATTRICE POLIEDRICA DISTINTASI PER I GRANDI PERSONAGGI FEMMINILI CHE HA MAGISTRALMENTE INTERPRETATO insicurezza era dovuta anche al fatto che quand’ero giovane dicevano: ‘Sì, bella ma senza talento’. Poi, in età più matura: ‘Bella e talentuosa’ e oggi finalmente: ‘Questo è talento puro’. Recentemente un collega mi ha detto: ‘Ormai dovresti scegliere ruoli più consoni alla tua età, più maturi’. Ho riso da matti: ma quali ruoli più maturi. Io posso interpretare chi voglio, posso scegliere finalmente. Ecco, mi piacerebbe interpretare un ruolo maschile”, afferma. Perché secondo lei il successo è arrivato più tardi? “Non saprei. Ho avuto una vita turbolenta. Ho partorito mia figlia quando ancora studiavo di applausi, avevo questo fuoco dentro che mi spingeva avanti e mi dava la forza di non mollare. Il successo che volevo è arrivato nel momento in cui sono tornata in Croazia e sono stata ingaggiata dal TNC di Spalato. La chiamo la mia terza carriera ed è quella che cercavo e alla quale aspiravo. In tutto questo percorso, Sandro è stato essenziale per me, mi ha aperto tantissimi orizzonti, mi ha fatto da manager, consulente, mi ha portato con sé in tournée in Italia per almeno venti volte, mi ha accettata per quella che sono e soprattutto mi ha amata. Ecco, posso dire che anche l’amore vero per me è arrivato in età matura. L’amore mi dà quella serenità che ognuno dovrebbe avere. Mi sento amata dal mio uomo, dai miei familiari, dalle mie adorabili nipotine e da mia figlia con la quale ho costruito negli anni un rapporto bellissimo e per la quale sono grata alla vita”. Quando ha conosciuto Sandro Damiani? “Lo conosco da sempre. Da bambini giocavamo ogni tanto in via Dežman dove lui appunto abitava e io venivo con mia madre in visita dalla sua amica. Chi l’avrebbe mai detto che un giorno sarei venuta a viverci… Ricordo quel periodo vagamente. la Voce spettacoli del popolo martedì, 28 febbraio 2017 5 di Ivana Precetti DELL’UNIVERSO» A cosa sta lavorando attualmente Ksenija Prohaska? “Sto preparando il mio prossimo ruolo che sarà quello di Clara Schumann in uno spettacolo di Ivan Leo Lemo, con il quale ho già avuto modo di lavorare in ‘Marlene Dietrich’, il personaggio che maggiormente mi ha segnata come attrice teatrale. È la terza volta che lavoriamo insieme, la seconda è stato per ‘Hollywood’, una pièce meno conosciuta di cui pochi sanno, e che avevamo portato in scena anni fa a Zara. Quello su Clara Schumann è un pezzo teatrale che aspetto con estrema gioia e nel quale sarà incluso anche il balletto con coreografie del grande Leo Mujić, coreografo belgradese di fama mondiale, che ha realizzato progetti di danza alla Scala di Milano e che è impegnato attualmente al TNC di Zagabria con lo spettacolo ‘I signori Glembay’ di Miroslav Krleža. Il personaggio di Clara Schumann mi affascina da morire. È stata una donna fortissima, con un’anima incredibile. Tutti la conosciamo per essere stata raffigurata sulle banconote da 100 marchi tedeschi, ma in pochi forse siamo a conoscenza del suo immenso talento. Una donna che duecento anni fa è riuscita a costruirsi già da bambina una grande carriera pianistica, che era ammirata da Paganini e Goethe, che è rimasta sola con otto figli dopo la morte del marito Robert Schumann, l’immenso compositore la cui fama la dobbiamo proprio a lei, che si è premurata di far conoscere al mondo la sua musica, una donna di cui era innamorato Johannes Brahms, che viaggiava in continuazione da una parte all’altra dell’Europa, da Vienna a Londra, a Parigi, in un’epoca in cui non era assolutamente facile farlo, siccome ci si spostava a bordo di carrozze ed esistevano soltanto quelle. Lo spettacolo su Clara Schumann si basa sul libro della scrittrice romana Valeria Moretti. È stata proprio lei a propormi di interpretare quest’interessantissimo personaggio. Mi ha vista al Teatro dell’Orologio di Roma mentre facevo Marlene Dietrich e al termine dello spettacolo mi si è avvicinata dicendomi: ‘Lei è la mia Clara Schumann. Deve interpretarla’. Non so che cosa abbia visto in me, ma sta di fatto che a breve questa sua specie di visione diventerà realtà“. Che cos’ha fatto nell’ultimo anno, teatralmente parlando? “Sono felice che l’anno scorso io abbia lavorato con quella che per me è la più grande attrice croata, Milka Podrug Kokotović. Abbiamo fatto insieme la commedia teatrale ‘Bjegunke’ (Le fuggiasche): 14 date ‘sold out’ a Spalato e Ragusa (Dubrovnik). Un successo enorme. Il pezzo parla del fatto che oggi le persone comunicano a malapena con i propri genitori e noi due interpretiamo due fuggiasche che si ritrovano alle 3 del mattino in autostrada. Io sono fuggita da casa e lei dal