Francesco Margiotta Broglio

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Francesco Margiotta Broglio
FRANCESCO MARGIOTTA BROGLIO
Prima di formulare alcune considerazioni conclusive,
vorrei evidenziare alcuni aspetti della problematica affrontata in questo volume quali emergono dagli studi raccolti
in esso da Alessandro Ferrari.
Innanzitutto si deve dare atto a Silvio Ferrari che senza i suoi studi pionieristici sull’islam italiano ed europeo e
senza il Convegno da lui organizzato nel 1996, l’attenzione dei giuristi italiani sulle questioni affrontate in questa
ed in altre sedi non sarebbe stata così pertinente, vasta e
approfondita, anche grazie al contributo di studiosi di discipline diverse ma indispensabili per analizzare, in tutti i
loro molteplici aspetti, tali questioni.
Ed è il medesimo Silvio Ferrari a formulare, nel suo
contributo, una proposta che segnalo e condivido: deislamizziamo la questione islamica. Del resto non è solo la
metà delle questioni relative alle minoranze religiose presenti in Italia a riguardare anche l’islam. Se teniamo, infatti, conto che per il settanta per cento si tratta di problemi
identitari, non resta che un trenta per cento di «specificità» islamica che ha bisogno di essere gestita dalla legge e
dalla pubblica amministrazione. In questo senso una normativa generale sulla libertà religiosa – di cui si parla in
Italia almeno dal 1985 e che al 2007 non è ancora arrivata
in porto (e forse non ci arriverà mai...) – sarebbe utile per
costituire lo zoccolo duro delle disposizioni attuative della Costituzione in materia, valide in ogni caso per tutte le
persone e per tutte le religioni, e per semplificare i procedimenti per la stipulazione di intese con le rappresentanze
dei culti interessati che dovrebbero, quindi, essere riservate alla gestione, nei limiti dell’ordinamento giuridico, delle
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sole «specificità» delle singole religioni. Non c’è nessuna
necessità – e concordo ancora con Silvio Ferrari –, per
garantire l’uguale libertà dell’islam, di rivoluzionare i sistemi di relazioni Stato-religioni in vigore (che tra l’altro
hanno consentito di gestire le peculiarità di confessioni
come il buddismo, l’induismo e i testimoni di Geova, certo più «nuove» per l’Italia dell’islam «storico» e di quello,
più recente, largamente presente nei territori dell’Africa
Orientale Italiana – e, nel dopoguerra, in quello della Somalia affidato dall’ONU al nostro Paese –, retto da una
normativa che ne valorizzava e garantiva tutte le tradizioni
culturali, religiose e giurisdizionali); è solo necessario tornare non ai «Grandi Magazzini delle Libertà» – dove pur
si è acquistato il tessuto uguale per tutti – ma alla «Premiata Sartoria delle Intese» per confezionare, con quel
tessuto, un bell’abito «su misura», come diceva Giorgio
Peyrot. È questa la sempre viva «intelligenza» della Costituzione del 1948 che va, oggi, integrata dalla ricchissima
normativa prodotta dalla comunità internazionale a partire dal 1948, la quale va ben al di là della pur rilevante
protezione degli interessi religiosi degli stranieri, degli individui e delle minoranze già stabilita, al medesimo livello, tra le due guerre mondiali (basta ricordare gli scritti in
proposito di Mario Toscano, di Costantino Jannaccone, di
Balladore Pallieri, di Yves de la Brière e il «Corso» tenuto
all’Aia nel 1924 dallo Hozba).
Si è fatto riferimento, in qualche intervento, alla presenza in Europa di «laicità aggressive» che renderebbero
difficile la soluzione di molti problemi. Prescindendo dalla circostanza che spesso si tratta di laicità più «strillate»
che applicate, non si può trascurare la ben più rilevante
presenza dei «confessionismi aggressivi», come si è potuto constatare nella forte e congiunta pressione di molte
chiese volta a far richiamare, nei progetti di trattato costituzionale dell’Unione europea, le radici cristiane (o giudeo-cristiane) del continente. La laicità dev’essere un metodo, una procedura per assicurare l’uguaglianza di tutti e
l’uguale trattamento dei gruppi religiosi, non un’ideologia.
Deve sostanziarsi, come ha messo in evidenza Casuscelli,
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nel «pluralismo confessionale governato dalla regola dell’uguale libertà» che non si dà «senza un’adeguata tutela
delle minoranze, di tutte indistintamente».
È stato notato che in molte capitali europee la presenza islamica è alta e crescente, e che con essa si devono sicuramente fare i «conti» sociali, politici e normativi. Ma
vorrei ricordare che, spesso, il numero degli appartenenti
è poco significativo per individuare le effettive esigenze
confessionali: si pensi solo alla già bassa pratica religiosa cattolica a Roma quando nel 1929 il Concordato lateranense ne sancì il «carattere sacro» per tutti. Del resto
anche nell’Inghilterra che vede ancora la coincidenza,
nell’anglicanesimo, del trono e dell’altare, solo il dieci per
cento degli adulti – ci ha avvertito Brian Gates – frequenta regolarmente la chiesa «ogni mese», anche se nel censimento del 2001 oltre il settanta per cento si dichiara appartenente ad una religione cristiana, mentre gli islamici,
che sono il tre per cento della popolazione, rappresentano
la maggioranza tra gli appartenenti ad altre religioni1. Anche le forti presenze musulmane vanno, quindi, analizzate
criticamente per individuare i praticanti e i disobbedienti
(i casi di veli islamici imposti dalle famiglie alle studentesse in Francia, per i quali si è arrivati nel 2004 ad una
apposita legge, si sono contati sulle dita di poche mani,
mentre Menski ci ha avvertito che il venti per cento dei
musulmani britannici si sposa all’estero e che il ventisette
per cento di tutti i matrimoni celebrati nel Regno Unito
non viene registrato) e, sopratutto, per non fare dell’islam
quel «coacervo degli indistinti» che, per Giorgio Peyrot,
rappresentava agli occhi dei governi e dei parlamenti italiani, fino agli anni Settanta del ventesimo secolo, l’insieme delle diversissime confessioni evangeliche presenti
nell’Italia repubblicana (sulla questione dei musulmani
praticanti si sofferma, mettendo anche in luce la mancan-
1
Per tutti si vedano S. Allievi, Islam italiano. Viaggio nella seconda
religione del paese, Torino, Einaudi, 2003 e R. Guolo, Xenofobi e xenofili. Gli italiani e l’islam, Roma-Bari, Laterza, 2003.
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za di ricerche che forniscano dati quantitativi attendibili,
S. Allievi nel suo contributo al presente volume). In questa prospettiva andrebbe attentamente meditata la sperimentata situazione dell’islam in Austria – illustrata da
Wieshaider – dove si tiene conto degli statuti delle diverse confessioni islamiche e non si concepisce uno «statuto
dell’islam» austriaco, pur escludendosi la compresenza di
leggi diverse di statuto personale.
Un chiarimento si rende, comunque, necessario per gli
autori che hanno messo in evidenza che alcune proposte
d’intesa predisposte da associazioni islamiche e presentate
al Governo non avrebbero mai avuto un riscontro. In realtà si è trattato di schemi elaborati, spesso con il contributo
di illustri giuristi, da soggetti non legittimati ad operare in
tal senso e, in qualche caso, anche contestati da alcune comunità islamiche. Il problema costituzionale della «rappresentanza» e della rappresentatività delle confessioni o dei
loro enti esponenziali – adeguatamente approfondito dalla
dottrina (per tutti, S. Berlingò) – non è stato mai affrontato seriamente sul piano normativo o, almeno, amministrativo. L’inizio di un percorso in tal senso può essere rappresentato dalle iniziative prese negli ultimi due anni dal ministro dell’Interno, Amato, sulle quali tornerò più avanti.
