Antoine Volodine (l`autore che si cela sotto lo pseudonimo di

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Antoine Volodine (l`autore che si cela sotto lo pseudonimo di
Antoine Volodine (l’autore che si cela sotto lo pseudonimo di Manuela
Draeger) è nato nel 1949 o nel 1950 o a Lione o a Chalon-sur-Saone
in una famiglia di origine russa. Nel 1985 esordisce come scrittore con
Biographie comparée de Jorian Murgrave, un romanzo che lo inserisce
subito tra i nomi più noti della fantascienza, genere nel quale continua
a muoversi per qualche anno, aggiudicandosi tra l’altro il Grand prix de
la science-fiction française nel 1987 con Rituel du mépris. Dal 1990,
con Lisbonne, dernière marge, abbandona la fantascienza e inizia
la pubblicazione di un numero sterminato di romanzi e saggi, usando
numerosi pseudonimi, tra i quali i più famosi sono Manuela Draeger
e Lutz Bassmann e affronta un universo oscuro e disperato ma carico di
passione e di voglia di combattere contro l’oppressione delle regole. Tra i
suoi romanzi più noti possiamo ricordare Alto Solo (1991), Le Nom
des singes (1994), Des anges mineurs (2000, Prix du Livre Inter),
Vociférations (2004). Nel 2012 Edizioni Clichy ha pubblicato Scrittori,
libro firmato senza pseudonimi, e prima uscita in lingua italiana.
Gare du Nord
La frenesia e la multiculturalità della parigina Gare du Nord raccontano il
carattere composito della collana di narrativa contemporanea di Edizioni
Clichy, dedicata alla scrittura di stampo letterario, principalmente
francofona ma non solo: storie, esseri umani, vite, colori, suoni, silenzi,
tematiche forti, autori dal linguaggio inconfondibile, senza timore di
assumere posizioni di rottura di fronte all’establishment culturale e sociale o
di raccontare abissi, sperdimenti, discese ardite ma anche voli e flâneries.
«Onze rêves de suie»
de Manuela Draeger
© 2010 Éditions de l’Olivier - Paris
Per l’edizione italiana:
© 2013 Edizioni Clichy - Firenze
Edizioni Clichy
Via Pietrapiana, 32
50121 - Firenze
www.edizioniclichy.it
Isbn: 978-88-6799-051-1
Manuela Draeger
(Antoine Volodine)
Undici sogni neri
Traduzione di Federica Di Lella
Edizioni Clichy
Undici sogni neri
Il Bolscio Pride
.1.
Il tuo nome è Imayo Özbeg. Stai bruciando. Vengo a
te. I miei ricordi sono i tuoi.
Il tuo nome è Imayo Özbeg. Siamo cresciuti nello
stesso dormitorio. Stai bruciando. Vengo a te. In questo
momento veniamo tutti verso di te. I miei ricordi sono i
tuoi.
Il tuo nome è Imayo Özbeg, e da sempre ci consideriamo membri della stessa famiglia. Abbiamo in mente
immagini della stessa strada, con porte chiuse da inferriate e corridoi che davano sulle tenebre o sulla sofferenza
muta dei poveri o sul nulla. Abbiamo frequentato la stessa scuola. Siamo cresciuti con le stesse nonne, gli stessi
zii e le stesse zie, e per anni abbiamo dormito nello stesso
dormitorio. Insieme agli adulti sfilavamo anche noi nel
corteo dell’Orgoglio Bolscevico. Quest’anno le cose sono
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Manuela Draeger
andate storte. Stai bruciando. Vengo a te. In questo momento siamo con te. Veniamo tutti verso di te. Ci scambiamo gli ultimi sospiri. La memoria ti scorre fuori dagli
occhi. I miei ricordi sono i tuoi.