gerontocomio. È così che inizia lo spettacolo…“. Perché interpreta sempre donne forti, complesse? “Non credo si tratti di complessità. Io non posso dividere le persone per complesse e non complesse. Credo che ogni persona sia un riflesso dell’universo. Non c’è anima che non sia perfettamente bella. Queste donne risultano particolari perché nel loro cammino di vita si sono trovate per caso sotto i riflettori, al centro dell’attenzione. Ogni donna vorrebbe essere una perfetta moglie, madre, amante, lavoratrice. Oggi la donna deve avere successo in tutti i campi, sennò non vale. Interpretando questi personaggi, cerco di trasmettere il loro lato semplice, ciò che erano al di là del loro ruolo. Sono donne che hanno lasciato un segno, ognuna nel proprio campo, ma tutti dimenticano che per riuscire a farlo si sono perse pezzi di vita dei loro figli, sono state assenti come madri, mogli, e soffrivano profondamente per questo. Donne complesse? No, diverse per il lavoro che facevano, ma non certo migliori di mia nonna ad esempio, che è rimasta a casa per dedicarsi ai figli e che li ha cresciuti in condizioni difficili, senza mai perdere il sorriso e il senso dell’umorismo. A prescindere da ciò che facciamo nella vita, siamo tutti dei vincitori. Everybody is a winner!”. || Ksenija Prohaska come Billy Holiday al Kastav Blues Festival 2012 NINO STRMOTIC/PIXSELL Poi l’ho rivisto a diciassette anni: era bellissimo e mi piaceva però non mi aveva neppure notata. Una volta passando per il Corso, erano in molti a voltarsi per guardarmi. Lui, neanche di striscio. Ci sono voluti trent’anni affinché la vita ci riunisse e ci innamorassimo – racconta sognante –. Sono così felice che sia tornato a lavorare col Dramma Italiano, nella sua lingua materna. È casa sua. Ammiro e ringrazio Rosanna Bubola per averlo capito e per aver letto bene. Ha intravisto le immense qualità di quest’uomo, che per anni è stato il mio supporto artistico e che mi ha dato tanto dal punto di vista professionale. Nel caso di Sandro, posso dire senza alcuno scrupolo che il suo nuovo ruolo allo ‘Zajc’ (consulente artistico, nda) è un’ingiustizia rimediata in virtù di quanto è successo in passato”, afferma. Come si sente oggi, con questa splendida carriera alle spalle? “Sono felice come mai in vita mia. Mi sento molto più leggera e la cosa più curiosa è che non sento l’età. Dentro sono ancora una ragazzina. In passato credevo che la felicità fosse dovuta al successo in carriera, ma oggi so che non è così. Io la devo alla mia vita privata, al fatto, come dicevo prima, di essere amata e di amare. Le mie percezioni sono cambiate negli anni. Ho sempre vissuto in maniera spartana, in estrema disciplina. Non ho mai fumato né bevuto, ho sempre fatto sport e sono sempre stata attenta all’alimentazione e lo faccio tuttora. Per me non esistono ferie. Impazzirei se qualcuno mi dicesse di dovermi sdraiare in spiaggia per ore a prendere il sole. Non posso stare ferma un attimo e la mia mente è una turbolenza continua, è affamata di cose”. È l’amore, dunque, il suo motore? “Sì, l’amore e la dolcezza. Noi attori ci diamo così profondamente quando siamo in scena, regaliamo la nostra anima senza alcun freno, senza inibizioni, e poi, una volta calato il sipario, siamo grati per ogni singolo applauso. Io ringrazio il pubblico a lungo, proprio per questa mia enorme gratitudine”. Quali personaggi vorrebbe interpretare e che ancora non ha interpretato? “Indubbiamente Mata Hari. Le ho fatte tutte ed è rimasta ancora lei. Mi piacerebbe inoltre vestire nuovamente i panni di Filumena Marturano, e farlo nel mio teatro, in dialetto. Mi stuzzica anche il personaggio di Gabriella Ferri, la grande cantante italiana che ammiro tantissimo per quella sua voce così drammatica. Mi piace interpretare cantanti che sul palco sono anche attrici, senza rendersene conto”. Ha un desiderio irrealizzato? “Sì, vorrei tanto ricominciare a leggere. I libri sono così preziosi”. || Assieme a Sandro Damiani nel TNC di Spalato 6 spettacoli martedì, 28 febbraio 2017 la Voce del popolo FESTIVAL || Lucio Dalla mentre interpreta la canzone “4 marzo 1943” || Adriano Celentano nel 1961 ITEMPID’ORODELLARASSEGNACANOR UNA BREVE STORIA DEL FESTIVAL DI SANREMO, CHE QUALCHE SETTIMANA FA È GIUNTO ALLA SUA 67ª EDIZIONE N on è passato nemmeno un mese dalla conclusione della sessantasettesima edizione del Festival di Sanremo, che già ben pochi ricorderanno, non dico cinque, ma almeno tre canzoni in gara, tra cui la stessa vincitrice. E, se se lo ricorderà – parlo della maggioranza dei telespettatori – sarà per merito (o a causa) delle sfibranti trasmissioni televisive ad ogni ora del giorno, in cui i