È stata opportunamente richiamata, invece, la normativa degli anni 1929-1930 sui culti diversi dal cattolico «ammessi» nello Stato per quanto riguarda l’inserimento di una
presenza cultural-religiosa islamica nelle scuole pubbliche e
si è anche fatto riferimento all’ipotesi di un insegnamento
generale curriculare di storia delle religioni e del fenomeno
religioso. Lasciando da parte le libertà dei non-credenti, si
porrebbe subito il problema della formazione degli insegnanti di queste discipline, che finirebbero inevitabilmente per essere educati da istituzioni confessionali, attente
in genere più a diffondere il proprio «messaggio» che ad
elaborare quel minimo di oggettività scientifica, doveroso
nell’istruzione pubblica, la cui «imparzialità», con riferimento ad insegnamenti aventi a che fare con la religione, è
stata rivendicata anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Si pensi che, almeno fino al Vaticano II, nella for346
mazione degli insegnanti di religione cattolica, presenti dal
1923 nelle scuole italiane, non era previsto lo studio della
Bibbia che richiamava ancora l’ebraismo e il protestantesimo. La via della «education about religion», nonostante le
buone intenzioni dei suoi sostenitori nel Regno Unito e in
Francia, non appare una strada percorribile in Italia, dove
sussiste una religione storica ben più dominante di quella capeggiata dalla corona inglese e dove l’aspirazione alla
laicità dello Stato – opportunamente ricostruita dalla Corte
costituzionale – non comporta l’adozione di un sistema integralmente separatista come quello francese.
Tornando allo studio volontario del Corano nelle scuole, si può, anzitutto, ricordare che la così detta Carta Fondamentale dell’Impero del 1936 (r.d.l. n. 1019 del 1° giugno) assicurava a tutti i musulmani nel territorio dell’Africa Orientale il ripristino di luoghi di culto, istituzioni pie
e «scuole religiose», ma si deve, poi, ricordare che – come
ha messo in evidenza Alessandro Ferrari – nell’ordinamento italiano è previsto, in base alle intese già approvate con
legge o già concluse, lo studio dei fenomeni religiosi o di
una determinata religione, affidato alle rispettive confessioni su richiesta degli interessati (alunni, famiglie, organi
scolastici) nel quadro delle attività didattiche integrative,
allo scopo di garantire il carattere pluralistico della scuola
e non in alternativa all’ora di religione cattolica facoltativa, prevista dal Concordato in vigore.
All’inizio del 2006 si è molto discusso, in proposito, a
seguito di una dichiarazione del cardinale Martino favorevole alla richiesta dell’Ucoii di consentire l’insegnamento
della religione islamica nella scuola pubblica. Lasciando
da parte l’opinione di un altro illustre porporato, il cardinale Pompedda, che chiedeva preliminarmente analoga
decisione, per reciprocità, da parte dei paesi islamici (ora
islamica in cambio dell’ora di religione cattolica: una richiesta infondata alla luce dei molti atti internazionali che
garantiscono le libertà di religione e di culto) e di don
Pezzoli, che, sul quotidiano «Libero» del 12 marzo 2006,
esigeva la previa condivisione da parte degli islamici dei
diritti umani (che in realtà tutti devono condividere), va
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chiarito che a termini di Costituzione gli interventi delle
gerarchie di alcune religioni in materia di rapporti dello
Stato con altri culti non sono giuridicamente congrui. Va
anche precisato che i problemi dell’islam italiano, compreso quello di cui si sta trattando, devono essere risolti
attraverso il dialogo istituzionalizzato con le confessioni
definito dal sistema costituzionale. Sistema che, come ha
stabilito la legge n. 400 del 1998, è imperniato sulla competenza esclusiva del presidente del Consiglio dei ministri,
salve le funzioni tutt’ora affidate al ministro dell’Interno
nelle materie regolate dalla legge n. 1159 del 1929. Ed
è proprio questa legge, insieme alle norme di attuazione
contenute nel r.d. n. 289 del 1930, a prevedere – come ricorda anche Casuscelli nel suo intervento e come ha evidenziato Colaianni in un suo scritto del 2000 – che
quando il numero degli alunni lo giustifichi e quando per fondati motivi non possa esservi adibito il tempio, i padri di famiglia professanti un culto diverso dalla religione dello Stato, possono ottenere che sia messo a disposizione qualche locale scolastico per l’insegnamento religioso.
Appare evidente che il numero degli alunni islamici già
«lo giustifichi», che le moschee che a tale insegnamento
possano essere adibite non sono molte tra gli oltre duecento luoghi di culto, che di padri (e madri!) di famiglia
islamici si abbonda, e che quindi la normativa del ’29
può trovare senz’altro applicazione. Autorità competenti
a provvedere, il provveditore agli studi o il ministro dell’Istruzione di concerto con quello dell’Interno, che devono anche stabilire i giorni, le ore e le «opportune cautele».
Si aggiunga che i disegni di legge governativi sulla libertà religiosa – sia quelli presentati dai gabinetti Prodi, sia
quelli ripresentati dai gabinetti Berlusconi – garantiscono
ad alunni e genitori la possibilità di svolgere, nell’ambito
delle opzioni scolastiche, «libere attività complementari
relative al fenomeno religioso e alle sue implicazioni».
La condizione dell’islam in Francia – che Brigitte Basdevant ha compiutamente e analiticamente ricostrui348
to, anche con riferimento alla questione degli imam – è
una di quelle da più tempo sperimentate, e sono proprio
i problemi da essa posti che hanno messo in crisi le certezze separatiste e indotto governi, parlamento e giuristi
ad interrogarsi sulla possibile evoluzione del modello del
1905 verso una separazione delle competenze (gli ordini
della Costituzione italiana) più che delle «entità», tra le
quali implica, quindi, il dialogo. Senza tornare agli anni
Novanta, con le iniziative «bilaterali» di Pierre Joxe e di
Charles Pasqua, e all’accordo del 2001-2002 tra Chevènement e le organizzazioni islamiche, gli atti delle Commissioni Debré, Stasi e Machelon e gli interventi del ministro dell’Interno Sarkozy (oggi Capo dello Stato), che
ha fortemente voluto l’attivazione del Consiglio francese
del culto musulmano, lo dimostrano ampiamente, confermando, anche, che nella società multiculturale il «nazionalismo» religioso ha fatto il suo tempo, mentre, come ha
scritto di recente Alain Touraine2, non si può dimenticare
che il diritto si deve fondare su «valori universali», che la
relazione tra valori e diritti «è sempre complessa» perché
i primi restano «un’aspirazione ideale» e i secondi devono
garantire la coesione sociale messa in crisi dal «particolarismo delle comunità» che vorrebbe rimettere in discussione i diritti «comuni» in nome di diritti culturali e religiosi
sempre più «speciali» e frammentari.