Il tuo nome è Imayo Özbeg, e chi vuole incontrarti
deve vagare per un po’ nel quartiere di Amaniyak Kree, al
centro del Caseggiato Negrini. Anche in futuro, per rivederti e parlarti, bisognerà vagare, ma solo dopo un lungo
tragitto in un altro mondo, e niente ci assicura che quel
mondo esista. Da sempre ci consideriamo membri della
stessa famiglia. Abbiamo in mente immagini della stessa
strada, con porte chiuse da inferriate e corridoi che davano sulle tenebre, o sulla sofferenza muta dei poveri, o sul
nulla. Le strade erano contrassegnate da numeri, ma noi
preferivamo chiamarle con i nomi dei nostri eroi e delle
nostre eroine, con i nomi dei nostri fieri combattenti, con
i nomi dei nostri martiri. Adiyana Soledad, Leel Furmanova, Iada Thünal, Ravial Mawash, Dolmar Dong.
Abbiamo frequentato la stessa scuola, di fronte al dormitorio Dumna Tathai. Eri molto amico del mio fratellino. Per due anni siete stati compagni di banco. Siamo
cresciuti con le stesse nonne, gli stessi zii e le stesse zie,
e per anni abbiamo dormito nello stesso dormitorio. Insieme agli adulti sfilavamo anche noi nel corteo dell’Orgoglio Bolscevico. Quando torno molto indietro con la
memoria, quando mi avvicino alle nebbie che precedono l’infanzia cosciente, rivedo ancora le immagini delle
manifestazioni e dell’allegria di quei giorni. Deformate,
frammentarie, reinventate, ma le rivedo. Certo, bisogna
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dire che nel grigiore della nostra vita quotidiana quell’evento era un’improvvisa esplosione di colore. Ogni anno,
verso metà ottobre, si celebrava la festa dell’Orgoglio Bolscevico, o Bolscio Pride. Ricordi come allietava la nostra
infanzia, quell’evento? Insieme a tutte le altre famiglie dei
ghetti della zona ci univamo alla fiumana di persone che
andavano a manifestare. Grandi e piccoli, nessuno rinunciava a quel piacere, e quella era anche l’unica occasione,
in dodici mesi, in cui sentivamo la gente ridere a crepapelle un po’ ovunque attorno a noi. Quest’anno le cose
sono andate storte, il Bolscio Pride è stata la festa della
violenza e del dolore.
Stai bruciando. Vengo a te. In questo momento siamo
con te. Veniamo tutti verso di te. Ci scambiamo gli ultimi
sospiri.
La memoria ti scorre fuori dagli occhi.
I miei ricordi sono i tuoi.
Il tuo nome è Imayo Özbeg, e chi vuole incontrarti
deve vagare per un po’ nel quartiere di Amaniyak Kree, al
centro del Caseggiato Negrini. Anche in futuro, per rivederti e parlarti, bisognerà vagare, ma solo dopo un lungo
tragitto in un altro mondo, e niente ci assicura che quel
mondo esista. Sia che tu decida di startene laggiù lontano
da tutti, che tu scelga di rintanarti laggiù come un lupo
malato, sia che al contrario tu voglia ricevere molte visite,
sarà difficile trovarti. Sappiamo tutti che presto fra noi si
spalancheranno voragini spaventose e invalicabili. Non
appena ti sarai spento, saremo separati da un’infinità di
ostacoli. Ma non parliamo del futuro. Non parliamo di
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ciò che è incerto e incomprensibile. Parliamo del passato,
guardiamo scorrere per l’ultima volta gli anni in cui siamo
stati insieme, in cui siamo ancora saldamente insieme.
Parliamo della nostra infanzia. Da sempre ci consideriamo membri della stessa famiglia. Abbiamo in mente
immagini della stessa strada, con porte chiuse da inferriate e corridoi che davano sulle tenebre, o sulla sofferenza
muta dei poveri, o sul nulla. Le strade erano contrassegnate da numeri, ma noi preferivamo chiamarle con i
nomi dei nostri eroi e delle nostre eroine, con i nomi dei
nostri fieri combattenti, con i nomi dei nostri martiri.