discografici, a pagamento e a tambur battente intruppano i propri contrattualizzati. Ciò cosa dimostra? Mi riferisco alla “dimenticanza” e alla sovresposizione dei Pinco e dei Pallino passati da Sanremo tre settimane fa? Al fondo, dimostra che l’offerta musicale, testo incluso, è generalmente scarsa e che, comunque, la rassegna ligure poco o nulla c’entri più quanto a manifestazione dedicata alla “canzone italiana”, ma sia diventata una passerella per cantanti. Cantanti? Diciamo qualche cantante e tanti “vocivendoli”. Ma non era sempre così. O meglio, è così da almeno una trentina d’anni, da quando il “villaggio” s’è fatto globale. Uhm... anche quaranta. Vediamo, percorriamo insieme i tredici lustri attraversati dal Festival, con l’aiuto di qualche nome e qualche titolo. Nulla di impegnativo. Così, da una parte per rinfrescare la memoria degli scontenti; e dall’altra per ricordare a chi non c’era, cosa c’era in tema di “canzone italiana”. canoro nazionale”, invece, si spense per banalissime ragioni economiche, in quanto l’organizzazione non godeva di quel consistente supporto finanziario senza il quale non era possibile chiamare a raccolta e spesare interpreti, orchestrali, squadre tecniche, ecc. Se Sanremo, viceversa, tiene botta è perché sin dall’inizio poggia su tre solide gambe: i soldi del Casinò – nel cui Salone si svolge la manifestazione – la neonata RAI e le società discografiche, le quali evidentemente sentono il bisogno di una rassegna canora dalla quale lanciare i propri “prodotti”. In là nel tempo interverranno altri cofinanziatori, privati e pubblici. lontani dal mutamento a cui assisteremo dalla seconda metà dei Sessanta, tuttavia, pervengono i primi segnali. Che sono dati, da un lato dalla nascita dei cantautori, primo fra tutti Domenico Modugno, e dall’altro dall’apparizione dei rockettari casalinghi, battezzati “urlatori”. «Nel blu dipinto di blu» Ed è proprio il “Mimmo nazionale”, nel 1958, con “Nel blu dipinto di blu” a innescare la miccia; da tenere comunque presente che la seconda versione del pezzo, interpretata da Johnny Dorelli, è in puro stile melodico “all’italiana”; e la canzone ne soffre, senonché il “ciclone pugliese” si rivela inarrestabile con le sue pennellate chagalliane, fuori dalla tradizione. Quella tradizione saldamente al “comando” dagli inizi: nel 1951 e nel 1952 Nilla Pizzi, rispettivamente con “Grazie dei fiori” e “Vola colomba”; nel 1953 Carla Boni/Flo Sandon’s con “Viale d’autunno”; nel 1954 Giorgio Consolini/Gino Latilla con “Tutte le mamme”; nel 1955 Claudio Villa/Tullio Pane con “Buongiorno tristezza”. Nel 1956 (si era optato per l’interprete singolo) è la volta di Franca Raimondi con “Aprite le finestre”. Nel 1957 – quando si torna all’antico recente – torna a trionfare Claudio Villa, con Nunzio Gallo (“Corde della mia chitarra”). Nel ‘58, come abbiamo detto, fa irruzione Modugno, ma alle sue spalle arrivano le melodiosissime “L’edera”, con la Pizzi e Tonina Torrielli e “Amare un’altra”, con Latilla e ancora Nilla Pizzi. Nel 1959, si riconferma, sempre in coppia con Dorelli, Modugno con “Piove”, ovvero l’interpretazione grintosa e quella carezzevole. Dietro a loro, “Io sono il vento” con il cantante lirico Arturo Testa e Gino Latilla, e “Conoscerti” con il triestino Teddy Reno e il Togliani. Si tenga presente che da un paio di anni siamo entrati nell’“era televisiva”, la quale spesso si guarda in compagnia, al bar, seduti ai tavolini. I locali, inoltre, hanno i jukebox. Insomma, ascolto e consumo sono centuplicati, ovvero è centuplicata pure l’offerta interna e internazionale. Ma per le strade, sotto la doccianelle balere si canta, si fischietta, si balla (su) motivi sanremesi. Noi abbiamo citato solo i vincitori della rassegna ligure. Ma, per esempio, nel ‘59 ci sono “Tua” di Jula De Palma, sensuale e proibitissima “avance” che l’esordiente Mina, extrafestival, canterà a modo suo, tra strilli e acuti; c’è “Nessuno” di Betti Curtis, che darà straordinaria visibilità a Dallara; c’è “Una marcia in fa”, presentata da due coppie: Dorelli-Betty Curtis e Latilla-Villa, canzoncina scherzosa tipo “La casetta in Canadà” o “Papaveri e papere”, nulla di tale, ma orecchiabile come poche altre... degli “urlatori”, Tony Dallara, con “Romantica” e dietro a loro “Libero” del Modugno in coppia con Teddy Reno. Quindi è la volta di Joe Sentieri e Wilma De Angelis, il duo (momentaneo) più simpatico del momento con “Quando vien la sera”. Sempre il genovese Sentieri porta alla manifestazione a pochi chilometri da casa sua “È mezzanotte”, che... mezza Italia canterà per tutto l’anno, mentre... tutta Napoli si commuoverà con “Il mare” di Sergio Bruni. Quest’edizione, col