Con riferimento al caso francese, ma anche al contributo di Milena Santerini (che mi trova pienamente d’accordo sulla corrispondenza tra la islamica «donna velata» e la
multiconfessionale «donna svelata» esibita in televisione),
sia consentita una breve riflessione sulla legge francese che
vieta i simboli religiosi nelle scuole pubbliche (legge 15
marzo 2004, n. 228) a circa quattro anni di distanza dalla sua entrata in vigore. Lasciatemi ricordare che, all’inizio
di quell’anno, l’autorevole «Le Monde des religions» – in
gran parte dedicato al largo dibattito sulla laicità – si era
chiesto: «Le religioni minacciano la Repubblica?» e ave2
A. Touraine, Penser autrement, Paris, Fayard, 2007.
349
va sottolineato la polisemia del concetto stesso di «velo»:
«simbolo religioso per gli uni, semplice tradizione, per gli
altri; segno identitario o di protesta; indice di sottomissione o vessillo di liberazione» (della donna), mettendo in
evidenza il regredire della vera tolleranza che «non consiste nel sopportare l’altro, ma nell’entrare nel suo modo di
pensare e di vivere». Dopo un largo e vivacissimo dibattito
di stampa, di opinione e politico, il progetto di legge governativo sulla applicazione del principio costituzionale di
laicità nelle scuole pubbliche fu approvato dal Parlamento
e diventò la legge n. 228, che, però, non risultò una felice e puntuale applicazione dell’equilibrato disegno della
Commissione preparatoria Stasi e dovette essere integrata
da una apposita circolare ministeriale per la sua applicazione. Va comunque riconosciuto che, negli anni successivi,
stando soprattutto alle notizie di stampa e ad alcuni contributi di riflessione, non si può dire che la legge in questione abbia provocato troppe catastrofi. I casi di studentesse
che, dopo il previsto dialogo con le autorità scolastiche,
abbiano insistito nell’indossare il velo e, quindi, siano state
allontanate dagli istituti sarebbero veramente pochi. Inoltre, alcune di queste studentesse avrebbero trovato «asilo»
nelle scuole private cattoliche, all’interno delle quali il divieto non si applica, trattandosi di istituzioni educative di
tendenza. In un recente volume, inoltre, un sociologo di
grande fama, che si è già citato, Alain Touraine, e un noto
filosofo politico della Sorbona, Renaut, si sono confrontati
sulle conseguenze della legge n. 228 alla luce della generale
problematica del riconoscimento delle diversità culturali3.
Scrivendo anche come ex componente della Commissione Stasi sulla laicità, Touraine insiste sulla necessità
prioritaria di porre un freno allo sviluppo dell’islam radicale nelle scuole. Ostile, in un primo momento, ad una
legge, egli ritiene che quella adottata nel 2004 sia stata,
alla fin fine, la soluzione meno cattiva e mette in evidenza
3
2005.
350
A. Renaut e A. Touraine, Un débat sur la laïcité, Paris, Stock,
come la nuova normativa abbia ampliato e approfondito il
dibattito di opinione pubblica, soprattutto sui media, con
un misto di aperture e di inquietudini in materia di politica «islamica», lamentando che la Commissione Stasi non
aveva mai potuto disporre di dati esatti circa i casi effettivi
di studentesse «velate», che, comunque, non superavano
qualche diecina. Renaut replica riconoscendo che non si
poteva restare passivi di fronte al fenomeno, ma affermando che quella data dalla legge del 2004 non era stata la risposta giusta. E, mettendo in evidenza i difficili problemi
di applicazione della legge stessa, si chiede se l’albero di
Natale possa diventare o meno un simbolo religioso esibito, e se alla fine la normativa non abbia prodotto difficoltà
maggiori di quelle che avrebbe dovuto risolvere. Touraine
replica che, in ogni caso, l’applicazione della legge non ha
provocato «incidenti gravi», che la situazione è apparsa
«sotto controllo», che ha favorito la partecipazione delle
organizzazioni islamiche al «gioco democratico» e che l’accettazione assai larga delle sue disposizioni da parte delle
giovani musulmane ha dimostrato che, senza rifiutare la
propria storia culturale, religiosa e familiare, esse volevano
essere considerate parte integrante della scuola francese. In
definitiva, per Touraine, nonostante le lacune, la legge del
2004 aveva rappresentato un fattore non destabilizzante:
Dans l’état actuel des choses, je constate simplement qu’il fallait
essayer d’éviter l’éclatement pour maintenir un niveau de compatibilité entre la défense des droits culturels et la défense de
la citoyenneté. Ce lien n’a pas été renforcé par la loi, mais il ne
s’est pas rompu.
Renaut ammette che la legge non ha provocato proteste «spettacolari» da parte della comunità islamica e che
le giovani e i portavoce delle relative organizzazioni si
sono adeguati alla legge, ma ritiene che fosse stato esageratamente evocato, nei dibattiti sulla questione, lo spettro
del comunitarismo, mentre non si era tenuto conto della
diversità delle situazioni, tanto che in alcune zone si era
finito per applicare le interdizioni anche fuori del previsto
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spazio scolastico. In ultima analisi la sua preoccupazione è
che non sia più possibile, in Francia, separare «la revendication d’égalité du besoin d’être reconnu comme égal jusque dans ses différences».
Certamente la legge francese n. 228 non ha risolto i
problemi generali della gestione democratica delle diversità e dell’affermazione di esse con una molteplicità di simboli identitari esibiti nei luoghi aperti al pubblico, ma ha
comunque dimostrato, anche in un contesto di separazione tra Stato e religioni come quello francese, la necessità,
da una parte, di una vera e propria strutturazione delle
comunità islamiche, dall’altra, che solo il dialogo formalizzato tra le autorità governative e i rappresentanti di queste
organizzazioni può consentire l’avvio di concrete soluzioni
dei molti problemi che la crescente presenza islamica sta
ponendo all’Europa.
In questa direzione dovrebbero essere maggiormente
valorizzati, in Italia e in Europa, sia dai giudici che dagli
studiosi, i non pochi e non irrilevanti strumenti giuridici
che la normativa europea, del Consiglio d’Europa e dell’Unione, fornisce per la lotta contro la discriminazione
anche religiosa. Mi riferisco, ovviamente, alla Convenzione europea del 1950, con il suo Protocollo n. 12 e con
la Carta sociale europea del ’96; al Trattato sull’UE e a
quello istitutivo della Comunità Europea; alla Carta dei
diritti fondamentali dell’UE e alla legislazione della medesima Unione, dalla direttiva 79/7/CEE del dicembre
1978, alle direttive 2003/109/CE e 2004/38/CE del Parlamento e del Consiglio e, per quanto riguarda le organizzazioni religiose «di tendenza», alle direttive 2000/43/
CE, 2000/78/CE e 2004/113/CE. Si tratta di normative
già attuate in Italia e, in alcune ipotesi, confortate dalla
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo
e della Corte di giustizia delle Comunità europee4. Una
4
Di tutte si trova una puntuale raccolta nel volume Materiali per
lo studio del diritto antidiscriminatorio, a cura di C. Favilli e M.P. Monaco, Firenze, Firenze University Press, 2008.
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loro più larga e specifica utilizzazione (nella direzione indicata nei recenti studi di Marzia Barbera, Mark Bell e
Chiara Favilli) consentirebbe non solo di affrontare con
consapevolezza il problema «islamico», ma di impostare
concretamente e utilmente la definizione di alcuni specifici profili che non possono essere presi in considerazione
in una dimensione esclusivamente nazionale, rischiando di
eludere quella comunitaria, che prende in considerazione
non solo le esperienze di Stati di più larga e più antica
presenza islamica, ma che tiene anche conto dell’aspetto
«soggiorno e circolazione» sia dei musulmani provenienti
da paesi membri dell’Unione, sia di quelli che sono cittadini di paesi terzi5. Come sottolinea nel suo contributo
Maurice Borrmans, in Europa si è gradualmente
passati da un’immigrazione legata al lavoro, soprattutto maschile, a un ricomporsi delle famiglie e, di conseguenza, al ricostituirsi di cellule della società d’origine con la loro visibilità culturale e religiosa
che ha portato, nelle manifestazioni più radicali, ad «atteggiamenti settoriali nell’abbigliamento […]; esigenze
alimentari […]; richieste culturali […]; fedeltà giuridica
o politica ai paesi d’origine». Inevitabile la rilevanza dell’identità religiosa
come fattore di coesione interna e di rivendicazione, rispetto
alla società ospitante, tanto più che vi si rileva il permanere di
un legame particolarmente stretto e vincolante con il mondo di
appartenenza originario, non privo tuttavia di elementi contrastanti e contraddittori.