Via Adiyana Soledad, via Leel Furmanova, vicolo Iada
Thünal, corso Ravial Mawash, passaggio Dolmar Dong.
Abbiamo frequentato la stessa scuola, di fronte al dormitorio Dumna Tathai. Eri molto amico del mio fratellino. L’ultimo anno delle elementari siamo stati seduti
allo stesso banco. Siamo cresciuti con le stesse nonne, gli
stessi zii e le stesse zie, e per anni abbiamo dormito nello stesso dormitorio. Insieme agli adulti sfilavamo anche
noi nel corteo dell’Orgoglio Bolscevico. Quando torno
molto indietro con la memoria, quando mi avvicino alle
nebbie che precedono l’infanzia cosciente, rivedo ancora le immagini delle manifestazioni e dell’allegria di quei
giorni. Deformate, frammentarie, reinventate, ma le rivedo. Certo, bisogna dire che nel grigiore della nostra vita
quotidiana quell’evento era un’improvvisa esplosione di
colore e che anche una bambina in fasce poteva accorgersi
della differenza.
Ogni anno, verso metà ottobre, si celebrava la festa
dell’Orgoglio Bolscevico, o Bolscio Pride. Ricordi come
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allietava la nostra infanzia, quell’evento? Insieme a tutte
le altre famiglie del Caseggiato Negrini e dei ghetti della
zona ci univamo alla fiumana di persone che andavano a
manifestare. Grandi e piccoli, nessuno rinunciava a quel
piacere, e quella era anche era l’unica occasione, in dodici
mesi, in cui sentivamo la gente ridere a crepapelle un po’
ovunque attorno a noi.
In teoria il Bolscio Pride era vietato, ma eravamo così
tanti a ignorare il divieto che quel giorno la polizia preferiva chiudere un occhio, si teneva a distanza e interveniva
solo verso la fine per disperderci, quando i più esaltati di
noi cominciavano a esprimere a suon di molotov la rabbia per aver sprecato tutte le occasioni, oppure approfittavano della confusione per linciare qualche spia o qualche
infiltrato. Va detto però che, già a quell’epoca, le autorità
ci consideravano poco più che innocui relitti, grotteschi
spettri del passato, mummificati, imbalsamati e ridicoli,
e che ci concedevano il permesso di manifestare solo per
dare una valvola di sfogo al nostro malcontento, oltre che
- credo - per aggiornare gli schedari dei potenziali sovversivi e valutare concretamente lo stato delle nostre forze.
Infatti, lungo il percorso dell’immenso corteo o in giro
tra gli stand, si incontravano spesso individui dall’aspetto
losco, vestiti come tutti gli altri, con logori abiti militari,
ma muniti di sofisticati apparecchi fotografici o di minuscole telecamere. Erano i tipi come quelli che finivano
sbudellati al termine del corteo, se non avevano avuto
l’intelligenza di squagliarsela in tempo. A quel punto i
nostri komsomol’cy non gli lasciavano scampo e, sia detto per inciso, non ho nessuna intenzione di compiangerli,
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specie in un giorno come questo in cui abbiamo perso
tanti compagni.
Quando ripenso al Bolscio Pride, e presumo che le tue
impressioni non siano molto diverse dalle mie, per prima
cosa mi tornano in mente le immagini sbiadite della mia
primissima infanzia, vedo una ressa di gambe e ginocchia
fra cui mi devo intrufolare, sento il frastuono assordante, ininterrotto dei manifestanti in marcia. Se cado mi
tirano su. Quando sono stanca qualcuno mi porta sulle
spalle, uno zio, mio padre, non lo so. Da lassù, in equilibrio precario, costretta per non scivolare a sporgermi in
avanti verso quei capelli che sanno di sudore e di legno
umido, domino la sterminata marea di gente. Chiunque
sia quell’uomo, mio zio, mio padre o un altro adulto
del gruppo, mi regge solo per una caviglia, perché l’altra
mano, chiusa a pugno, gli serve per indirizzare le sue urla
selvagge contro il cielo e contro i capitalisti. Non capisco
una parola di quello che grida la folla. Mi abbarbico alla
fronte del mio portantino. Ho quasi paura della massa
inferocita che mi circonda. Ho paura di finire per terra
e di essere calpestata dalle schiere proletarie. La paura mi
eccita. Urlo anch’io, lancio grida acutissime rivolte a me
stessa più che al nemico. Sono al settimo cielo.