senno di poi, la ricorderemo anche per l’esordio festivaliero di Mina Mazzini (“È vero”, scritta dal cantautore Umberto Bindi, e cantata con Teddy Reno, cioé Ferruccio Merk Ricordi; e “Non sei felice”, con Betty Curtis.) Il 1961 segna il passo. Il primo premio se lo portano a casa Luciano Tajoli e la Curtis con “Al di là”, in compenso al secondo e al quarto e quinto posto troviamo i due mattatori degli ultimi sessant’anni musicali italiani: l’esordiente Adriano Celentano e la succitata Mina (per lei, seconda e ultima partecipazione). Il “molleggiato”, in coppia con il primo degli “Elvis de noantri”, Little Tony, si presenta con “24.000 baci”, mentre la “Tigre di Cremona” canta due pezzi: “Io amo, tu ami”, con Nelly Fioramonti, e “Le mille bolle blu”, con Jenny Luna. Ma questa edizione sanremese va ricordata anche per la robusta presenza di cantautori: Pino Donaggio, Gino Paoli (che formerà, con Dallara, la “strana coppia” del festival), Umberto Bindi, il Sentieri fresco vincitore di “Canzonissima”, Giorgio Gaber, Gianni Meccia (che venderà un sacco con “Patatina”), Edoardo Vianello, che dall’estate successiva per tre anni consecutivi tormenterà le estati italiane con i Watussi, le pinne e gli occhiali, le abbronzatissime, i twistaroli che dondolano. C’è pure Jimmy Fontana, ma la canzone non è sua, “Lady Luna”, in coppia con Miranda Martino. A proposito della quale, ma anche del festival sanremese, c’è da dire che due anni prima dell’esplosione del confronto a distanza Mina-Milva, inventato da discografici e giornalisti, era talmente famosa e gettonata, che per tre o quattro anni di seguito, aveva l’obbligo contrattuale di incidere un LP contenente tutte le canzoni finaliste di Sanremo. Vi immaginate oggi un/a cantante in grado di emulare la Martino? Quand’anche... cosa avrebbe da cantare questo/a poverino/a, a parte qua e lè qualche brano? Oggi, come quattro decenni fa... Notiamo, infine, come il testo della canzone vincitrice è firmato da tale Mogol... J Il Festival nacque nel 1951 Quando nacque, nel 1951 a Sanremo, il “Festival della canzone italiana” aveva alle spalle già due tentativi, uno fatto nel 1936 a Rimini ed uno effettuato nel 1948 a Viareggio. Entrambi non arrivarono alla terza edizione. Il primo, probabilmente anche a causa dei “venti di guerra” che cominciarono a soffiare sin dalla seconda metà degli anni Trenta. Non che il clima fosse cupo, più che tanto: l’Eiar (la RAI dell’epoca), anzi, ogni anno organizzava concorsi regionali e nazionali per giovani di talento alle prese sia con canzoni di successo che con canzoni composte per l’occasione; ogni città aveva i suoi “caffé concerto”, balere e “dancing” non si contavano. A Fiume, per esempio, il luogo principe era il Caffé Centrale, in cui alle spalle degli avventori, seduti ai tavolini, c’era una marea di persone accalcate intente ad ascoltare il o la cantante più o meno famoso/a, quanto meno in città. Il tentativo viareggino, denominato “Festival Depersonalizzazione dell’interpretazione I primi due anni sono effettivamente, diremmo “fanaticamente”, dedicati alla canzone italiana. Gli organizzatori, infatti, nel 1951 invitano ad esibirvisi tre soli interpreti: Achille Togliani, Nilla Pizzi e il Duo Fasano, in quanto a loro dire sarebbero quelli che meglio di ogni altro “leggono” e rendono l’idea di cosa è il prodotto musicale cantato italiano. Nel 1952, ad essi vengono affiancati Gino Latilla e Oscar Carboni, altre due voci “giuste”. Sono loro che eseguiranno tutte le canzoni in gara. Evidentemente discografici e autori reputano che solo attraverso la depersonalizzazione dell’interpretazione, giuria e ascoltatori sapranno apprezzarle. Il che in effetti non è del tutto sbagliato, senonché – altrimenti, perché dalla terza edizione “salta il banco”? - dal 1953 si ricomincia da zero. Evidentemente, passata la novità – temono i patron della kermesse - potrebbe subentrare nel pubblico la noia. In effetti... la seconda rassegna vede le prime tre canzoni interpretate dalla medesima cantante, Nilla Pizzi (nell’edizione d’esordio, fu prima e seconda). Oltre tutto, non è che durante l’anno i discografici e la stessa RAI (parliamo ovviamente di radiofonia) vadano in letargo. Anzi, nuove canzoni e nuovi cantanti sono all’ordine del giorno. E nuovi ritmi. Tutto ciò a sua volta condiziona, arricchisce e diversifica i gusti degli ascoltatori. E affina le idee dei musicisti. Dunque, dalla terza rassegna ogni brano in gara viene proposto addirittura da due interpreti. Il che, però, al tempo stesso il “festival della canzone italiana” va prendendo i connotati del “festival dei cantanti italiani”. Autori e arrangiatori, infatti, al