Siamo in presenza, quindi, di «sfide interne alla comunità musulmana» e di «sfide esterne che attengono […]
alla specifica realtà europea in cui si colloca l’islam». Per
quanto riguarda le prime, va riconosciuto che i musul5
Molto utile in proposito S. Giubboni e G. Orlandini, La libera circolazione dei lavoratori nell’Unione europea, Bologna, Il Mulino,
2007.
353
mani sono «molto aperti […] nel dialogo interreligioso»,
ma che quello tra le «diverse tendenze (sunniti e sciiti,
riformisti, razionalisti, sufi, salafiti letteralisti)» è senz’altro «in deficit» (Ramadan). Parallelamente, da una parte
«l’affievolirsi di alcuni aspetti della religiosità islamica»
di origine, dall’altra «l’affiorare di influenze provenienti
dall’esterno», favorite anche, per alcuni, dallo «adempimento dell’obbligo del pellegrinaggio», hanno diffuso
sensibilità provenienti da aree diverse del mondo musulmano, rendendo «meno compatto» l’universo religioso
già nelle società islamiche di provenienza6. È persino difficile, infatti,
tracciare una geografia della sacralità nell’islam, perché essa
è estesa quanto l’islam stesso, dai confini del Sahara fino alle
rive del Mar della Cina, passando attraverso innumerevoli paesi, in cui l’islam si è espresso in mille forme, talvolta attraverso conflitti e fratture, eventi storici che si sono trasformati in
memoria collettiva e che assumono valore sacrale in quanto
anch’essi commemorano un momento, un’età inaugurale (K.
Fouad Allam)7.
Concordo sostanzialmente con le sempre fini e costruttive considerazioni di Casuscelli e Colaianni, anche
sulla opportunità, come avviene in Francia e in Belgio,
di favorire la costituzione di organismi islamici effettivamente rappresentativi delle differenziate presenze di
appartenenti alle diverse confessioni «coraniche». Come
ha notato Ramadan, se i governi non hanno interlocutori legittimati, il dialogo con le confessioni non riesce ad
andare molto lontano. Insisterei, però, sull’impossibilità
di separare, nel caso di specie, religione e cultura, anche
alla luce della ricca e articolata produzione normativa
internazionale, in particolare dell’Unesco, che ha approvato nel 2005 una specifica Convenzione sui diritti cul6
O. Schmidt di Friedberg, Islam, culture, migrazioni. Saggi scelti, a
cura di A. Lendaro, Bologna, Il Ponte, 2007.
7
K. Fouad Allam, Islam, La mappa dei luoghi della fede, in «Avvenire», 31 agosto 2008.
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turali che prende in considerazione anche quelli propriamente religiosi8.
Ha comunque ragione Tariq Ramadan quando fa notare (pur con qualche ottimismo) che l’integrazione in Europa «dei musulmani come cittadini» è cosa fatta e che, oramai, l’islam è «una religione europea» la quale può portare un «contributo specifico […] alla causa dell’Europa».
Il problema che egli evidenzia riguarda la condizione di
«una componente religiosa all’interno di una società secolarizzata», la sfida di una «rilettura delle fonti eterne in un
nuovo contesto temporale e storico che spinge a rileggere
le cose». Ma questa sfida non riguarda solo l’islam: ebrei
e cristiani hanno da secoli lo stesso problema ed hanno
cercato, gradualmente e lentamente, di contestualizzare la
«parola di Dio» in rapporto al mutamento delle società
nelle quali sono insediati. Una prima, lacerante esperienza, nella cristianità, fu lo scisma d’oriente tra Roma e Costantinopoli, una seconda, con conseguenze geopolitiche
di molto rilievo, la riforma protestante con i suoi seguiti
anglicani, una terza il confronto tra chiese, sovrani assoluti
e pensiero illuminista – che la Restaurazione riuscì solo a
moderare –; e ancora lo scontro tra cattolicesimo romano
e liberalismo europeo, che portò alle condanne del «Sillabo» e poi alla fine di quel potere temporale dei papi che
si voleva far risalire a Costantino o, quanto meno, a Carlo
Magno. Ci sarà, nel Novecento, la lotta «sovietica» alle religioni (con conseguenze ancora evidenti in alcune regioni, come l’Afghanistan) e il grandioso tentativo del Concilio Ecumenico Vaticano II di rileggere i testi fondamentali della cattolicità tenendo conto dei «segni dei tempi»
e delle situazioni concrete assai diverse con le quali deve
fare i conti una chiesa a vocazione universale come quella
di Roma. Ha pienamente ragione, quindi, Ramadan quan8
Si veda a questo proposito Unesco Universal Declaration on Cultural Diversity, a cura di K. Stenou, Paris, Unesco, 2002, e in particolare R.D. Bajracharya et al., Cultural and Religious Diversity, Kathmandu,
Chapakhana Ltd., 2005; per l’UE, R. Craufurd Smith, Culture and European Union Law, Oxford-New York, Oxford University Press, 2004.
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do afferma che i musulmani «non potranno restare fedeli
ai principi dettati, formulati, prescritti dal Corano, se nel
campo delle questioni sociali essi non si imporranno una
rilettura delle fonti». Infatti
tutti i problemi del rapporto con lo stato di diritto; la questione legata alla violenza, alle donne ma non solo; tutta la questione del rapporto con le teorie del contratto sociale, con le
scienze, con il progresso, con una secolarizzazione che afferma
la neutralità dello spazio pubblico – cosa diversa dall’invisibilità del religioso – richiedono questo lavoro di rilettura che deve
arrivare ad integrare nel pensiero musulmano tutti i concetti
utilizzati.
Solo in questi termini può quindi essere impostato il
rapporto della comunità islamica «con l’ambiente in cui si
trova a vivere», al quale non potrà dare veri contributi sino
a quando non sarà «davvero convinta» che questa società
«sia la propria» e non sarà in grado «di dare vita ad un
rapporto con l’etica non escludente, ma capace di integrare». Condizioni ovvie la sua «partecipazione reale ai diritti
di cittadinanza» e il superamento della «mentalità da stato
d’assedio» assai diffusa in un’Europa timorosa di perdere
la propria «anima», che dev’essere senz’altro preservata
senza che il continente «si chiuda in una sua visione della storia selettiva, ristretta». Positiva, in questa direzione,
ad avviso di chi scrive, la decisione dei paesi membri dell’Unione di non inserire, nella Carta dei diritti fondamentali e nei due successivi progetti di trattato costituzionale,
un richiamo alle radici cristiane o giudeo-cristiane dell’Europa, storicamente più che fondato, ma politicamente
inopportuno e giuridicamente del tutto incongruo. Solo lo
stretto, ma insostituibile, sentiero della laicità può consentire a tutte le religioni e a tutte le «filosofie» di entrare, con
pieno diritto di cittadinanza e con la libertà di manifestare
le proprie credenze, nel territorio, che si sta ulteriormente
«allargando», dell’Unione europea e che, quindi, consentirà una positiva (e quasi unica) possibilità di convivenza
delle grandi ed antiche religioni e credenze, garantita dalle
leggi nazionali ed europee e dai diritti umani fondamentali
356
codificati a Nizza che non ammettono «statuti derogatori»
di cittadinanza. Si tratta di una dimensione europea che ha
già dato i primi frutti: la Spagna è diventata quasi... anticlericale, l’Italia ha riscoperto, grazie alla Corte costituzionale, il principio di laicità e il suo ordinamento non appare
più confessionista, il Belgio ha rafforzato sul piano legislativo le convinzioni non-religiose, l’Inghilterra cerca di rendere più definito e «controllato» il suo approccio multiculturale, la Francia meno rigida la sua separazione, la Grecia
meno esclusiva la condizione dell’ortodossia «dominante»,
la Germania (con l’eccezione vistosa della Baviera) e l’Austria consolidano l’impianto multiconfessionale che l’esperienza storica ha loro fortemente consigliato, a Cipro e in
Irlanda si cerca, pur con difficoltà, di dialogare9. Il possibile ingresso nell’Unione di Stati come la Turchia, la Serbia o la Georgia potrà consentire all’Europa di fare tesoro
delle specifiche tradizioni religiose di questi paesi solo se
esse passeranno attraverso la «cruna» dell’ago della laicità
del suo ordinamento giuridico.