Rivedo poi immagini più recenti, che risalgono a
un’età in cui ero già in possesso del linguaggio e in cui
forse avevo già acquisito i primi rudimenti dell’ideologia egualitaria. Ricordo l’emozione elettrizzante della sera
prima, quando spacchettavo il travestimento che gli adulti mi avevano preparato perché il giorno dopo facessi bella figura. Il più delle volte non badavano al fatto che fossi
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una bambina e mi vestivano da Dzeržinskij. Io ero tutta
fiera di indossare un berretto di feltro da soldato e di appiccicarmi sulla faccia barba e baffi finti. Al mio fratellino
invece mettevano quasi sempre un costume da Čapaev. E
a lui naturalmente non dispiaceva interpretare, durante la
festa, la parte di un personaggio così famoso, così eroicamente rivoluzionario, ma a volte aveva qualche perplessità sul cappello che gli calcavano in testa, un tocco che la
Nonna Holgold e le altre vecchiette avevano raffazzonato
con i ritagli di una coperta sfilacciata e che ricordava solo
molto alla lontana quello magnifico, di astrakan nero,
portato dal comandante della venticinquesima divisione.
Il mio fratellino trovava che il suo tocco fosse meno elegante del mio berretto, e la sua delusione era ancora più
grande quando confrontavamo i suoi semplici baffi neri
con il mio bel pelo dzeržinskiano, meno folto ma duplice.
Quindi spesso, da buoni amici, ci scambiavamo quegli
accessori da capi implacabili, che di conseguenza si sciupavano molto rapidamente. Finivamo così per diventare
degli ibridi più carnevaleschi che rivoluzionari, cosa che
gli adulti non si curavano di rimproverarci. Eravamo solo
dei bambini. Si chinavano per sbaciucchiarci o per sistemarci gli elastici che tenevano fermi i nostri costumi. A
volte, ridendo, dicevano qualche ovvietà sulla nascita della Čeka o sulle mitragliatrici degli Urali. Ma perlopiù si
limitavano a incoraggiarci affettuosamente a crescere e a
continuare così. Era un po’ vago come consiglio, tuttavia
forse già allora capivamo che cosa intendevano: dovevamo restare fedeli alla causa dei vinti, persistere nella lotta
nonostante l’irreversibilità della sconfitta, infervorarci al
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pensiero delle occasioni perdute. Saremmo cresciuti anche noi e, fino alla morte, avremmo tenuto alte le bandiere di tutte quelle catastrofi.
Il fermento suscitato dalla festa coinvolgeva più o
meno tutte le persone che conoscevamo, adulti e bambini, esaltati e depressi, sbruffoni logorroici e tipi taciturni
dal piglio ribelle. Il Bolscio Pride era alle porte, la grande
manifestazione popolare, con la sua fragorosa e dilagante
ondata di entusiasmo. Per una o due settimane l’atmosfera in famiglia e nel ghetto cambiava radicalmente. Lo
sconforto veniva accantonato. La sensazione di non avere
futuro si attenuava. Di colpo avevamo tutti la certezza di
appartenere a una comunità di valorosi, di proletari intrepidi, lucidi e ottimisti, destinati a partecipare, di lì a poco,
a qualcosa di radioso, che avrebbe spezzato la nostra millenaria tradizione di disfatte, asservimento, e declino. La
gente si parlava da una casa all’altra in modo diverso dal
solito, le voci erano come rianimate dall’imminente prospettiva di una nuova fratellanza insurrezionale. Si sentivano echeggiare senza sosta canti provenienti da radio a
galena sfuggite alle perquisizioni o da fonografi a cilindro
che erano stati riparati e oliati alla meno peggio durante
l’estate, ma che, nonostante gli sforzi dei nostri tecnici
rossi, di rado funzionavano per più di mezza giornata. La
musica rivoluzionaria, i cori dei komsomol’cy e i tanghi
sovietici degli anni Trenta del XX secolo, così importanti
per la nostra cultura, accompagnavano i preparativi della
manifestazione ventiquattro ore su ventiquattro. Le tante prove e le ripetute verifiche, tuttavia, avevano conseguenze fatali sul meccanismo di quei vecchi apparecchi,
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che spesso poi, il giorno del vero e proprio Bolscio Pride,
invece delle trascinanti melodie popolari, diffondevano
solo gracchianti singhiozzi o restavano addirittura muti.