momento della propria creazione artistica iniziano a immaginarne l’esecutore. Non è ancora un lavoro “ad personam”, ma avverrà a breve. Per ora compositori, arrangiatori e discografici puntano su una ristretta rosa di nomi per le proprie canzoni, tanto più che una diversificazione stilistica è già in atto e il tipico canto all’italiana sta lasciando il posto, con la sempre più massiccia influenza estera, a modi di cantare provenienti in primo luogo dall’America e dalla Francia. Intendiamoci, siamo ancora Renato Rascel, capostipite degli «urlatori» Nel 1960, a vincere è una coppia che in buona sostanza ricalca la maniera del “modulo” Modugno-Dorelli, ossia il tenerissimo Renato Rascel e il capostipite «Quando quando quando» L’edizione del 1962 vede vincitori la super coppia formata da Claudio Villa e Domenico Modugno, con interpretazioni che mettono in risalto sia le rispettive doti stilistiche e vocali che la bellezza della canzone “Addio... addio...”. A differenza, infatti delle accoppiate precedenti, qui non ci troviamo di fronte alla furbata (tu conquisti i tuoi estimatori, io i miei), ma all’esigenza spettacoli la Voce del popolo martedì, 28 febbraio 2017 || Gene Pitney nel 1965 || Nilla Pizzi nel 1956 7 di Sandro Damiani || Gigliola Cinquetti nel 1964 ORASONOFINITINEGLIANNISETTANTA del suicidio a poche ore dall’eliminazione, di Luigi Tenco. Ne abbiamo già parlato la volta scorsa, con un “ritratto” del Cantautore nell’inserto “Spettacoli”, perciò non torneremo sull’argomento. Di certo, la canzone “Ciao amore, ciao”, presentata con Dalida, meritava, non solo la finale, ma forse anche il titolo: italianissima nella linea melodica, italianissima per la storia che narra, ma niente affatto “sanremese”. Qui – sembra di sentire qualche giurato – non si fa politica, si fa musica! Infatti, il titolo va a “Non pensare a me” (Claudio Villa-Iva Zanicchi). In bella mostra, gli ospiti, assurdamente eliminati: Les Surfs (“Quando dico che ti amo”), Les compagnons de la chanson (“Io, tu e le rose”), il Pitney e la Francis (rispettivamente, con “La rivoluzione” e “Canta ragazzina”), Marianne Faithfull (“C’è chi spera”), Dionne Warwick (“Dedicato all’amore”), Sonny Bono e Cher (“Il cammino di ogni speranza”) e Cher senza Sonny (“Ma piano”), The Hollies (“Non prego per me”). Sia chiaro, tutte queste eliminazioni, se riferite alle rispettive canzoni e in alcuni casi agli interpreti italiani, sono meritate. È però un fatto, che le versioni straniere sono tutte di valore medio-alto. Ma tant’è. tradizione, quanto per le modalità con cui i musicisti italiani (compositori e arrangiatori) “sposano” la tradizione e le varie acquisizioni melodiche, ritmiche, armoniche estere. Vince “Zingara” (Bobby Solo-Iva Zanicchi); a seguire “Lontano dagli occhi” (EndrigoMary Hopkin), “Un sorriso” (Milva-Don Backy), “Un’ora fa” (Fausto Leali e Tony Del Monaco). Staccata “Un’avventura”, con un Wilson Pickett in gran forma, di fronte al quale Lucio Battisti – autore con Mogol - non ancora lo splendido interprete che impareremo ad amare, sembra uno scolaretto. Esordisce Nada con “Ma che freddo fa”. Tra gli eliminati di lusso, questa volta abbiamo Reuccio Claudio (Villa), con “Meglio una sera”, che nemmeno lui è in grado di “salvare”. Fuori anche un acerbo Stevie Wonder, insieme a Gabriella Ferri, interprete e co-autrice del niente male “Se tu ragazzo mio”. J || Domenico Modugno nel 1958 propria del brano che appunto può venire legittimamente cantato in entrambi i modi: il melodico a piena voce e il teatrale, quasi recitato. A questa edizione Tony Renis porterà “Quando quando quando”, che ben presto diventerà una delle canzoni italiane più eseguite nel mondo, dopo “O sole mio” e “Volare” (cioè “Nel blu dipinto di blu”); arriverà quarto, ma si rifarà l’anno dopo, battendo, con “Una per tutte”, assieme a Emilio Pericoli, per pochi punti di scarto su Claudio Villa in splendida forma con la sua “Amor, mon amour, my love”. Fra l’altro, erano anni che non si sentiva una canzone tipicamente italiana contenente una frase in un’altra lingua; che fino a un paio di anni addietro andavano di moda, grazie soprattutto a Nicola Arigliano e al compianto Fred Buscaglione. Il 1964 e il 1965 Sanremo si fa totalmente internazionale: ad ogni interprete italiano è affiancato uno straniero, con l’obbligo di cantare in italiano. Va da sé, non tutti ci riescono, con esiti talvolta buffi. Il ‘64 è l’anno di Gigliola Cinquetti, già vincitrice del Festival di Castrocaro Terme, per soli debuttanti. Sbaraglia la concorrenza con una delle più belle canzoni che si siano ascoltate a Sanremo: “Non ho l’età” (in coppia con la francofona italo-belga Patricia