Nina Fürstenberg si era chiesta, intitolando così un
suo fortunato volume del 2007, «Chi ha paura di Tariq
Ramadan? L’Europa di fronte al riformismo islamico»10, e
in esso aveva richiamato molte delle opinioni dissenzienti
da quelle del nostro collega svizzero-egiziano, con il quale peraltro consentono intellettuali di rilievo come l’oxoniense Garton Ash11. Il Convegno di Como, sulle cui basi
sono maturati gli studi raccolti da Alessandro Ferrari in
questo volume, ha dimostrato che tra i relatori e i molti partecipanti, nessuno, in realtà, ha… «avuto paura» di
Ramadan.
9
Utile proprio con riferimento al dialogo con l’islam il volume,
curato dalla Commissione degli Episcopati della Comunità Europea
– COMECE –, Islam en Europe, Bruxelles, 2001, che raccoglie la legislazione di alcuni paesi membri relativa alle comunità musulmane.
10
N. Fürstenberg, Chi ha paura di Tariq Ramadan? L’Europa di
fronte al riformismo islamico, Venezia, Marsilio, 2007.
11
T. Garton Ash, Islam in Europe, in «The New York Review of
Books», 53, n. 15, 5 ottobre 2006.
357
In effetti, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, è una realtà che i musulmani siano divenuti sempre
più «europei» ed abbiano iniziato ad interrogarsi positivamente sui rapporti tra islam e Occidente. Vanno ricordati in proposito due contributi di alto livello promossi
dalle istituzioni comunitarie, che hanno fornito elementi
preziosi, all’inizio del terzo millennio, per una valutazione
consapevole dei problemi aperti sui quali, dopo le varie
iniziative di Silvio Ferrari12, i saggi raccolti ora in questa
sede hanno fatto il punto. Sia il rapporto dell’Osservatorio
di Vienna dell’UE, sia l’indagine coordinata da uno degli
autori di questo stesso volume, Felice Dassetto, forniscono elementi preziosi per una analisi obiettiva dei problemi posti dalla convivenza tra società e culture assai diverse tra loro. Senza nascondere tensioni, rischi, difficoltà e
sfide di una realtà dinamica, in profonda trasformazione,
il bilancio della situazione è «globalmente positivo», se si
tiene conto dello straordinario mutamento verificatosi in
soli tre o quattro decenni: una situazione che, per musulmani e non musulmani, può essere definita una sorta di
«co-inclusione reciproca». Certo il quadro risale all’estate
2001. E non c’è dubbio che la successiva e sempre attiva
fase di conflittualità ne abbia modificato alcuni profili, ma
nulla togliendo al significato del quadro allora delineato.
È vero che «sui muri delle nostre città i graffiti contro
l’islam e i musulmani stanno sostituendo quelli politici o
contro gli immigrati», che nelle librerie vanno «a ruba» i
libri di Huntington, quelli «sul mondo arabo e l’Afghanistan», i classici sull’islam, le «affrettate biografie di Bin
Laden», e che «nei bar e alla televisione parole esotiche
come “jihad” e “mullah” sono ormai linguaggio corrente». Ma ci si deve chiedere – come ha fatto un’attenta
Tra le molte, i volumi a sua cura L’Islam in Europa. Lo statuto
giuridico delle comunità musulmane, Bologna, Il Mulino, 1996; Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche, Bologna, Il Mulino, 2000, con contributi di alcuni degli autori della presente opera; e Islam ed Europa. I simboli religiosi nei diritti del Vecchio
continente, Roma, Carocci, 2006.
12
358
studiosa prematuramente scomparsa, Ottavia Schmidt di
Friedberg, che (nello scritto già ricordato) mette in luce
la dimensione europea del fenomeno – se si tratti di «islamofobia o di islamofollia».
Il primo dei due testi ai quali ci si riferisce è il Rapporto dell’Osservatorio sul razzismo e la xenofobia dell’UE,
con sede a Vienna, sulla situazione dell’islam in cinque
città campione (Aarhus, Bradford, Mannheim, Rotterdam
e Torino), che fornisce dati analitici preziosi: basi normative nazionali, origini dei gruppi islamici, organizzazione e
rappresentanza delle comunità, ruolo degli imam, conflitti tra le diverse tradizioni confessionali, trattamento della donna, discriminazione religiosa ed esclusione sociale,
partecipazione politica, strategie educative, immagine nei
media. Per quanto riguarda la città italiana appare che,
diversamente da altri centri urbani, a Torino il fenomeno
è stato affrontato senza isolarlo dalla generale politica di
gestione degli immigrati e delle minoranze, mentre dalle cinque situazioni europee esaminate risulta, in sintesi,
che le politiche sono dirette a favorire l’integrazione del
gruppo piuttosto che a combattere la discriminazione religiosa in quanto tale, anche perché è molto difficile separare la fede dalla cultura e dall’etnicità. Ne deriva che
gli interventi specifici sugli interessi religiosi sono spesso
o impliciti o collegati a momenti strategici (ad esempio
l’elaborazione di nuove leggi sull’integrazione). Raccomandazioni pratiche dell’Osservatorio di Vienna: coinvolgere
attivamente le comunità islamiche nei processi decisionali, favorendo anche forme di auto-organizzazione; istituire
procedure di controllo sull’efficacia delle politiche locali;
favorire il rispetto di festività, riti, obblighi di preghiera,
prescrizioni alimentari, prevedendo ricorsi ad autorità indipendenti; garantire all’islam nei contesti educativi lo
stesso trattamento degli altri culti, sia coinvolgendo le famiglie, sia consentendo l’istituzione di scuole islamiche13.
13
Y. Bemelmans e M.J. Freitas, Situation of Islamic Communities
in Five European Cities. Examples of Local Initiatives, EUMC, Wien,
359
Non si richiamano le conclusioni dell’indagine sull’islam europeo coordinata da Felice Dassetto14 perché
il suo ampio ed essenziale contributo a questo volume è
più che sufficiente per comprendere l’importanza dell’indagine che lui stesso, Allievi e la Maréchal hanno, poi,
completato e integrato con varie ricerche pubblicate tra
il 2002 e il 2005. Vorrei soltanto sottolineare l’equilibrio
delle conclusioni là dove si mette in evidenza che non
vi è, in Europa, nessuna tensione «estrema e non negoziabile», anche se il processo di stabilizzazione è ancora
agli inizi, e che l’immagine (anche un po’ di comodo) di
un islam monolitico ha lasciato il posto a quella di una
pluralità di culture e di paesi di provenienza, di forme di
appartenenza e di organizzazione, immagine che appare
una novità agli stessi musulmani, ma che risponde alla
logica loro propria di struttura «aperta», priva di mediazioni e di regole assolute ed indiscusse dettate da un’autorità centrale. Una situazione che rende certamente più
difficile per i governi europei individuare rappresentanze
e percorsi di collegamento e affrontare i problemi del diritto di famiglia, certamente molto delicati, ma non privi
di possibili soluzioni, tenendo conto, come ha ricordato
Borrmans, della particolare importanza, nell’islam, «dell’identità religiosa come fattore di coesione interna e di
rivendicazione rispetto alla società ospitante» e del «legame particolarmente stretto e vincolante con il mondo
di appartenenza originario, non privo tuttavia di elementi
contrastanti e contraddittori».