In ogni caso le radio e gli altoparlanti superstiti erano più
che sufficienti a dare un carattere trionfale al sottofondo
sonoro dell’evento.
In quel periodo dell’anno la Nonna Holgold ringiovaniva visibilmente. Gli adulti lo ripetevano spesso chiacchierando e scherzando fra loro, e lei stessa lo ammetteva
con un pizzico di malizia, affrettandosi ad aggiungere che
il vento e i profumi di ottobre le avevano sempre stimolato la circolazione, rigenerato i neuroni e fatto scomparire
dalla pelle le macchie di vecchiaia.
Quest’anno invece le cose sono andate storte, il Bolscio Pride è stata la festa della violenza e del dolore.
Stai bruciando. Vengo a te. In questo momento siamo
con te. Veniamo tutti verso di te. Ci scambiamo gli ultimi
sospiri.
La memoria ti scorre fuori dagli occhi.
I miei ricordi sono i tuoi.
.2.
Stai bruciando al primo piano dell’edificio Kam Yip.
Tutto crepita intorno a te. Drogman Baatar è morto. Veniamo tutti verso di te. Ci scambiamo gli ultimi sospiri. I
miei ricordi sono i tuoi.
Stai bruciando al primo piano dell’edificio Kam Yip.
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Tutto crepita intorno a te. Drogman Baatar è morto.
Vengo a te. In questo momento siamo con te. Veniamo
tutti verso di te. Ci scambiamo gli ultimi sospiri.
La memoria ti scorre fuori dagli occhi.
I miei ricordi sono i tuoi.
Stai bruciando al primo piano dell’edificio Kam Yip.
Tutto crepita intorno a te. Drogman Baatar è morto. Anche Elli Zlank brucia da qualche parte al pianterreno.
Maryama Adugai non grida più per invocare aiuto.
Abbiamo convissuto con gli incendi fin dalla nostra più
tenera infanzia. Nelle case del campo gli impianti elettrici
erano difettosi, i cortocircuiti erano all’ordine del giorno.
Di solito non facevano danni, e le uniche conseguenze
erano il black-out e la puzza di plastica fusa. A volte però
erano più gravi, e allora dovevamo evacuare i locali in
fretta e furia, tra le urla, il fumo e il panico generale. Poi
c’erano le bombe che il nemico lanciava dal cielo e che
suscitavano sempre fiamme altissime e grande dolore.
Per questo, anche nei periodi di tranquillità, avevamo
l’impressione di essere al tempo stesso dei sottouomini e
degli abitanti delle rovine e del fuoco.
Ricordo i libri che leggevamo, le storie che gli adulti
ci raccontavano. La nostra cultura era piuttosto eclettica,
ma in molti casi rifletteva la realtà della nostra vita quotidiana: una fratellanza egualitaria eternamente mutilata,
uno scenario di ceneri, sbarre e segregazioni, un cielo pesante, e poi l’irruzione fatale delle fiamme.
Vengo a te. In questo momento siamo con te. Veniamo tutti verso di te. Ci scambiamo gli ultimi sospiri.
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