Carli). Trionferà pure all’Eurosong di quell’anno, la prima volta per l’Italia. Dietro di lei troviamo Domenico Modugno e Frankie Laine, poco noto in Italia, ma negli USA uno dei nomi più gettonati, in taluni casi più di Sinatra e Crosby. Quindi, abbiamo il Dallara con (udite, udite) Ben E. King. Tra gli stranieri in gara: Paul Anka, Gene Pitney, Frankie Avalon, i tre giovani che negli States vanno per la maggiore, con Neil Sedaka, qui già noto (“I capricci tuoi”). «Legione straniera» Nel 1965, la “legione straniera” presenta una formidabile cinquina di voci femminili: la megastar italoamericana Connie Francis (Concetta Rosamaria Franconero), la sua connazionale, pur essa oriunda, Timy Yuro (Rosemarie Timotea Aurro) e una delle regine del country, Jody Miller, e le britanniche Petula Clark e Dusty Springfield. Grazie alla Miller, la canzone di Pino Donaggio, “Io che non vivo (senza di te)”, col quale canta in coppia, diverrà il brano italiano più venduto al mondo dell’anno. Inoltre, ci sono il Pitney e Udo Jürgens. Vinceranno Bobby Solo e i New Christy Minstrels, con “Se piangi, se ridi”. I maligni dicono: lo hanno premiato per scusarsi della gaffe dell’anno precedente, quando si presentò con “Una lacrima sul viso”. Una canzone bella davvero, ma la pudìca Gigliola era un’altra cosa... L’edizione ‘66 va a Modugno (quarto successo) e alla predetta Cinquetti, con “Dio come ti amo”. Alle loro spalle, la rivelazione Caterina Caselli e, per il terzo anno a Sanremo, Gene Pitney, interpreti di “Nessuno mi può giudicare”. Ma questa è anche l’edizione più contestata. Infatti, l’eliminazione di “Il ragazzo della Via Gluck” è un brutto scivolone per la giuria, come confermeranno il milione di dischi venduti in quell’anno. Nota curiosa, con domanda rimasta in aria fin da allora: che ci fanno a Sanremo gli Yardbirds, un complesso rock inglese assai quotato in patria e in Europa? Ma è pure l’anno del debutto di un piccoletto tutto peloso, scatti e nervi, dall’orecchio inconfondibile: Lucio Dalla. Il Sanremo numero 17, se da un lato presenta un nutrito pacchetto di buonissime canzoni per palati diversificati, dall’altro lato lascia in bocca un gusto tragicamente amaro. È l’anno Louis Armstrong, la torta con la ciliegina Il 1968 si presenta con numerose bellissime canzoni: una torta con la ciliegina dal nome Louis Armstrong (“Mi va di cantare”). Vince la struggente “Canzone per te” di un Sergio Endrigo in forma smagliante, con Roberto Carlos che di suo ci mette l’immancabile pizzico di saudade brasiliana. Ornella Vanoni-Marisa Sannia (“Casa bianca”) al secondo posto; Milva-Celentano (Canzone”) al terzo. Entrambi i brani, musicalmente parlando, sono di Don Backy, la cui carriera dall’oggi al domani viene semistroncata a seguito dello scontro con Celentano, probabilmente geloso dal successo del cantautore toscano. Alle loro spalle, il Numero uno del R&B, Wilson Pickett, e l’astro nascente del Soul all’italiana, Fausto Leali (“Deborah”, scritta dall’avvocato Paolo Conte). Tra i nomi del firmamento pop straniero ci sono Bobby Gentry (“La siepe”), Lola Falana, in coppia con Satchmo, ed ancora la Warwick che farà de “La voce del silenzio” un hit internazionale (“Silent voices”). Tra i bocciati, troviamo niente meno che Domenico Modugno-Tony Renis (“Il posto mio”), Eartha Kitt (“Che vale per me”) e Shirley Bassey (“La vita”, che grazie ad un arrangiamento appropriato diverrà uno dei suoi cavalli di battglia, con il titolo inglese, “This is my Life”); infine, Paul Anka-Johnny Dorelli (“La farfalla impazzita”) e Pino donaggio-Timi Yuro (“Le solite cose”). Torno a ripetere: vincitori, vinti ed eliminati, intendiamo i brani, sono cantatissimi, reincisi da altri interpreti, presenti nei repertori dei gruppi che si esibiscono nei night e nelle balere. Nel 1969, abbiamo una Sanremo molto “italiana”, non solo per la tipologia delle canzoni immancabilmente entro la «Chi non lavora non fa l’amore» Il 1970 è l’anno del “crumiro” Adriano Celentano, che con Claudia Mori canta la divertente e ironica “Chi non lavora non fa l’amore”. Alle loro spalle, Nicola Di Bari-Ricchi e Poveri (“La prima cosa bella”) e Sergio Endrigo-Iva Zanicchi con “L’Arca di Noé”, che avrebbe meritato fors’anche il primo posto... ma Sanremo doveva farsi perdonare l’eliminazione del “Ragazzo della Via Gluck” di Celentano, che puntualmente la critica più intelligente gli rinfacciava... Dietro a queste tre canzoni, il vuoto o quasi. Di rilievo, il ritorno di uno stanco e non più “usignolico” Luciano Tajoli (“Sole pioggia e vento”), insieme ad un ambiguo efebico Mal, ex Primitives; di una Rita Pavone, ombra della sbarazzina di soli cinque anni prima (“Ahi, ahi ragazzo!”) e di uno stanco Renato Rascel (“Nevicava a Roma”, dove il riferimento all’Urbe avrebbe dovuto essere lo specchietto per le allodole... do you remember “Arrivederci Roma”?). Da ricordare il debutto di tale Rosallino Cellamare, in seguito Ron (“Pa’ diglielo a ma’”). Pattuglia straniera ridotta, ma anche in sordina: Sandie Shaw, Nino Ferrer, Antoine, Rocky Roberts (che per il resto della carriera camperà su “Stasera mi butto”); sorvoliamo sui titoli, per amore delle note. Seconda eliminazione di Claudio Villa (“Serenata”), ma non si esclude una futura “zampata”. In fondo non sono i leoni, dei “re”? Il 1971 si presenta bene. Nicola di Bari, da qualche anno in ascesa, si aggiudica Sanremo con “Il cuore è uno zingaro” (con Nada). Dietro di lui, “Che sarà”, piacevolmente cantata dai Ricchi e Poveri, ma che ha in José Feliciano il trascinatore a livello mondiale. Terzo piazzato, Lucio Dalla, con una delle più belle canzoni italiane di tutti i tempi: “4 marzo 1943”. In origine, il titolo era “Gesù bambino”, ma il capataz religioso della Liguria è il cardinale Giuseppe Siri, guardiano della Tradizione, del quale Dario Fo disse: “È arrivato dritto dritto dal Medio Evo”. Segue a pagina 8 8 spettacoli martedì, 28 febbraio 2017 la Voce del popolo NOVITÀ DOPO LO STREPITOSO SUCCESSO DEL PRIMO FILM, È IN CANTIERE IL SEQUEL || I Pooh nel 1990 Dalla pagina 7 Agguerrita la presenza di “big” italiani. Modugno, Celentano, Don Backey, la Cinquetti in coppia con Ray Conniff e la sua band; Donaggio e Peppino Di Capri, I Giganti, I Nomadi, addirittura i Mungo Gerry. Agguerrita, ma il livello medio delle musiche lascia a desiderare. Oramai, la musica si fa, in termini temporali, altrove, cioé durante tutto l’anno. Chi ha un buon prodotto, non aspetta più Sanremo per lanciarlo, mancassero anche solo due mesi all’appuntamento. Radio e televisione abbisognano di canzoni, cantanti/personaggi come il pane; non bastasse, gli italiani, per lo meno i giovani, sono sempre più infatuati delle star estere; il pop e il rock inglesi e quelli statunitensi con in più il Soul e l’R&B, e la nuova musica brasiliana hanno già messo in ombra la grande chanson francese, ci vuole poco per far saltare il banco anche in Italia. E poi, quelli che oramai vanno per la maggiore, in primo luogo i complessi e i cantautori, di mettersi in concorso non interessa proprio. Insomma, il Festival della canzone italiana è nella sua fase discendente. Ovviamente, non mancheranno pezzi di tutto rispetto, due, massimo tre a rassegna, ma nulla di più. di più”, con il trio formato da Gianni Morandi, Enrico Ruggeri e l’autore del pezzo, Umberto Tozzi. Debutta Fiorella Mannoia con “Quello che le donne non dicono”. Bisogna arrivare al 1989 per avere un pezzo meritevole di menzione: “Ameno tu nell’universo” con Mia Martini, la sua seconda Sanremo, dal 1982 quando presentò “E non finisce mica il cielo”. La vittoria di questa edizione di fine decennio va a “Ti lascerò” con un vero e proprio duetto: Anna Oxa e Fausto Leali. p Edizione 1972: il canto del cigno Il canto del cigno sarà l’edizione del 1972, con il nuovo ritorno all’antico: un interprete a canzone: “I giorni dell’arcobaleno” di Nicola di Bari, “Jesahel” dei Delirium, “Montagne verdi” di Marcella Bella... una bella rivelazione; “Piazza grande” di Lucio Dalla. Nel 1973 si distinguono Peppino di Capri, vincitore con “Un grande amore e niente più” e Gilda con “Serena”. Fino al 1981, avremo un festival in sordina, con rari “nomi”, tanti esordienti, qualche straniero semisconosciuto e il corollario di ospiti: comici, cantanti e arte varia. Quand’ecco spuntare Alice con “Per Elisa”, composta da Franco Battiato e la stupenda “Ancora” di Eduardo De Crescenzo. La grande novità del decennio è la scomparsa dell’orchestra. L’accompagnamento musicale, cioé, è in play-back. Nell’82 abbiamo l’intramontabile “Vacanze romane” dal sapore Anni Trenta, dei Matia Bazar (ma non vince) e “Margherita non lo sa” di Dori Ghezzi. Il pieno successo, postfestivaliero, va al motivetto assai orecchiabile e furbacchione “L’italiano” di Toto Cutugno. Tiene bene “La mia nemica amatissima” con un ritorno dopo un decennio di semiassenza, di Gianni Morandi. Nel 1987, grande e sincero momento di commozione quando in presa diretta il presentatore (Pippo Baudo) riferisce della morte in un ospedale di Padova, di Claudio Villa, plurivincitore (quattro volte) di Sanremo. Vince “Si può dare I Pooh con «Uomini soli» Nel 1990 vincono i Pooh con “Uomini soli”, ma l’attenzione del pubblico, in teatro come davanti al televisiore, è tutta rivolta agli ospiti stranieri accoppiati ai colleghi italiani, i quali naturalmente sempre