Nella prospettiva aperta da queste e da altre ricerche,
alle quali si fa riferimento nei contributi al presente volu-
2001; sul problema degli alloggi per gli immigrati in Francia si veda ora,
Haut Conseil à l’intégration, Etudes et intégration, Paris, Documentation
Français, 2008.
14
Convergences musulmanes: aspects contemporains de l’islam dans
l’Europe élargie, a cura di F. Dassetto, B. Maréchal e J. Nielsen, Louvain-la-Neuve, Académia-Bruylant, 2001; Muslims in the Enlarged Europe, a cura di B. Maréchal, S. Allievi, F. Dassetto e J. Nielsen, Leiden,
Brill, 2003.
360
me, si è mosso, nel corso della stampa di esso, l’on. Giuliano Amato, ministro dell’Interno nel governo presieduto
da Romano Prodi sino alle elezioni del 2008, con risultati
senz’altro positivi sui quali è opportuno, prima di concludere, richiamare l’attenzione.
Dopo aver nominato nell’ottobre 2006 un «Comitato
scientifico» incaricato di elaborare una «Carta dei valori
della cittadinanza e dell’integrazione»15 per evidenziare
i principi-base della società italiana, nel 2007 ha trasformato in «Consiglio» lo stesso Comitato, incaricandolo di
promuovere la diffusione e la distribuzione della «Carta
dei valori» approvata con decreto del 23 aprile 200716.
Da segnalare che il «Comitato» ha promosso un vasto e
articolato programma di consultazioni e ha avuto ripetuti
incontri con la Consulta per l’Islam, costituita d’imperio
– con componenti dal Comitato stesso selezionati, senza
tener conto delle incompatibilità tra esercizio di poteri
pubblici e neutralità dello Stato in materia religiosa, messe in piena evidenza dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e con qualche vibrazione incostituzionale – dal
suo predecessore on. Pisanu nel settembre 200517. Da
15
Si veda a questo riguardo C. Cardia, Carta dei valori, dialogo
tra le culture, in www.federalismi.it, n. 2, 2008. Di particolare interesse, anche sotto il profilo della comparazione, il rapporto dello Haut
Conseil à l’intégration – presieduto da Blandine Kriegel, al primo ministro: Charte de la laïcité dans le service publics, Paris, Documentation
Française, 2007.
16
In GU, 15 giugno 2007, n. 137. Ricorderei in proposito il documento Un’Europa dei valori elaborato a Bruxelles nel marzo 2007
per incarico della Commissione degli episcopati cattolici della Comunità europea da un gruppo di esperti di alto livello – tra i quali Santer,
Monti, Camdessus, Cox, Oreja, Ornaghi, Sutherland –, il numero speciale della rivista «Futuribles», 277 del 2002; il recente volume di O.
Galland e Y. Lemel, Valeurs et cultures en Europe, Paris, La Découverte, 2007, che fornisce anche dati interessanti sulle appartenenze religiose nell’Unione europea; nonché il Rapporto dell’Osservatorio statistico
della integrazione per il 2005, in Haut Conseil à l’intégration, Charte
de la laïcité, cit., pp. 261-413.
17
Si veda, in proposito, lo scritto di Nicola Colaianni, Musulmani italiani e Costituzione: il caso della Consulta islamica, in «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 2006, n. 1 – che parla di re-
361
segnalare, altresì, che il «Consiglio scientifico», insieme
ad alcuni componenti della Consulta islamica, è riuscito,
successivamente, ad elaborare una piattaforma «politica»
in vista della costituzione di una autonoma «Federazione dell’Islam Italiano» che chieda il riconoscimento della personalità giuridica e si proponga di stabilire rapporti
con lo Stato in analogia a quanto già realizzato per altre
confessioni religiose. Senz’altro positiva, inoltre, la aggiornata «ricognizione e valutazione della presenza islamica in
Italia» e la attenta verifica delle «potenzialità del processo
di aggregazione unitaria» di questi «neo-arrivati», ormai
diventati «co-inquilini» (Allievi), utili ai fini sopra indicati.
Nella sua «Relazione al Ministro» il Consiglio scientifico,
con un documento ufficiale rilevante (firmato dal prof.
Cardia, dal Prefetto Testa e dalla dott.ssa Paba), il «primo
nel suo genere in Italia» – come ha rilevato l’on. Amato
nella sua presentazione del documento stesso –, ha confrontato, valendosi dell’esperienza di Roberta Aluffi, le situazioni degli islam europei (Francia, Belgio, Spagna, Regno Unito, Germania: non sarebbe stato superfluo un richiamo anche all’Austria e ai Paesi Bassi), mettendo puntualmente in evidenza tendenze comuni e divaricazioni, ridefinendo i caratteri dell’insediamento dell’islam in Italia,
ricordando l’istituzione fin dal 1966 del Centro islamico
culturale d’Italia che gestisce la moschea di Roma, elencando le organizzazioni islamiche esistenti (Ucoii, Coreis,
Donne marocchine, Umi, Uio, Lega musulmana mondiale,
Ami, AMd’I, Ahl-al-Bait, gruppi sciiti e gruppi ismailiti),
sottolineando le difficoltà della loro aggregazione e il basso livello di scolarità e alfabetizzazione di molti immigra-
visione «strisciante» della Costituzione e che ricorda anche la poca
fortuna del Corif in Francia e le difficoltà dell’analogo organismo
belga – e quanto osservano, in questo volume, Stefano Allievi e Giuseppe Casuscelli, il quale, nel suo contributo, parla di una «concertazione sociale extra ordinem», mettendo in luce anche la violazione
dello statuto del Centro islamico approvato nel 1974 ai sensi del r.d.
289/1930.
362
ti18. Significative, comunque, le posizioni delle associazioni
islamiche nei confronti della «Carta dei valori».
Approvata, come si è detto, nell’aprile 2007 dal ministero dell’Interno, la Carta – volta anche «a superare la
dicotomia tra cittadini e immigrati» (Cardia) – è articolata in un preambolo e in trentuno articoli, suddivisi in
sei capi dedicati a diritti, doveri e dignità della persona,
ai diritti sociali (lavoro, salute, scuola, istruzione, informazione), alla famiglia, alla laicità e alle libertà di religione,
agli impegni internazionali dell’Italia. Da sottolineare, al
di là degli opportuni richiami e specificazioni dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, dai trattati e
convenzioni europei e della disponibilità ad offrire asilo e
protezione a coloro che siano perseguitati nei loro paesi,
l’impegno a combattere le discriminazioni contro donne
e minori, a garantire la vita, la salute, l’istruzione, e un
«cammino di integrazione» che tuteli le identità di ciascuno nel rispetto delle leggi e con la punizione di ogni
«mutilazione del corpo»; che assicuri un insegnamento
scolastico in prospettiva interculturale e la possibilità di
istituire scuole e corsi «privati» a condizione che l’accesso non diventi discriminatorio sul piano della religione e
della cultura; che, riconoscendo i diritti della famiglia monogamica, garantisca libertà matrimoniale ed eguaglianza
tra mariti e mogli, proibisca la poligamia, tuteli la libertà
dei minori anche vietando «separazioni» in base al sesso o
all’appartenenza confessionale. Il tutto in una ben definita
cornice di principi fondamentali come la laicità, la libertà
religiosa, l’eguale libertà dei culti e quella di ricerca, critica e discussione in materia che non si traduca in offese al
sentimento religioso, che l’ordinamento punisce, il rispetto dei «simboli e segni» di tutte le religioni e dell’abbiRisalente, ma sempre utile in proposito S. Allievi e F. Dassetto, Il
ritorno dell’islam. I musulmani in Italia, Roma, Edizioni Lavoro, 1993;
da consultare anche i già citati S. Allievi, Islam italiano e R. Guolo,
Xenofobi e xenofili; per l’Europa orientale cfr., ora, G. Cimbalo, L’esperienza dell’Islam dell’Est Europa, in «Stato, Chiese e pluralismo confessionale. Rivista telematica», www.statoechiese.it, settembre 2008.
18
363
gliamento liberamente scelto, con l’eccezione di indumenti che coprano il volto impedendo il riconoscimento della
persona. Un «orizzonte di tolleranza che si allarga fino a
favorire il dialogo interreligioso per far crescere il rispetto della dignità umana e contribuire al superamento dei
pregiudizi» (Cardia). Significativi anche i richiami agli impegni internazionali del Paese, con particolare attenzione
al ripudio della guerra, alla condanna dell’antisemitismo,
della xenofobia e della islamofobia, all’auspicata soluzione
del conflitto israelo-palestinese nella prospettiva della pacifica convivenza di popoli e religioni.
In proposito la «Relazione» del Consiglio scientifico
fornisce utili informazioni sull’adesione alla Carta di un
certo numero di organizzazioni islamiche, sulle divisioni
all’interno della «Consulta» – che hanno finito per congelare questo improvvido organismo –, sull’opera di diffusione presso le comunità islamiche della Carta – che è stata anche presentata, in presenza dello stesso ministro dell’Interno Amato e degli ambasciatori dei paesi arabi, alla
moschea di Roma – e sulla intenzione manifestata da sette
componenti della Consulta di predisporre un progetto di
«Federazione dell’Islam Italiano». Un risultato, quest’ultimo, certamente positivo che ha portato, successivamente,
all’invio al ministro di una «Dichiarazione di intenti», la
quale, ad avviso di chi scrive e se ad essa verranno dati
gli opportuni seguiti, segna un momento importante nella costruzione «degli» islam italiani che da troppo tempo
attendono, a causa delle note situazioni di disagio sociale dell’immigrazione, ma anche di divisioni profonde e di
atteggiamenti contraddittori, di diventare «egualmente»
liberi. Come si osserva nella «Relazione», la questione religiosa islamica non può essere affrontata prescindendo
dalla «emancipazione sociale» dei musulmani, che «costituisce una base e un presupposto insopprimibili per tutti
gli immigrati». Il documento affronta, successivamente e
con chiarezza, il problema della «reale» rappresentatività
«degli» islam, il tema delle moschee con la loro gestione e quello, complesso in tutti gli Stati dell’Unione Europea, della condizione giuridica degli «imam». Sul tema
364
delle moschee sarebbe di imminente presentazione al
Parlamento, da parte di un partito politico facente parte
della maggioranza governativa espressa dalle recentissime
elezioni politiche, un disegno di legge volto a trasferire la
competenza sulla costruzione dei luoghi di culto islamici
dai Comuni alle Regioni, previi referendum popolari (!),
istituzione di un registro degli imam e divieti di ogni altra attività, come quella di istruzione. Al di là della palese e marcata incostituzionalità di un impianto normativo
del genere, che si porrebbe immediatamente in contrasto
anche con la giurisprudenza della Corte costituzionale in
materia di finanziamento statale degli edifici destinati al
culto pubblico, non è certamente ammissibile l’idea di discriminare, su un aspetto essenziale della libertà di culto
– garantito anche da tutti gli atti internazionali ed europei –, una determinata confessione religiosa rispetto alle
altre. A meno che non si pensi di sottoporre a referendum
non solo la costruzione, ma anche la permanenza degli
edifici sacri di tutte le religioni per trasformarli, in barba
al Codice civile, in sale da concerti, teatri, cinema o addirittura sale da ballo (dove potrebbe esibirsi un ministro in
carica con il suo «Zauber Saxophone»)!
Segnalerei, invece, i risultati degli incontri tra il Consiglio scientifico per la Carta dei valori e le comunità che
hanno manifestato la volontà di porsi come soci fondatori di
una organizzazione islamica che avesse tra i suoi obiettivi quello di ottenere il riconoscimento ai sensi dell’art. 8, comma due
della Costituzione e della legge 1159/1929 e di lavorare per una
Intesa con lo Stato italiano ai sensi dell’art. 8, comma tre della
stessa Costituzione .
Un progetto ovviamente aperto ad ulteriori adesioni e partecipazioni, ma che ha già trovato un «approdo»
nella molto significativa «Dichiarazione d’intenti per una
Federazione dell’Islam italiano», trasmessa al ministro dell’Interno, Amato, il 13 marzo 2008, la quale manifesta la
volontà di rilevanti settori dell’islam di avviarsi alla «creazione di un soggetto rappresentativo di tipo federativo»
– o anche di «più aggregazioni unitarie» (Cardia) – e apre
365
nuove «prospettive e possibilità di aggregazione dell’islam
in Italia», estremamente composito anche per le già sottolineate, diversissime provenienze nazionali e territoriali19
e per le differenti gradazioni dei lenti processi di «uscita
dalla religione» degli ordinamenti dei paesi d’origine (M.
Gauchet, M. Rodinson). Ma, e sopratutto, sembra voler
superare l’approccio «bonapartista» che aveva caratterizzato le prime iniziative del precedente ministro dell’Interno,
Pisanu (si vedano i già segnalati contributi di Casuscelli e
di Colaianni) muovendosi nella prospettiva del «riconoscimento di strutture confessionali realmente e ampiamente
rappresentative» e, quindi, di «una prima, importante regolarizzazione dell’islam», favorendone «l’inserimento nella società democratica» e garantendo il rispetto dei diritti
individuali e delle libertà anche all’interno delle comunità
di appartenenza.
Gli otto firmatari, prendendo la Carta dei valori del
2007 come punto di partenza e riconoscendo «il carattere
positivo e accogliente della laicità dello Stato che favorisce la convivenza di tutte le religioni che promuovono i
diritti e la dignità della persona», informano il ministro di
avere iniziato un comune lavoro per «dare vita ad una Federazione islamica che si riconosca pienamente nei principi della Costituzione e unisca i musulmani che vivono in
Italia» affinché possano «parlare con voce unitaria e proporre le esigenze dei musulmani allo Stato e alle istituzioni». Una Federazione «moderata e pluralista che accetti la
laicità dello Stato e divenga protagonista del dialogo interreligioso», ma contribuisca anche ad evitare che «una malintesa multiculturalità porti a divisioni e contrapposizioni
tra gruppi etnici e religiosi». Tra le sue finalità: configurare unitariamente le organizzazioni islamiche esistenti in vista del riconoscimento statale; difendere la vita e la persona contro la violenza, il razzismo e il disprezzo; favorire il
dialogo tra le confessioni; garantire il rispetto della libertà
19
Si veda S.A. Aldeeb Abu-Sahlieh, Introduction à la société musulmane, Paris, Ed. Organisations, 2007.