più mettono in ombra i protagonisti del Festival... I Pooh vincono, ma sono in coppia con la nuova star del jazz, Dee Dee Bridgewater. Toto Cutugno è secondo, ma in compagnia di Ray Charles... e poi c’è l’ex enfant prodige Nikka Costa (con Mietta e Minghi), La Toya Jackson con Marcella, Sandy Shaw con Milva (ma la Padana è di un altro pianeta: che cosa ci faccia a Sanremo è un segreto da esorcisti), Toquinho con Paola Turci), Mamma Afrika-Miriam Makeba con Caterina Caselli, Jorge Ben con Ricchi e Poveri. Sarà l’ultimissimo Sanremo degno di (tanta) nota. A qualcosa pare che sia servito: nel 1991 c’è un piccolo risveglio rispetto a due anni prima. Riccardo Cocciante vince con “Se stiamo insieme”. Ci sono alcuni big del momento: Renato Zero, Marco Masini, Umberto Tozzi, Riccardo Fogli, Al BanoRomina. Ma manca la musica... Solo i Tazenda e Francesco Bartoli riescono a dare un fremito con “Spunta la luna dal monte” e l’istrionesco e ironico Enzo Jannacci con “La fotografia”. Amedeo Minghi si salva con “Nené”. Segnalo, come campioni di pessimo gusto – ma sono i tempi “draivinnati” dalle televisioni berlusconiane - “Siamo donne” con Sabrina Salerno e Jo Squillo. Nel frattempo, sono stati inventati altri premi (esordienti, testo, critica, ecc.), mentre il Festival è diventato un’altra cosa, con una tenitura folle, tre, poi quattro infine cinque serate. Spettacolo, tanto e non sempre bello, anzi. Le canzoni? Alle volte ci scappa una ascoltabile, e non sempre per intera... Nel 1995, uno sprazzo di luce: “Con te partirò”, la voce è del tenore toscano Andrea Bocelli. Ma vince la figlia di un musicista; si chiama come la canzone di Ray Charles che suo padre predilige, Giorgia. Il brano si intitola “Come saprei”. “Vorrei incontrarti fra cent’anni”, è l’intelligente brano di Ron che vince nel 1996. Tre anni dopo, mai successo in precedenza: i primi tre posti ad altrettante cantanti. Meritevolmente quanto a interpretazione. E anche le canzoni sono pregevoli: Anna Oxa “Senza pietà”, Antonella Ruggiero “Non ti dimentico”, Mariella Nava “Cos’è la vita”. Quarta, ma in duetto con Enzo Gragnaniello, la ultrasessantenne Ornella Vanoni (“Alberi”). Da allora ad oggi, è assai difficile il solo ricordare qualche motivetto sanremese, figurarsi titoli, nomi, classifiche. Forse l’ultimo degno di menzione è il professor Roberto Vecchioni che a quasi settant’anni pianta la bandierina in cima e vince nel 2011 con “Chiamami ancora amore”. q la Voce del popolo Anno 3 / n. 14 / martedì, 28 febbraio 2017 IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina [email protected] SPETTACOLI Edizione Caporedattore responsabile f.f. Roberto Palisca Redattore esecutivo Helena Labus Bačić Impaginazione Denis-Host Silvani Collaboratori Sandro Damiani, Gianfranco Miksa, Ivana Precetti, Dragan Rubeša Foto Creative Commons, Pixsell, Reuters, archivio DEADPOOL2: LERIPRESE INIZIANOAGIUGNO D eadpool tornerà a divertire e a dispensare con disinvoltura il suo umorismo irriverente e al limite del politicamente corretto. Dopo lo strepitoso successo del primo film, tenuto per anni lontano dalle sale cinematografiche dalla Fox e infine rilasciato dopo che un leak del materiale in Rete aveva fatto impazzire gli appassionati dell’universo Marvel, è pianificato per giugno l’inizio delle riprese del sequel Deadpool 2. Chissà che non riesca a ripetere, o magari superare, i risultati del primo film che divenne campione di guadagni della franchise X men. La pre-produzione, però, non è passata senza problemi, in quanto dal sequel si è ritirato il regista del primo film, Tim Miller, a causa di divergenze creative con il protagonista e autore del progetto, Ryan Reynolds, per cui è stato rimpiazzato da David Leitch. Nel processo di stesura della sceneggiatura è stato coinvolto anche Drew Goddard, autore, tra l’altro, della sceneggiatura di The Martian, per la quale ottenne una nomination all’Oscar. Tre mesi di riprese Stando alla Gilda dei registi del Canada, le riprese, che erano state rimandate di qualche mese – forse anche per dare più tempo agli sceneggiatori e per finalizzare il casting - dovrebbero iniziare il 19 giugno e concludersi tre mesi dopo, ovvero il 18 settembre. Per quanto riguarda il cast, si parla del coinvolgimento di Pierce Brosnan e Russel Crowe, mentre Kerry Washington sarabbe la favorita per il ruolo di Domino. Stando al produttore Simon Kinberg, Deadpool 2 dovrebbe trovarsi nelle sale cinematografiche nel mese di marzo del 2018. “La sceneggiatura è davvero eccellente e al momento siamo nel processo di casting per alcuni dei nuovi personaggi – ha spiegato -. Non ce ne sono molti, ma sono importanti”, ha concluso Kinberg. (hlb)