366
religiosa di tutti e del principio di uguaglianza tra uomo e
donna; regolare la costruzione e la vita delle moschee e la
formazione degli imam; assicurare l’autonomia da ingerenze straniere, rifiutando ogni legame con centrali integraliste e correnti fondamentaliste; sviluppare sempre di più
l’azione delle comunità islamiche come «parti attive» della
società civile, rispettose dei valori spirituali, religiosi e laici della nazione italiana, storicamente e costituzionalmente
aperta all’accoglienza degli «altri». Ribadendo la centralità della Carta dei valori, i firmatari si sono augurati che
il loro lavoro «possa continuare» con il sostegno del governo per giungere ad una sistemazione della «questione
islamica» e si sono liberamente costituiti in «Comitato
promotore» con lo scopo di «dare vita ad una struttura
federativa che aggreghi i musulmani che vivono in Italia e
che si riconoscano nei principi della Costituzione e nella
Carta dei valori». Ha messo in evidenza Ramadan, nel suo
contributo, che è necessario elaborare un
modello di dialogo […] che valga a distinguere tra le richieste
identitarie dei musulmani, ciò che è tollerabile, ciò che non è
tollerabile (perché palesemente contrario ai diritti umani fondamentali), ciò che è rispettabile e ciò che è condivisibile, il che
suppone che gli interlocutori sappiano, con onestà e sincerità,
esplicitare la catena delle conseguenze che rischiano di far passare dal tollerabile al non tollerabile:
questa appare la strada tracciata dall’azione del ministro
Giuliano Amato e dai suoi esperti, preoccupati anche di
dar vita ad organizzazioni responsabili in grado di far rispettare dai loro appartenenti le leggi, la cultura e i valori
fondanti dell’Italia e dell’Europa, facendo dell’Europa una
«chance» per l’islam e dell’islam una «chance» per gli europei (Ramadan).
Come appare evidente, si tratta di un primo, concreto
e significativo risultato di cui sarebbe un errore trascurare,
con rilievi di dettaglio o con perfezionismi di scarso respiro, tutte le molte potenzialità anche nella prospettiva dei
futuri trattati «costituzionali» europei che valorizzano, al
livello dell’Unione, il dialogo formalizzato con le rappre367
sentanze di tutte le confessioni le quali, per quanto riguarda quelle islamiche, si riconoscono già nella «Federation
of Islamic Organizations in Europe», che avrebbe tutto
da guadagnare con una presenza unitaria dei musulmani
d’Italia20. Sarebbe ancora più grave se il nuovo Governo
lasciasse «scendere il silenzio» sull’iniziativa «correndo il
rischio di compiere un errore strategico in materia di integrazione delle comunità musulmane» e di abbandonare
«la via maestra della Costituzione», con il serio pericolo
di «far deteriorare una situazione che invece richiede intelligenza e lungimiranza» se si vogliono veramente «incoraggiare tutti quei musulmani che intendono vivere e
agire nel pieno rispetto delle leggi» (Cardia). È necessario, invece e con urgenza, aiutare i musulmani di buona
volontà ad organizzarsi liberamente e autonomamente con
uno «statuto» che garantisca «trasparenza di gestione, formazione degli imam, rispetto dei diritti delle persone, a
cominciare dall’eguaglianza tra uomo e donna» (Cardia),
respingendo soluzioni pasticciate ed incongrue come quelle che sarebbero contenute in una imminente proposta
di legge parlamentare in tema di edifici destinati al culto
islamico (in Germania si prevedono 184 nuove moschee
accanto alle oltre 200 già esistenti, rispetto alle sole 3 del
1990) o quelle di minore rilievo, ma altrettanto assurde,
come la richiesta del Consiglio della circoscrizione di Rigutino, in Comune di Arezzo, nel giugno 2007, di «ghettizzare» in aree apposite le salme di tutti i defunti non-cristiani, a cominciare dai musulmani, vietando (o comunque
subordinando al consenso delle realtà locali) i, pur previsti, appositi settori confessionali separati nei cimiteri comuni, onde preservare l’identità della comunità locale e le
sue radici cristiane.
20
Si veda in proposito B. Massignon, Islam in the European Commission’s system of regulation of religion, in Islam in Europe, a cura
di A. Al-Azmeh e E. Fokas, Cambridge, Cambridge University Press,
2007.
368
Bisogna chiedersi, infatti ed infine, se oggi il vero rischio non sia, come avverte Bassam Tibi, quello delle «società parallele» che vivono nel contesto territoriale definito dalle frontiere di uno Stato. A suo avviso le collettività culturali di immigrati non riescono ad integrarsi nelle
società di accoglienza anche perché, al di là di esotismi e
aspetti apparentemente folcloristici, «celano un immenso
potenziale di balcanizzazione e di conflitto» tra strutture
aventi una «vita sociale propria», che restano «guidate da
concezioni valoriali proprie» e che si rafforzano quando
non si riesce a realizzare «un’integrazione degli immigrati
(regolari o meno) nelle società d’accoglienza». Senza risalire alle «enclaves» straniere nella Shangai imperiale, Tibi fa
l’esempio delle «gated communities» in città come Sydney,
Johannesburg o Los Angeles, per mettere in guardia dal
rischio di trasformare «zone residenziali di popolazione
prevalentemente islamica» in Europa in insediamenti «balcanizzanti». Il successivo richiamo alla «società parallela»
degli albanesi nel Kosovo all’interno di un contesto (ancora?) territorialmente serbo è forse eccessivo, ma anche
eloquente. Il suo concetto di «Euro-Islam», una integrazione basata sulla compatibilità tra religione e democrazia costituzionale, sulla condivisione dei valori e sui diritti
umani individuali e in particolare su quello alla libertà di
religione, intende offrire un’alternativa sia alla così detta
«autonomia culturale», sia al separatismo, ma non è accettabile là dove sembra voler condizionare il riconoscimento
di tali diritti alla reciprocità21. Ed è sempre Tibi a ricordare in altra sede, e come ha sottolineato Guolo, la differenza tra il «vivere con gli altri» del pluralismo culturale e il
«vivere accanto agli altri» del multiculturalismo che porta
alla «frammentazione del corpo sociale». Solo se i musulmani d’Italia e d’Europa interiorizzeranno
l’idea di accedere alla sfera pubblica in quanto cittadini e non
in quanto musulmani, in quanto fruitori di diritti individuali e
21
B. Tibi, Euro-Islam. L’integrazione mancata, a cura di N. Fürstenberg, Marsilio, Venezia, 2003.
369
non di diritti collettivi, in nome della loro identità democratica
e non in nome della loro identità religiosa,
si potrà procedere sulla strada intrapresa nel 2007 dalle autorità italiane con alcune organizzazioni islamiche
e indicata anche da molti degli autori di questo volume,
senza fantasticare sui «musulmani senza islam» e senza
continuare ad immaginarli in Europa, ma «fuori dall’Europa», relegati nella «marginalità culturale»22. Al dialogo
tra modernità democratica e culture del mondo islamico,
nella rigorosa distinzione degli «ordini» dello Stato e della
Moschea, gli scritti raccolti da Alessandro Ferrari in questo volume offrono sicuramente un contributo di primaria
importanza.
22
R. Guolo, Postfazione, in N. Fürstenberg, Lumi dell’islam. Nove
intellettuali musulmani parlano di libertà, Marsilio, Venezia, 2004; si
veda, ora, T. Ramadan, Islam e libertà, Torino, Einaudi, 2008, il quale
invita a ripensare il ruolo dell’islam in Occidente con riferimento ai recenti sviluppi dei sistemi separatisti e alle nuove dimensioni dello stesso principio di laicità (in proposito cfr. J. Baubérot, Les laïcités dans le
monde, Paris, PUF, 2007; R. Schwarz, Un siècle de laïcité, Paris, Berger-Levrault, 2007.
370